LE TENEBRE DI OGGI ANCHE FRA I CATTOLICI: “È necessario spegnere le false luci del mondo e riaccendere la luce di Gesù Cristo, non solo nelle nazioni ma anche tra i medesimi cattolici.” DON DOLINDO RUOTOLO

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-Le tenebre di oggi anche fra i cattolici-

Ecco, noi viviamo in un’epoca di tenebre fitte, in un momento di frenesia collettiva che ci fa correre verso la catastrofe; si affondano le navi, si distruggono immani ricchezze, si corre come esercito mobilitato verso la morte, e perché? Perché manca la luce di Gesù Cristo che è Lume di vita! Si assiste al miserando spettacolo della creazione di nuove fedi fondate sull’ignoranza, di nuove religioni fondate su idoli scelleratissimi, carichi di delitti, e persino di nuovi misticismi che mostrano come simboli e oggetto di contemplazione la rivoltella, il pugnale, la bomba a mano e il teschio di morte, non per considerare la morte in ordine alla Vita eterna ma per darla spietatamente o incontrarla disperatamente.

Gli uomini sembrano impazziti, impazziti fino al delirio; sconvolgono tutto per creare, secondo loro, un ordine nuovo, e fanno rovinare tutto, travolgendo tutto nell’immane cataclisma delle rivoluzioni e delle guerre. Si presta una fede cieca ai corifei dell’empietà, fino a considerarli come dèi, e si nega l’assenso nobilissimo dell’intelletto e del cuore a Gesù Cristo. È una cosa penosissima! È necessario spegnere le false luci del mondo e riaccendere la luce di Gesù Cristo, non solo nelle nazioni ma anche tra i medesimi cattolici.

Ci sono infatti, fra essi, gravi sintomi di assideramento e di disorientamento; serpeggiano fra loro a man salva errori funestissimi e pochi se ne accorgono, assorbendone il veleno nella vita. C’è una forte infiltrazione di razionalismo, di materialismo e di naturalismo nelle anime, un aborrimento del soprannaturale, una forzata paralisi degli slanci dell’anima verso vette più alte, un subcosciente disprezzo di tutto quello che è vita interiore e vita di santità e, soprattutto, un rispetto umano spinto fino a ostentare rispetto e simpatia per gli eretici e i perversi e disprezzo e noncuranza per tutto quello che può far temere l’accusa di piccolezza d’animo o di pietà da donnette.

Citiamo, a questo proposito, un brano del padre Faber, perché è troppo importante che si riaccenda in pieno la luce che ci ha dato Gesù Cristo tra i fedeli e – bisogna dirlo – tra quelli stessi che li guidano, perché il disorientamento è anche tra le anime consacrate a Dio.

«Vi sono molti, ai nostri tempi, i quali non dicono di non essere cristiani, ma pure scrivono e parlano come se fossero fuori e come se fossero, allo stesso tempo, cristiani e non cristiani. Essi non si diedero pena di formulare una miscredenza positiva, ma non comprendono come mai il progresso, la perfettibilità e le scoperte moderne… possano conciliarsi con quella collezione di antichi dogmi che costituiscono la religione cristiana, e inclinerebbero a rinunciare ai dogmi piuttosto che alle scoperte e invenzioni. Tali persone mettono la dignità umana fra le considerazioni di prim’ordine, mentre, secondo loro, l’assenso dell’uomo alle dottrine e alle pratiche della Chiesa è tanto degradante alla sua nobiltà intellettuale, quanto la sua obbedienza alle medesime è superstiziosa e umiliante. Papa e teologia, Madonna e Santi, grazie e Sacramenti, penitenza e Purgatorio, scapolari e rosari, ascetismo e misticismo, combinandosi per formare un carattere perfettamente distinto e riconoscibile, arrecano un tono alla mente e un fare alla condotta che non lasciano dubbio, e che difficilmente si sbaglia a riconoscerli… Le persone delle quali ora parliamo sono ben lontane dal nutrire stima per un tale carattere. Ai loro occhi è un carattere piccolo, debole, spregevole, codardo, gretto, pusillanime. Difetta di quell’espansione e ardire della grandezza morale, secondo il loro modo di misurare la grandezza. Queste persone tracciarono dei limiti al servizio di Dio, cercarono con lui un compromesso, lo ridussero da Creatore ad un ente che può imporre tasse e tributi e nulla più, perché Egli è un monarca costituzionale e non dispotico, ed essi si formarono della perfezione un’opinione sfavorevole, come di un’aggressione incostituzionale per parte di Dio e del suo esecutivo».

