“IL REGNO DI DIO È UNA SFIDA” UN NUOVO LIBRO CAPOLAVORO DI FULTON SHEEN

Ringraziamo le suore della casa editrice Mimep di Milano, per la nuova pubblicazione di un testo inedito di Fulton Sheen, tradotto per la prima volta in italiano: “Il Regno di Dio è una sfida. Una guida per il Cielo”.

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto 👇

La Prefazione è di Padre Angelo Bellon, sacerdote domenicano, curatore del sito Amici Domenicani e della famosa rubrica “Un sacerdote risponde”.

Dalle prime righe della prefazione:

“Iniziando la lettura dei 15 capitoli che compongono questo libro di Mons. Fulton Sheen, si avverte subito una sensazione particolare: è come se si venisse introdotti in un corso di esercizi spirituali. Ogni capitolo costituisce una meditazione che mette a fuoco alcune verità fondamentali della nostra esistenza. Dall’inizio alla fine, in maniera più o meno intensa, si avverte la consapevolezza di non trovarsi solo di fronte a verità pur importanti per la vita di ogni uomo, ma dinanzi a Dio stesso che parla all’anima. Proseguire nella lettura di queste pagine è come fermarsi e mettersi in ascolto di Dio che getta luce nella profondità della nostra esistenza, per illuminarla e orientarla. Non si è abituati alla lettura di un testo come questo. Ma si avverte subito che è una grazia averlo tra le mani. Non di rado capita di dire a se stessi: devo rileggere questo capitolo perché è troppo prezioso per la mia vita.” (Padre Angelo Bellon)

Dalla quarta di copertina:

Una nuova traduzione delle meditazioni del grande arcivescovo americano Fulton Sheen. In questo volume l’autore sviluppa il tema del Regno di Dio attraverso gli elementi essenziali del cristianesimo e della vita morale. Di fronte alla chiamata di Dio, siamo invitati ad accettare la sfida e a rinunciare a tutto ciò che ci allontana dal Regno.
I temi trattati: Dio come fondamento della moralità, la necessità della mortificazione, la bellezza della vita religiosa, la santità del matrimonio, la realtà del peccato, la necessità della Redenzione, il giudizio di Dio dopo la morte, l’esistenza dell’inferno e del purgatorio.

“Il Divino è sempre dove meno ti aspetti di trovarlo. È venuto nel mondo come un Bambino bisognoso in una mangiatoia, ed ha lasciato il mondo come un Uomo indifeso sulla Croce. Se vogliamo perciò trovare Dio, dobbiamo cercarlo nella debolezza e nella sconfitta, ma una debolezza che nasconde in sé la potenza e una sconfitta che si manifesterà come vittoria”. (Fulton Sheen)

INDICE:

PREFAZIONE – 1. UN SENZATETTO A CASA SUA: GESÙ BAMBINO – 2. IL SINAI INTERIORE: LA COSCIENZA – 3. L’EMERGENZA: IL GRANDE DRAMMA DELLA MORALE – 4. IL CASTIGO PER LA NEGLIGENZA: LA PARABOLA DEI TALENTI – 5. MORIRE PER VIVERE: LA MORTIFICAZIONE – 6. ROSE NEL GIARDINO DI DIO: LA VITA RELIGIOSA – 7. FINCHÉ MORTE NON CI SEPARI: LA VITA MATRIMONIALE – 8. I LEGAMI DI ADAMO: DIFFICOLTÀ E RIMEDI NEL MATRIMONIO – 9. IL FRUTTO DELL’AMORE: I FIGLI – 10. LA MORTE DELLA VITA: IL PECCATO – 11. LA RESA DEI CONTI: IL GIUDIZIO DI DIO – 12. LE FIAMME PURIFICATRICI: IL PURGATORIO – 13. IL RIFIUTO DELL’AMORE: L’INFERNO ETERNO – 14. IL PARADOSSO DELLA SALVEZZA: IL SACRIFICIO – 15. L’INNO DEI VINTI: IL GRIDO DI BATTAGLIA DEL CRISTIANO.

Il libro uscirà nelle librerie il 10 Aprile, ma si può già acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore, dove si trova anche l’anteprima scaricabile in PDF. Qui il link per l’acquisto: https://www.mimep.it/catalogo/fede-vita/il-regno-di-dio-e-una-sfida/

LA PASSIONE DELL’IRA E IL PERDONO: “Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. Dimmi chi è l’oggetto del tuo odio, e io ti dirò com’è il tuo carattere. Odi il peccato? Allora ami Dio!”

UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”

Il libro è appena uscito e si può acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore. Qui il link: 👇

Il pianto del Cristo

La passione che nell’uomo affonda più profondamente le sue radici nella sua natura razionale è quella dell’ira. L’ira può essere perfettamente compatibile con la ragione, perché la rabbia si basa sulla ragione, che soppesa il torto subito e la soddisfazione da pretendere. Se ci adiriamo è perché qualcuno ci ha ferito in qualche modo o perché ci sentiamo tali. Ma non sempre l’ira è un peccato: esiste quella che si definisce “la giusta rabbia”. Un esempio è quando nostro Signore si infuria contro i mercanti nel tempio. Varcata la soglia, durante le feste della Pasqua, trovò il cortile del tempio ingombro di commercianti che assillavano i fedeli, cercando di vender loro qualche colomba o un agnello per il sacrificio. Fatta una frusta con alcune cordicelle, Gesù avanzò nel mezzo delle bancarelle, con un’espressione severa, ancor più minacciosa della frusta che aveva in mano. Cacciò i buoi e le pecore con la frusta, mentre con le mani rovesciava i banchi dei cambiavalute, in una pioggia di monetine che rotolavano sul pavimento; si rivolse ai venditori di colombe, ingiungendo loro di lasciarle libere; in tutto questo egli diceva: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2, 16). In questo si adempì il comandamento delle Scritture, “Adiratevi ma non peccate” (Ef 4, 26) perché la rabbia non è un peccato, in questi tre casi:

1.Se ci si adira per una giusta causa, ad esempio la difesa dell’onore di Dio.

2. Se l’ira non è spropositata rispetto alla sua causa, cioè se la si tiene sotto controllo.

3. Se è subito domata: “Non tramonti il sole sulla vostra ira” (Ef 4, 26).

Qui però non parliamo di “giusta ira”, ma ingiusta, senza un valido motivo – una rabbia eccessiva, vendicativa, accanita: il tipo di rabbia che molti provano in odio verso Dio; la rabbia che vuole l’annientamento della religione su un sesto della superficie terrestre e che in Spagna ha incendiato venticinquemila chiese e cappelle e ucciso dodicimila servi di Dio; il tipo di odio che è diretto non solo contro Dio, ma contro un altro uomo e che viene alimentato dai discepoli della lotta di classe che parlano di pace ma si compiacciono della guerra: la rabbia rossa, che infiamma il volto di furia, e la rabbia bianca, che lo sbianca di livore; la rabbia che cerca “la parità”, che ripaga della stessa moneta, colpo per colpo, pugno per pugno, occhio per occhio, menzogna per menzogna, la rabbia del pugno chiuso pronto a colpire, non in difesa di ciò che si ama, ma all’attacco di ciò che si odia: in una parola la rabbia che distruggerà la nostra civiltà, a meno che la soffochiamo con l’amore.

