GESÙ ALLA BEATA CONCHITA: “Non è Dio che condanna, ma è l’uomo che rinnega Dio e sceglie l’inferno con assoluta libertà”

Appena sono arrivata ai suoi piedi prese a dirmi:

«E se sapessi perché come Dio sono paziente? Perché sono eterno, perché per Me tutto è presente. Vedo i peccati e il pentimento nelle anime; vedo ciò che nel presente mi offende e l’avvenire che redime. Gli avvenimenti, che per l’uomo sono futuri, per Me sono presenti, in cui ogni cosa si muove ed esiste nella mia pace immutabile, in cui si schianta l’inferno stesso. Perciò, la mia bontà non concede alle anime ciò che può essere dannoso anche se me lo chiedono; per l’uomo, è un bene ciò che chiede, ma lo so che quello è un male che lo nuoce. Quanto è ingrato l’uomo che non si china davanti alla mia Volontà che è sempre amorevole nei suoi confronti. Quanti mi chiamano ingiusto, senza conoscere i benefici che hanno ricevuto! Sono paziente nei confronti dei peccatori e delle anime perché so misurare la debolezza dell’uomo, e la mia infinita bontà non ha misura. Questo Dio è la misericordia stessa! E quando castiga, obbligato dall’uomo, quegli stessi castighi sono misericordia sulla terra».

«Dunque, se tutto per Te è presente, sai in anticipo chi si salva e chi si danna?».

«Come Dio, che vede tutto al presente, sì, perché non può essere diversamente; ma tra vedere chi sarà dannato e volere la sua dannazione c’è un abisso. Per salvarsi o dannarsi, l’uomo ha la libertà di scegliere, libertà che è stata data da Me. Questa libertà è una soddisfazione per Me, la volontà amorosa dell’uomo che per amore sceglie di essere mio. Se lo avessi fatto in modo che tutti si salvassero senza condizioni, la mia giustizia sarebbe di troppo e il mio amore non avrebbe la scelta dell’uomo che tanto mi soddisfa. Ciò che Dio fa è ben fatto. L’ uomo ha la mia Chiesa con i suoi Sacramenti, ha le mie leggi che recano felicità a chi le compie e la dannazione eterna a chi volontariamente le rifiuti. Dio non condanna, ma è l’uomo che condanna se stesso, per sua volontà, trasgredendo e contrastando la Legge divina nei suoi precetti. Nessuno innocentemente si condanna; per condannarsi occorre la malizia, la piena consapevolezza e la volontà di calpestare i miei comandamenti. Non è Dio che condanna, ma è l’uomo che rinnega Dio e sceglie l’inferno con assoluta libertà; nessuno che si pente, nessuno che torna a Me, nessuno che mi invoca e che mi ama, può condannarsi».

«Ma Tu vedi chi sono quelli che ti amano e quelli che non ti ameranno mai».

«Certamente, perché non posso non vedere l’avvenire e il passato in quanto Dio, in virtù della Divinità, una con quella del Dio-Uomo. Fino all’ultimo istante offro alle anime il cielo, la mia Passione, il mio Sangue e i miei meriti infiniti per lavarli e salvarli».

«Ma devi soffrire nel vedere l’avvenire di coloro che non corrisponderanno e si dannano».

«Come Dio non soffro, perché nella mia Giustizia in tutti i modi ricevo gloria. Come Dio-Uomo, soffrii molto e ora il mio Cuore soffre misticamente a causa delle ingratitudini e delle offese fatte alla mia Divinità, in cui si trovano le altre divine Persone e a causa del disprezzo del mio Sangue, dell’amore e delle grazie di un Dio-Uomo. Ma anche mi duole molto il male nelle anime, negli uomini che sono la mia Carne e il mio Sangue, i miei fratelli, eredi del cielo e incorporati alla Divinità in Me, che per la loro nefanda volontà si perderanno eternamente».

«E quale, mio Gesù, è il rimedio per tutto questo?».

«C’è la preghiera, il sacrificio, la comunione dei santi, per ottenere luce per quelle anime e forzarle mediante la grazia a pentirsi e a raggiungere il cielo. Hanno il ricorso infinito alla mia Misericordia e ai miei meriti; ma tocca a loro rifiutarli o utilizzarli. Hanno Maria. Se tu sapessi quale è il numero (mi trattengo a dirtelo) dei sacerdoti che sono la mia stessa vita e che rifiutano nel loro cuore il Dio-Uomo che pazientemente e umilmente offre loro il perdono, la misericordia e il cielo? Questo mi strazia il Cuore perché chi più di loro ha il ricorso al mio Sangue nelle Messe, ai miei meriti messi a loro disposizione e al mio infinito, eterno e speciale amore? Io vedo la fine di ogni anima, perché non posso non vederla, ma raddoppio, soprattutto, nei miei sacerdoti, i miei divini ricorsi, le mie grazie straordinarie, i santi ricordi e il mio infinito amore di Vittima con il quale possono, fino all’ultimo istante della loro vita, saldare tutti i debiti».

«Signore, ma non permettere loro di ordinarsi se devono offenderti con la loro impenitenza finale».

«E la libertà che lo ho dato all’uomo [dov’è]?».

«Dicono giustamente, mio Gesù!, che qualche volta ti sei pentito di creare l’uomo» (cfr. Gen 6,6).

«Prega instancabilmente per i sacerdoti e sacrificati per loro in Mia unione per scuotere i loro cuori…».

«Tu sei destinata alla santificazione delle anime, specialmente dei sacerdoti. Attraverso di te, molti si infiammeranno dell’amore e del dolore… fa’ amare la croce per mezzo dello Spirito Santo. Verrà una pleiade di sacerdoti santi, che incendieranno specialmente il mondo con il fuoco della croce».

(Beata Conchita Cabrera de Armida, da “Il Riposo di Gesù, esercizi spirituali 1933” edizioni OCD)

San Bernardino da Siena: “Se io non ho la carità non sono nulla. China il capo e sta nel timore di Dio, perché (San Paolo) dice: “Nihil sum” [Non sono nulla]. Cosa credi che sia un’ anima in peccato mortale? Davanti a Dio è uno zero”

“INNO ALLA CARITA’ DI SAN PAOLO, CON COMMENTO DI SAN BERNARDINO DA SIENA”

“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.

E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.

La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1 Cor 1,1-13)

 

Commento di San Bernardino da Siena:

“Astitit regina a dexstris tuis investitu deaurato circumdata varietate” [Sta la regina alla tua destra in veste d’oro…]. Comincia: “Eructavit cor meum”[Effonde il mio cuore]… laddove Davide profeta parla della virtù della carità, dicendo che essa sta al lato destro di Dio, siede come regina di tutte le altre virtù, vestita d’oro, circondata di varietà di colori (Sal 44,10).

( … ) Osserva la forza delle parole che usa Davide: “Astitit regina dexstris tuis”: [la carità] sempre resterà, come regina, alla mano destra di Dio; essa è governatrice di ogni nostro atto, di ogni nostro pensiero; dirige il nostro corpo e la nostra anima verso Dio e verso il prossimo, contro il demonio, contro il mondo e contro la carne. Ci governa per grazia, ci purifica dalla colpa, cosicché quando l’anima va in Paradiso essa è vestita di carità da Cristo Gesù, che è l’arca della carità, il primogenito dei morti, il re dei re, il Signore dei signori e rende grazia per grazia. Se sei stato in questo mondo in carità, di carità ti vestirà lassù. “Habenti dabitur” [a chi ha sarà dato] (Lc 19,26): a chi avrà avuto carità, gli sarà data carità, gli sarà profusa carità, più carità di quanta se ne possa avere mai in questo mondo.

( … ) Se io non ho la carità non sono nulla. China il capo e sta nel timore di Dio, perché dice: “Nihil sum” [Non sono nulla]. Cosa credi che sia un’ anima in peccato mortale? Davanti a Dio è uno zero. ( … ) Prendi pure tutte le anime degli uomini che sono morte in peccato mortale e prendine una sola che sia morta in grazia di Dio: piacerà di più a Dio quell’anima sola che centomila migliaia di anime dannate.

( … ) Come l’anima ha molti doni, così la carità è dotata di molte varietà.

( … ) Tre sono le principali varietà che adornano la carità. La prima è nel sopportare. La seconda è nel respingere. La terza nell’operare.

Parlo prima del sopportare ( … ) Come dice Giobbe: “La vita dell’uomo è una milizia nella battaglia del mondo” (Gb 7,1).

( … ) Sebbene tu abbia in te la pazienza non basta. Dopo che hai sofferto dei tormenti e delle battaglie e ti sei difeso con lo scudo e con l’armatura [della pazienza], bisogna che tu faccia il bene con il cuore, con le parole e con le opere ( … ). Ama la creatura e odia la colpa; con benignità [bisogna] amare la creatura e non il peccato che è in essa. Dì bene di chi dice male di te e prega per lui. Fa il bene a chi ti fa del male; questa è la benignità della carità.

E abbiamo trattato della prima cosa, cioè del sopportare.

La seconda cosa è nel respingere. La carità non si mischia mai con cose brutte, allontana tutti i peccati mortali ( … ).

( … ) Anzitutto la carità non ha invidia del bene che vede in altri, anzi ne gode e d’ogni bene che vede nel prossimo suo, ne è contenta come se fosse in se stessa. Una buona e santa invidia sarebbe avere invidia e volere quei beni che tu vedi negli uomini spirituali e amare quei tali beni come se li avessi tu. Quest’uomo non fa cose perverse e non vi va dietro per superbia.

( … ) “Non si gonfia” di superbia. La superbia gonfia in due modi: prima attraverso le cose acquistate e poi attraverso le cose desiderate. Le acquistate sono la fama, la condizione agiata, i beni; per queste cose la carità non fa gonfiare.

“Non è ambiziosa”. Riguardo alle cose desiderate dice che la carità non è ambiziosa così da desiderare cose superflue né di ruoli, né di roba, né di onori.

“Non cerca il suo interesse”. Respinge l’avarizia, non chiede quel che è suo e tanto meno quello che non è suo. ( … ) non dice che tu non richieda le cose che ti fossero state tolte e tu ne abbia bisogno, se vedi di poterle riavere senza peccato mortale; altrimenti se non le potessi riavere se non con il peccato, lasciale stare.

“Non si adira la carità”. “Nell’ira non peccate” (Ef 4,26), fu detto per lo zelo di Dio. Allora, quando Gesù cacciò dal Tempio i venditori, i compratori e gli usurai, chi non lo avesse capito, avrebbe detto: Egli è adirato; ma fu zelo di carità di Dio. E’ grande differenza tra zelo ed ira. ( … ) L’ira intorbida la mente e guasta l’anima. Lo zelo [invece] si appassiona e non si intorbida e quando si lascia a riposo è più chiaro di prima. Non così l’ira che solo di rado lascia chiara la mente.

( … ) “Non pensa male”. La carità non se ne sta accidiosa, ma sempre essa è in pensieri di carità. Non pensa male e da ogni male trae il bene; ogni cosa che vede la carità la ritorce in bene. Quando vedi uno che dice male su cose di cui non è certo, è segno che non è in carità. “Non gode dell’ingiustizia”, ma ne soffre. Quando vedi uno che si rallegra di un altro che abbia fatto qualche gran male, o qualche grande iniquità, è segno che non è nella carità, ma è contro di lei. Ogni allegrezza per il male o per l’iniquità fa tanto peggio, e tanto più sei lontano dalla carità, tanto più ne godi e te ne rallegri.

“Ma della verità si compiace”. La carità è compagna della verità, e vanno sempre abbracciate insieme. E dunque l’anima che ha carità, come sente dire una verità, gode. La carità è l’arte dell’uomo spirituale e non degli uomini mondani.

( … ) “Tutto crede, tutto sopporta, tutto spera”. Cioè tutte le cose che sono da credere le crede e non le pazzie degli eretici. E sostiene pazientemente tutte le cose che sono da sostenere e spera tutte le cose che sono da sperare.

( … ) La terza ed ultima parte principale è sulla stabilità della carità. “Vestita con abiti d’oro”: che come l’oro è stabile, che mai viene meno quanto più è vicina alla perfezione, e quanto più sta sul fuoco, tanto più diventa fine senza venire a mancare, così è la carità. E per questo San Paolo aggiunge: “La carità non avrà mai fine ( … )”. Vuol dire che la carità non verrà mai meno. ( … ) Gli uomini più capaci del mondo in eloquenza o in sapienza non sapranno mai il fine di tutte le sapienze. Chi saprà un poco e chi un altro. Perciò dice: “in parte”. E aggiunge: “Ma quando verrà ciò che è perfetto, [cioè il Paradiso], quello che è imperfetto scomparirà”.

“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità”.

( … ) La fede è il fondamento della religione nostra; poi la speranza, così che speri quel che per fede credi; e tutto con amore di carità, perché senza la carità, come ti ho mostrato, non c’è virtù che sia accetta a Dio. Quando saremo di là in Paradiso, che Iddio ce ne dia la grazia, solamente la virtù della carità ci accompagnerà; non ci sarà più bisogno di fede nelle cose divine, perché vedremo a faccia a faccia la fede; e la speranza verso le cose che non si vedono verrà a mancare, perché avremo quel che abbiamo sperato. La carità è la maggiore di tutte e rimarrà molto più lassù in Paradiso che non qua.”

(San Bernardino da Siena, Prediche settimana santa, Cap. 1, pag. da 92 a 106.)

Sant’Alfonso Maria de Liguori, Massime Eterne: “DEL FINE DELL’UOMO, DEL PECCATO MORTALE, DELLA MORTE, DEL GIUDIZIO, DELL’ETERNITÀ DELL’INFERNO” Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo?

OPERA DI SANT’ALFONSO MARIA DE LIGUORI, DOTTORE DELLA CHIESA.

“Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”

Sette meditazioni, in tre punti, sul fine dell’uomo, la morte il giudizio e l’inferno, divise secondo i sette giorni della settimana

Atti cristiani prima dell’inizio delle meditazioni

Dio mio, verità infallibile, perché voi l’avete rivelato alla santa Chiesa, io credo tutto quello che la santa Chiesa mi propone a credere. Credo che voi siete il mio Dio, Creatore del tutto, che per un’eternità premiate i giusti col paradiso, e castigate i peccatori coll’inferno. Credo che voi siete uno nell’essenza, e trino nelle persone, cioè Padre, Figliuolo, e Spirito-Santo. Credo l’incarnazione e morte di Gesù-Cristo. Credo finalmente tutto quello che crede la santa Chiesa. Vi ringrazio d’avermi fatto cristiano, e mi protesto che in questa santa fede voglio vivere e morire.

Dio mio, fidato nelle vostre promesse, perché voi siete potente, fedele e misericordioso, spero per li meriti di Gesù-Cristo il perdono de’ miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del paradiso.

Dio mio, perché voi siete bontà infinita, degno d’infinito amore, v’amo con tutto il cuore mio sopra ogni cosa. E di tutti i peccati miei, perché ho offeso voi bontà infinita, me ne pento con tutto il cuore e me ne dispiace. Propongo prima morire, che più disgustarvi, colla grazia vostra, che vi cerco per ora e sempre. E propongo ancora di ricevere i santi sacramenti in vita ed in morte.

Meditazione per la Domenica – DEL FINE DELL’UOMO

Considera anima mia, come quest’essere che tu hai, te l’ha dato Dio, creandoti a sua immagine, senza tuo merito: ti ha adottato per figlio col santo battesimo: ti ha amato più che da padre, e ti ha creato, acciò l’amassie servissi in questa vita, per poi goderlo in eterno in paradiso. Sicché non sei nato, né dei vivere per godere, per farti ricco e potente, per mangiare, per bere e dormire come i bruti, ma solper amare il tuo Dio, e salvarti in eterno. E le cose create te l’ha date il Signore in uso, acciocché t’aiutassero a conseguire il tuo gran fine. O me infelice, che a tutt’altro ho pensato, fuorchéal mio fine! Padre mio, per amore di Gesù fa ch’io cominci una nuova vita, tutta santa e tutta conforme al tuo divino volere.