Noi non ci accorgiamo che Gesù Cristo non è più considerato come luce del mondo e che alla Chiesa stessa si tende a dare una fisionomia che non discordi troppo o dal mondo o dalle pompose esibizioni di sapienza, di equilibrio e di serietà delle sette. Quasi quasi ci piace quell’ipocrita austerità di riti senz’anima e senza slanci, quel bando dato a tutto quello che riscalda il cuore e lo muta in un vibrante motore spirituale che porta l’anima nei voli dell’amore. Ci mostriamo disgustati dalle pose dei Santi che ci sembrano esagerate e tendiamo sempre più a vestirci dello smoking del mondo, per mostrarci a nostro modo seri ed equilibrati, rinnegando così la divina stoltezza della Croce. Crediamo quasi indecoroso che un cardinale si mostri con la corona in mano o che baci un’immagine sacra; ci abituiamo troppo a confondere la luminosa maestà dell’anima che crede, spera e ama, con la boria di una serietà mondana, più ridicola di quella di un pagliaccio.

Siamo come schiavi, incatenati dalla miscredenza e dagli errori altrui, tremanti a ogni cenno del loro disprezzo per quello che è frutto di devozione e di pietà cristiana, premurosi di toglierci ogni segno di riconoscimento cristiano, rinnegatori della nostra divina nazionalità, diremmo snobisti di satana e di quello che satana ha prodotto per renderci come stranieri e forestieri nella stessa Chiesa, simili a quegli zulù africani che passano dal loro deserto ardente in una delle nostre rumorose piazze, smarriti nello splendore della civiltà e desiderosi del covo delle loro montagne.

(Don Dolindo Ruotolo, da “Faccia a faccia con Gesù: meditazioni per la Quaresima e la vita spirituale” edizioni Mimep)

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Faccia a faccia con Gesù

GESÙ ALLA BEATA CONCHITA: “Non è Dio che condanna, ma è l’uomo che rinnega Dio e sceglie l’inferno con assoluta libertà”

Appena sono arrivata ai suoi piedi prese a dirmi:

«E se sapessi perché come Dio sono paziente? Perché sono eterno, perché per Me tutto è presente. Vedo i peccati e il pentimento nelle anime; vedo ciò che nel presente mi offende e l’avvenire che redime. Gli avvenimenti, che per l’uomo sono futuri, per Me sono presenti, in cui ogni cosa si muove ed esiste nella mia pace immutabile, in cui si schianta l’inferno stesso. Perciò, la mia bontà non concede alle anime ciò che può essere dannoso anche se me lo chiedono; per l’uomo, è un bene ciò che chiede, ma lo so che quello è un male che lo nuoce. Quanto è ingrato l’uomo che non si china davanti alla mia Volontà che è sempre amorevole nei suoi confronti. Quanti mi chiamano ingiusto, senza conoscere i benefici che hanno ricevuto! Sono paziente nei confronti dei peccatori e delle anime perché so misurare la debolezza dell’uomo, e la mia infinita bontà non ha misura. Questo Dio è la misericordia stessa! E quando castiga, obbligato dall’uomo, quegli stessi castighi sono misericordia sulla terra».

«Dunque, se tutto per Te è presente, sai in anticipo chi si salva e chi si danna?».

«Come Dio, che vede tutto al presente, sì, perché non può essere diversamente; ma tra vedere chi sarà dannato e volere la sua dannazione c’è un abisso. Per salvarsi o dannarsi, l’uomo ha la libertà di scegliere, libertà che è stata data da Me. Questa libertà è una soddisfazione per Me, la volontà amorosa dell’uomo che per amore sceglie di essere mio. Se lo avessi fatto in modo che tutti si salvassero senza condizioni, la mia giustizia sarebbe di troppo e il mio amore non avrebbe la scelta dell’uomo che tanto mi soddisfa. Ciò che Dio fa è ben fatto. L’ uomo ha la mia Chiesa con i suoi Sacramenti, ha le mie leggi che recano felicità a chi le compie e la dannazione eterna a chi volontariamente le rifiuti. Dio non condanna, ma è l’uomo che condanna se stesso, per sua volontà, trasgredendo e contrastando la Legge divina nei suoi precetti. Nessuno innocentemente si condanna; per condannarsi occorre la malizia, la piena consapevolezza e la volontà di calpestare i miei comandamenti. Non è Dio che condanna, ma è l’uomo che rinnega Dio e sceglie l’inferno con assoluta libertà; nessuno che si pente, nessuno che torna a Me, nessuno che mi invoca e che mi ama, può condannarsi».

«Ma Tu vedi chi sono quelli che ti amano e quelli che non ti ameranno mai».

«Certamente, perché non posso non vedere l’avvenire e il passato in quanto Dio, in virtù della Divinità, una con quella del Dio-Uomo. Fino all’ultimo istante offro alle anime il cielo, la mia Passione, il mio Sangue e i miei meriti infiniti per lavarli e salvarli».

«Ma devi soffrire nel vedere l’avvenire di coloro che non corrisponderanno e si dannano».