Nostro Signore è venuto per liberarci dal peccato della rabbia, in primo luogo insegnandoci una preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; e poi lasciandoci un comandamento: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”, (Mt 5, 44) e, più concretamente: “Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due… Se qualcuno ti chiede il mantello, tu dagli anche la tunica” (Mt 5, 40–41). Non sono ammesse vendetta e ritorsione: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. … ma io vi dico amate i vostri nemici” (Mt 5, 38, 44). Questi precetti sono ancor più impressionanti perché Gesù stesso li ha messi in pratica. Quando i Geraseni si arrabbiarono con lui perché egli attribuì un peso maggiore alla vita di un povero uomo, piuttosto che ad una mandria di maiali, la Scrittura non riporta nessuna rimostranza da parte sua: “Salito sulla barca, passò dall’altra parte” (Mt 9, 1), al soldato che l’aveva colpito con il pugno di ferro, la sua risposta mite fu: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23). La rabbia fu completamente riparata sul Calvario. Fu l’odio e la rabbia a trascinare nostro Signore su quella collina. I suoi concittadini lo odiavano e reclamavano la sua crocifissione; la legge lo odiava, tanto da rinnegare la giustizia pur di condannare la Giustizia; i gentili lo odiavano, perché hanno permesso che venisse ucciso; i boschi lo odiavano perché fu su uno dei loro alberi che venne inchiodato; i fiori lo odiavano perché fornirono le spine con cui venne incoronato; le viscere della terra lo odiavano e fornirono l’acciaio e il ferro per il martello e i chiodi. E poi, per rendere più personale tutto quest’odio, si è vista la prima generazione del pugno chiuso che sia mai apparsa nella storia: erano quelli che lo minacciavano sotto la croce. Quel giorno hanno dilaniato il suo corpo, come oggi distruggono e mandano in frantumi il suo tabernacolo. I loro figli e le loro figlie calpestano le croci in Spagna e in Russia, come un tempo hanno percosso il crocifisso sul Calvario.

Non crediate che il pugno chiuso sia un fenomeno del ventesimo secolo: coloro che oggi raggelano i loro cuori in un pugno, sono i diretti eredi di coloro che sotto la croce levavano le mani contro l’Amore e con le loro voci roche cantavano la prima Internazionale dell’odio. Davanti a quei pugni chiusi, vien naturale pensare che se c’è una volta che la rabbia potrebbe dirsi giustificata, se c’è una volta in cui la Giustizia poteva essere applicata correttamente, una volta in cui il Potere poteva essere degnamente esercitato o l’Innocenza rivendicata a ragion veduta, una volta in cui Dio avrebbe avuto tutte le ragioni di punire l’uomo, ebbene quel momento era proprio quello sul Calvario. E tuttavia, proprio in quell’istante in cui una falce e un martello hanno tagliato l’erba sul Calvario per far posto alla croce, e i chiodi hanno immobilizzato le mani impedendo loro di impartire la benedizione dell’Amore Incarnato, egli, come un legno profumato che inonda del suo aroma l’ascia che lo stronca, ha pronunciato con le sue labbra la prima preghiera che sia mai calata sulla terra, la preghiera perfetta che sana la rabbia e l’odio. Una preghiera per l’esercito dei pugni chiusi, la prima parola pronunciata sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.

Anche il peggior peccatore adesso può essere salvato; il peccato più nero può essere cancellato; i pugni chiusi possono aprirsi; ciò che era imperdonabile ora può essere perdonato. Anche se loro credevano di sapere quello che stavano facendo, Cristo fa appello a quell’unica attenuante per il loro crimine e la adduce davanti al Padre Celeste, con tutto l’ardore del suo Cuore misericordioso: l’ignoranza – “non sanno quello che fanno”. Se avessero saputo quello che stavano facendo, inchiodando l’Amore alla croce, e pur sapendolo avessero continuato a farlo, non ci sarebbe stata redenzione per loro. Sarebbero stati dannati. È solo perché i pugni si chiudono nell’ignoranza, che è possibile ancora aprirli in mani che si congiungono, è perché le lingue blasfeme sono ignoranti, che esse possono ancora sciogliersi in preghiera. Non è la loro consapevolezza che li salva: ma la loro ignoranza inconsapevole.

Questa parola sulla croce ci insegna due cose: (1) l’ignoranza può scusare, (2) non c’è limite al perdono. Un motivo per perdonare è l’ignoranza. L’Innocenza divina ha trovato questa scusa per perdonare. Sicuramente la colpa non può essere inferiore. Nel suo primo sermone, S. Pietro ha usato la medesima scusa dell’ignoranza per la crocefissione, ancora fresca nella sua memoria: “Avete ucciso l’autore della vita … Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.” (At 3, 15; 17) Se il male fosse stato fatto in piena consapevolezza, deliberatamente, sapendo quali erano le conseguenze degli atti compiuti, allora non poteva esserci perdono. Ecco perché non è stata possibile una redenzione nel caso degli angeli caduti. Loro sapevano che cosa stavano facendo. Noi no. Noi siamo ignoranti, ignoranti su noi stessi e ignoranti sugli altri. Ignoranti sugli altri. Quanto poco sappiamo dei loro motivi, della loro buona fede, delle circostanze che li hanno portati ad agire in un certo modo. Quando gli altri ci usano violenza, spesso ci dimentichiamo di quanto poco conosciamo i loro cuori e diciamo “Non mi sembra proprio che ci siano scusanti, neanche minime, sapevano benissimo quello che stavano facendo”. Eppure, nelle stesse circostanze, Gesù ha saputo dire “Non sanno quello che fanno”. Non sappiamo nulla di quello che c’è nel cuore del nostro prossimo e per questo ci rifiutiamo di perdonare. Gesù conosceva bene i cuori, dentro e fuori, e per questo ha perdonato. Prendete un fatto qualsiasi, chiedete a cinque persone di giudicarlo: avrete cinque interpretazioni diverse di quello che è successo. Nessuno di loro può conoscere tutti i fattori in ballo. Nostro Signore sì, ed è per questo che perdona. Perché noi troviamo mille scuse per giustificare la nostra rabbia verso il prossimo e non vogliamo ammettere alcuna giustificazione per la rabbia degli altri verso di noi? Diciamo che gli altri ci perdonerebbero se solo ci capissero meglio e che il solo motivo della loro rabbia è che “Non ci capiscono”. Perché l’ignoranza non è reversibile? Non può darsi che noi non capiamo le motivazioni degli altri, così come loro non capiscono le nostre? Il fatto che noi ci rifiutiamo di giustificare il loro odio, non può voler dire, implicitamente, che anche noi, nelle stesse circostanze, ci saremmo comportati in un modo imperdonabile?