Considera, come in punto di morte sentirai gran rimorsi, se non hai atteso a servire Dio. Che pena, quando alla fine de’ giorni tuoi ti avvederai che non ti resta altro in quell’ora, che un pugno di mosche, di tutte le ricchezze, grandezze, glorie e piaceri! Stupirai, come per vanità e cose da niente hai perduta la grazia di Dio e l’anima tua, senza poter rifare il mal fatto; né vi sarà più tempo da metterti nel buon cammino. O disperazione! O tormento! Vedrai allora quanto valga il tempo, ma tardi. Lo vorresti comperare col sangue, ma non potrai. O giorno amaro per chi non ha servito ed amato Dio.

Considera, quanto si trascura questo gran fine. Si pensa ad accumulare ricchezze, si pensa a banchettare, a festeggiare, a darsi bel tempo: e Dio non si serve, ed a salvar l’anima non si attende, e ‘l fine eterno si tiene per bagattella! E così la maggior parte de’ cristiani, banchettando, cantando e sonando se ne va all’inferno. Oh se essi sapessero che vuol dire inferno! O uomo, stenti tanto per dannarti, e nulla vuoi fare per salvarti! Moriva un segretario di Francesco re d’Inghilterra, e moriva dicendo: Misero me! ho consumato tanta carta per iscrivere le lettere del mio principe, e non ho speso un foglio per ricordarmi de’ miei peccati, e farmi una buona confessione! Filippo III re di Spagna dicea morendo: Oh fossi stato a servire Dio in un deserto, e non fossi stato mai re! Ma che servono allora questi sospiri, questi lamenti? Servono per maggior disperazione. Impara tu a spese d’altri a vivere sollecito di tua salute, se non vuoi cadere nella medesima disperazione. E sappi che quanto fai, dici e pensi fuor del gusto di Dio,tutto è perduto. Su via è tempo già di mutar vita. Che vuoi aspettare il punto della morte a disingannarti? alle porte dell’eternità, sulle fauci dell’inferno, quando non v’è più luogo di emendare l’errore? Dio mio, perdonami.Io t’amo sopra ogni cosa. Mi pento d’averti offeso sopra ogni male.

Maria, speranza mia, prega Gesù per me.

Meditazione per lo lunedì – DELL’IMPORTANZA DEL FINE

Considera uomo, quanto importi conseguire il tuo gran fine: importa il tutto; perché, se lo conseguisci e ti salvi, sarai per sempre beato, godrai in anima e in corpo ogni bene: ma se lo sgarri, perderai anima e corpo, paradiso e Dio: sarai eternamente misero, sarai per sempre dannato. Dunque questo è il negozio di tutti i negozi, solo importante, solo necessario, il servire Dio e salvarsi l’anima. Onde non dire più, cristiano mio: Ora vo’ soddisfarmi, appresso mi darò a Dio, e spero salvarmi. Questa speranza falsa oh quanti ne ha mandati all’inferno, i quali pure diceano così, ed ora son dannati, e non ci è più rimedio per essi! Qual dannato volea proprio dannarsi? Ma Dio maledice chi pecca per la speranza del perdono: «Maledictus homo qui peccat in spe».Tu dici, voglio far questo peccato e poi me lo confesso. E chi sa, se avrai questo tempo? Chi t’assicura, che non morirai di subito dopo il peccato? Frattanto perdi la grazia di Dio, e se non la trovi più? Dio fa misericordia a chi lo teme, non a chi lo disprezza: «Et misericordia eius timentibus eum» (Luc. I). Né dire più, tanto mi confesso due peccati, quanto tre: no, perché Dio due peccati ti perdonerà, e tre no. Dio sopporta, ma non sopporta sempre: «In plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 5). Quando è piena la misura, Dio non perdona più, o castiga colla morte, o con abbandonar il peccatore, sì che da peccato in peccato se n’anderà all’inferno, castigo peggiore della morte. Attento, fratello, a questo ch’ora leggi. Finiscila, datti a Dio. Temi che questo sia l’ultimo avviso, che Dio ti manda. Basta quanto l’hai offeso. Basta quanto egli t’ha sopportato. Trema che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdonerà più. Vedi che si tratta d’anima, si tratta d’eternità. Questo gran pensiero dell’eternità quanti ne ha cavati dal mondo, e gli ha mandati a vivere ne’ chiostri, ne’ deserti e nelle grotte! Povero me, che mi trovo di tanti peccati fatti? il cuore afflitto, l’anima aggravata, l’inferno acquistato, Dio perduto. Ah Dio mio e Padre mio, legamiall’amor tuo.

Considera, come quest’affare eterno è lo più trascurato. A tutto si pensa, fuorché a salvarsi. Per tutto v’è tempo, fuorché per Dio. Si dica ad un mondano che frequenti i sacramenti, che si facciamezz’ora d’orazione il giorno, risponde: Ho figli, ho nipoti, ho possessioni, ho che fare. Oh Dio, e non hai l’anima? Impegna pur le ricchezze, chiama i figli, i nipoti che ti diano aiuto in punto di morte, e ti caccino dall’inferno, se vai dannato. Non ti lusingare di poter accordare Dio e mondo, paradiso e peccati. Il salvarsi non è negozio da trattarlo alla larga; bisogna far violenzaa te stesso, bisogna farti forza, se vuoi guadagnarti la corona immortale. Quanti cristiani si lusingavano che appresso avrebbero servito Dio, e si sarebbero salvati, ed ora stanno nell’inferno! Che pazzia, pensar sempre a quello che finisce così presto, e pensar tanto poco a quello che non ha mai da finire! Ah cristiano, pensa a’ casi tuoi! Pensa che fra poco sloggerai da questa terra, ed anderai alla casa dell’eternità! Povero te, se ti danni! Vedi che non ci potrai rimediare più.

Considera cristiano, e dì: Un’anima ho, se questa mi perdo, ho perduto ogni cosa: un’anima ho, se a danno di questa mi guadagno un mondo, che mi serve? se divento un grand’uomo, e mi perdo l’anima, che mi giova? Se accumulo ricchezze, se avanzo la casa, se ingrandisco i figli, e mi perdo l’anima, che mi giova? Che giovarono le grandezze, i piaceri, le vanità a tanti che vissero nel mondo, ed ora sono polvere in una fossa, e confinati già nell’inferno? Dunque, se l’anima è mia, se un’anima ho, se la sgarro una volta, l’ho sgarrata per sempre; deggio ben pensare a salvarmi. Questo è un punto, che troppo importa. Si tratta di essere o sempre felice, o sempre infelice. O mio Dio, confesso e mi confondo che finora sono vivuto da cieco, sono andato così lontano da te, non ho pensato a salvare quest’unica anima mia. Salvami, o Padre, per Gesù-Cristo: mi contento di perder ogni cosa, purché non perda voi, mio Dio.

Maria, speranza mia, salvami tu colla tua intercessione.

Meditazione per lo martedì – DEL PECCATO MORTALE

Considera, come tu creato da Dio per amarlo, con ingratitudine d’inferno te gli sei ribellato, l’hai trattato da nemico, hai disprezzata la sua grazia, la sua amicizia. Conoscevi che gli davi un gran disgusto con quel peccato, e l’hai fatto? Chi pecca, che fa? volta le spalle a Dio, gli perde il rispetto, alza la mano per dargli uno schiaffo, affligge il cuore di Dio: «Et afflixerunt spiritum sanctum eius (Is. 63)». Chi pecca, dice a Dio col fatto: Allontanati da me, non ti voglio ubbidire, non ti voglio servire, non ti voglio riconoscere per mio Signore: non ti voglio tenere per Dio: il mio Dio è quel piacere, quell’interesse, quella vendetta. Così hai detto nel tuo cuore, quando hai preferita la creatura a Dio. S. Maria Maddalena de’ Pazzi non sapea credere, come un cristiano potesse ad occhi aperti far un peccato mortale; e tu che leggi, che dici? Quanti n’hai commessi? Dio mio, perdonami, abbi pietà di me. Ho offeso te, bontà infinita: odio i peccati miei: t’amo, e mi pento d’averti ingiuriato a torto, o Dio mio, degno d’infinito amore.

Considera, come Dio ti dicea, quando peccavi: Figlio, io sono il tuo Dio, che ti creai dal niente, e ti ricomprai col mio sangue; io ti proibisco di far questo peccato sotto pena della mia disgrazia. Ma tu peccando, dicesti a Dio: Signore, io non voglio ubbidirti, voglio pigliarmi questo gusto, e non m’importa che ti dispiace, e che perdo la tua grazia. «Dixisti, non serviam». Ah mio Dio, e ciò l’ho fatto più volte! come mi avete sopportato? Oh fossi morto prima che avervi offeso! Io non voglio più disgustarvi: io vi voglio amare, o bontà infinita. Datemi voi perseveranza. Datemi il vostro santo amore.

Considera, che quando i peccati giungono a certo numero, fanno che Dio abbandoni il peccatore: «Dominus patienter exspectat, ut cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 6.14). Se dunque, fratello mio, sarai di nuovo tentato di peccare, non dire più: Poi me lo confesso. E se Dio ti fa morire allora? e se Dio ti abbandona? che ne sarà di te per tutta l’eternità? Così tanti si son perduti. Pur essi speravano il perdono, ma è venuta la morte, e si son dannati. Trema che lo stesso non avvenga a te. Non merita misericordia chi vuol servirsi della bontà di Dio per offenderlo. Dopo tanti peccati che Dio t’ha perdonati, giustamente hai a temere che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdoni più. Ringrazialo che t’ha aspettato finora. E fa in questo punto una forte risoluzione di soffrir prima la morte che fare un altro peccato. Dì sempre da ogg’innanzi: Signore, basta quanto v’ho offeso; la vita che mi resta, non la voglio spendere a più disgustarvi (no, che voi non ve lo meritate), la voglio spendere solo ad amarvi, ed a piangere l’offese che v’ho fatte. Me ne pento con tutto il cuore. Gesù mio, vi voglio amare, datemi forza.

Maria, Madre mia, aiutatemi. Amen.

Meditazione per lo mercoledì – DELLA MORTE

Considera, come ha da finire questa vita. È uscita già la sentenza: hai da morire. La morte è certa, ma non si sa quando viene. Che ci vuole a morire? Una goccia che ti cade sul cuore, una vena che ti si rompe nel petto, una suffogazione di catarro, un torrente impetuoso di sangue, un animaletto velenoso che ti morde, una febbre, una puntura, una piaga, un’inondazione, un terremoto, un fulmine, un lampo basta a levarti la vita. La morte verrà ad assalirti, quando meno ci pensi. Quanti la sera si son posti a dormire, e la mattina si son trovati morti! Non può forse ciò succedere anche a te? Tanti che son morti di subito, non se lo pensavano di morir così; ma così sono morti, e se si trovavano in peccato, ora dove stanno? E dove staranno per tutta l’eternità? Ma sia come si voglia; è certo che ha da venire un tempo, nel quale per te si farà notte e non giorno, o si farà giorno e non vedrai la notte. Verrò come un ladro alla scordata e di nascosto, dice Gesu-Cristo. Te lo avvisa per tempo il tuo buon Signore, perché ama la tua salute.

Corrispondi a Dio, approfittati dell’avviso, preparati a ben morire, prima che venga la morte: «Estote parati». Allora non è tempo d’apparecchiarsi, ma di trovarsi apparecchiato. È certo ch’hai da morire. Ha da finire la scena di questo mondo per te, e non sai quando. Chi sa se fra un anno, fra un mese, se domani sarai vivo? Gesù mio, dammi luce e perdonami.

Considera, come nell’ora della morte ti troverai steso in un letto, assistito dal sacerdote che ti ricorderà l’anima, co’ parenti accanto che ti piangeranno, col Crocifisso a capo, colla candela a’ piedi, già vicino a passare all’eternità. Ti sentirai la testa addolorata, gli occhi oscurati, la lingua arsa, le fauci chiuse, il petto aggravato, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto: lascerai ogni cosa, e povero e nudo sarai gittato a marcir in una fossa: quivi i vermi ed i sorci si roderanno tutte le tue carni, e di te non resterà che quattr’ossa spolpate, ed un poco di polvere fetente, e niente più. Apri una fossa, e vedi a che è ridotto quel riccone, quell’avaro, quella donna vana! Così finisce la vita. Nell’ora della morte ti vedrai circondato da’ demonii, che ti metteranno innanzi tutti i peccati commessi da che eri fanciullo. Ora il demonio per indurti a peccare, cuopre e scusa la colpa; dice che non è gran male quella vanità, quel piacere, quella confidenza, quel rancore, che non ci è mal fine in quella conversazione; ma in morte scoprirà la gravezza del tuo peccato; ed al lume di quell’eternità, alla quale starai per passare, conoscerai che male fu aver offeso un Dio infinito. Presto rimedia a tempo, ora che puoi, perché allora non sarà più tempo.

Considera, come la morte è un momento, dal quale dipende l’eternità. Giace l’uomo già vicino a morire, e per conseguenza vicino ad una delle due eternità; e questa sorte sta attaccata a quell’ultima chiusa di bocca, dopo la quale in un punto si trova l’anima o salva, o dannata per sempre. O punto! o chiusa di bocca! o momento donde dipende un’eternità! Un’eternità o di gloria o di pena. Un’eternità o sempre felice o sempre infelice: o di contenti o di affanni. Un’eternità o d’ogni bene o d’ogni male. Un’eternità o d’un paradiso o d’un inferno. Viene a dire che se in quel momento ti salvi, non avrai più guai, sarai sempre contento e beato. Ma se la sgarri, e ti danni, sarai sempre afflitto e disperato, mentre Dio sarà Dio. In morte conoscerai che vuol dire paradiso, inferno, peccato, Dio offeso, legge di Dio disprezzata, peccati lasciati in confessione, roba non restituita. Misero me! dirà il moribondo, da qui a pochi momenti ho da comparir innanzi a Dio? e chi sa qual sentenza mi toccherà? Dove anderò, al paradiso o all’inferno? a godere fra gli angioli o ad ardere fra’ dannati? Sarò figlio di Dio o schiavo del demonio? Fra poco oimè lo saprò, e dove alloggerò la prima volta, ivi resterò in eterno. Ah fra poche ore, fra pochi momenti che ne sarà di me? Che ne sarà di me, se non risarcisco quello scandalo; se non restituisco quella roba, quella fama? se non perdono di cuore al nemico? se non mi confesso bene? Allora detesterai mille volte quel giorno, che peccasti, quel diletto, quella vendetta che ti prendesti: ma troppo tardi, e senza frutto, perché lo farai per mero timor del castigo, senz’amore a Dio. Ah Signore, ecco da questo punto io mi converto a voi, non voglio aspettare la morte; ed ora io v’amo, v’abbraccio e voglio morire abbracciato con voi.

Madre mia Maria, fammi morire sotto il manto tuo, aiutami in quel punto.

Meditazione per lo giovedì – DEL GIUDIZIO FINALE

Considera, come appena l’anima uscirà dal corpo, che sarà condotta innanzi al tribunale di Dio, per essere giudicata. Il giudice è un Dio onnipotente, da te maltrattato, adirato al sommo. Gli accusatori sono i demonii nemici: i processi i tuoi peccati: la sentenza è inappellabile: la pena un inferno. Non vi sono più compagni, non parenti, non amici; fra te e Dio te l’hai da vedere. Allora scorgerai la bruttezza de’ tuoi peccati, né potrai scusarli come ora fai. Sarai esaminato sopra i peccati di pensieri, di parole, di compiacenze, d’opere, d’omissione e di scandalo. Tutto si ha a pesare in quella gran bilancia della divina giustizia, ed in una cosa, in cui ti troverai mancante, sarai perduto.

Gesù mio e giudice mio, perdonami, prima che m’hai da giudicare.