«Come Dio non soffro, perché nella mia Giustizia in tutti i modi ricevo gloria. Come Dio-Uomo, soffrii molto e ora il mio Cuore soffre misticamente a causa delle ingratitudini e delle offese fatte alla mia Divinità, in cui si trovano le altre divine Persone e a causa del disprezzo del mio Sangue, dell’amore e delle grazie di un Dio-Uomo. Ma anche mi duole molto il male nelle anime, negli uomini che sono la mia Carne e il mio Sangue, i miei fratelli, eredi del cielo e incorporati alla Divinità in Me, che per la loro nefanda volontà si perderanno eternamente».

«E quale, mio Gesù, è il rimedio per tutto questo?».

«C’è la preghiera, il sacrificio, la comunione dei santi, per ottenere luce per quelle anime e forzarle mediante la grazia a pentirsi e a raggiungere il cielo. Hanno il ricorso infinito alla mia Misericordia e ai miei meriti; ma tocca a loro rifiutarli o utilizzarli. Hanno Maria. Se tu sapessi quale è il numero (mi trattengo a dirtelo) dei sacerdoti che sono la mia stessa vita e che rifiutano nel loro cuore il Dio-Uomo che pazientemente e umilmente offre loro il perdono, la misericordia e il cielo? Questo mi strazia il Cuore perché chi più di loro ha il ricorso al mio Sangue nelle Messe, ai miei meriti messi a loro disposizione e al mio infinito, eterno e speciale amore? Io vedo la fine di ogni anima, perché non posso non vederla, ma raddoppio, soprattutto, nei miei sacerdoti, i miei divini ricorsi, le mie grazie straordinarie, i santi ricordi e il mio infinito amore di Vittima con il quale possono, fino all’ultimo istante della loro vita, saldare tutti i debiti».

«Signore, ma non permettere loro di ordinarsi se devono offenderti con la loro impenitenza finale».

«E la libertà che lo ho dato all’uomo [dov’è]?».

«Dicono giustamente, mio Gesù!, che qualche volta ti sei pentito di creare l’uomo» (cfr. Gen 6,6).

«Prega instancabilmente per i sacerdoti e sacrificati per loro in Mia unione per scuotere i loro cuori…».

«Tu sei destinata alla santificazione delle anime, specialmente dei sacerdoti. Attraverso di te, molti si infiammeranno dell’amore e del dolore… fa’ amare la croce per mezzo dello Spirito Santo. Verrà una pleiade di sacerdoti santi, che incendieranno specialmente il mondo con il fuoco della croce».

(Beata Conchita Cabrera de Armida, da “Il Riposo di Gesù, esercizi spirituali 1933” edizioni OCD)

GESÙ RIVELA ALLA BEATA CONCHITA LA “DEBOLEZZA” DI DIO: “Qual è questa divina debolezza? È l’amore, l’amore che mi sconfigge, mi sottomette, che va oltre la mia stessa Giustizia; fa in modo che Io mi abbassi e dimentichi e cancelli, e perdoni e baci, e stringa al mio Cuore ardente le anime peccatrici, le anime ingrate, quelle che mi hanno offeso e dimenticato, e persino odiato!”

Un’altra dimensione della mia carità, della tenerezza del mio Cuore che soffre quando vede soffrire, è nella mia Chiesa questa risorsa di valore infinito: le indulgenze, moneta della quale il tesoro della Chiesa dispone a favore di tutte le anime, che la possono lucrare per sé e per le anime del purgatorio. La Chiesa si avvale dei miei meriti infiniti, che vivificano tutto, delle opere buone, dei sacrifici e delle sofferenze delle anime e dei corpi (molte volte innocenti come quelli dei bambini). Non spreca neanche una briciola che contenga un germe soprannaturale e lo utilizza per il bene delle anime, come una specie di moneta o frutto della comunione dei santi.

E considerate anche più quanto si effonde la mia tenerezza. Quando salvo un peccatore negli ultimi momenti della sua vita malvagia, la mia carità infinita, dinanzi alla grande pena che ha meritato per le sue colpe, anche per quelle già perdonate, faccio in modo che le indulgenze gli condonino o comunque gli diminuiscano tale pena, cosicché possa arrivare in purgatorio con meno debiti da pagare, e possa essere accolto, appena risarcita la mia Giustizia, fra le braccia del suo Salvatore, di Gesù Redentore, del Cuore che non perdona a metà, ma apre il suo immenso seno di misericordiosa bontà per introdurlo in cielo come trofeo delle vittorie della sua Redenzione.