Ignoranti su come siamo: un’altra ragione per perdonare gli altri. Purtroppo, non conosciamo noi stessi: sappiamo vedere con chiarezza i peccati, le debolezze e le mancanze del nostro prossimo, almeno mille volte meglio di quanto vediamo le nostre colpe. Criticare gli altri non è una buona cosa, ma la mancanza di autocritica è anche peggio. Forse sarebbe meno grave criticare gli altri se, prima, sapessimo vedere i nostri difetti: dopo aver perlustrato con cura la nostra anima, allora forse saremmo meno certi del nostro diritto di indagare le anime degli altri. È solo perché non sappiamo nulla delle nostre condizioni, che non capiamo quanto noi, per primi, abbiamo bisogno di perdono. Abbiamo mai offeso Dio? Ha dei motivi per essere irato con noi? Allora perché noi, che abbiamo così tanto bisogno di essere perdonati, non dovremmo riscattarci perdonando a nostra volta gli altri? La risposta è che non facciamo mai seriamente un esame di coscienza. Siamo così inconsapevoli della nostra vera condizione che tutto quello che di certo possiamo dire di noi è giusto il nome, l’indirizzo e che cosa possediamo; del nostro egoismo, invidia, deviazioni, peccati invece non sappiamo nulla. Infatti, per evitare di guardarci dentro, evitiamo il silenzio e la solitudine. Per evitare che la nostra coscienza si faccia troppo sentire, affoghiamo la sua voce nei divertimenti, nelle distrazioni e nel rumore. Odiamo tutto ciò che vediamo riflesso di noi negli altri. Se conoscessimo meglio noi stessi, sapremmo perdonare di più gli altri. Più siamo severi con noi stessi, più saremo indulgenti con gli altri: un uomo che non ha mai obbedito, non sa come si fa a comandare, e l’uomo che non conosce l’autodisciplina, non può usare misericordia con gli altri. È l’egoista il più spietato con gli altri; chi è duro con se stesso sa essere gentile con gli altri: l’insegnante che non conosce bene la sua materia è il più intollerante con i suoi studenti. Solo il Signore, che si riteneva così poca cosa da abbassarsi a farsi uomo e morire come un criminale, poteva perdonare le colpe di coloro che l’hanno crocifisso.

Non è l’odio che è sbagliato: ma è odiare per il motivo sbagliato che è un errore. Non è la rabbia che è sbagliata: ma l’essere adirati con la cosa sbagliata che non va bene. Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. Dimmi chi è l’oggetto del tuo odio, e io ti dirò com’è il tuo carattere. Odi la religione? Allora ti rimorde la coscienza. Odi i capitalisti? Allora sei un avaro, che brama le ricchezze. Odi gli operai? Allora sei un egoista e uno snob. Odi il peccato? Allora ami Dio. Odi il tuo odio, il tuo egoismo, il tuo carattere avventato e la tua cattiveria? Allora sei un’anima buona, perché “Se uno viene a me… e non odia la sua vita, non può essere mio discepolo.” (Lc 14, 26).

La seconda lezione che ci arriva dalla prima parola di Cristo sulla croce è che non c’è limite al perdono. Nostro Signore ha perdonato pur essendo innocente, quindi non perché qualcuno aveva perdonato lui. Per questo non basta perdonare gli altri perché siamo stati perdonati, ma dobbiamo perdonarli anche se siamo innocenti. Il problema è capire quali sono i limiti del perdono. Una volta Pietro ha chiesto al Signore “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18, 21). Pietro pensava di aver esagerato con il suo “sette volte”, perché era già quattro volte di più di quanto prevedevano i Dottori della legge. Pietro aveva proposto un limite, oltre il quale non c’era più perdono. Pensava che il diritto ad essere perdonati sarebbe automaticamente scaduto dopo sette offese. Sarebbe come dire “Rinuncio al mio diritto a riscuotere i miei crediti verso di te, fintanto che la somma che mi devi rimane sotto i sette dollari. Ma se vai sopra questa somma, allora la mia rinuncia non è più valida e posso strozzarti già per otto dollari.” Nostro Signore, rispondendo a Pietro, dice che il perdono non ha limiti; il perdono è la rinuncia a qualsiasi diritto, è la negazione di un limite. “Ti dico non sette volte, ma settanta volte sette.” (Mt 18, 22). Il che significa, non 490 volte, ma all’infinito. Il Salvatore ha allora proseguito con la parabola del servo infedele che, subito dopo aver visto condonare il suo debito di diecimila talenti, si avventa sull’altro servo che gli doveva pochi spiccioli. Il servo spietato, rifiutando di avere misericordia del suo debitore, ha visto revocare la misericordia che gli era stata usata. La sua colpa non era tanto la sua implacabilità verso gli altri, pur essendo lui per primo bisognoso di perdono, quanto il fatto che, malgrado fosse stato perdonato, non aveva perdonato a sua volta. “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”. (Mt 18, 35).

Perdonate, e sarete perdonati; allontanate la vostra ira e Dio allontanerà la sua. Il Giudizio è come la mietitura: raccoglieremo ciò che abbiamo seminato. Se abbiamo seminato la rabbia contro i fratelli durante la vita, non raccoglieremo altro che la rabbia di Dio. Non giudicate, e non sarete giudicati. Se nella nostra vita perdoneremo agli altri di cuore, il Giorno del Giudizio Dio, nella sua saggezza, farà qualcosa di non abituale per lui: dimenticherà di metterci in conto qualcosa, e si limiterà a sottrarre invece di aggiungere. Lui che si ricorda ogni cosa dall’eternità, dimenticherà i nostri peccati. E così ci salveremo ancora una volta, grazie alla divina “ignoranza”. Se perdoniamo gli altri sulla base del fatto che non sapevano cosa facevano, Nostro Signore ci perdonerà sulla base del fatto che non si ricorda più quello che abbiamo fatto. Può anche darsi che, vedendo ora una mano che benedice un nemico dopo aver ascoltato la prima parola sulla croce, Dio arrivi a scordarsi persino che quella mano era un tempo un pugno chiuso, macchiato dal sangue del martirio cristiano.

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“BEATI I PURI DI CUORE PERCHÉ VEDRANNO DIO” UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO IMPERDIBILE DI FULTON SHEEN

Il libro uscirà nelle librerie il 20 Febbraio ma si può già pre-ordinare e prenotare sul sito della casa editrice Mimep delle suore.

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Sulla montagna delle Beatitudini, all’inizio della sua vita pubblica, nostro Signore ha predicato: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8). Ora, alla fine della sua vita, sul Calvario, Cristo si rivolge ai puri di cuore: “Figlio, ecco tua madre, Donna, ecco tuo figlio”. (Gv 19, 26–27). Certo, questa non è una beatitudine del mondo. Oggi il mondo vive quella che potremmo definire “l’età della carnalità”, dove si inneggia al sesso, si rifugge da ogni restrizione, la purezza viene presa per freddezza, l’innocenza per ignoranza e gli uomini e le donne si atteggiano a piccoli Budda che, con gli occhi chiusi e le braccia incrociate sul petto, si soffermano a guardarsi nell’intimo e finiscono per pensare solo a se stessi. Contro l’esaltazione del sesso e il conseguente egocentrismo, nostro Signore ben sottolinea la terza beatitudine: “Beati i puri di cuore”. La terza beatitudine e la terza parola sulla croce sono strettamente legate, l’una è la teoria, l’altra l’esempio pratico che ne deriva, perché è la purezza di nostro Signore che ha reso possibile il dono di sua Madre. Questa è la prima lezione che ci viene da questa terza parola: Maria è diventata nostra Madre perché suo Figlio è la purezza fatta persona. In nessun altro caso egli avrebbe potuto consegnarcela così totalmente e di tutto cuore.