Considera, come la divina giustizia dovrà giudicare tutte le genti nella valle di Giosafatte, quando (finito il mondo) risusciteranno i corpi per ricevere insieme coll’anima il premio o la pena, secondo le opere loro. Rifletti, come se ti danni, ripiglierai questo tuo medesimo corpo, che servirà per eterna prigione dell’anima sventurata. A quell’amaro incontro l’anima maledirà il corpo, e ‘l corpo maledirà l’anima; sicché l’anima ed il corpo, che ora si accordano in cercar piaceri proibiti, si uniranno a forza dopo morte per essere carnefici di se stessi. All’incontro se ti salvi, questo tuo corpo risorgerà tutto bello, impassibile e risplendente: e così in anima e corpo sarai fatto degno della vita beata. E così finirà la scena di questo mondo. Saran finite allora tutte le grandezze, i piaceri, le pompe di questa terra; tutto è finito. Vi restano solo due eternità, una di gloria e l’altra di pena; l’una beata e l’altra infelice: l’una di gaudii e l’altra di tormenti. Nel paradiso i giusti, nell’inferno i peccatori. Povero allora chi avrà amato il mondo, e per li miseri gusti di questa terra avrà perduto tutto, l’anima, il corpo, il paradiso e Dio.

Considera l’eterna sentenza. Cristo giudice si volterà contra i reprobi e lorodirà: L’avete finita, ingrati, l’avete finita? È già venuta l’ora mia, ora di verità e di giustizia, ora di sdegno e di vendetta. Su, scellerati, avete amata la maledizione, venga sopra di voi: siate maledetti nel tempo, maledetti nell’eternità. Partitevi dalla mia faccia, andate privi d’ogni bene e carichi di tutte le pene al fuoco eterno. «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25.41). DopoGesù si volterà agli eletti, e dirà: Venite voi figli miei benedetti, venite a possedere il regno de’ cieli a voi apparecchiato. Venite, non più per portare dietro di me la croce, ma insieme con me la corona. Venite ad essere eredi delle mie ricchezze, compagni della mia gloria; venite a cantare in eterno le mie misericordie: venite dall’esilio alla patria, dalle miserie alla gioia, venite dalle lagrime al riso, venite dalle pene all’eterno riposo: «Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum». Gesù mio, spero anch’io d’esser uno di questi benedetti. Io v’amo sopra ogni cosa; beneditemi da quest’ora.

E beneditemi voi, Madre mia Maria.

Meditazione per lo venerdì – DELL’INFERNO

Considera, come l’inferno è una prigione infelicissima, piena di fuoco. In questo fuoco stan sommersi i dannati, avendo un abisso di fuoco di sopra, un abisso d’intorno, un abisso di sotto. Fuoco negli occhi, fuoco nella bocca, fuoco per tutto. Tutti poi i sensi han la lor propria pena, gli occhi accecati dal fumo e dalle tenebre, ed atterriti dalla vista degli altri dannati e de’ demonii. Le orecchie odono giorno e notte continui urli, pianti, bestemmie. L’odorato èappestato dal fetore di quegl’innumerabili corpi puzzolenti. Il gusto è crucciato da ardentissima sete e da fame canina, senza potere ottener mai una goccia d’acqua, né un tozzo di pane. Onde quegl’infelici carcerati, arsi dalla sete, divorati dal fuoco, afflitti da tutti i tormenti, piangono, urlano, si disperano, ma non vi è, né vi sarà mai chi li sollevi o li consoli. O inferno, inferno! che non ti vogliono credere alcuni, se proprio non vi cadono! Che dici tu che leggi? Se ora avessi a morire, dove anderesti? Tu non ti fidi di soffrire una scintilla di candela sulla mano, e ti fiderai poi di stare in un lago di fuoco che ti divori, sconsolato ed abbandonato da tutti per tutta l’eternità?

Considera poi la pena che avranno le potenze. La memoria sarà sempre tormentata dal rimorso della coscienza: questo è quel verme che sempre roderà il dannato, nel pensare al perché si è dannato volontariamente, per pochi gusti avvelenati. Oh Dio che gli pareranno allora quei momenti di gusto, dopo cento, dopo mille milioni d’anni d’inferno? Questo verme gli ricorderà il tempo che l’ha dato Dio per rimediare; le comodità che l’ha presentate per salvarsi; i buoni esempi de’ compagni; i propositi fatti, ma non eseguiti. Ed allora vedrà che non vi è più rimedio alla sua rovina eterna. Oh Dio, oh Dio, e che doppio inferno sarà questo! La volontà sarà sempre contraddetta, e non avrà mai niente di ciò che vorrà, ed avrà sempre quel che non vorrà, cioè tutti i tormenti. L’intelletto conoscerà il gran bene che ha perduto, cioè il paradiso e Dio. O Dio, o Dio, perdonatemi per amor di Gesu-Cristo.

Peccatore, tu che ora non ti curi di perderti il paradiso e Dio, conoscerai la tua cecità, quando vedrai i beati trionfare e godere nel regno de’ cieli, e tu come cane puzzolente sarai cacciato via da quella patria beata, dalla bella faccia di Dio, dalla compagnia di Maria, degli angioli e de’ santi. Allora smaniando griderai: O paradiso di contenti, o Dio bene infinito, non sei né sarai più mio? Su, penitenza: muta vita: non aspettare che non vi sia anche per te più tempo. Datti a Dio: comincia ad amarlo davvero.

Prega Gesù, prega Maria che abbiano pietà di te.

Meditazione per lo sabbato – DELL’ETERNITÀ DELLE PENE

Considera, come nell’inferno non v’è fine: si patiscono tutte le pene, e tutte eterne. Sicché passeranno cento anni di quelle pene, ne passeranno mille, e l’inferno allora comincia; ne passeranno cento mila, e cento milioni, mille milioni d’anni e di secoli, e l’inferno sarà da capo. Se un angelo a quest’ora portasse la nuova ad un dannato che Dio lo vuol cacciare dall’inferno, ma quando? quando saran passati tanti milioni di secoli, quante sono le goccie d’acque, le frondi degli alberi e le arene del mare e della terra, voi vi spaventereste; ma pur è vero che quegli farebbe più festa a questa nuova, che non fareste voi, se aveste la nuova d’esser fatto re d’un gran regno. Sì, perché direbbe il dannato: È vero che hanno da passare tanti secoli, ma ha da venire un giorno che han da finire. Ma ben passeranno tutti questi secoli, e l’inferno sarà da capo; si moltiplicheranno tante volte tutti questi secoli, quante sono le arene, le goccie, le frondi, e l’inferno sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete voi quanto vi piace la pena mia: allungatela per quanto tempo vi piace; basta che ponghiate termine, e son contento. Ma no, questo termine non vi sarà mai. Almeno il povero dannato potesse ingannare se stesso, e lusingarsi con dire: Chi sa, forse un giorno Dio avrà pietà di me, e mi caccerà dall’inferno! No, il dannato si vedrà sempre in faccia scritta la sentenza della sua dannazione eterna, e dirà: Dunque tutte queste pene ch’ora patisco, questo fuoco, questa malinconia, queste grida non hanno da finire mai, mai? E quanto tempo dureranno? sempre, sempre. Oh mai! Oh sempre! Oh eternità! Oh inferno! Come? gli uomini ti credono, e peccano, e seguitano a vivere in peccato?

Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo? Pensa che se tu ci arrivi una volta, non ne potrai uscire più. E se qualche volta già t’hai meritato l’inferno, ringrazia Dio che non ti ci ha mandato; e presto, presto rimedia quanto puoi, piangi i tuoi peccati; piglia i mezzi più atti che puoi per salvarti: confessati spesso, leggi questo o altro libretto spirituale ogni giorno, prendi la divozione a Maria col rosario ogni giorno, col digiuno ogni sabbato: nelle tentazioni resisti, chiamando spesso Gesù e Maria: fuggi l’occasioni di peccare, e se Dio ti chiama anche a lasciare il mondo, fallo, lascialo: ogni cosa che si fa per iscampare da una eternità di pene è poco, è niente. «Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas» (S. Bern.). Per assicurarci nell’eternità non vi è cautela che basti. Vedi quanti anacoreti, per sfuggire l’inferno sono andati a vivere nelle grotte, ne’ deserti! E tu che fai, dopoché tante volte t’hai meritato l’inferno? Che fai? che fai? Vedi che ti danni. Datti a Dio, e digli: Signore, eccomi, voglio fare tutto quello che volete da me.

Maria, aiutami.

(Sant’Alfonso Maria de Liguori “Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”)

 

 

 

Rivelazione della Vergine Maria alla Venerabile Suor Maria: “Così Lucifero continuamente trascina all’Inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia” “Facendo dimenticare agli uomini i ‘Novissimi’: Morte, Giudizio, Inferno e Gloria”

Dalla “Mistica città di Dio,Vita della Vergine Madre di Dio” rivelata alla Venerabile Suor Maria di Ágreda

 

Insegnamento della Regina del cielo, parla Maria Vergine:

773. Figlia mia, tutte le opere del mio Figlio santissimo e mie sono colme di insegnamenti e istruzioni per gli uomini che le considerano con attenta stima. Sua Maestà si allontanò da me affinché cercandolo con dolore e lacrime lo ritrovassi poi con gioia a mio vantaggio spirituale. Anche tu devi cercare il Signore con amaro dolore, affinché questo dolore ti procuri un’incessante sollecitudine, senza riposare su cosa alcuna per tutto il tempo della tua vita, sino a quando tu non arrivi a possederlo e non lo lasci più. Perché tu comprenda meglio il mistero del Signore, sappi che la sua sapienza infinita plasma le creature capaci della sua eterna felicità ponendole sì sul cammino che conduce ad essa, ma allo stesso tempo così lontane e non sicure di arrivarvi. Fintanto che non siano giunte a possedere l’eterna felicità, vivano sempre pronte e nel dolore, affinché la sollecitudine generi in esse un continuo timore e orrore per il peccato, il quale fa perdere la beatitudine. Anche nel tumulto della conversazione umana la creatura non si lasci legare né avviluppare dalle cose visibili e terrene. Il Creatore aiuta in questa sollecitudine, aggiungendo alla ragione naturale le virtù della fede e della speranza, le quali stimolano l’amore con cui cercare e trovare il fine ultimo. Oltre a queste virtù e ad altre infuse con il battesimo, manda ispirazioni e aiuti per ridestare e rimuovere l’anima lontana dallo stesso Signore, affinché non lo dimentichi né si scordi di se stessa mentre è priva della sua amabile presenza. Anzi continui la sua strada sino a giungere al bene desiderato, dove troverà la pienezza del suo amore e dei suoi desideri.

774. Potrai, dunque, capire quanto grande sia la cecità dei mortali e quanto scarso il numero di coloro che si concedono il tempo di considerare attentamente l’ordine meraviglioso della loro creazione e giustificazione e le opere che l’Altissimo ha compiuto per così alto fine. A questa dimenticanza fanno seguito tanti mali, quanti ne soffrono le creature attaccandosi al possesso dei beni terreni e dei piaceri ingannevoli, come se questi fossero la loro felicità e il fine ultimo: è cattiveria grande, rivolta contro la volontà del Signore. I mortali vogliono in questa breve e transitoria vita dilettarsi di ciò che è visibile, come se fosse il loro ultimo fine, mentre dovrebbero usare le creature come mezzo per raggiungere il sommo Bene e non per perderlo. Avverti, dunque, o carissima, questo rischio della stoltezza umana. Tutto ciò che è dilettevole, piacevole e poco serio giudicalo un errore; di’ all’appagamento dei sensi che si lascia ingannare invano e che è madre della stoltezza, rende il cuore ubriaco, impedisce e distrugge tutta la vera sapienza. Vivi sempre con il santo timore di perdere la vita eterna e sino a quando non l’avrai raggiunta non ti rallegrare in altre cose se non nel Signore. Fuggi dalle conversazioni umane e temine i pericoli. Se per obbedienza o a gloria sua Dio ti porrà in mezzo ad essi, devi confidare nella sua protezione, e tuttavia con la necessaria prudenza non devi essere né svogliata né negligente. Non ti affidare all’amicizia e alla relazione con le creature, perché vi è riposto il tuo pericolo più grande. Il Signore ti ha dato un animo grato e un’indole dolce, affinché tu sia incline a non resistergli nelle sue opere, usando per suo amore i benefici che ti ha concesso. Se permetterai che in te entri l’amore delle creature, queste sicuramente ti trasporteranno, allontanandoti dal sommo Bene. Altererai, così, l’ordine e le opere della sua sapienza infinita. È cosa molto indegna utilizzare il più grande beneficio della natura con un oggetto che non sia il più nobile di tutta la natura stessa. Sublima le azioni delle tue facoltà e rappresenta ad esse l’oggetto nobilissimo dell’essere di Dio e del suo Figlio diletto tuo sposo, il più bello tra i figli dell’uomo, e amalo con tutto il tuo cuore, la tua anima e la tua mente.

792. Figlia mia, l’Altissimo, buono e clemente, ha dato e continua a dare l’esistenza a tutti gli esseri viventi, non nega ad alcuno la sua provvidenza e illumina fedelmente ogni uomo, affinché possa intraprendere il cammino della conoscenza di Lui e poi entrare nel gaudio perenne, se non oscura questa luce con le sue colpe, abbandonando la conquista del regno dei cieli. Dio, con le anime che per i suoi segreti giudizi chiama a far parte della Chiesa, si dimostra più generoso. Nel battesimo, infatti, comunica loro con la grazia le virtù “infuse essenzialmente”, dette così perché nessuno può acquistarle da se stesso, e quelle “infuse accidentalmente”, che cioè potrebbero ottenere con le opere. Egli le anticipa loro perché siano più pronte e devote nell’osservare la sua santa legge. Ad alcune, oltre alla fede, la sua benevolenza aggiunge speciali doni soprannaturali di maggior intelligenza e forza per comprendere e attuare i comandamenti evangelici. In questo favore si è mostrato verso di te più liberale di quanto non lo sia stato con molte generazioni; perciò ti devi contraddistinguere nella carità e nella corrispondenza che gli spetta, stando sempre umiliata e abbracciata alla polvere.

793. Con la sollecitudine e l’affetto di una madre, ti voglio insegnare l’astuzia con la quale satana si sforza di distruggere questi benefici dell’Onnipotente. Da quando le creature cominciano a usare la ragione, molti demoni le seguono una per una con vigilanza e, proprio nel momento in cui esse dovrebbero innalzare la mente alla cognizione di Dio e iniziare ad esercitare le virtù ricevute, con incredibile furore e sagacia tentano di sradicare la semenza divina. Se non ci riescono, fanno in modo che questa non dia frutto, incitando gli uomini ad atti viziosi, inutili e infantili. Li distraggono con tale iniquità perché non si servano della fede, della speranza e di quanto ancora è stato loro elargito, non si ricordino che sono cristiani e non cerchino di conoscere il loro Dio, i misteri della redenzione e della vita eterna. Inoltre, questi nemici introducono nei genitori una stolta inavvertenza o un cieco amore carnale verso i propri figli e spingono i maestri ad altre negligenze, affinché non si preoccupino della maleducazione, permettano loro di corrompersi e di acquisire cattive consuetudini e di perdere le loro buone inclinazioni, avviandosi così alla rovina.

794. Il pietosissimo Signore, però, non tralascia di ovviare a questo rischio. Rinnova loro la luce interiore con altri aiuti e sante ispirazioni, con la dottrina della Chiesa attraverso i suoi predicatori e ministri, con l’uso e il rimedio efficace dei sacramenti, e con altri mezzi che servono a ricondurli sulla via della salvezza. Se nonostante questi numerosi provvedimenti sono pochi coloro che tornano alla salute spirituale, la causa di ciò sta nell’empia legge dei vizi e nelle abitudini depravate che si prendono durante la fanciullezza. Siccome è vera la sentenza: «Quali furono i giorni della gioventù, tale sarà anche la vecchiaia», i diavoli acquistano sempre più coraggio e potere sulle anime. Pensano, infatti, che, come le dominavano quando esse avevano commesso meno e minori colpe, così lo potranno fare con più facilità quando senza timore si saranno macchiate di molte altre e più gravi. Poi le muovono alla trasgressione e le colmano d’insensata audacia. Ciascun peccato compiuto da una persona toglie a questa forze interiori e la soggioga maggiormente a satana che, come tiranno, se ne impossessa e l’assoggetta a tale malvagità e meschinità da schiacciarla sotto i piedi della sua iniquità; quindi la conduce dove vuole, da un precipizio a un altro. Questo è il castigo che spetta a chi la prima volta si sottomette a lui. Così Lucifero continuamente trascina all’inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia. Per tale via ha introdotto nel mondo la sua prepotenza, facendo dimenticare agli uomini i “novissimi”: morte, giudizio, inferno e gloria; ha gettato tante nazioni di abisso in abisso, sino a farle cadere in errori così ciechi e bestiali quanto quelli che contengono tutte le eresie e le false sette degli infedeli. Pensa, dunque, figlia mia, a un pericolo così grande e non scordarti mai dei precetti di Dio e delle verità cattoliche. Non ci sia giorno in cui tu non mediti su questo; consiglia alle tue religiose e a tutti coloro ai quali parlerai di fare lo stesso, perché il nemico, il diavolo, si affatica e veglia per oscurare il loro intelletto e deviarlo dalla legge divina, affinché l’intelligenza non indirizzi la volontà, potenza cieca, a compiere gli atti per la giustificazione, che si consegue tramite viva fede, speranza certa, amore fervente e cuore contrito e umiliato.