La mia tenerezza verso le anime va aldilà della morte. Quante volte, per così dire, chiudo gli occhi della mia Giustizia e apro solo quelli della mia bontà infinita. Perché la tenerezza del mio Cuore per le anime, l’amore che ho non solo per i giusti ma anche per i peccatori mi tradisce. Questa è, per così dire, la debolezza di Dio: è il suo amore, il suo infinito ed eterno amore, che creò le anime per il cielo, piange per quelle traviate, come Pastore le chiama con accenti amorevoli, e le cerca in mille modi senza stancarsi mai, le insegue fino all’ultimo istante, ed infine, terminata questa vita mortale mediante le indulgenze, diminuisce le pene meritate.

L’amore del Dio-Uomo ha mille risorse! La debolezza, chiamiamola così, del Cuore di un Dio Salvatore, di Gesù Redentore. Qual è questa divina debolezza? È l’amore, l’amore che mi sconfigge, mi sottomette, che va oltre la mia stessa Giustizia; fa in modo che Io mi abbassi e dimentichi e cancelli, e perdoni e baci, e stringa al mio Cuore ardente le anime peccatrici, le anime ingrate, quelle che mi hanno offeso e dimenticato, e persino odiato!

Perché hai permesso che mi facessi uomo?, domando all’amato Padre mio! Perché mi hai dato questo Cuore di carne con palpiti di un Dio, che è bontà infinita? Perché, Padre mio, hai regalato il tuo Figlio all’umanità caduta? Perché mi hai fatto Gesù Salvatore, e della stessa carne di coloro che ho tanto amato sulla terra? E se questo dico al Padre mio, mentre il mio Cuore trema d’amore per tutti i peccatori, che gli dirò a favore dei miei sacerdoti traviati, dei miei sacerdoti caduti, o tiepidi, o indifferenti, o tentati, o stanchi, o in pericolo più o meno incombente di perdersi? Allora raddoppio le mie carezze di Figlio; faccio valere le mie sofferenze del Calvario; gli pongo innanzi la mia santa missione di Eterno Sacerdote; metto davanti ai suoi occhi di Padre l’unione che essi hanno con Me grazie alla loro vocazione santa fin dal seno di Maria.

IO Lo prego, Lo invoco e Lo intenerisco come Dio-Uomo, con tutta la pienezza, la tenerezza e la forza del mio Cuore di uomo, e… trionfo, trionfo su quel Padre amato, su quel Giudice giusto (uno con Me nella Divinità) e riesco a farlo aspettare, e mi compiaccio quando posso ritardare la sentenza e mi interpongo alle punizioni, e strazio il mio cuore sacrosanto con il fuoco intensissimo del mio amore per l’uomo, presentandolo così al Padre mio fino a quando Egli finisce per guardarmi disarmato, sorridendomi con bontà, stringendomi al suo seno amoroso: Io, l’Uomo-Dio, il Gesù Salvatore, a cui permise di assumere un Corpo umano per diventare Vittima e lavare con tutto il suo sangue i crimini del mondo, aprendo il cielo!

Gli presento, a favore dei sacerdoti e della mia Chiesa, il mio Cuore ferito; gli faccio sentire ciò che Io sento per i miei ministri colpevoli; in loro favore gli offro ciò che mi chiede, ciò che vuole: anche un’altra Redenzione, un’altra Croce. Ma Egli chiede solo amore! E Io mi riverso nell’abisso infinito del Suo stesso Essere! e… trionfo, trionfo sul mio adorato Padre, e come Dio-Uomo ottengo, dall’infinita carità del Padre e dello Spirito Santo, proroghe, grazie, pazienza.

(Beata Conchita Cabrera de Armida, da “Sacerdoti di Cristo” Città Nuova Editrice)

Santa Caterina da Genova: Trattato del Purgatorio “Il purgatorio: la pena è infernale, ma l’anima peccatrice la riceve come dono di misericordia, perché le pene non hanno pe­so di fronte alla gravità di quella macchia che im­pedisce l’amore.”

 

Trattato del Purgatorio.

(di Santa Caterina da Genova)

Come (la santa), per relazione col fuoco divino che percepiva nel suo cuore e che la rendeva casta interior­mente, vedeva con gli occhi dell’anima e comprendeva la condizione dei fedeli nel purgatorio – erano lì per purificarsi prima di essere presentati al cospetto di Dio, in paradiso. Cap. 411.

 

Quest’anima santa, ancora vestita del suo corpo, era stata posta nel purgatorio dell’amore divino, che, pieno di fuoco, la bruciava completamente e purificava in lei ogni cosa, perché – lasciata questa vita – potesse essere subito presentata al cospetto del suo dolce Dio. E, grazie a questo amorevole fuoco, comprendevanel suo intimo la condizione dei fedeli nel purgatorio: erano lì per purgare ogni ruggine e macchia di peccato non ancora mondate nel corso della loro esistenza terrena.