Per capire come Maria ha potuto diventare nostra Madre attraverso la purezza è sufficiente soffermarci un momento a pensare a che cos’è la carne. Anche nei suoi momenti di soddisfazione legittima, la carne implica fondamentalmente l’egoismo. I piaceri della carne mirano alla propria soddisfazione, prima che a quella di un altro. Anche la legge dell’autoconservazione implica, lo dice la stessa parola, una sorta di egoismo. Se l’oggetto del desiderio, poi, non è legittimo, la carne porta ad un egoismo estremo perché, per la propria soddisfazione, arriva a tiranneggiare l’altro, a consumarlo solo per mantenere ardente il fuoco del proprio desiderio. Ma Dio nella sua saggezza ha istituito due vie di salvezza dall’egoismo della carne: il sacramento del Matrimonio e il voto di Castità. Ciascuno di questi due istituti non solo rompe il circolo vizioso dell’egoismo, ma apre ad un orizzonte più vasto di servizio all’altro. O, per dirla in altri termini: chi è più puro di cuore, è meno egoista. La prima via d’uscita dall’egoismo della carne, istituita da Dio stesso, è il Matrimonio. Il matrimonio annienta l’egoismo, prima di tutto perché fonde due individui, in una vita di collaborazione, dove entrambi non vivono più per se stessi ma per l’altro; inoltre il matrimonio annienta l’egoismo perché, nella vita di coppia, distrugge l’infatuazione passeggera che in un istante nasce e muore; inoltre distrugge l’egoismo perché l’amore reciproco tra marito e moglie obbliga la coppia ad uscire da sé, ad incarnarsi in una nuova creatura, nei figli, per la cui cura si devono affrontare sacrifici, senza i quali, come fiori senza acqua, i due rischierebbero di appassire e morire.

Questi però sono solo gli aspetti negativi del Matrimonio rispetto alla carne. Infatti quello che più conta è che il matrimonio cura dall’egoismo usando la carne, mettendola al servizio degli altri. Si aprono così nuovi scenari e nuove prospettive dove l’affetto e il sacrificio si rendono disponibili alla carne; gli altri diventano più importanti di noi stessi; l’ego non è più qualcosa di circoscritto ma si spalanca agli altri, può persino arrivare a dimenticare se stesso. Ciò è così vero che spesso si osserva che le famiglie numerose sono meno egoiste delle piccole. Un marito e una moglie possono vivere l’uno per l’altra, ma un padre e una madre devono morire a se stessi perché vivano i loro figli. Nella loro vita non c’è più posto per qualsiasi attaccamento egoista o sregolato. Dove è il loro cuore, là è anche il loro tesoro. Hanno sacrificato la carne perché altri possano vivere, è questo il punto da cui parte l’amore.

Dio però ha pensato ad un’altra via d’uscita dall’egoismo della carne, qualcosa di ancora più completo del Matrimonio: il voto di Castità. Gli uomini e le donne che scelgono questa via non lo fanno per evitare i sacrifici implicati dal matrimonio, ma per liberarsi dalla schiavitù della carne ed essere liberi di dedicarsi ad un compito più grande. Come dice san Paolo: “chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e si trova diviso”. (1Cor 7,32–33). I voti di castità sono una forma più alta di sacrificio rispetto al Matrimonio, semplicemente perché assicurano un maggior distacco dai piaceri della carne. Maggiore è la purezza, minore è l’egoismo. Chi sceglie la via dei voti è libero di servire ed amare non un solo uomo o una sola donna, o i suoi figli, ma tutti gli uomini e tutte le donne, e tutti i bambini, nel vincolo della carità in Cristo Gesù, nostro Signore.

Il Matrimonio libera la carne dall’egoismo individualista per il servizio della famiglia; il voto di castità libera la carne non solo per quanto riguarda il cerchio ristretto della famiglia, dove l’egoismo può non essere vinto del tutto, ma la spalanca a tutta la grande famiglia dell’umanità. Ecco perché la Chiesa chiede a chi si consacra per la redenzione del mondo di pronunciare il voto di rinunciare ad ogni egoismo per appartenere non ad una famiglia, ma a tutte. Ecco perché nella grande famiglia del regno di Dio, il sacerdote viene chiamato “Padre”, perché molti sono i suoi figli, non generati nella carne, ma nello spirito. Ed ecco perché nelle comunità religiose femminili, viene chiamata “Madre” colei che guida il piccolo gregge in Cristo. Ed ecco perché in molti ordini maschili, gli uomini si chiamano fra loro “Fratelli”, e le donne di uno stesso ordine si chiamano “Sorelle”. Sono tutti membri di una sola nuova famiglia, nella quale i legami sono definiti non dalla nascita nella carne ma dalla nascita in Cristo, tutti alla ricerca disinteressata della gloria di Dio e della salvezza dei peccatori, nell’obbedienza a colui che amano più di ogni altro al mondo: il Santo Padre, il successore di Pietro e vicario di Cristo.

Ora, se il Matrimonio e il voto di castità liberano dall’egoismo della carne, e se una maggior purezza è la premessa necessaria per un servizio più esteso agli altri, che cosa ci dobbiamo aspettare quando incontriamo la purezza perfetta? Se una persona diventa sempre meno egoista, man mano che progredisce nella purezza, che cos’è allora la perfezione, la totale assenza di peccato e la purezza perfetta? Se crescendo la purezza, cresce l’altruismo e l’abnegazione, che cosa ci possiamo aspettare dall’innocenza? La risposta è il sacrificio perfetto. Se una persona è totalmente libera dall’egoismo, non cerca il proprio comodo, né si cura della propria vita, ecco che in lei si ripete il sacrificio della Croce. “Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici”. (Gv 15,13). Al di là di ogni legame o vincolo di sangue, nella sua purezza assoluta, Cristo ci ha detto “chiunque fa la volontà del Padre mio che è nei cieli, egli è per me fratello, sorella e madre”. (Mt 12,50)

Nostro Signore sulla croce era così distaccato dal proprio tornaconto, così estraneo ad ogni egoismo, così disinteressato alla carne, che ha potuto guardare a sua Madre, non come se fosse solo sua, ma facendone la Madre di tutti. La purezza perfetta è abnegazione perfetta. Ecco perché Cristo dona sua Madre a noi, rappresentati da Giovanni: “Ecco tua madre”. Non voleva essere egoista, non voleva tenere tutta per sé la più bella ed amabile delle madri: era pronto a condividere sua Madre con tutti noi. E così, ai piedi della croce, ha donato a noi la Madre di Dio, la Madre di tutti gli uomini. Nessuno avrebbe potuto fare una cosa simile, i vincoli della carne e dell’egoismo avrebbero prevalso. I legami della carne sono troppo stringenti perché chiunque di noi possa condividere sua madre con un’altra persona. Ma la purezza assoluta può farlo. Ecco perché la beatitudine sui puri di cuore ben si abbina alla terza parola: l’altruismo ha toccato l’apice, la purezza assoluta, non solo Cristo ha dato la vita per la nostra salvezza, ma ci ha anche dato sua Madre perché non restassimo orfani. La purezza dunque non è qualcosa di negativo; non è solo un bocciolo che non si è dischiuso; non è qualcosa di freddo, non è l’ignoranza della vita. Forse che la giustizia è solo l’assenza di disonestà? E la misericordia coincide con l’assenza della crudeltà? La fede è solo la mancanza di dubbi? La purezza non è solo la mancanza di sensualità, è altruismo che nasce dall’amore, dall’amore più elevato di tutti. Chiunque ha fatto un voto è innamorato, non di un amore che muore, ma dell’amore eterno: l’amore per Dio. La castità è appassionata, Francis Thompson dice di lei che è “la passione senza passione, un’impetuosa serenità”. La castità non è una virtù impossibile. Anche chi non la possiede può esserlo di fatto. Sant’Agostino chiama Maria Maddalena “l’archetipo delle vergini”. Pensateci! Lei un esempio di verginità! Quanto a verginità sant’Agostino la equipara alla Beata Madre di Dio, Maddalena, una semplice prostituta. Questa donna ha riacquistato la sua purezza ricevendo l’anticipo dell’Eucaristia, la sera che ha lavato con le sue lacrime i piedi di Cristo. Quello è stato il suo contatto con la purezza, che ha segnato così profondamente la sua vita da portarla, poco tempo dopo, ai piedi della croce, quel venerdì santo. E chi era con lei allora? Proprio la Beatissima Madre. Che coppia: una donna il cui nome, solo pochi mesi prima, era sinonimo di peccato accanto alla Santissima Vergine! Se Maria ha voluto bene alla Maddalena, perché non potrebbe amare anche noi? Se c’è speranza per la Maddalena, allora c’è speranza anche per noi. Se lei ha ritrovato la purezza, allora anche noi possiamo riacquistarla. E come potremmo se non attraverso Maria, perché altrimenti chiamarla Purissima Madre, se non fosse perché rende puri anche noi?