“Maria di Ágreda, nata María Fernández Coronel y Arana (Ágreda, 2 aprile 1602Ágreda, 24 maggio 1665), è stata  una mistica, cattolica, spagnola, appartenente all’ordine delle monache Concezioniste francescane con il nome “Maria di Gesù di Ágreda“.

È stata un’originalissima figura di donna, religiosa, mistica e scrittrice della Spagna del XVII secolo; è in corso il processo di beatificazione; la Chiesa cattolica le ha attribuito il titolo di venerabile.”

Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori: “MORTE DEL PECCATORE MORTE DEL GIUSTO” “INFERNO, PURGATORIO, PARADISO” “SALVEZZA ETERNA DANNAZIONE ETERNA”

 “La vita presente è una continua guerra coll’inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l’anima e Dio”

(Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, Dottore della Chiesa)

 

“MORTE DEL PECCATORE”

PUNTO I

Al presente i peccatori discacciano la memoria e ‘l pensiero della morte, e così cercano di trovar pace (benché non la trovino mai) nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie della morte, prossimi ad entrare nell’eternità: «Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit»; allora non possono sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordono? che pace, pensando di dover comparire tra pochi momenti avanti di Gesu-Cristo giudice, del quale sino ad allora ha disprezzata la legge e l’amicizia? «Conturbatio super conturbationem veniet». La nuova già ricevuta della morte, il pensiero di doversi licenziare da tutte le cose del mondo, i rimorsi della coscienza, il tempo perduto, il tempo che manca, il rigore del divino giudizio, l’eternità infelice che si aspetta a’ peccatori: tutte queste cose componeranno una tempesta orrenda, che confonderà la mente ed accrescerà la diffidenza; e così confuso e sconfidato il moribondo passerà all’altra vita. Abramo con gran merito sperò in Dio contro la speranza umana, credendo alla divina promessa: «Contra spem in spem credidit»  (Rom.4. 18).

Ma i peccatori con gran demerito e falsamente per loro ruina sperano, non solo contro la speranza, ma ancora contro la fede, mentre disprezzano anche le minacce, che Dio fa agli ostinati. Temono essi la mala morte, ma non temono di fare una mala vita. Ma chi gli assicura di non morire di subito con un fulmine, con una goccia, con un butto di sangue? ed ancorché avessero tempo in morte da convertirsi, chi gli assicura che da vero si convertiranno? S. Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà un moribondo, che sempre è stato colla coscienza imbrattata, in mezzo a i dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte fare facilmente una vera conversione? Dico «vera», perché allora non basta il dire e promettere; ma bisogna dire e promettere col cuore.

Oh Dio, e da quale spavento resterà preso e confuso allora il misero infermo, ch’è stato di coscienza trascurata, in vedersi oppresso da’ peccati e da’ timori del giudizio, dell’inferno e dell’eternità! In quale confusione lo metteranno questi pensieri, quando si troverà svanito di testa, oscurato di mente e assalito da’ dolori della morte già vicina! Si confesserà, prometterà, piangerà, cercherà pietà a Dio, ma senza sapere quel che si faccia; ed in questa tempesta di agitazioni, di rimorsi, d’affanni e di spaventi passerà all’altra vita. «Turbabuntur populi, et pertransibunt» (Iob. 34. 20). Ben dice un autoreche le preghiere, i pianti e le promesse del peccator moribondo sono appunto come i pianti e le promesse di taluno, che si vede assalito dal suo nemico, il quale gli tiene posto il pugnale alla gola per torgli allora la vita. Misero, chi si mette a letto in disgrazia di Dio, e di là se ne passa all’eternità!

Affetti e preghiere

O piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia. Io dispererei del perdonode’ miei peccati e della mia salute eterna, se non rimirassi voi fonti di pietà e di grazia, per mezzo di cui un Dio ha sparso tutto il suo sangue, per lavare l’anima mia da tante colpe commesse. Vi adoro dunque, o sante piaghe, ed in voi confido. Detesto mille volte e maledico quei piaceri indegni, per li quali ho disgustato il mio Redentore, e miseramente ho perduta la sua amicizia. Guardando dunque voi, sollevo le mie speranze, e verso voi rivolgo gli affetti miei. Caro mio Gesù, Voi meritate che tutti gli uomini v’amino, e v’amino con tutto il loro cuore; ma io vi ho tanto offeso ed ho disprezzato il vostro amore, e Voi ciò non ostante mi avete così sopportato, e con tanta pietà mi avete invitato al perdono. Ah mio Salvatore, non permettete ch’io più vi offenda, e mi danni. Oh Dio! che pena mi sarebbe nell’inferno la vista del vostro sangue e di tante misericordie che mi avete usate! Io v’amo e voglio sempre amarvi. Datemi Voi la santa perseveranza. Staccate il mio cuore da ogni amore che non è per Voi, e stabilite in me un vero desiderio e risoluzione di amare da oggi avanti solamente Voi, mio sommo bene. O Maria Madre mia, tiratemi a Dio, e fatemi essere tutto suo, prima ch’io muoia.

PUNTO II

Non una, ma più e molte saranno le angustie del povero peccator moribondo. Da una parte lo tormenteranno i demoni. In morte questi orrendi nemici mettono tutta la forza per far perdere quell’anima, che sta per uscire diquesta vita, intendendoche poco tempo lor resta da guadagnarla, e che se la perdono allora, l’avran perduta per sempre. «Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet» (Apoc. 12. 12). E non uno sarà il demonio, che allora tenterà, ma innumerabili che assisteranno al moribondo per farlo perdere. «Replebuntur domus eorum draconibus» (Is. 13. 21). Uno gli dirà: Non temere che sanerai. Un altro dirà: E come? tu per tanti anni sei stato sordo alle voci di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: Come ora puoi rimediare a quelli danni fatti? a quelle fame tolte? Un altro: Non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? come puoi ora più rifarle?

Dall’altra parte si vedrà il moribondo circondato da’ suoi peccati. «Virum iniustum mala capient in interitu» (Ps. 139. 12). Questi peccati come tanti satelliti, dice S. Bernardo,lo terranno afferrato e gli diranno: «Opera tua sumus, non te deseremus». Noi siamo tuoi parti, non vogliamo lasciarti; ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno giudice. Vorrà allora il moribondo sbrigarsi da tali nemici, ma per isbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di cuore a Dio; ma la mente è ottenebrata, e ‘l cuore è indurito. «Cor durum habebit male in novissimo: et qui amat periculum, peribit in illo» (Eccli. 3. 27).

Dice S. Bernardoche il cuore, ch’è stato ostinato nel male in vita, farà i suoi sforzi per uscire dallo stato di dannazione, ma non giungerà a liberarsene, ed oppresso dalla sua malizia nel medesimo stato finirà la vita. Egli avendo sino ad allora amato il peccato, ha insieme amato il pericolo della sua dannazione; giustamente perciò permetterà il Signore che allora perisca in quel pericolo, nel quale ha voluto vivere sino alla morte. Dice S. Agostino che chi è lasciato dal peccato, prima ch’egli lo lasci, in morte difficilmente lo detesterà come deve; perché allora quel che farà, lo farà a forza: «Qui prius a peccato relinquitur, quam ipse relinquat, non libere, sed quasi ex necessitate condemnat».

Misero dunque quel peccatore ch’è duro, e resiste alle divine chiamate! «Cor eius indurabitur quasi lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Egli l’ingrato in vece di rendersi ed ammollirsi alle voci di Dio, si è indurito come più s’indurisce l’incudine a’ colpi del martello. In pena di ciò talancora si ritroverà in morte, benché si ritrovi in punto di passare all’eternità. «Cor durum habebit male in novissimo». I peccatori, dice il Signore, mi han voltate le spalle per amore delle creature: «Verterunt ad me tergum, et non faciem, et in tempore afflictionis suae dicent: Surge, et libera nos. Ubi sunt dii tui, quos fecisti tibi? surgant, et liberent te» (Ier. 2. 27). I miseri in morte ricorreranno a Dio, e Dio loro dirà: Ora a me ricorrete? chiamate le creature che vi aiutino; giacché quelle sono state i vostri dei. Dirà così il Signore, perché essi ricorreranno, ma senz’animo vero di convertirsi. Dice S. Girolamo tener egli quasi per certo ed averlo appreso coll’esperienza che non farà mai buon fine, chi ha fatta mala vita sino alla fine: «Hoc teneo, hoc multiplici experientia didici, quod ei non bonus est finis, cui mala semper vita fuit» (In epist. Eusebii ad Dam.).

Affetti e preghiere

Caro mio Salvatore, aiutatemi, non mi abbandonate, io vedo l’anima mia tutta impiagata da’ peccati; le passioni mi fanno violenza, i mali abitimi opprimono; mi butto a’ piedi vostri; abbiate pietà di me e liberatemi da tanti mali.«In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».Non permettete che si perda un’anima, che confida in Voi. «Ne tradas bestiis animam confitentem tibi». Io mi pento d’avervi offeso, o bontà infinita; ho fatto male, lo confesso: voglio emendarmi ad ogni costo; ma se Voi non mi soccorrete colla vostra grazia, io son perduto. Ricevete, o Gesù mio, questo ribelle, che vi ha tanto oltraggiato. Pensate che vi ho costato il sangue e la vita. Per li meriti dunque della vostra passione e morte ricevetemi tra le vostre braccia, e datemi la santa perseveranza. Io era già perduto, Voi mi avete chiamato; ecco io non voglio più resistere, a Voi mi consagro; legatemi al vostro amore, e non permettete ch’io vi perda più, con perdere di nuovo la vostra grazia; Gesù mio, non lo permettete.

Regina Mia Maria, non lo permettete; impetratemi prima la morte e mille morti ch’io abbiada perdere di nuovo la grazia del vostro Figlio.

PUNTO III

Gran cosa! Dio non fa altro che minacciare una mala morte a’ peccatori: «Tunc invocabunt me, et non exaudiam» (Prov. 1. 18). «Nunquid Deus exaudiet clamorem eius, cum venerit super eum angustia» (Iob. 27. 9). «In interitu vestro ridebo, et subsannabo» (Prov. 1. 26). («Ridere Dei est nolle misereri», S. Gregor.). «Mea est ultio, et ego retribuam eis in tempore, ut labatur pes eorum» (Deuter. 32. 35). Ed in tanti altri luoghi minaccia lo stesso; ed i peccatori vivono in pace, sicuri come Dio avesse certamente promesso loro in morte il perdono e il paradiso. È vero che in qualunque ora si converte il peccatore, Dio ha promesso di perdonarlo; ma non ha detto che il peccatore in morte si convertirà; anzi più volte si è protestato che chi vive in peccato, in peccato morirà: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). «Moriemini in peccatis vestris» (ibid. 24). Ha detto che chi lo cercherà in morte, non lo troverà: «Quaeretis me, et non invenietis (Io. 7. 34). Dunque bisogna cercare Dio, quando si può trovare: «Quaerite Dominum, dum inveniri potest» (Is. 55. 6). Sì, perché vi sarà un tempo che non potrà piùtrovarsi. Poveri peccatori! poveri ciechi, che si riducono a convertirsi all’ora della morte, in cui non sarà più tempo di convertirsi! Dice l’Oleastro: «Impii nusquam didicerunt benefacere, nisi cum non est tempus benefaciendi». Dio vuol salvi tutti, ma castiga gli ostinati.

Se mai alcun miserabile ritrovandosi in peccato, fosse colto dalla goccia, e stesse destituto di sensi, qual compassione farebbe a tutti il vederlo morire senza sagramentie senza segno di penitenza? qual contento poi avrebbe ognuno, se costui ritornasse in sé e cercasse l’assoluzione, e facesse atti di pentimento? Ma non è pazzo poi chi avendo tempo di far ciò, siegue a stare in peccato? o pure torna a peccare e si mette in pericolo che lo colga la morte, nel tempo della quale forse lo farà, e forse no? Spaventa il veder morire alcuno all’improvviso, e poi tanti volontariamente si mettono al pericolo di morire così, e morire in peccato!

«Pondus et statera iudicia Domini sunt» (Prov. 16. 21). Noi non teniamo conto delle grazie, che ci fa il Signore; ma ben ne tiene conto il Signore e le misura; e quando le vede disprezzate sino a certi termini, lascia il peccatore nel suo peccato, e così lo fa morire. Misero chi si riduce a far penitenza in morte. «Poenitentia, quae ab infirmo petitur, infirma est», dice S. Agostino (Serm. 57. de Temp. ). S. Geronimo dice che di centomila peccatori che si riducono sino alla morte a stare in peccato, appena uno in morte si salverà: «Vix de centum millibus, quorum mala vita fuit, meretur in morte a Deo indulgentiam unus» (S. Hier. in Epist. Euseb. de morte eiusd.). Dice S. Vincenzo Ferrerio (Serm. I. de Nativ. Virg.) che sarebbe più miracolo che uno di questi tali si salvasse, che far risorgere un morto. «Maius miraculum est, quod male viventes faciant bonum finem, quam suscitare mortuos». Che dolore, che pentimento vuol concepirsi in morte da chi sino ad allora ha amato il peccato?

Narra il Bellarminoch’essendo egli andato ad assistere ad un certo moribondo ed avendolo esortato a fare un atto di contrizione, quegli rispose che non sapea ciò che si fosse contrizione. Bellarmino procurò di spiegarcelo, ma l’infermo disse: «Padre, io non v’intendo, io non son capace di queste cose». E così se ne morì. «Signa damnationis suae satis aperte relinquens», come il Bellarmino lasciò scritto. Giusto castigo, dice S. Agostino, sarà del peccatore, che si dimentichi di sé in morte, chi in vita si è scordato di Dio: «Aequissime percutitur peccator, ut moriens obliviscatur sui qui vivens oblitus est Dei «(Serm. 10. de Sanct.).

«Nolite errare (intanto ci avverte l’Apostolo), Deus non irridetur: quae enim seminaverit homo, haec et metet; qui seminat in carne sua, de carne et metet corruptionem» (Galat. 6.7) Sarebbe un burlare Dio vivere disprezzando le sue leggi, e poi raccoglierne premio e gloria eterna; ma «Deus non irridetur». Quel che si semina in questa vita, si raccoglie nell’altra. A chi semina piaceri vietati di carne, altro non tocca che corruzione, miseria e morte eterna.

Cristiano mio, quel che si dice per gli altri, si dice anche per voi. Ditemi se vi trovaste già in punto di morte, disperato da’ medici, destituto di sentimenti e ridotto già in agonia, quanto preghereste Dio che vi concedesse un altro mese, un’altra settimana di tempo allora, per aggiustare i conti della vostra coscienza? E Dio già vi dà questo tempo. Ringraziatelo e presto rimediate al mal fatto, e prendete tutti i mezzi per ritrovarvi in istato di grazia, quando verrà la morte, perché allora non sarà più tempo di rimediare.