Nell’amorevole purgatorio del fuoco divino la santa, unita al divino amore, gioiva di tutto ciò che operava in lei e, comprendendo la condizione delle anime, usava queste parole:

«Le anime del purgatorio non possono avere al­tra scelta che essere lì. Ciò avviene per disposizione di Dio, che ha operato con giustizia.

I purganti non sono nella condizione di voltarsi indietro e dire: «Ho commesso certi peccati, per cui merito di stare qui». E neppure dire: «Non vor­rei averli commessi, così ora andrei in paradiso». Né ancora: «Lui uscirà di qui prima di me o io ne uscirò prima di lui».

Non sono in grado di tenere alcuna memoria propria, né in bene né in male, né su altri: sono così felici di appartenere al piano di Dio, che non han­no pensieri per se stessi. Vedono solo tanta bontà e l’opera di Dio, che, pieno di misericordia, conduce l’uomo a sé; (le anime) non percepiscono la pena e il bene che ciascuno vive dentro se stesso – del resto, se riuscissero a percepirli, non potrebbero più prender parte alla carità pura.

Non vedono neppure di essere nella pena per i loro peccati né sono in grado di trattenere nella mente quella vista, perché sarebbe una imperfezio­ne in atto, che non può esistere in questo luogo: lì non è più possibile peccare attualmente.

La percezione del purgatorio avviene in loro una sola volta, nell’istante, cioè, in cui abbandonano questa vita e poi mai più, perché questo costitui­rebbe una proprietà.

Le anime sono nella carità e non possono devia­re da essa con una mancanza volontaria: non sono più in grado di volere né desiderare altro, se non esclusivamente il volere puro della carità pura. In­fatti, essendo immerse nel fuoco del purgatorio, ap­partengono al disegno divino – che è carità pura – e in esso non sono nella condizione di deviare in nessuna parte. Trovano così impedimento nel com­mettere peccato attuale e, parimenti, nel compiere atti meritevoli.

Non credo esista felicità paragonabile a quella di un’anima del purgatorio, tranne quella dei santi del paradiso. E ogni giorno questa gioia aumenta per influsso di Dio nelle anime e tende ad aumentare, perché ogni giorno consuma ciò che impedisce tale influsso.

La ruggine del peccato è l’impedimento; il fuoco consuma la ruggine e così l’anima si apre sempre di più all’influsso di Dio.

Se un oggetto coperto, stando al sole, non può corrispondere al riverbero del sole – non per difet­to del sole, che continuamente splende, ma per ciò che lo copre – quando la copertura, si consumerà esso si dischiuderà al sole e corrisponderà al suo ri­verbero nella misura in cui si sarà consumato ciò che lo copriva.

Lo stesso accade per la ruggine del peccato, co­pertura delle anime nel purgatorio: essa si consuma via via per il fuoco e, nella misura in cui si consu­ma, corrisponde al suo vero sole, Dio. Tanto cresce la gioia, quanto viene meno la ruggine e l’anima si apre all’influsso: mentre una cresce, l’altra si ridu­ce, sino a quando non sia giunto al termine (il tem­po dell’espiazione). La pena non diminuisce, dimi­nuisce il tempo in cui restare in essa.

Per ciò che concerne la loro volontà (le anime) non possono mai dire che quelle siano pene; gioi­scono della disposizione divina, con la quale è uni­ta la loro volontà nella pura carità. Ma, contraria­mente alla gioia della volontà in tale modo unita, subiscono una pena così atroce, che lingua non può parlarne, né intelletto può capirne una minima scin­tilla, se Dio non glielo mostrasse per grazia speciale. Dio mi ha mostrato questa scintilla per sua gra­zia, ma non mi è possibile esprimerla a parole. Quella vista, che il Signore mi mostrò, non lasciò mai più la mia mente. Dirò di ciò che mi successe quel che riuscirò a esprimere e intenderà chi il Si­gnore vorrà che intenda.

Il fondamento di tutte le pene è il peccato, ori­ginale o attuale.

Dio ha creato l’anima pura e semplice, pulita da ogni macchia di peccato, dotata di istinto beatifico verso di Lui; da quest’ultimo l’allontana il peccato originale. Il peccato attuale poi, si aggiunge ad esso e allontana di più l’anima da Dio e, a mano a mano che si scosta, l’anima diventa maligna, perché non è corrisposta da Dio.

Tutte le forme di bontà esistenti, vengono per divina partecipazione, che nelle creature irrazionali corrisponde come vuole e come ha disposto e non viene mai meno a esse. Verso l’anima poi, Dio cor­risponde in maggiore o minore misura a seconda del suo stato di purificazione dal peccato.

Quando l’anima si avvicina alla sua prima crea­zione pura e netta trova in sé un istinto beatifico che cresce con tale impeto e furore di fuoco di ca­rità – il quale l’attira al suo fine ultimo – da dive­nirle insopportabile l’impedimento. A mano a ma­no che vede farsi vicino il suo fine ultimo, la pena diventa per lei più grande e atroce.