Chiunque può rivolgersi a Maria, non solo i peccatori pentiti come la Maddalena, ma anche i vergini o le brave madri, perché lei è sia Vergine che Madre. La Verginità da sola potrebbe mancare di qualcosa. C’è come qualcosa di incompleto, una facoltà non utilizzata. La maternità da sola potrebbe mancar di qualcosa. Nella maternità si rinuncia a qualcosa. Ma in Maria “nulla manca e nulla è perduto” (Sheila Kay Smith). C’è verginità anche nella maternità – “la primavera di un maggio che non finisce mai”. La purezza, allora, non è egoismo. È resa, è altruismo, è sacrificio. Raggiunge il suo massimo quando la Madre di Gesù diventa nostra Madre. Basta con quegli stupidi modi di dire del mondo: “l’amore è cieco”. Non può essere cieco! Nostro Signore ci ha detto espressamente “Beati i puri di cuore, perché vedranno” – vedranno addirittura Dio! Maria, apri i nostri occhi!

Il libro uscirà nelle librerie il 20 Febbraio ma si può già pre-ordinare e prenotare sul sito della casa editrice Mimep delle suore.

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IL PIANTO DEL CRISTO: UN NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN CHE RAPPRESENTA UN’AUTENTICA CHIAMATA ALLA SANTITÀ!

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Per la prima volta, i sette testi del Vescovo americano Fulton Sheen sulle “Ultime Sette Parole” sono stati raccolti in questo volume. L’autore mostra come le parole del Crocifisso siano, in realtà, un catechismo completo sulla vita spirituale. Guidato dal suo carisma eccezionale il lettore scopre i segreti per praticare le beatitudini, evitare i vizi capitali, coltivare le virtù e vivere in Grazia di Dio. E’ condotto all’ombra della Croce, per entrare in un rapporto sempre più profondo con il Salvatore. Pochi libri esprimono una tale forza spirituale: questa antologia rappresenta un’autentica chiamata alla santità!

Fulton Sheen scrisse questi sette testi tra il 1933 e il 1945:

  1. Le ultime sette parole (1933)
  2. La croce e le beatitudini (1937)
  3. L’arcobaleno del dolore (1938)
  4. La vittoria sul vizio (1940)
  5. Le sette virtù (1939)
  6. Le sette parole alla croce (1944)
  7. Le sette parole di Gesù e Maria (1945)

La presente antologia si compone di sette parti, ciascuna delle quali tratta di una delle sette parole pronunciate da Cristo sulla croce. In ciascuna di queste parti è stato poi inserito un passo tratto da uno dei libri summenzionati, così da ampliare e completare gli spunti offerti per la meditazione e lo studio delle seguenti tematiche:

  1. Le parole di Cristo dalla Croce
  2. Le beatitudini
  3. Dolore e sofferenza
  4. I sette peccati mortali
  5. Le sette virtù
  6. I gruppi che rifiutano la Chiesa e i suoi insegnamenti
  7. L’unità di Gesù e Maria

61 MINUTI PER UN MIRACOLO: FULTON SHEEN E LA VERA STORIA DI UN FATTO INCREDIBILE! UN LIBRO IMPERDIBILE!

61 minuti per ottenere un miracolo indiscutibile attraverso l’intercessione dell’Arcivescovo Fulton Sheen. È questo il miracolo approvato da Papa Francesco, nel luglio del 2019, per la beatificazione la cui data è ancora da definire.

La fede e la preghiera di questa famiglia ha ridonato il respiro al loro figlio nato morto. È un fatto incredibile raccontato con la semplicità di una mamma che ha vissuto in prima persona il miracolo: James era nato morto e ha cominciato a respirare dopo 61 minuti.

Però il miracolo più grande non è il ritorno alla vita. Ciò che stupisce tutti, specialmente i medici e gli scienziati, è il fatto che il cervello di James non ha subito nessun danno dopo non aver ricevuto ossigeno per più di un’ora. Oggi James è un ragazzo normale senza nessuna difficoltà motoria o psicologica.

Questo libro racconta tutta questa meravigliosa vicenda. È un racconto semplice, colloquiale che arriva diritto al cuore del lettore. Non puoi leggere questa storia senza lasciarti coinvolgere dal dolore di una mamma che ha visto un figlio nascere senza respiro. Il suo modo di raccontare ci rende partecipi del suo dolore ma anche della sua gioia ad avere accanto il suo figlio che aveva perso. Alla fine di questo racconto non ti rimane altro che dire: il Signore è grande. Sì il Signore è grande e compie meraviglie fino ad oggi.

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DIO, LA LEGGE DI GRAVITÀ DELL’AMORE, E IL PARADISO: “Ogni anima ha un appassionato desiderio di tornare alla sua fonte originale”

Lo Spirito Santo è lo spirito del Padre, com’è lo spirito del Figlio, ma più di questo lo Spirito Santo personifica ciò che il Padre e il Figlio hanno in comune. In Dio l’amore non è una qualità come avviene per noi, poiché ci sono momenti nei quali non amiamo! Ma se lo Spirito Santo è il vincolo di amore tra il Padre e il Figlio, ne consegue che sarà necessariamente anche il vincolo di amore tra gli uomini!

Ecco perché nostro Signore, la notte dell’ultima cena, disse che come Lui e il Padre erano uno nello Spirito Santo, così gli uomini sarebbero stati una cosa sola nel Suo Corpo Mistico, e per realizzare questa unione mistica Lui stesso avrebbe mandato il suo Spirito. Lo Spirito Santo è necessario alla natura di Dio perché mediante il vincolo dell’amore sussiste l’eterna armonia fra le persone divine!

Con una debole riflessione gli uomini hanno sempre riconosciuto nell’amore la forza unificante e coagulante della società umana, in quanto vedevano nell’odio la causa della sua disgregazione e del caos. Difatti, come Dio nel creare il mondo volle immettervi la forza di gravità di modo che influisse su tutta la materia, allo stesso modo fissò nel cuore dell’uomo un’altra legge di gravità, che è la legge dell’amore mediante la quale tutti i cuori sono attratti nuovamente al centro e alla fonte dell’Amore: Dio.

Sant’Agostino disse: “l’amore è la mia legge di gravità” per indicare che ogni anima ha un appassionato desiderio di tornare alla sua fonte originale, al suo divino cuore, al suo “centro di gravità” vitale. Nella natura umana il desiderio è tutto e, non senza ragione, il paradiso è stato definito una “natura piena di vita divina attratta dal desiderio”. Da ciò si comprende che il paradiso consiste propriamente nell’Amore e che esso è il definitivo approdo dell’anima.