Affetti e preghiere

Ah mio Dio, e chi avrebbe avuta tanta pazienza con me, quanta ne avete avuta Voi? Se la vostra bontà non fosse infinita, io diffiderei del perdono. Ma tratto con un Dio, ch’è morto per perdonarmi e per salvarmi. Voi mi comandate ch’io speri, ed io voglio sperare. Se i peccati miei mi spaventano e mi condannano, mi danno animo i vostri meriti e le vostre promesse. Voi avete promessa la vita della vostra grazia a chi ritorna a Voi: «Revertimini, et vivite (Ezech. 18. 32)». Avete promesso di abbracciare chi a Voi si volta: «Convertimini ad me, et convertar ad vos» (Zach.1. 3). Avete detto che non sapete disprezzare chi s’umilia e si pente: «Cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies» (Ps. 50).

Eccomi, Signore, io a Voi ritorno, a Voi mi volgo, mi confesso degno di mille inferni e mi pento d’avervi offeso: io vi prometto fermamente di non volervi più offendere e di volervi sempre amare. Deh non permettete che ioviva più ingrato a tanta bontà.

Eterno Padre, per li meriti dell’ubbidienza di Gesu-Cristo, che morì per ubbidirvi, fate ch’io ubbidisca a’ vostri voleri sino alla morte. V’amo, o sommo bene, e per l’amore che vi porto, voglio ubbidirvi in tutto. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore e niente più Vi domando.

 

 “MORTE DEL GIUSTO”

PUNTO I

La morte mirata secondo il senso spaventa, e si fa temere; ma secondo la fede consola, e si fa desiderare. Ella comparisce terribile a’ peccatori, ma si dimostra amabile e preziosa a’ Santi: «Pretiosa, dice S. Bernardo, tanquam finis laborum, victoriae consummatio, vitae ianua» (Trans. Malach.). «Finis laborum», sì, la morte è termine delle fatiche e de’ travagli. «Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis» (Iob. 14. 1). Ecco qual’è la nostra vita, è breve ed è tutta piena di miserie, d’infermità, di timori e di passioni. I mondani che desiderano lunga vita, che altro cercano (dice Seneca) che un più lungo tormento? «Tanquam vita petitur supplicii mora» (Ep. 101).

Che cosa è il seguitare a vivere, se non il seguitare a patire? dice S. Agostino:«Quid est diu vivere, nisi diu torqueri?» (Serm. 17. de Verbo Dom.). Sì, perché (secondo ci avverte S. Ambrogio) la vita presente non ci è data per riposare, ma per faticare e colle fatiche meritarci la vita eterna: «Haec vita homini non ad quietem data est, sed ad laborem» (Ser. 43). Onde ben dice Tertulliano che quando Dio ad alcuno gli abbrevia la vita, gli abbrevia il tormento: «Longum Deus adimit tormentum, cum vitam concedit brevem». Quindi è che sebbene la morte è data all’uomo in pena del peccato, non però son tante le miserie di questa vita, che la morte (come dice S. Ambrogio) par che ci sia data per sollievo, non per castigo: «Ut mors remedium videatur esse, non poena». Dio chiama beati quei che muoiono nella sua grazia, perché finiscono le fatiche e vanno al riposo. «Beati mortui qui in Domino moriuntur… Amodo iam dicit Spiritus, ut requiescant a laboribus suis» (Apoc. 14. 13).

I tormenti che in morte affliggono i peccatori, non affliggono i Santi. «Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum mortis» (Sap. 3. 1). I Santi, questi non già si accorano con quel «Proficiscere», che tanto spaventa i mondani. I Santi non si affliggono in dover lasciare i beni di questa terra, poiché ne han tenuto staccato il cuore. «Deus cordis mei» (sempre essi così sono andati dicendo), «et pars mea, Deus, in aeternum». Beati voi, scrisse l’Apostolo a’ suoi discepoli, ch’erano stati per Gesu-Cristo spogliati de’ loro beni: «Rapinam bonorum vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos meliorem et manentem substantiam» (Hebr. cap. 10). Non si affliggono in lasciare gli onori, poiché più presto gli hanno abbominati e tenuti (quali sono) per fumo e vanità; solo hanno stimato l’onore di amare e d’essere amati da Dio. Non si affliggono in lasciare i parenti, perché costoro solo in Dio l’hanno amati; morendo gli lasciano raccomandati a quel Padre Celeste, che l’ama più di loro; e sperando di salvarsi, pensano che meglio dal paradiso, che da questa terra potranno aiutargli. In somma quel che sempre han detto in vita: «Deus meus, et omnia», con maggior consolazione e tenerezza lo van replicando in morte.

Chi muore poiamando Dio, non s’inquieta già per li dolori che porta seco la morte; ma più presto si compiace di loro, pensando che già finisce la vita, e non gli resta più tempo di patire per Dio e di offrirgli altri segni del suo amore, onde con affetto e pace gli offerisce quelle ultime reliquie della sua vita; e si consola in unire il sacrificio della sua morte col sacrificio, che Gesu-Cristo offrì per lui un giorno sulla croce all’Eterno suo Padre. E così felicemente muore dicendo: «In pace in idipsum dormiam, et requiescam». Oh che pace è il morire abbandonato, e riposando nelle braccia di Gesu-Cristo, che ci ha amati sino alla morte, ed ha voluto far egli una morte amara, per ottenere a noi una morte dolce e consolata!

Affetti e preghiere

O amato mio Gesù, che per ottenere a me una morte soave, avete voluto fare una morte sì acerba sul Calvario, quando sarà ch’io vi vedrò? La prima volta che mi toccherà a vedervi, io vi vedrò da mio giudice in quello stesso luogo dove spirerò. Che vi dirò io allora? Che mi direte Voi? Io non voglio aspettare a pensarvi allora, voglio ora premeditarlo. Io vi dirò così: Caro mio Redentore, Voi dunque siete quegli,che siete morto per me? Io un tempo v’ho offeso e vi sono stato ingrato, e non meritava perdono; ma poi aiutato dalla vostra grazia mi sono ravveduto, e nel resto della vita mia ho pianti i miei peccati, e Voi mi avete perdonato; perdonatemi di nuovo, ora che sto a’ piedi vostri, e datemi Voi stesso un’assoluzione generale delle mie colpe. Io non meritava d’amarvi più, per aver disprezzato il vostro amore; ma Voi per vostra misericordia vi avete tirato il mio cuore, che se non v’ha amato secondo il vostro merito, almeno v’ha amato sopra ogni cosa, lasciando tutto per dar gusto a Voi. Ora che mi dite? Vedo che ‘l paradiso e ‘l possedervi nel vostro regno è un bene troppo grande per me; ma io non mi fido di viver lontano da Voi, maggiormente ora che m’avete fatta conoscere la vostra amabile e bella faccia. Vi cerco dunque il paradiso, non per più godere, ma per meglio amarvi. Mandatemi al purgatorio per quanto vi piace. No, neppure iovoglio venire in quella patria di purità e vedermi tra quell’anime pure così sordido di macchie, come sono al presente. Mandatemi a purgarmi, ma non mi discacciate per sempre dalla vostra faccia; basta che un giorno poi, quando vi piace, mi chiamate al paradiso a cantare in eterno le vostre misericordie. Per ora via su, amato mio giudice, alzate la mano e beneditemi; e ditemi ch’io son vostro, e che Voi siete e sarete sempre mio. Io sempre vi amerò, Voi sempre mi amerete. Ecco ora vado lontano da Voi, vado al fuoco; ma vado contento, perché vo ad amarvi, mio Redentore, mio Dio, mio tutto. Vo contento sì, ma sappiate che in questo tempo, in cui starò lungi da Voi, sappiate che questa sarà la maggiore delle mie pene, lo star da Voi lontano. Vo, Signore, a contare i momenti della vostra chiamata. Abbiate pietà di un’anima, che v’ama con tutta se stessa, e sospira di vedervi per meglio amarvi.

Così spero, Gesù mio, di dirvi allora. Pertanto vi prego di darmi la grazia di vivere in modo, che possa dirvi allora quel che ora ho pensato. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore.

E soccorretemi Voi, o Madre di Dio, Maria, pregate Gesù per me.

PUNTO II

«Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit» (Apoc. 21. 4). Asciugherà dunque in morte il Signore dagli occhi de’ suoi servi le lagrime, che hanno sparse in questa vita, vivendo in pene, in timori, pericoli e combattimenti coll’inferno. Ciò sarà quel che più consolerà un’anima, che ha amato Dio, in udir la nuova della morte, il pensare che presto sarà liberata da tanti pericoli, che vi sono in questa vita di offender Dio, da tante angustie di coscienza e da tante tentazioni del demonio. La vita presente è una continua guerra coll’inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l’anima e Dio. Dice S. Ambrogio che in questa terra «inter laqueos ambulamus»: camminiamo sempre tra’ lacci de’ nemici, che c’insidiano la vita della grazia. Questo pericolo era quello, che facea dire a S. Pietro d’Alcantara, mentre stava morendo: Fratello, scostati (era quello un Religioso, che in aiutarlo lo toccava); scostati, perché ancora sto in vita, e sono in rischio di dannarmi. Questo pericolo ancora facea consolare S. Teresa,ogni volta che sentiva sonar l’orologio, rallegrandosi che fosse passata un’altr’ora di combattimento; poiché diceva: In ogni momento di vita io posso peccare, e perdere Dio. Ond’è che i Santi alla nuova della morte tutti si consolano, pensando che presto finiscono le battaglie e i pericoli, e stan vicini ad assicurarsi della felice sorte di non poter più perdere Dio.

Si narra nelle vite de’ Padri che un Padre vecchio, morendo nella Scizia, mentre gli altri piangevano, esso rideva; domandato, perché ridesse? rispose: E voi perché piangete, vedendo ch’io vado al riposo? «Ex labore ad requiem vado, et vos ploratis?» Parimente S. Caterina da Siena morendo disse: Consolatevi meco, che lascio questa terra di pene, e vado al luogo della pace. Se taluno abitasse (dice S. Cipriano) in una casa, dove le mura son cadenti, e ‘l pavimento e i tetti tremano, sicché tutto minaccia ruina, quanto dovrebbe costui desiderare di poterne uscire? In questa vita tutto minaccia rovina all’anima, il mondo, l’inferno, le passioni, i sensi ribelli: tutti ci tirano al peccato ed alla morte eterna. «Quis me liberabit (esclamava l’Apostolo) de corpore mortis huius?» (Rom. 7. 24). Oh che allegrezza sentirà l’anima nel sentirsi dire: «Veni de Libano, sponsa mea, veni de cubilibus leonum» (Cant. 4. 8). Vieni, sposa, esci dal luogo de’ pianti, e da’ covili de’ leoni, che cercano di divorarti, e farti perdere la divina grazia. Onde S. Paolo, desiderando la morte, dicea che Gesu-Cristo era l’unica sua vita; e perciò stimava egli il suo morire il maggior guadagno che potesse fare, in acquistar colla morte quella vita, che non ha più fine: «Mihi vivere Christus est, et mori lucrum» (Philipp. 1. 21).

È un gran favore che Dio fa ad un’anima, quand’ella sta in grazia, il torla dalla terra, dove può mutarsi e perdere la di lui amicizia: «Raptus est, ne malitia mutaret intellectum eius» (Sap. 4. 11). Felice in questa vita è chi vive unito con Dio; ma siccome il navigante non può chiamarsi sicuro, se non quando è già arrivato al porto ed è uscito dalla tempesta: così non può chiamarsi appieno felice un’anima, se non quando esce di vita in grazia di Dio. «Lauda navigantis felicitatem, sed cum pervenit ad portum», dice S. Ambrogio. Or se ha allegrezza il navigante, allorché dopo tanti pericoli sta prossimo ad afferrare il porto; quando più si rallegrerà colui, che sta vicino ad assicurarsi della salute eterna?

In oltre, in questa vita non si può vivere senza colpe almeno leggiere. «Septies enim cadet iustus» (Prov. 24. 16). Chi esce di vita finisce di dar disgusto a Dio. «Quid est mors (dicea S. Ambrogio ) nisi sepultura vitiorum?» (De Bono mort. cap. 4). Ciò ancora è quel che fa molto desiderar la morte agli amanti di Dio. Con ciò tutto si consolava morendo il Ven. P. Vincenzo Caraffa, mentre diceva: Terminando la vita, io termino d’offendere Dio. E ‘l nominato S. Ambrogiodicea: «Quid vitam istam desideramus, in qua quanto diutius quis fuerit, tanto maiore oneratur sarcina peccatorum?» Chi muore in grazia di Dio, si mette in istato di non potere, né saper più offenderlo. «Mortuus nescit peccare», dicea lo stesso Santo. Perciò il Signore loda più i morti, che qualunque uomo, che vive, ancorché santo: «Laudavi magis mortuos, quam viventes» (Eccl. 4. 2). Un certo uomoda bene ordinò che nella sua morte chi gliene avesse portato l’avviso, gli avesse detto: Consolati, perché giunto è il tempo che non offenderai più Dio.

Affetti e preghiere

«In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis».Ah mio dolce Redentore, che sarebbe di me, se mi aveste fatto morire, quando io stava lontano da Voi? Starei già nell’inferno, dove non vi potrei più amare. Vi ringrazio di non avermi abbandonato e di avermi fatte tante grazie, per guadagnarvi il mio cuore. Mi pento di avervi offeso. V’amo sopra ogni cosa. Deh vi prego, fatemi sempre più conoscere il male che ho fatto in disprezzarvi, e l’amore che merita la vostra bontà infinita. V’amo, e desidero presto di morire (se a Voi così piace) per liberarmi dal pericolo di tornare a perdere la vostra grazia, e per assicurarmi di amarvi in eterno. Deh per questi anni che mi restano di vita, amato mio Gesù, datemi forza di fare qualche cosa per Voi, prima che venga la morte. Datemi fortezza contro le tentazioni e le passioni, specialmente contro la passione che per lo passato più mi ha tirato a disgustarvi. Datemi pazienza nelle infermità e nell’ingiurie che riceverò dagli uomini. Io ora per amor vostro perdono ognuno che mi ha fatto qualche disprezzo, e vi prego a fargli quelle grazie che desidera. Datemi forza di esser più diligente ad evitare anche le colpe veniali, circa le quali conosco d’esser trascurato. Mio Salvatore, aiutatemi, io spero tutto ne’ meriti vostri; e tutto confido nella vostra intercessione, o Madre e speranza mia Maria.

PUNTO III

La morte non solo è fine de’ travagli, ma ancora è porta della vita. «Finis laborum, vitae ianua», come dice S. Bernardo.Necessariamente dee passare per questa porta, chi vuol entrare a veder Dio. «Ecce porta Domini, iusti intrabunt in eam» (Ps. 117. 20). S. Girolamopregava la morte, e le diceva: «Aperi mihi, soror mea». Morte, sorella mia, se tu non mi apri la porta, io non posso andare a godere il mio Signore. S. Carlo Borromeo, vedendo un quadro in sua casa, dove stava dipinto uno scheletro di morto colla falce in mano; chiamò il pittore e gli ordinò che cancellasse quella falce e vi dipingesse una chiave d’oro, volendo con ciò sempre più accendersi al desiderio della morte, perché la morte è quella che ci ha d’aprireil paradiso a vedere Dio.

Dice S. Gio. Grisostomo se ‘l re avesse apparecchiata ad alcuno l’abitazione nella sua reggia, ma al presente lo tenesse ad abitare in una mandra, quanto dovrebbe colui desiderar di uscir dalla mandra, per passare alla reggia? In questa vita l’anima stando nel corpo, sta come in un carcere, per di là uscire ed andare alla reggia del cielo; perciò pregava Davide: «Educ de custodia animam meam» (Ps. 141. 8). E ‘l santo vecchio Simeone, quando ebbe tra le braccia Gesù Bambino, non seppe altra grazia cercargli che la morte, per esser liberato dal carcere della presente vita: «Nunc dimittis servum tuum, Domine». Dice S. Ambrogio: «Quasi necessitate teneretur, dimitti petit». La stessa grazia desiderò l’Apostolo, quando disse: «Cupio dissolvi, et esse cum Christo» (Philip. 1).