Le anime che sono nel purgatorio non possiedo­no peccato né esiste impedimento fra loro e Dio, ad eccezione di quella pena che le ha costrette e a cau­sa della quale l’istinto non ha potuto raggiungere la sua perfezione (nel fine ultimo che è Dio).

Vedendo con certezza quanto sia grave anche un solo impedimento presso Dio e che, per necessità di giustizia, viene ritardato quell’istinto, ne nasce un fuoco così terribile che è paragonabile a quello dell’inferno, anche se non c’è colpa, – colpa che si ritrova invece nei dannati dell’inferno, perché pro­dotta dalla volontà maligna. A questi Dio non cor­risponde la sua bontà; i dannati restano in quella volontà disperata e nella malignità, contro la vo­lontà di Dio.

Da ciò si vede ed è chiaro che si considera colpa la volontà perversa che agisce contro la volontà di Dio: mentre persevera la mala volontà, persevera la colpa.

Dal momento che quelli dell’inferno hanno la­sciato questa vita con la cattiva volontà, la loro col­pa non è rimessa, né si può rimettere, in quanto non possono più mutare di volontà: con quella mala volontà sono passati da questa vita all’altra.

Il passo seguente conferma la decisione nei ri­guardi dell’anima, in bene o in male, a seconda del­la volontà deliberata in cui si trova: Ubi te invenero, cioè all’ora della morte, in quella volontà di peccare o di dolore per aver peccato, ibi te iudicabo.

Al giudizio non segue poi remissione, perché dopo la morte la libertà d’arbitrio non è più mutabile: si ferma nella condizione in cui si trova al punto della morte.

Le anime infernali portano con sé per sempre la colpa e la pena; quest’ultima poi, non è proporzio­nale alla pena che meritano, ma è infinita. Le ani­me purganti soffrono solamente la pena e, poiché sono senza colpa – cancellata dal dolore -, la pena ha un termine e diminuisce sempre di più in rap­porto al tempo, come si è detto.

O miseria sopra ogni miseria, tanto maggiore poi se non è considerata dall’umana cecità!

La pena dei dannati non è infinita in quantità, perché la dolce bontà spande il raggio della sua mi­sericordia anche all’inferno. L’uomo che muore nel peccato mortale merita pena e tempo infiniti, ma la misericordia divina rende possibile che solo il tem­po sia infinito e la pena sia invece limitata nella quantità, – anche se giustamente il Signore avrebbe potuto attribuire al peccatore una pena maggiore di quella che gli è stata attribuita.

Vedi quanto è pericoloso il peccato commesso con malizia! Difficilmente l’uomo se ne pente e, non pentendosi, la colpa resta sempre e dura quan­to l’uomo resta nella volontàdel peccato, com­messo o da commettere.

Ma le anime del purgatorio hanno la loro vo­lontà in tutto conforme a quella di Dio; a lei Dio corrisponde con la sua bontà ed esse sono felici perché la loro volontà è purificata dal peccato ori­ginale e attuale.

Quanto alla colpa, le anime riacquistano la pu­rezza della prima creazione perché hanno lasciato questa vita dolendosi di tutti i peccati commessi, con l’intenzione di non commetterne più.

Per il dolore che provano Dio perdona subito la colpa e così alle anime non rimane (altro) se non la ruggine e la deformità del peccato, che si purifica poi nel fuoco attraverso la pena.

Queste anime, purificate totalmente da ogni col­pa e unite a Dio per volontà, vedono Dio in manie­ra chiara e proporzionale a quanto Lui fa loro co­noscere; nel vedere quanto è importante la fruizio­ne di Dio e che l’anima è stata creata a quello sco­po, trovano una conformità tale che le unisce a Dio – conformità che tende a realizzarsi per l’istinto na­turale che spinge l’anima verso Dio – che non si possono dire ragionamenti, figure né esempi suffi­cienti a chiarire questa condizione, come la mente cioè l’avverta nei suoi effetti e la comprenda per sentimento interiore.

Un esempio. Poniamo che in tutto il mondo non ci sia che un unico pane in grado di togliere la fame e che tutte le creature si sazino anche solamente col vederlo. Ora, la creatura – cioè l’uomo – ha l’istin­to di mangiare quando è sano e, se non mangia, se non si ammala, se non muore, quella fame crescerà sempre di più, perché non viene meno quell’istinto.

Lui è contento, perché conosce il pane che lo può saziare, tuttavia, per il fatto stesso di non averlo a disposizione, non può togliersi la fame.