(Fulton J. Sheen, da “Tre per sposarsi” edizioni Fede e Cultura)

MIRACOLO A SIENA PER L’INTERCESSIONE DI FULTON SHEEN? “Un Sacerdote intossicato dal monossido di carbonio si salva grazie al Cielo”

Intossicato dal monossido di carbonio si salva grazie al Cielo

Don Oscar Ziliani era a Siena quando è finito in coma. Ne è uscito in modo sorprendente, i medici: «Un esito non scontato». Gli effetti di una catena incessante di preghiere rivolte anche al venerabile Fulton Sheen. Il racconto di una storia straordinaria nel reportage di Raffaella Frullone.

-Dal giornale “Il Timone”, numero 216 di Aprile 2022-

«Ma io sono risorto vero?». Don Oscar Ziliani si è rivolto così, da un letto d’ospedale, a un medico, poco dopo il suo risveglio dal coma. «Ho avuto subito questa percezione netta, senza sapere praticamente nulla di quello che era successo, non sapevo nemmeno dove fossi e che giorno fosse, un’esperienza fortissima».  

Era il 17 gennaio di quest’anno, don Oscar si trovava nel reparto di terapia intensiva e rianimazione dell’ospedale di Grosseto, dove era stato ricoverato 8 giorni prima per una gravissima intossicazione da monossido di carbonio. Ma riavvolgiamo il nastro. Don Oscar Ziliani ha 56 anni ed è parroco di Vezza D’Oglio, comune con poco meno di 1.500 abitanti in Valle Camonica, provincia e diocesi di Brescia. Agli inizi di gennaio insieme a un confratello, don Ermanno Magnolini, decide di trascorrere un paio di giorni di riposo e preghiera a casa di un comune amico, don Alessandro Galeotti, anche lui sacerdote bresciano ma parroco a Quercegrossa, vicino a Siena. I due arrivano a destinazione il pomeriggio del 10 gennaio e la sera i tre sacerdoti cenano insieme nei locali della canonica nuova di Quercegrossa – di recente costruzione, attaccata alla chiesa parrocchiale – dove don Galeotti ospita parenti e amici di passaggio, mentre lui risiede nella vecchia canonica. I tre si danno poi appuntamento la mattina seguente, alle 8.30, per la Messa. Ma don Oscar e don Ermanno non si presentano all’appuntamento.

«Al momento non mi sono preoccupato più di tanto, ho pensato che avessero deciso di dormire un po’ di più -spiega don Galeotti – così ho celebrato la Messa e subito dopo sono andato a Siena per una seduta di fisioterapia. Tornando ho chiamato i miei amici: don Oscar non rispondeva, don Ermanno mi ha risposto ma in modo decisamente poco lucido, così mi sono insospettito, ho cominciato a pensare che qualcosa non andasse e con un’altra chiave sono entrato in canonica. Erano circa le 11.45». 

Don Galeotti trova don Oscar in una stanza privo di sensi e don Ermanno in un’altra in stato confusionale, entrambi sporchi di vomito. Pensa a un’intossicazione alimentare e subito chiama i soccorsi. Non appena i sanitari del 118 varcano la soglia della canonica i sensori che portano sul camice iniziano a segnalare la presenza di monossido di carbonio. Vengono chiamati i vigili del fuoco, mentre le ambulanze, caricati i due preti, partono a sirene spiegate verso l’Ospedale Misericordia di Grosseto, che con la sua camera iperbarica è un punto di riferimento a livello regionale per casi simili. Sulla caldaia della canonica nuova erano stati eseguiti tutti i controlli previsti, tutto sembrava in ordine, eppure qualcosa è andato storto. La stanza da letto di don Ermanno era più distante dalla fonte del monossido, quindi le sue condizioni sono apparse subito meno gravi. Per don Oscar, invece, la situazione si è presentata come drammatica.

«Il monossido di carbonio è un gas inodore, che determina gravissime intossicazioni, che possono essere mortali, in pazienti totalmente inconsapevoli di venire intossicati – spiega Genni Spargi, direttore dell’Unità operativa complessa di Anestesia e Rianimazione dell’ospedale di Grosseto – e don Oscar infatti non si era accorto di niente».

Intanto in parrocchia a Quercegrossa sono ore di angoscia, ricorda don Galeotti: «Sono stati momenti terribili, sentivo la responsabilità di quello che era accaduto, di aver messo in pericolo la vita dei miei amici. Ma anche la comunità: per ragioni ancora non chiare il monossido di carbonio era presente anche nelle sale del catechismo e persino in chiesa dove avevo celebrato la Messa, fortunatamente a porte aperte. Ma era principalmente per don Oscar la mia preoccupazione, perché il medico che lo ha soccorso per primo mi ha detto chiaramente: “È un caso disperato, respira appena”. A quel punto non potevo che alzare gli occhi al cielo, e ho iniziato a pregare. Abbiamo iniziato a pregare tutti quanti, in parrocchia da noi e nella parrocchia di don Oscar a Vezza D’Oglio, e poi a catena tantissime persone amiche sparse in tutta Italia». 

Intanto don Oscar viene sottoposto a un coma indotto. «Hanno chiamato mia sorella – racconta il sacerdote camuno – e le hanno eccezionalmente permesso di entrare in terapia intensiva poiché, le hanno detto, non erano certi che mi avrebbe potuto rivedere vivo. E hanno aggiunto che se anche mi avesse rivisto vivo, c’era una grossa incognita su come mi sarei risvegliato, poiché il monossido di carbonio colpisce i tessuti e li manda in necrosi quindi le conseguenze possono essere invalidanti».

Eppure il 17 gennaio don Oscar, contro ogni pronostico, si risveglia. «Ho capito subito di essere in ospedale e di essere in un reparto particolare. Il mio primo pensiero è stato di avvisare mia mamma e mia sorella che ero lì e che ero sveglio. C’era un’infermiera che mi ha detto di stare tranquillo, poi mi ha chiamato un medico, il quale mi ha chiesto di provare a stringergli la mano, cosa che ho fatto. È stato lui che mi ha detto che avevo subito un avvelenamento da monossido di carbonio e mi ha spiegato dove mi trovavo».

Tre giorni dopo il risveglio, don Oscar sta meglio, e viene trasferito nel reparto ordinario dello stesso Ospedale. «Un esito decisamente non scontato – dice oggi la dottoressa Spargi – perché era arrivato in condizioni molto critiche. Per come sono andate le cose possiamo dire che è stato miracolato, lo dico tra virgolette. Lui è un uomo di grande spessore e ha capito, rivedendo la sua storia, quello che era successo e quindi ha anche voluto manifestare la sua gratitudine verso di noi con una lettera che abbiamo pubblicato sul sito dell’ospedale». 

Anche se forse c’è anche qualcun altro da ringraziare. Don Galeotti rivela un particolare: «Fin dalla prima sera mi sono chiesto: “Chi mi può aiutare in questo momento buio a vivere la mia vocazione? E a chi posso affidare don Oscar?”. E ho pensato subito a Fulton Sheen, di cui stavo leggendo un libro. Così ho chiesto alle persone a me più vicine di unirsi alla mia preghiera a questo venerabile».

Forse il grande vescovo e predicatore statunitense morto nel 1979, di cui si attende la data della beatificazione dopo che nel 2019 è stata riconosciuta la sua intercessione in una guarigione miracolosa, ha compiuto un altro favore soprannaturale, e lo ha fatto per uno di quei sacerdoti che amava con cuore di padre? 