Quale allegrezza ebbe il coppiere di Faraone, quando intese da Giuseppe che tra breve doveva uscire dalla prigione e ritornare al suo posto! Ed un’anima che ama Dio, non si rallegrerà in sentire che tra breve deve essere scarcerata da questa terra, ed andare a godere Dio? «Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino» (2. Cor. 5. 6). Mentre siamo uniti col corpo, siamo lontani dalla vista di Dio, come in terra aliena, e fuori della nostra patria; e perciò dice S. Brunoneche la nostra morte non dee chiamarsi morte ma vita: «Mors dicenda non est, sed vitae principium». Quindi la morte de’ Santi si nomina il lor natale; sì perché nella loro morte nascono a quella vita beata, che non avrà più fine. «Non est iustis mors, sed translatio», S. Attanagio.A’ giusti la morte non è altro, che un passaggio alla vita eterna. O morte amabile, dicea S. Agostino,e chi sarà colui che non ti desidera, giacché tu sei il termine de’ travagli, il fine della fatica e ‘l principio del riposo eterno? «O mors desiderabilis, malorum finis, laboris clausula, quietis principium!» Pertanto con ansia pregava il Santo:«Eia moriar, Domine, ut Te videam».

Ben deve temere la morte, dice S. Cipriano,il peccatore, che dalla sua morte temporale ha da passare alla morte eterna: «Mori timeat, qui ad secundam mortem de hac morte transibit». Ma non già chi stando in grazia di Dio, dalla morte spera di passare alla vita. Nella Vita di S. Giovanni Limosinario si narra che un cert’uomo ricco raccomandò al Santo l’unico figlio che aveva, e gli diè molte limosine, affinché gli ottenesse da Dio lunga vita; ma il figlio poco tempo dopo se ne morì. Lagnandosi poi il padre della morte del figlio, Dio gli mandò un Angelo che gli disse: Tu hai cercata lunga vita al tuo figlio, sappi che questa eternamente egli già gode in cielo. Questa è la grazia, che ci ottenne Gesu-Cristo, come ci fu promesso per Osea: «Ero mors tua, o mors» (Os. 13. 41). Gesù morendo per noi fe’ che la nostra morte diventasse vita. S. Pionio Martire, mentr’era portato al patibolo, fu dimandato da coloro che lo conducevano, come potesse andare così allegroalla morte? Rispose il Santo: «Erratis, non ad mortem, sed ad vitam contendo» (Ap. Euseb. l. 4. c. 14). Così ancora fu rincorato il giovinetto S. Sinforiano dalla sua madre, mentre stava prossimo al martirio: «Nate, tibi vita non eripitur, sed mutatur in melius».

Affetti e preghiere

Oh Dio dell’anima mia, io vi ho disonorato per lo passato, voltandovi le spalle; ma vi ha onorato il vostro Figlio, sagrificandovi la vita sulla croce; per l’onore dunque che vi ha dato il vostro diletto Figlio, perdonatemi il disonore che v’ho fatt’io. Mi pento, o sommo bene, d’avervi offeso, e vi prometto da oggi avanti di non amare altro che Voi. La mia salvezza da Voi la spero. Quanto al presente ho di bene, tutto è grazia vostra, tutto da Voi lo riconosco. «Gratia Dei sum id quod sum». Se per lo passato v’ho disonorato, spero d’onorarvi in eterno con benedire la vostra misericordia. Io mi sento un gran desiderio di amarvi; questo Voi me lo date, ve ne ringrazio, amor mio. Seguite, seguite ad aiutarmi, come avete cominciato, ch’io spero da ogg’innanzi d’esser vostro e tutto vostro. Rinunzio a tutt’i piaceri del mondo. E che maggior piacere posso aver io, che dar gusto a Voi, mio Signore così amabile, e che mi avete tanto amato? Amore solamente vi cerco, o mio Dio, amore, amore; e spero di cercarvi sempre amore, amore; finchémorendo nel vostro amore, io giunga al regno dell’amore, dove senza più domandarlo sarò pieno d’amore, senza mai cessare un momento di amarvi ivi in eterno, e con tutte le mie forze.

Maria Madre mia, Voi che tanto amate il vostro Dio, e tanto desiderate di vederlo amato, fate che iol’ami assai in questa vita, acciocché io l’ami assai nell’altra per sempre.

(SANT’ ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI da “APPARECCHIO ALLA MORTE”)

Gesù rivela a Santa Camilla Battista da Varano: “I DOLORI MENTALI NELLA SUA PASSIONE” Secondo DOLORE: “Tra le pene dell’inferno e quelle del purgatorio non c’è alcuna diversità o differenza, salvo che quelle dell’inferno mai, mai, mai avranno fine, mentre quelle del purgatorio sì”

SECONDO DOLORE

CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE

PER TUTTI I MEMBRI ELETTI

DAI DOLORI MENTALI DI GESÙ NELLA SUA PASSIONE
RIVELATI A SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO

 

(Sin dall’inizio di questo capitolo è Gesù che parla, dicendo che la sofferenza per lo strappo di un membro dal corpo fu provata dal suo cuore anche quando peccava un credente che poi si sarebbe pentito, salvandosi. Tale sofferenza è paragonabile ad un membro malato che provoca dolore a tutta la parte sana del corpo. Vi troviamo anche pensieri riguardanti le pene sofferte da chi si trova nel purgatorio. Alcune espressioni, attribuite alla suora che aveva raccontato le confidenze divine, confermano la gravità del peccato, anche veniale.)

Gesù: “L’altro dolore che mi trafisse il cuore fu per tutti gli eletti.

Sappi infatti che tutto ciò che mi afflisse e tormentò per i membri dannati, allo stesso modo mi afflisse e tormentò per la separazione e disgiunzione da me di tutti i membri eletti che avrebbero peccato mortalmente.

Quanto erano grandi l’amore che eternamente avevo per loro e la vita alla quale essi si univano operando il bene e da cui si separavano peccando mortalmente, altrettanto era grande il dolore che sentii per loro, vere mie membra.

Il dolore che provai per i dannati differiva da quello che sentii per gli eletti solo in questo: per i dannati, essendo membra morte, non provai più la loro pena dato che erano separati da me con la morte; per gli eletti invece sentii e provai ogni loro pena e amarezza in vita e dopo la morte, cioè nella vita le sofferenze e i tormenti di tutti i martiri, le penitenze di tutti i penitenti, le tentazioni di tutti i tentati, le infermità di tutti i malati e poi persecuzioni, calunnie, esili. In breve, provai e sentii così chiaramente e vivamente ogni sofferenza piccola o grande di tutti gli eletti ancora in vita, come tu vivamente proveresti e sentiresti se ti percuotessero l’occhio, la mano, il piede o qualche altro membro del tuo corpo.

Pensa allora quanti furono i martiri e quante specie di torture sostenne ciascuno di essi e poi quante furono le sofferenze di tutti gli altri mem­bri eletti e la varietà di quelle pene.

Considera questo: se tu avessi mille occhi, mille mani, mille piedi e mille altre membra e in ognu­no di essi provassi mille diverse pene che contem­poraneamente provocano un unico lancinante dolore, non ti sembrerebbe raffinato supplizio?

Ma le mie membra, figliola mia, non furono migliaia né milioni, ma infinite. E nemmeno la varietà di quelle pene furono migliaia, ma innume­revoli, perché tali furono le pene dei santi, martiri, vergini e confessori e di tutti gli altri eletti.

In conclusione, come non ti è possibile com­prendere quali e quante siano le forme di beatitu­dine, di gloria e di premi preparati in paradiso per i giusti o eletti, così non puoi comprendere o sape­re quante siano state le pene interiori che io sop­portai per i membri eletti. Per divina giustizia biso­gna che a queste sofferenze corrispondano le gioie, le glorie e i premi; ma io provai e sentii nella loro diversità e quantità le pene che gli eletti, avrebbero sofferto dopo la morte in purgatorio a causa dei loro peccati, chi più e chi meno secondo quanto avevano meritato. Questo perché non erano membra putride e staccate come i dannati, ma erano membra vive che vivevano in me Spirito di vita, prevenute con la mia grazia e benedizione.

Allora, tutte quelle pene che tu mi chiedevi se le avessi sentite per i membri dannati, non le sentii o provai per la ragione che ti ho detto; ma riguardo agli eletti sì, perché sentii e provai tutte le pene del purgatorio che loro avrebbero dovuto sostenere.

Ti faccio questo esempio: se la tua mano per qualche motivo si slogasse o rompesse e, dopo che un esperto l’abbia rimessa a posto, qualcuno la mettesse sul fuoco o la picchiasse oppure la portasse in bocca al cane, proveresti un dolore fortissimo perché è membro vivo che deve ritornare perfettamente unito al corpo; così io ho provato e sentito dentro di me tutte le pene del purgatorio che i miei membri eletti dovevano patire perché erano membra vive che attraverso quelle sofferenze dovevano riunirsi perfettamente a me, loro vero Capo.

Tra le pene dell’inferno e quelle del purgatorio non c’è alcuna diversità o differenza, salvo che quelle dell’inferno mai, mai, mai avranno fine, mentre quelle del purgatorio sì; e le anime che si trovano qui, volentieri e con gioia si purificano e, benché nel dolore, soffrono in pace rendendo grazie a me, somma giustizia.

Questo è ciò che riguarda il dolore interiore che ho sofferto per gli eletti”.

Volesse dunque Iddio che io mi potessi ricorda­re delle devote parole che lei a questo punto con un pianto dirotto riferiva, dicendo che, essendo stata resa capace di comprendere – per quanto era pia­ciuto al Signore – la gravità del peccato, conosce­va ora quanta pena e martirio aveva dato al suo amatissimo Gesù separandosi da Lui, sommo Bene, per unirsi a cose tanto vili di questo mondo che offrono occasioni di peccare.

Mi ricordo anche che lei, parlando tra molte lacrime, esclamava:

“Oh, Dio mio, molte volte ti ho procurato grandi ed infinite pene, o dannata o salva che io sia. O Signore, non ho mai saputo che il peccato ti offen­desse tanto, credo allora che mai avrei peccato neppure leggermente. Tuttavia, Dio mio, non tener conto di ciò che dico, perché nonostante questo farei anche peggio se la tua pietosa mano non mi sostenesse.

Però tu, dolce e benigno mio amante, non mi sembri più un Dio ma piuttosto un inferno perché queste tue pene che mi fai conoscere sono tante. E veramente mi sembri più che infernale”.

Così molte volte, per santa semplicità e compassione, lo chiamava inferno.

(SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO)

Gesù rivela a Santa Camilla Battista da Varano: “I DOLORI MENTALI NELLA SUA PASSIONE” -Primo DOLORE- : “Sappi, figliola, che furono innumerevoli ed infi­nite, perché innumerevoli ed infinite sono le anime, mie membra, che si separavano da me per il peccato mortale” “La pena crudele che mi straziava era vedere che le suddette infinite mie membra, cioè tutte le anime dannate, mai, mai e mai più si sarebbero riunite a me, loro vero Capo”

I DOLORI MENTALI DI GESÙ NELLA SUA PASSIONE

DELLA SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO

(Presentazione dello scritto)

Quello che qui segue sono quei dolori interiori di Cristo benedetto, che come ho detto mi ha comandato di scrivere.

Ma notate: quando io tornai a Camerino [nel 1484], qualche volta dicevo qualcosa di questi dolori interiori con le mie suore, per loro e mia consolazione. E, perché esse non pensassero che fossero farina del mio sacco, dicevo che una suora di quelle del monastero di Urbino aveva confidato a me queste cose.

Suor Pacifica mi pregò molte volte di scrivere queste cose. Io rispondevo che non le avrei mai scritte finché non fosse morta quella suora.

Quando mi fu comandato [da Gesù] di scriver­le, era già più di due anni che lei non mi aveva più parlato né accennato all’argomento. Però dovendo io scriverli, li indirizzai a lei perché allora era mia reverenda Abbadessa e io sua indegna vicaria, e finsi – come avevo detto – che una suora di quelle di Urbino mi avesse confidato tali cose devote, perciò qualche volta scrivo: “Quella anima santa, quella anima beata mi disse così”, e questo per dare fede all’oste, affinché i lettori non pensassero che fossi io [l’autrice].

 

GESÙ FIGLIO DI MARIA

Queste sono alcune devotissime cose riguardanti i dolori interiori di Gesù Cristo benedetto, che Egli per sua pietà e grazia si degnò comunicare ad una devota religiosa del nostro Ordine di santa Chiara, la quale, volendolo Dio, li confidò a me. Ora io le riferisco qui di seguito per utilità delle anime innamorate della passione di Cristo.

 

PRIMO DOLORE

CHE CRISTO BENEDETTO PORTO’ NEL SUO CUORE PER TUTTI I DANNATI

Dopo una breve introduzione, viene presentato il primo dolore del Cuore di Cristo causato da coloro che prima di morire non si pentirono dei propri peccati. In queste pagine si trova eco della dottrina del “corpo mistico” di san Paolo sulla Chiesa che, come il corpo fisico, è formata da tante membra, i cristiani, e dal Capo che è Gesù stesso. Da qui la sofferenza che questo corpo mistico e in particolare il Capo prova se gli ven­gono strappate le membra. Ci deve far riflettere quanto Camilla Battista afferma circa la pena del Cuore di Cristo per ogni amputazione causata dal peccato mortale, impegnandoci ad evitarlo.

 

Vi fu un’anima molto desiderosa di cibarsi e saziarsi dei cibi, amarissimi come il veleno, della passione dell’amoroso e dolcissimo Gesù, la quale, dopo molti anni e per meravigliosa sua grazia, fu introdotta nei dolori mentali del mare amarissimo del suo Cuore appassionato.

Lei mi disse che per molto tempo aveva pregato Dio che la facesse annegare nel mare dei suoi dolori interiori e che il dolcissimo Gesù si degnò per sua pietà e grazia introdurla in quel mare amplissimo non una sola volta, ma molte volte e in modo così straordinario tanto che era costretta a dire: “Basta, Signore mio, perché non posso sostenere tanta pena!”.

E questo – credo – perché so che Egli è generoso e benigno verso chi domanda queste cose con umiltà e perseveranza.

Quell’anima benedetta mi disse che, quando si trovava in preghiera, diceva a Dio con grande fervore: “O Signore, io ti prego di introdurmi in quel sacratissimo talamo dei tuoi dolori mentali. Annegami in quel mare amarissimo perché lì io desidero morire se piace a Te, dolce vita e amore mio.

Dimmi, o Gesù mia speranza: quanto fu grande il dolore di questo tuo angustiato cuore?”.

E Gesù benedetto le diceva: “Sai quanto fu grande il mio dolore? Quanto fu grande l’amore che portavo alla creatura”.

Quell’anima benedetta mi disse che già altre volte Dio l’aveva resa capace, per quanto a Lui era piaciuto, di accogliere l’amore che Egli portava alla creatura.

E sopra l’argomento dell’amore che Cristo portava alla creatura mi disse cose devote e tanto belle che, se le volessi scrivere, sarebbe una cosa lunga. Ma poiché ora intendo narrare solo i dolori menta­li di Cristo benedetto che quella suora mi comu­nicò, tacerò il resto.

Torniamo dunque all’argomento.

Riferiva che quando Dio le diceva: “Tanto gran­de fu il dolore quanto grande era l’amore che por­tavo alla creatura”, le sembrava di venir meno a causa dell’infinita grandezza dell’amore che le veniva partecipato. Solo all’udire quella parola, bisognava che appoggiasse la testa da qualche parte per il grande affanno che le attanagliava il cuore e per la debolezza che percepiva in tutte le sue membra. E dopo che era stata alquanto così, riprendeva un po’ di forze e diceva: “O Dio mio, avendomi detto quanto fu grande il dolore, dimmi quante furono le pene che hai por­tato nel tuo cuore”.

Ed Egli le rispondeva dolcemente:

“Sappi, figliola, che furono innumerevoli ed infi­nite, perché innumerevoli ed infinite sono le anime, mie membra, che si separavano da me per il peccato mortale. Ciascuna anima infatti si separa e disgiunge tante volte da me, suo Capo, per quante volte pecca mortalmente.