Questo è l’inferno che vive chi ha una grande fa­me: più l’uomo si avvicina al pane senza poterlo ve­dere, più si accende il suo desiderio naturale, che istintivamente è tutto rivolto verso quel pane, in cui consiste la felicità. La certezza di non vedere mai quel pane è per lui l’inizio dell’inferno vero e pro­prio, quello che vivono i dannati, privati della spe­ranza di contemplare l’autentico pane, Dio salva­tore.

Le anime del purgatorio invece hanno fame, sì, perché non vedono il pane di cui potersi nutrire, ma conservano la speranza del momento in cui potran­no vederlo e saziarsene completamente; la loro pe­na consiste nel non poter soddisfare subito la fame.

È chiaro che lo spirito purificato non trova altro luogo che Dio per riposare – a tal fine infatti è sta­to creato – e il peccato nell’anima non ha altro luo­go che l’inferno secondo l’ordinamento divino. Nel momento in cui lo spirito si separa dal corpo, l’anima – se si diparte in peccato mortale – rag­giunge il luogo prestabilito, guidata dalla natura del peccato.

Se l’anima non ritrovasse là l’ordinamento divi­no, che procede dalla sua giustizia, vivrebbe in un inferno peggiore di quello in cui si trova, perché fuori da tale disposizione. Quest’ultima infatti è partecipe della misericordia divina, che permette ai dannati di non scontare la pena che meritano; essi, d’altro canto, si gettano subito nell’inferno – come se quel luogo fosse di loro proprietà – perché non trovano per sé nulla di più adatto e di meno dolo­roso.

Lo stesso vale a proposito del purgatorio: l’ani­ma, separata dal corpo, non possiede più la purez­za originaria e, accorgendosi della sua macchia – che non si può eliminare se non per mezzo del pur­gatorio – si getta in quel luogo presto e volentieri.

Se il progetto divino non prevedesse di purgare la ruggine del peccato, in quell’istante si generereb­be un inferno peggiore del purgatorio, perché l’ani­ma si vede separata da Dio, che diventa così im­portante da far passare in secondo piano le pene del purgatorio (sebbene, come si è detto, questo luogo sia simile all’inferno).

Per ciò che dipende da Dio, vedo che il paradiso non ha porta alcuna: chi vuole entrare lo può fare, perché Dio è tutto misericordia e sta con le braccia aperte verso di noi, per riceverci nella sua gloria.

La divina essenza è pura e monda – molto più di quanto l’uomo possa immaginare – e l’anima che ha in sé la minima imperfezione – un fuscello, per dire – preferirebbe gettarsi in uno o mille inferni, piuttosto che ritrovarsi alla presenza divina con una minima macchia. Ma compito del purgatorio è quello di togliere la macchia! L’anima sceglie que­sto luogo per trovare in esso la misericordia che le occorre per potersi mondare dalle sue colpe.

La lingua non può esprimere e il cuore non può capire quanto sia importante il purgatorio: la pena è infernale, ma l’anima peccatrice la riceve come dono di misericordia, perché le pene non hanno pe­so di fronte alla gravità di quella macchia che im­pedisce l’amore.

Vedo che la pena di quelli che sono nel purga­torio è soprattutto quella di essere causa del dispia­cere di Dio e il fatto che esso sia il frutto di un atto volontario compiuto contro la bontà divina, rispet­to a qualsiasi altro dolore. Dico ciò perché i pur­ganti, dal momento in cui godono della Grazia, si accorgono finalmente dell’importanza dell’impedi­mento che li distacca da Dio.

Sono certa delle mie parole per ciò che ho po­tuto comprendere in questa vita. Ogni vista, ogni parola, ogni sentimento, ogni immaginazione, ogni giustizia, ogni verità mi sembrano bugie. Di queste parole resto più confusa che soddisfatta, perché non trovo vocaboli più estremi con cui potermi esprimere e perciò taccio.

Le mie parole sono niente se paragonate a quel­lo che la mia mente avverte; tra Dio e l’anima c’è una conformità tale che, nel momento in cui il Si­gnore la vede nella sua purezza originale, con il fuo­co del suo amore – sufficiente ad annichilire l’ani­ma immortale – le dona quella tensione, che è sguardo unitivo, attraverso cui la lega e la tira a se.

L’anima si assorbe in Dio al punto di negare l’e­sistenza di altro all’infuori di Dio.

Il Signore l’attira e la infuoca continuamente, fi­no a condurla a quell’essere da cui è uscita, quella assoluta purezza nella quale fu creata.

Quando l’anima vede interiormente che è attira­ta dal divino fuoco dell’Amore, sente che il calore la scioglie e ridonda nella mente il suo dolce Signo­re. Lei sa che Dio non mancherà mai di attirarla e di condurla alla perfezione, con attenzione costante e secondo i suoi piani.