«Ho attraversato un mare buio sotto un cielo senza stelle – ha scritto di suo pugno don Oscar Ziliani, che oggi è tornato a fare il parroco a Vezza d’Oglio, senza aver riportato alcun danno – e sono approdato in terre lontane dove i granelli di sabbia della mia clessidra avevano le dimensioni di pesanti macigni. Ho visitato regioni inesplorate segnate dall’oblio della memoria, sono stato chiamato a ripercorrere le vie dell’umanità e spogliato delle mie difese e messo a nudo nelle mie emozioni ho ripreso il mio cammino. In questo luogo senza spazio e tempo non ho visto la luce in fondo al tunnel, ma in modo misterioso,ma non per questo meno reale, ho percepito il sostegno di chi mi ha curato, la preghiera, la forza e l’energia di chi ha pregato per me, di chi mi ha pensato e sostenuto in ogni modo. Risvegliato dal torpore di un sogno senza confini mi sono chiesto il perché di questa nuova opportunità, negata a tanti, ma concessami per grazia da Colui che mi ha creato e redento. Non ho trovato risposta se non nell’Amore. In quell’Amore che mi ha tessuto nel seno di mia madre, e che mi ha chiamato alla vita. Per quell’amore di tante persone che conoscendomi o no hanno interceduto presso Colui che tutto può». 

LA GRANDE LEZIONE DEL GIORNO DI PASQUA: “Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione…E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo…Nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente”

Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione. Colui che aveva il potere di offrire la propria vita aveva anche il potere di riprenderla di nuovo; Colui che volle nascere nella carne, volle anche morire; Colui che sapeva come sarebbe morto, sapeva anche come sarebbe risorto per dare a questo minuscolo e misero nostro pianeta un onore ed una gloria che astri fiammeggianti e Pianeti gelosi non condividono: la gloria dell’unica tomba lasciata vuota.

La grande lezione del giorno di Pasqua consiste nel fatto che un Vincitore può essere considerato sotto un duplice punto di vista: quello del mondo e quello di Dio. Secondo il mondo, Cristo quel Venerdì Santo fu sconfitto, secondo Dio Egli fu vincitore. Coloro che lo condannarono a morte gli offrirono proprio l’occasione di cui Egli aveva bisogno, coloro che chiusero con la pietra il sepolcro, gli offrirono proprio la porta che Egli desiderava spalancare; il loro apparente trionfo aprì la strada alla Sua suprema vittoria. II Natale ha insegnato che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno si attendeva di trovarlo avvolto in fasce e posto in una mangiatoia. La Pasqua conferma la lezione ripetendo che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno fra quelli del mondo si attendeva che uno sconfitto sarebbe stato il vincitore, che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo, che Colui che era morto, sarebbe ritornato a camminare e che, ignorato, posto in un sepolcro, sarebbe diventato la nostra Risurrezione e la nostra Vita. 

Nel giorno di Pasqua, io non intono il canto dei vincitori, ma quello di coloro che hanno subito la sconfitta:

«Io canto l’inno dei vinti, quelli che caddero nella battaglia della Vita, l’inno dei feriti, dei battuti, che perirono soccombendo nella mischia. Non il canto di giubilo dei vincitori, per i quali risuona l’acclamazione elevata in coro dalle nazioni, di quelli con la corona della gloria terrena sulla fronte, ma l’inno dei miseri, degli umili, degli esausti, di quelli dal cuore spezzato, che lottarono e persero, facendo con coraggio la loro parte, silenziosa e senza speranza; la loro gioventù non fu ricca di fiori, le loro speranze finirono in cenere, dalle loro mani sfuggì il bottino che cercavano di afferrare, al loro tramonto stavano fra i cocci della loro vita sparsi attorno, senza ricevere da nessuno compassione o attenzione, soli ed abbandonati. La morte spazzò via il loro fallimento, tutto venne travolto eccetto la loro fede. Mentre il mondo, in coro, innalza il suo elogio a coloro che hanno vinto, mentre la tromba, tenuta alta nella brezza ed al sole suona trionfante, mentre le bandiere sventolano, scrosciano applausi e ci si affretta dietro ai vincitori, cinti d’alloro, io rimango nel campo dei vinti, nell’ombra, con i caduti, i feriti, gli agonizzanti, là recito sottovoce un requiem, gli poso le mie mani sulla loro fronte contratta dalla sofferenza, innalzo sommessamente una preghiera, tengo la mano impotente e sussurro: “Otterranno la vittoria solo coloro che hanno combattuto la buona battaglia, che hanno sbaragliato il demone che li tentava nel loro intimo, che hanno conservato la fede rifiutando di farsi sedurre da quei beni che il mondo stima così tanto; che, per una causa superiore, hanno osato soffrire, resistere, combattere e, se necessario, morire”. Parla, o Storia! Chi sono i vincitori nella battaglia della Vita? Scorri i tuoi annali e di’, sono quelli che il mondo chiama vincitori che conquistarono il successo effimero di un giorno? Sono i martiri o Nerone? Gli Spartani, caduti alle Termopili? O i Persiani e Serse? I suoi giudici o Socrate? Pilato o Cristo?». 

Srotola le pergamene del tempo ed osserva come la lezione di quella prima Pasqua Cristiana si ripete, quando, ad ogni celebrazione della Pasqua si raccontano le vicende del grande Condottiero che è uscito dal sepolcro per rivelare che la vittoria finale, quella definitiva, deve sempre essere intesa come sconfitta agli occhi del mondo. Almeno una dozzina di volte nel corso della sua storia bimillenaria, il mondo nell’impeto di un effimero trionfo, ha posto la pietra a sigillo sul sepolcro della Chiesa, vi ha posto la guardia e l’ha considerata come morta, esausta, sconfitta, solo per vederla risorgere vittoriosa nell’aurora della sua Pasqua. (…)

Infine la Pasqua ci offre una lezione che riguarda la nostra stessa vita.

E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo seguendo la voce della propria coscienza piuttosto che essere vincenti secondo la falsa opinione del mondo; è meglio essere vinti nella santità del vincolo matrimoniale che ottenere l’effimera vittoria del divorzio; è meglio essere vinti in mezzo a tanti figlioli, frutti dell’amore, che vincenti in un’unione volutamente sterile; è meglio essere vinti dall’amore della Croce, che conseguire l’effimera vittoria del mondo che mette in croce. In conclusione è meglio essere sconfitti agli occhi del mondo dando a Dio ciò che è interamente e assolutamente nostro. Se diamo a Dio la nostra energia, Gli restituiamo un Suo dono; se Gli diamo i nostri talenti, le nostre gioie, i nostri beni, Gli rendiamo ciò che Egli mise nelle nostre mani non per esserne proprietari, bensì semplici amministratori. Una sola cosa c’è al mondo che possiamo definire veramente nostra, la sola che possiamo dare a Dio, che è nostra invece che Sua, la sola che Egli non ci toglierà mai; questa cosa è la nostra volontà col suo potere di scegliere l’oggetto del suo amore. Quindi il dono più perfetto che possiamo offrire a Dio è quello della nostra volontà. Agli occhi del mondo, donarla a Dio è la suprema sconfitta che possiamo subire, ma è anche la suprema vittoria che possiamo conseguire agli occhi di Dio. Nel cedergliela ci sembra di perdere tutto, la sconfitta però è il seme della vittoria. La rinuncia alla propria volontà conduce a ritrovare tutto ciò che la volontà abbia mai cercato, la perfezione della Vita, della Verità, dell’Amore, cioè Dio.