Questa fu una delle pene crudeli che io portai e sentii nel mio cuore: la lacerazione delle mie membra.

Pensa quanta sofferenza sente chi è martirizzato con la corda con cui vengono strappate le membra del suo corpo. Ora immagina che martirio fu il mio per tante membra da me separate quante saranno le anime dannate e ogni membro per tante volte quante peccava mortalmente. La disgiunzione di un membro spirituale rispetto a quella fisica è molto più dolorosa perché è più preziosa l’anima rispetto al corpo.

Quanto sia più preziosa l’anima del corpo non lo puoi comprendere tu e nessuna altra persona vivente, perché solo io conosco la nobiltà e l’utilità dell’anima e la miseria del corpo, perché solo io ho creato sia l’una che l’altro. Di conseguenza né tu né altri potete essere veramente capaci di comprendere le mie crudelissime e amare pene.

E adesso parlo solo di questo, cioè delle anime dannate.

Dato che nel modo di peccare si ha un caso più grave rispetto ad altro, così nel dismembramento da me provavo maggiore o minore pena da uno rispetto a un altro. Da ciò deriva la qualità e la quantità di pena.

Poiché vedevo che la loro perversa volontà sarebbe stata eterna, così la pena loro destinata è eterna; nell’inferno uno ha maggiore o minore pena rispetto all’altro per quanto più numerosi e maggiori peccati ha commesso l’uno rispetto all’altro.

Ma la pena crudele che mi straziava era vedere che le suddette infinite mie membra, cioè tutte le anime dannate, mai, mai e mai più si sarebbero riunite a me, loro vero Capo. Al di sopra di tutte le altre pene che hanno e che potranno avere eterna­mente quelle povere anime sventurate, è proprio questo “mai, mai” che in eterno le tormenta e tor­menterà.

Mi straziò tanto questa pena del “mai, mai”, che io avrei immediatamente scelto di patire non una volta sola ma infinite volte tutte le disgiunzio­ni che furono, sono e saranno, purché avessi potu­to vedere non tanto tutte, ma almeno un’anima sola riunirsi ai membri vivi o eletti che vivranno in eterno dello spirito di vita che procede da me, vera vita, che do vita ad ogni essere vivente.

Considera ora quanto mi sia cara un’anima se per riunirne a me una sola avrei voluto patire infi­nite volte tutte le pene e moltiplicate. Ma sappi anche che la pena di questo “mai, mai” tanto affligge e accora per mia divina giustizia quelle anime, che anche loro ugualmente preferirebbero mille e infinite pene pur di sperare qualche istante di riunirsi qualche volta a me, loro vero Capo.

Come fu diversa la qualità e la quantità della pena che dettero a me nel separarsi da me, così per mia giustizia la pena è corrispondente al tipo e alla quantità di ogni peccato. E dato che sopra ogni altra cosa mi afflisse quel “mai, mai”, così la mia giustizia esige che questo “mai, mai” addolori ed affligga loro più di ogni altra pena che hanno ed avranno in eterno.

Pensa dunque e rifletti quanta sofferenza per tutte le anime dannate io provai dentro di me e sentii nel mio cuore fino alla morte”.

Quell’anima benedetta mi diceva che a questo punto sorgeva nella sua anima un santo desiderio, che credeva fosse per divina ispirazione, di presentargli il seguente dubbio. Allora con gran timore e riverenza per non sembrare volesse indagare sulla Trinità e tuttavia con somma semplicità, purezza e confidenza diceva: “O dolce e addolorato Gesù mio, molte volte ho inteso dire che Tu hai portato e provato in Te, o appassionato Dio, le pene di tutti i dannati. Se ti piacesse, Signore mio, vorrei sapere se è vero che Tu hai sentito quella varietà di pene dell’inferno, quali freddo, caldo, fuoco, percosse e il dilaniare le tue membra da parte degli spiriti infernali. Dimmi, o mio Signore, sentisti tu questo, o mio Gesù?

Solo per riferire quanto sto scrivendo, mi pare che mi si liquefaccia il cuore ripensando alla tua benignità nel parlare tanto dolcemente e a lungo con chi veramente ti cerca e desidera”.

Allora Gesù benedetto rispondeva graziosa­mente e a lei pareva che tale domanda non gli fosse dispiaciuta, ma l’avesse gradita: “Io, figliola mia, non sentii questa diversità delle pene dei dannati nel modo che tu dici, perché erano membra morte e staccate da me, loro corpo e Capo.

Ti faccio questo esempio: se tu avessi una mano oppure un piede o qualsiasi altro membro, mentre viene tagliato o separato da te tu sentiresti grande e indicibile dolore e sofferenza; ma dopo che quel­la mano è stata tagliata, anche se fosse buttata nel fuoco, la straziassero o la dessero in pasto ai cani o ai lupi, tu non sentiresti né sofferenza né dolore, perché è ormai un membro putrido, morto e com­pletamente separato dal corpo. Ma sapendo che fu un tuo membro, soffriresti molto nel vederlo getta­to sul fuoco, straziato da qualcuno oppure divora­to da lupi e cani.

Proprio così avvenne per me riguardo alle innu­merevoli mie membra o anime dannate. Finché durò lo smembramento e quindi ci fu speranza di vita io sentii impensabili ed infinite pene e anche tutti gli affanni che esse patirono durante questa vita, perché fino alla loro morte vi era speranza di potersi riunire a me, se lo avessero voluto.

Ma dopo la morte non provai più alcuna pena perché erano ormai membra morte, putride, staccate da me, tagliate e del tutto escluse dal vivere in eterno in me, vera vita.

Considerando però che erano state mie vere e proprie membra, mi causava una pena impensabile e incomprensibile il vederli nel fuoco eterno, in bocca agli spiriti infernali e in preda ad altre innumerevoli sofferenze.

Questo dunque è il dolore interiore che provai per i dannati”.

 

(SANTA CAMILLA BATTISTA DA VARANO)

 

 

San Lorenzo Giustiniani, Elogio della Continenza “Senza la purezza di cuore e la continenza, è impossibile iniziare a vedere Dio nella vita terrena (con gli occhi interiori della fede) e andare in Paradiso per contemplarlo nell’eternità.”

San Lorenzo Giustiniani, Elogio della Continenza:

“Chi la possederà, avrà pace nella sua coscienza, luce nella sua mente, gioia nel suo volto e nella sua anima, sicurezza in punto di morte e parte nella beata eternità.”

 

“( … ) la virtù della continenza è così simile alle virtù degli Angeli, da rendere l’uomo in certo qual modo uguale a loro. Essa supera le debolezze della condizione umana e assimila gli uomini alla spiritualità degli Angeli.

( … ) Chi è continente è anche dimora amabile e splendida di Gesù Cristo. Infatti, chi potrà mirare una bellezza più radiosa di un cuore puro, amato dal Re Cielo, giudicato degno dal Giudice divino, un cuore donato al Signore consacrato a Dio? E’ questa virtù che conserva all’uomo il suo onore e la sua dignità. E onore dell’uomo è la libertà della sua volontà, per cui può scegliere di volere o di non volere quanto apprende per via d’intelletto.

Senza la continenza, nell’uomo, come nelle bestie, regna la schiavitù dell’istinto, che si contrappone alla libertà dello spirito: non appena si avverte il piacere, subito si scatena il desiderio e non c’è alcun modo di placarlo. E’ giusto quindi che chi segue la carne, tutto rivolto al suo ventre e alla sua libidine, sia considerato come un irragionevole animale da soma, come si legge nelle Scritture: “L’uomo nella prosperità non comprende, è come gli animali che periscono” (Sal 49,21).

( … ) Questa virtù ci dispone inoltre alla contemplazione di Dio. La continenza è un amore che ci svincola dalla passione per ogni bellezza inferiore e ci eleva solo all’amore della bellezza suprema. Volendo salire alle vette della contemplazione, non c’è nulla che si debba fuggire più dei piaceri dei sensi, che costituiscono la massima eccitazione all’intemperanza.

( … ) La continenza poi colpisce tremendamente satana. Sta scritto infatti: “Non seguire le passioni; poni un freno ai tuoi desideri. Se ti concedi la soddisfazione della passione, essa ti renderà oggetto di scherno ai tuoi nemici” (Sir 18,30).

Questi ultimi tentano ogni mezzo per strapparci alla continenza, e ci insidiano con desideri peccaminosi, spengono ogni buona ispirazione, ci derubano dei primi atti virtuosi e si affrettano a demolire sul nascere ogni sacra intenzione, ben sapendo di non poterla annientare se è già radicata nell’anima.

La continenza inoltre spegne il bruciore dei vizi della carne; e per raggiungerla più facilmente, chi ama la castità medita spesso sul disfacimento che attende il cadavere nel sepolcro. Nulla è più capace di domare gli assalti dei desideri carnali, come il pensiero assiduo, per virtù di continenza, dei disastri che la morte compie su quanto ci attrae oggi, nel fulgore della vita.

La continenza trionfa sempre gloriosa nelle sue battaglie. E fra tutte le battaglie dei cristiani, le più dure sono certamente quelle della castità. Sradicare dalla propria carne l’istinto della lussuria è un miracolo superiore all’esorcismo.

Questa virtù custodisce inoltre puro il nostro cuore, come sta scritto: “Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto” (1 Ts 4,3-4). Questo significa che dobbiamo conservare per Dio questo cuore così puro, che nessuna macchia o peccato carnale lo infanghi, ma splenda luminoso per la sua integrità e castità.

( … ) Chi la possederà, avrà pace nella sua coscienza, luce nella sua mente, gioia nel suo volto e nella sua anima, sicurezza in punto di morte e parte nella beata eternità.”

(San Lorenzo Giustiniani, da “L’albero della vita”, cap. 3-2, pag. da 49 a 52.)

 

“Non ci sono parole per l’indecenza della libidine, che non solo inebetisce la mente, ma snerva anche il corpo; e non contamina solo il cuore, ma tutta la nostra persona. Ci esponiamo prima ad affanni e volgarità, poi a fetore e immondezza, quindi a dolore e rimorso; e la brevità fuggente del piacere non è motivo di pace, ma di tormento. L’ora della voluttà infatti è breve, perché quanto più avidamente si è bevuto, tanto prima quel calice ci dà la nausea.

( … ) E’ poi la stessa indecenza del piacere a smorzarne l’ardore. Osservate bene chi si dà ai piaceri della carne, il cui appetito non procura che ansia, e la soddisfazione nausea: non si capisce quale vera gioia ci sia in quei loro ebbri sussulti. Che il risultato sia solo un’indicibile amarezza, questo lo si sa: basta il ricordo di come si concludono quelle sconcezze.

A dirla proprio tutta, costoro dovrebbero ammettere di non essere stati altro che bestie. No, la lussuria non è degna della fede cristiana; per un’anima votata a Cristo non è decoroso deliziarsi dei piaceri carnali, quando si sa che Cristo, in tante Sue creature, non ha neppure il pane per sfamarsi. Invano quindi si fregia del nome di cristiano chi, peccando di lussuria, non imita l’esempio di Cristo. Non basta vantarsi del Suo nome: se ci preme davvero essere cristiani, allora dobbiamo comportarci in modo degno dei cristiani. Solo così potremo giustamente gloriarci di questo nome.”

(San Lorenzo Giustiniani, da “L’albero della vita”,cap. 3-3, pag. 53-54)

 

“Il godimento di questi piaceri non solo si accompagna a innumerevoli dolori, ma deve anche essere espiato con numerose e tremende pene.

( … ) E’ poi la molteplicità dei piaceri uno dei principali motivi che ce ne impongono il freno e la distruzione. L’anima, attratta dal piacere, non potendo più saziarsi di nessun bene da quando si è allontanata dal cuore di Dio e dall’amore fraterno, si affanna a trovare soddisfazione rinnovando continuamente gli oggetti del suo desiderio passando dall’uno all’altro, senza trovare mai felicità né pace. Moltiplica i suoi desideri, cambia i suoi programmi, escogita le più diverse forma di piacere, illudendosi di potersi saziare: ma non potrà comunque placare fino in fondo la sua sete. E’ impossibile che la luce risplenda nella tenebre e che la dolcezza si accomuni all’amarezza; allo stesso modo è assurdo e contro natura pretendere di trovare nei beni terreni e nei piaceri della carne una piena felicità e pace.

( … ) I mali che ci provengono dai piaceri della carne sono infatti innumerevoli. Prima di tutto ci si trova costretti in un’atroce schiavitù, con la carne in rivolta contro lo spirito; per cui, se si accende il desiderio e si accondiscende anche solo una volta alle sue bramosie, la lotta diventa impari, come di due contro uno, e la solidità della nostra coscienza ne viene irrimediabilmente compromessa

( … ) Quando il corpo si adagia nella mollezza, infatti, lo spirito si infiacchisce: la voluttà è pulsione della carne, mentre il nutrimento dell’anima sono la disciplina e l’austerità. La carne si accende alle provocazioni, divenendo sempre più smaniosa; mentre l’anima si allena e si rinforza nell’asprezza della mortificazione, che la rende sempre più pura.

( … ) La carne induce sempre a desideri peccaminosi, che sono fugaci, ma che devono essere subito stroncati; perché, se non sono controllati da una rigorosa disciplina interiore, possono renderci inclini a tendenze pericolose. Non c’è nemico che sia mai stato tremendo per qualcuno, come lo sono per noi le nostre pulsioni carnali. Accade che ci si immerga volentieri in piaceri, che si trasformano in cattive abitudini e non possono più essere sradicate, neppure in caso di disgrazia o di calamità.

( … ) Così si diventa schiavi del piacere, invece di goderne; più che saziati, si è bruciati, al punto da amare le proprie stesse piaghe: raggiungendo così il colmo dell’infelicità.

( … ) E ancora: questi piaceri ci precludono la salvezza, ci inducono alla dimenticanza di Dio, distraggono la nostra mente dalla vera sapienza, rendono vane le nostre opere buone, ci privano di ogni forza d’animo, rendono il nostro cuore insofferente e lo allontanano da ogni dolcezza mistica. Le consolazioni di Dio sono così lievi e delicate, che non possono essere date ad anime che godano di altre gioie. E chi è sempre immerso nei piaceri della carne può forse attendere nel suo cuore la venuta del consolatore?

Se è impossibile che il fuoco si accenda con l’acqua, è assurdo e contro natura che i piaceri di questo mondo convivano con la compunzione del cuore e con le gioie dello spirito. Si tratta di valori antitetici, che si elidono a vicenda: gli uni portano al pudore, gli altri alla libidine; i primi purificano il cuore e lo elevano, i secondi lo condannano.”

“Egli, la Sapienza incarnata, non poteva ingannarSi: se ha scelto di quanto più odioso e molesto alla carne, lo dobbiamo scegliere anche noi, come il bene più utile e prezioso. E se qualcuno vuole persuaderci del contrario, guardiamocene bene, perché è un seduttore del maligno.

Chi vuole regnare in eterno con Cristo deve essere dunque puro da ogni macchia, senza un solo pensiero peccaminoso; e chi ama la castità deve vivere secondo l’insegnamento di Cristo, se anela al consorzio dei Santi, purificando il suo cuore da ogni desiderio e pensiero indecente, perché il Cielo non potrà accogliere se non anime sante, giuste, semplici, innocenti e pure.”  

(San Lorenzo Giustiniani, da “L’albero della vita”, cap. 3-3, pag. 53.)

 

“Coloro che sono ancora soggetti alla violenza della perversione e che cedono ancora ai piaceri della carne non possono prendersi responsabilità di governo: Solo quando avranno dominato ogni moto interiore, e conquistato saldamente la virtù della continenza, potranno assumersi l’onere della salvezza altrui, senza mettere in pericolo la propria, perché un superiore non può rimproverare liberamente le colpe dei suoi discepoli, se nella sua stessa vita non ne è assolutamente privo. Purifichi quindi prima il suo cuore, chi si accinge ad occuparsi al cuore altrui. E solo la virtù della continenza rende l’uomo obbediente a Dio, e dunque giustamente degno di essere elevato a guida degli altri.

( … ) la continenza è un amore che si conserva integro e incontaminato davanti al Signore. Significa non nutrire alcun desiderio, di cui poi ci si debba pentire, né fare mai eccezione alla legge della moderazione, nonché sottomettere alla ragione ogni pulsione carnale. Consiste inoltre nell’attitudine sempre onesta e casta del proprio corpo, conquistata con l’esercizio del dominio su ogni passione malvagia.”

(San Lorenzo Giustiniani, da “L’albero della vita”, III , pag. 48-49)

San Bernardino da Siena: “Se io non ho la carità non sono nulla. China il capo e sta nel timore di Dio, perché (San Paolo) dice: “Nihil sum” [Non sono nulla]. Cosa credi che sia un’ anima in peccato mortale? Davanti a Dio è uno zero”

“INNO ALLA CARITA’ DI SAN PAOLO, CON COMMENTO DI SAN BERNARDINO”

“Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sono come un bronzo che risuona o un cembalo che tintinna.

E se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sono nulla.

E se anche distribuissi tutte le mie sostanze e dessi il mio corpo per esser bruciato, ma non avessi la carità, niente mi giova.

La carità è paziente, è benigna la carità; non è invidiosa la carità, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno; il dono delle lingue cesserà e la scienza svanirà. La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto.

Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità!” (1 Cor 1,1-13)

 

Commento di San Bernardino da Siena:

“Astitit regina a dexstris tuis investitu deaurato circumdata varietate” [Sta la regina alla tua destra in veste d’oro…]. Comincia: “Eructavit cor meum”[Effonde il mio cuore]… laddove Davide profeta parla della virtù della carità, dicendo che essa sta al lato destro di Dio, siede come regina di tutte le altre virtù, vestita d’oro, circondata di varietà di colori (Sal 44,10).

( … ) Osserva la forza delle parole che usa Davide: “Astitit regina dexstris tuis”: [la carità] sempre resterà, come regina, alla mano destra di Dio; essa è governatrice di ogni nostro atto, di ogni nostro pensiero; dirige il nostro corpo e la nostra anima verso Dio e verso il prossimo, contro il demonio, contro il mondo e contro la carne. Ci governa per grazia, ci purifica dalla colpa, cosicché quando l’anima va in Paradiso essa è vestita di carità da Cristo Gesù, che è l’arca della carità, il primogenito dei morti, il re dei re, il Signore dei signori e rende grazia per grazia. Se sei stato in questo mondo in carità, di carità ti vestirà lassù. “Habenti dabitur” [a chi ha sarà dato] (Lc 19,26): a chi avrà avuto carità, gli sarà data carità, gli sarà profusa carità, più carità di quanta se ne possa avere mai in questo mondo.

( … ) Se io non ho la carità non sono nulla. China il capo e sta nel timore di Dio, perché dice: “Nihil sum” [Non sono nulla]. Cosa credi che sia un’ anima in peccato mortale? Davanti a Dio è uno zero. ( … ) Prendi pure tutte le anime degli uomini che sono morte in peccato mortale e prendine una sola che sia morta in grazia di Dio: piacerà di più a Dio quell’anima sola che centomila migliaia di anime dannate.

( … ) Come l’anima ha molti doni, così la carità è dotata di molte varietà.

( … ) Tre sono le principali varietà che adornano la carità. La prima è nel sopportare. La seconda è nel respingere. La terza nell’operare.

Parlo prima del sopportare ( … ) Come dice Giobbe: “La vita dell’uomo è una milizia nella battaglia del mondo” (Gb 7,1).

( … ) Sebbene tu abbia in te la pazienza non basta. Dopo che hai sofferto dei tormenti e delle battaglie e ti sei difeso con lo scudo e con l’armatura [della pazienza], bisogna che tu faccia il bene con il cuore, con le parole e con le opere ( … ). Ama la creatura e odia la colpa; con benignità [bisogna] amare la creatura e non il peccato che è in essa. Dì bene di chi dice male di te e prega per lui. Fa il bene a chi ti fa del male; questa è la benignità della carità.

E abbiamo trattato della prima cosa, cioè del sopportare.

La seconda cosa è nel respingere. La carità non si mischia mai con cose brutte, allontana tutti i peccati mortali ( … ).

( … ) Anzitutto la carità non ha invidia del bene che vede in altri, anzi ne gode e d’ogni bene che vede nel prossimo suo, ne è contenta come se fosse in se stessa. Una buona e santa invidia sarebbe avere invidia e volere quei beni che tu vedi negli uomini spirituali e amare quei tali beni come se li avessi tu. Quest’uomo non fa cose perverse e non vi va dietro per superbia.

( … ) “Non si gonfia” di superbia. La superbia gonfia in due modi: prima attraverso le cose acquistate e poi attraverso le cose desiderate. Le acquistate sono la fama, la condizione agiata, i beni; per queste cose la carità non fa gonfiare.

“Non è ambiziosa”. Riguardo alle cose desiderate dice che la carità non è ambiziosa così da desiderare cose superflue né di ruoli, né di roba, né di onori.

“Non cerca il suo interesse”. Respinge l’avarizia, non chiede quel che è suo e tanto meno quello che non è suo. ( … ) non dice che tu non richieda le cose che ti fossero state tolte e tu ne abbia bisogno, se vedi di poterle riavere senza peccato mortale; altrimenti se non le potessi riavere se non con il peccato, lasciale stare.

“Non si adira la carità”. “Nell’ira non peccate” (Ef 4,26), fu detto per lo zelo di Dio. Allora, quando Gesù cacciò dal Tempio i venditori, i compratori e gli usurai, chi non lo avesse capito, avrebbe detto: Egli è adirato; ma fu zelo di carità di Dio. E’ grande differenza tra zelo ed ira. ( … ) L’ira intorbida la mente e guasta l’anima. Lo zelo [invece] si appassiona e non si intorbida e quando si lascia a riposo è più chiaro di prima. Non così l’ira che solo di rado lascia chiara la mente.

( … ) “Non pensa male”. La carità non se ne sta accidiosa, ma sempre essa è in pensieri di carità. Non pensa male e da ogni male trae il bene; ogni cosa che vede la carità la ritorce in bene. Quando vedi uno che dice male su cose di cui non è certo, è segno che non è in carità. “Non gode dell’ingiustizia”, ma ne soffre. Quando vedi uno che si rallegra di un altro che abbia fatto qualche gran male, o qualche grande iniquità, è segno che non è nella carità, ma è contro di lei. Ogni allegrezza per il male o per l’iniquità fa tanto peggio, e tanto più sei lontano dalla carità, tanto più ne godi e te ne rallegri.

“Ma della verità si compiace”. La carità è compagna della verità, e vanno sempre abbracciate insieme. E dunque l’anima che ha carità, come sente dire una verità, gode. La carità è l’arte dell’uomo spirituale e non degli uomini mondani.

( … ) “Tutto crede, tutto sopporta, tutto spera”. Cioè tutte le cose che sono da credere le crede e non le pazzie degli eretici. E sostiene pazientemente tutte le cose che sono da sostenere e spera tutte le cose che sono da sperare.

( … ) La terza ed ultima parte principale è sulla stabilità della carità. “Vestita con abiti d’oro”: che come l’oro è stabile, che mai viene meno quanto più è vicina alla perfezione, e quanto più sta sul fuoco, tanto più diventa fine senza venire a mancare, così è la carità. E per questo San Paolo aggiunge: “La carità non avrà mai fine ( … )”. Vuol dire che la carità non verrà mai meno. ( … ) Gli uomini più capaci del mondo in eloquenza o in sapienza non sapranno mai il fine di tutte le sapienze. Chi saprà un poco e chi un altro. Perciò dice: “in parte”. E aggiunge: “Ma quando verrà ciò che è perfetto, [cioè il Paradiso], quello che è imperfetto scomparirà”.

“Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Queste dunque le tre cose che rimangono: la fede, la speranza e la carità; ma di tutte più grande è la carità”.

( … ) La fede è il fondamento della religione nostra; poi la speranza, così che speri quel che per fede credi; e tutto con amore di carità, perché senza la carità, come ti ho mostrato, non c’è virtù che sia accetta a Dio. Quando saremo di là in Paradiso, che Iddio ce ne dia la grazia, solamente la virtù della carità ci accompagnerà; non ci sarà più bisogno di fede nelle cose divine, perché vedremo a faccia a faccia la fede; e la speranza verso le cose che non si vedono verrà a mancare, perché avremo quel che abbiamo sperato. La carità è la maggiore di tutte e rimarrà molto più lassù in Paradiso che non qua.”

(San Bernardino da Siena, Prediche settimana santa, Cap. 1, pag. da 92 a 106.)

Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo in lui. (Gv 14,23)” San Gregorio Magno: “la via del Signore si dirige al cuore, quando la vita si uniforma ai comandi di Dio”

“Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo in lui. (Gv 14,23)”

 

“La via del Signore si dirige al cuore quando si ascolta umilmente la predicazione della verità; la via del Signore si dirige al cuore, quando la vita si uniforma ai comandi di Dio. Per questo sta scritto: <<Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo in lui>> (Gv 14,23).

Chiunque monta in superbia, chiunque arde del fuoco di avarizia, chiunque si macchia con le lordure della lussuria, chiude la porta del cuore dinanzi alla verità, pone i serrami dei vizi all’entrata dell’anima, per impedire l’ingresso del Signore.”

(San Gregorio Magno, Papa e Dottore della chiesa, Omelie sui vangeli, VII , pag. 90)

 

“Lo Spirito Santo stesso è amore. Perciò Giovanni dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Chi con tutto il cuore cerca Dio, ha già colui che ama. E nessuno potrebbe amare Dio, se non possedesse colui che ama. Ma, ecco, se a uno di voi si domandasse se egli ami Dio, egli fiduciosamente e con sicurezza risponderebbe di sì. Però a principio della lettura avete sentito che la Verità dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). La prova dell’amore è l’azione. Perciò Giovanni nella sua epistola dice: “Chi dice di amar Dio, ma non ne osserva i precetti, è bugiardo” (1Gv 4,20). Allora veramente amiamo Dio, quando restringiamo il nostro piacere a norma dei suoi comandamenti. Infatti chi corre ancora dietro a piaceri illeciti, non può dire d’amar Dio, alla cui volontà poi contraddice.

“E il Padre mio amerà lui, e verremo e metteremo casa presso di lui” (Gv 14,23). Pensate che festa, fratelli carissimi; avere in casa Dio! Certo, se venisse a casa vostra un ricco o un amico molto importante, voi vi affrettereste a pulir tutto, perché nulla ne turbi lo sguardo. Purifichi, dunque, le macchie delle opere, chi prepara a Dio la casa nella sua anima. Ma guardate meglio le parole: “Verremo e metteremo casa presso di lui”. In alcuni, cioè, Dio vi entra, ma non vi si ferma, perché questi, attraverso la compunzione, fanno posto a Dio, ma, al momento della tentazione, si dimenticano della loro compunzione, e tornano al peccato, come se non l’avessero mai detestato.

Invece colui cha ama veramente Dio, ne osserva i comandamenti, e Dio entra nel suo cuore e vi rimane, perché l’amor di Dio riempie talmente il suo cuore, che al tempo della tentazione, non si muove.

Questo, allora, ama davvero, poiché un piacere illecito non ne cambia la mente. Tanto più uno si allontana dall’amore celeste quanto più s’ingolfa nei piaceri terrestri. Perciò è detto ancora: “Chi non mi ama, non osserva i miei comandamenti (Gv 14,24)”. Rientrate in voi stessi, fratelli; esaminate se veramente amate Dio, ma non credete a voi stessi, se non avete la prova delle azioni. Guardate se con la lingua, col pensiero, con le azioni amate davvero il Creatore. L’amor di Dio non è mai ozioso. Se c’è, fa cose grandi; se non ci sono le opere, non c’è amore.

“E le parole che avete udito, non son mie, ma del Padre che mi ha mandato (Gv 14,24).” Sapete, fratelli, che chi parla è il Verbo del Padre, perché il Figlio è Verbo del Padre.

“Lo Spirito Santo Paraclito, che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà tutto e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto (Gv 14,26)”. Sapete quasi tutti che la parola greca Paraclito, significa avvocato o consolatore. E lo chiama avvocato, perché interviene presso il Padre in favore dei nostri delitti. Di questo stesso Spirito poi giustamente si dice: “V’insegnerà ogni cosa”, perché se lo Spirito non è vicino al cuore di chi ascolta, il discorso di chi insegna, non ha effetto.”

(da San Gregorio Magno, Omelie sui Vangeli, 30,1)

 

“Ma io domando: che cosa offrirà, nel giorno del giudizio, colui che sarà rapito dal cospetto del Giudice, separato dalla compagnia degli eletti, privato della luce, tormentato nel fuoco eterno? Il Signore stesso ci suggerisce questo pensiero quando dice rapidamente: <<Così avverrà alla fine del mondo: gli angeli verranno e separeranno i cattivi di mezzo ai giusti, e li getteranno nella fornace del fuoco, dove sarà pianto e stridore di denti>> (Mt 13, ).

Queste parole del signore, fratelli carissimi, sono piuttosto da temere che da spiegare. I tormenti riservati ai peccatori sono indicati chiaramente, affinché nessuno possa addurre la scusa che non lo sapeva, perché dei tormenti futuri era stato parlato oscuramente. Per di più il Signore domanda: <<Avete udito tutte queste cose? >>. E quelli rispondono: <<Si!>> (Mt 13).”

(San Gregorio Magno, Papa, Omelie sui vangeli, XI , pag. 121)

 

“Colui che ha già creduto in Cristo, ma va ancora dietro ai guadagni dell’avarizia, o si deturpa con le immondizie della lussuria, o si insuperbisce della sua dignità, o brucia nel fuoco dell’invidia, o desidera prosperità negli affari del mondo, rifiuta di seguire quel Gesù nel quale ha creduto. Va per una via sbagliata, colui che cerca gioie e piaceri, dopo che la sua guida gli ha indicato la via della penitenza.

Richiamiamo alla nostra mente i peccati commessi; pensiamo che il Giudice verrà a punirli severamente; prepariamo l’animo ai lamenti: la nostra vita si maceri per poco tempo nella penitenza, se non vuol sentire un’eterna amarezza dopo il castigo. Attraverso il pianto si giunge alla gioia; così ci promette la stessa Verità, che dice: <<Beati quelli che piangono, perché saranno consolati!>> (Mt 5,5). Per la via del piacere, invece, si arriva al pianto, come ci assicura il signore quando dice: <<Guai a voi che ora ridete, perché piangerete e vi lamenterete!>> (Lc 6,25). Se, dunque, vogliamo la gioia del premio quando saremo alla meta, accettiamo l’amarezza della penitenza finché siamo in cammino.”

(San Gregorio Magno, Papa, Omelie sui Vangeli, II, pag. 60)

 

“Se ciascuno di voi, in misura della propria capacità e dell’ispirazione che gli viene dall’alto, richiama il prossimo dal vizio, lo esorta a ben fare, lo istruisce sul regno eterno e sui castighi riservati ai peccatori, mentre annunzia la parola di salvezza, è veramente un angelo. Nessuno si scusi con il dire: io non ho l’arte di ammonire; non sono atto a esortare. Fa’ quello che puoi, se non vuoi che ti sia richiesto nei tormenti quel talento che avevi ricevuto e hai mal trafficato. Ricordi? Aveva ricevuto un solo talento quel tale che si preoccupò di nasconderlo e non di farlo fruttare.

( … ) Chi in cuor suo ha già udito la voce del divino amore, faccia risuonare alle orecchie del prossimo una parola di esortazione. Ci sarà forse chi non ha pane per fare l’elemosina ai bisognosi, ma è dono molto più prezioso quello che può dare chi ha la lingua. Val più nutrire di celeste dottrina l’anima destinata a vivere in eterno, che non saziare di pane terrestre il ventre di questo corpo destinato a morire. Non vogliate, dunque, o miei fratelli, negare al prossimo l’elemosina della parola!”

(San Gregorio Magno, Papa, Omelie sui vangeli, VI , pag. 85-86)