E così, nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente. Cosa importa se la strada, in questa vita, sia ripida e disagevole, se la povertà di Betlemme, la solitudine della Galilea, le sofferenze della Croce siano il nostro pane? Mentre combattiamo, santamente ispirati da Colui che ha conquistato il mondo, perché mai dovremmo trattenerci dal manifestare la nostra sfida di fronte all’ipocrisia del mondo? Perché temere di estrarre la spada e assestare il primo colpo mortale al nostro egoismo? Marciando sotto la guida del Condottiero dalle cinque Piaghe, fortificati dai Suoi Sacramenti, resi incrollabili dal Suo essere Verità infallibile, divinizzati dal Suo Amore redentivo, non abbiamo alcun timore circa l’esito della battaglia della vita; nessun dubbio sull’epilogo della sola lotta che conta; nessun bisogno di chiederci se saremo vincitori o perdenti. Perché? Perché abbiamo già vinto – solo che la notizia non è ancora trapelata! 

(Fulton J. Sheen, da “The Morale Universe”)

IL PARADOSSO PIÙ STRAORDINARIO DELLA STORIA DEL MONDO

Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo Lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in Immortalità. La Croce era proprio ciò che Egli disse che un uomo deve portare per essere rifatto; Gli diedero la croce ed Egli la trasformò in un trono di gloria. Disse che un uomo deve morire per vivere; Gli diedero la morte ed Egli visse di nuovo. Disse che se il seme caduto in terra non muore, rimane solo; Lo piantarono come un seme il venerdì, e a Pasqua risuscitò nella novità della vita divina, come il fiore che spunta dalla zolla in primavera. Ha detto che nessuno sarà esaltato se non è umiliato; Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo!

(Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

PARTECIPARE ALLA MESSA È LO STESSO CHE ESSERE PRESENTI SUL CALVARIO: “Lo svantaggio di non aver vissuto all’epoca di Cristo è azzerato dalla Messa. Sulla croce, Egli ha potenzialmente redento tutta l’umanità; nella Messa noi rendiamo attuale quella Redenzione” FULTON SHEEN

La Messa, quindi, guarda avanti e indietro. Poiché viviamo nel tempo e possiamo servirci soltanto di simboli terreni, vediamo in successione quello che non è altro che un unico eterno movimento d’amore. Se una bobina cinematografica fosse dotata di coscienza, vedrebbe e capirebbe la storia in una volta; mentre noi non la afferriamo finché non ne vediamo lo svolgimento sullo schermo. Così accade con l’amore da cui Cristo ha preparato la sua venuta nell’Antico Testamento, ha offerto sé stesso sul Calvario e ora lo ripresenta nel sacrificio della Messa.

La Messa, di conseguenza, non è un’altra immolazione, ma una nuova presentazione dell’eterna vittima e la sua applicazione a noi. Partecipare alla Messa è lo stesso che essere presenti sul Calvario. Ma con alcune differenze. Sulla croce, Nostro Signore ha offerto sé stesso per tutta l’umanità; nella Messa noi applichiamo quella morte a noi stessi e uniamo il nostro sacrificio al suo.

Lo svantaggio di non aver vissuto all’epoca di Cristo è azzerato dalla Messa. Sulla croce, Egli ha potenzialmente redento tutta l’umanità; nella Messa noi rendiamo attuale quella Redenzione. Il Calvario è legato a un dato momento nel tempo e a una specifica collina nello spazio. La Messa temporalizza e spazializza quell’eterno atto di amore. Il sacrificio del Calvario è stato offerto in modo cruento mediante la separazione del suo corpo dal suo sangue.

Nella Messa, questa morte è presentata misticamente e sacramentalmente in modo incruento, mediante la consacrazione separata del pane e del vino. I due elementi non sono consacrati insieme, con parole del tipo: «Questo è il mio corpo e il mio sangue»; piuttosto, secondo le parole di Nostro Signore: «Questo è il mio corpo», si dice sul pane; poi, «Questo è il mio sangue», si dice sul vino. La consacrazione separata è una sorta di spada mistica che divide il corpo dal sangue, nel modo in cui il Signore è morto sul Calvario.

Supponiamo che ci sia un’eterna stazione radiofonica che trasmetta onde eterne di saggezza e illuminazione. Le persone che vivono in differenti epoche potrebbero sintonizzarsi a quella sapienza, assimilarla e applicarla a sé stessi. L’eterno atto di amore di Cristo è qualcosa con cui possiamo sintonizzarci nelle successive epoche storiche mediante la Messa. La Messa, di conseguenza, trae la sua realtà e la sua efficacia dal Calvario e non ha senso al di fuori di esso. Chi assiste alla Messa, solleva la croce dal suolo del Calvario per piantarla al centro del proprio cuore.

Questo è il solo perfetto atto d’amore, di sacrificio, di ringraziamento e di obbedienza con cui possiamo ripagare Dio; precisamente, quello che è offerto dal suo Figlio divino incarnato. Da noi stessi non siamo in grado di toccare il cielo perché non siamo abbastanza alti. Da noi stessi non possiamo toccare Dio. Abbiamo bisogno di un mediatore, qualcuno che sia Dio e uomo, che è Cristo.

Nessuna preghiera umana, nessun atto umano né abnegazione, nessun sacrificio è sufficiente a squarciare il cielo. Solo il sacrificio della croce può farlo ed è ciò che avviene nella Messa. Quando la celebriamo, per noi è come essere appesi alle sue vesti, aggrappati ai suoi piedi durante l’ascensione, stretti alle sue mani piagate mentre offre sé stesso al Padre celeste. Nascondendoci in lui, le nostre preghiere e i nostri sacrifici hanno il suo stesso valore. Nella Messa siamo una volta di più sul Calvario, associati a Maria, alla Maddalena, e a Giovanni, mentre vediamo tristemente alle nostre spalle i carnefici che disputano ai dadi le vesti del Signore.

Il sacerdote che offre il sacrificio semplicemente presta a Cristo la propria voce e le proprie dita. È Cristo il Sacerdote; è Cristo la Vittima. In tutti i sacrifici pagani e nei sacrifici giudaici, la vittima era sempre distinta dal sacerdote. Poteva trattarsi di una capra, un agnello o un toro. Ma quando è venuto Cristo, Egli, il Sacerdote, ha offerto sé stesso come Vittima. Nella Messa è Cristo che ancora offre sé stesso e che è la Vittima con la quale diventiamo una cosa sola.

(Fulton J. Sheen, da “I 7 Sacramenti” edizioni Ares)

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Questo vuol dire essere Cattolici: essere eternamente inquieti ed eternamente in pace! Più profonda è la nostra Fede, più acuta la nostra impazienza di conoscere la pienezza della Luce! — Amici di Fulton John Sheen

“Nel mondo avrete tribolazioni; ma confidate in Me, Io ho vinto il mondo” (Giovanni 16,33) In un certo senso si può rispondere con un paradosso: Cattolico è colui che risente nello stesso momento ciò che può sembrare una contraddizione: inquietudine e pace. Prima l’inquietudine che non è, naturalmente, la falsa inquietudine di coloro che non […]

via Questo vuol dire essere Cattolici: essere eternamente inquieti ed eternamente in pace! Più profonda è la nostra Fede, più acuta la nostra impazienza di conoscere la pienezza della Luce! — Amici di Fulton John Sheen