La pena delle anime nel purgatorio consiste pro­prio nel vedere ciò che Dio mostra loro nella sua lu­ce e di esserne attratte, senza però poter seguire quella seduzione, quello slancio unitivo che il Si­gnore ha dato loro per legarle a sé. La percezione di quanto sia gravoso quell’impedimento e l’istinto che l’anima ha di poter essere attratta da quello sguardo senza impedimenti, costituiscono la soffe­renza dei purganti.

Essi non tengono conto della pena vera e pro­pria – per quanto, di per sé, sia grandissima – ma danno importanza al fatto che si oppongono alla vo­lontà di Dio, che, acceso da tanto estremo amore puro verso loro, le attira fortemente a sé con il suo sguardo unitivo, come se ciò fosse l’attività prin­cipale.

Se l’anima trovasse un altro purgatorio oltre quello in cui si trova, pur di potersi liberare dall’im­pedimento al più presto, gli si butterebbe dentro, tanto impetuoso è l’amore, simile a quello di Dio.

Vedo ancora che dall’amore divino si dipartono verso l’anima raggi e lampi così colmi di fuoco, pe­netranti e forti, che, se fosse possibile, annullereb­bero addirittura l’anima, non solo il corpo.

I raggi compiono nell’anima due operazioni: la sua purificazione e il suo annullamento.

Come succede all’oro: quanto più lo si fonde, tanto diventa puro, e, se si continuasse a fonderlo, ogni imperfezione verrebbe annullata; tale è l’effet­to del fuoco nella materia.

L’anima non può annullarsi in Dio, ma in se stes­sa; a mano a mano che si purifica, si annulla in se stessa e resta in Dio l’anima pura.

L’oro, puro a ventiquattro carati, per quanto fuoco gli si possa dare, non consuma più, salvo le sue imperfezioni. Ciò accade con il fuoco divino nell’anima: mentre Dio la tiene nel fuoco, lei con­suma ogni sua mancanza e va verso la perfezione dei ventiquattro carati.

Monda, resta completamente in Dio senza al­cunché di proprio, perché la purificazione dell’ani­ma consiste nella privazione di noi in noi: il no­stro essere è Dio. L’anima, purificata a ventiquattro carati, rimane impassibile, perché non ha più nul­la da consumare. Se anche fosse tenuta nel fuoco, non le sarebbe penoso: è fuoco dell’amore divino che è per lei vita eterna. Possono vivere senza al­cuna contrarietà, come le anime beate, persino in questa vita, se fosse possibile per loro restare in­sieme al corpo. Ma non credo che Dio le tenga sulla terra, eccetto che per qualche grande volontà divina.

L’anima è stata creata capace di poter raggiun­gere la sua perfezione originaria, vivendo secondo quanto era stato disposto per lei senza lasciarsi con­taminare dal peccato. Con il peccato originale e con quello attuale, essa perde i suoi doni e le grazie e, morta, non può risuscitare se non per mezzo di Dio.

Risuscitata per mezzo del battesimo, resta in lei però la cattiva inclinazione che la conduce (se non oppone resistenza) al peccato attuale, facendola ri­tornare alla morte.

Dio torna per risuscitarla nuovamente per mez­zo di un’altra grazia speciale, ma l’anima è talmen­te imbrattata e rivolta verso se stessa che, per ritor­nare allo stato in cui Dio l’ha creata, necessita di tutte quelle operazioni divine, senza le quali l’ani­ma non potrebbe ritornare alla sua condizione ori­ginaria di purezza.

Nel momento in cui l’anima sta per ritornare al suo primo stato, proprio perché deve trasformarsi in Dio, arde così intensamente, che quello è il suo purgatorio (non guarda al purgatorio come purga­torio, ma il suo purgatorio è proprio l’istinto arden­te che le è impedito).

Questo stato – l’ultimo dell’amore – si compie se è assente la parte umana, perché l’anima possiede imperfezioni nascoste e, se l’uomo le vedesse, vi­vrebbe disperato. Quest’ultimo stadio dell’amore consuma tutte le piccole mancanze e, una volta consumate, gliele mostra in modo che l’anima veda l’opera di Dio, che produce quel fuoco d’amore e consuma le imperfezioni che sono da consumare.

Ciò che l’uomo giudica perfetto è difettoso pres­so Dio; non appena l’uomo compie l’atto di vedere, sentire, intendere, volere o avere memoria, si mac­chia e le operazioni che compie, apparentemente perfette, restano contaminate; se l’opera deve esse­re perfetta, si deve compiere in noi senza noi e l’o­pera di Dio deve essere in Dio senza che l’uomo agisca per primo.

Questo è ciò che compie Dio nell’ultima espres­sione dell’amore puro solamente per mezzo suo. L’opera è così penetrante e ardente nel fondo del­l’anima che il corpo, che la circonda, pare si agiti fortemente, come se si trovasse in un grande fuoco che non lo lascia mai quieto, sino alla morte.

L’amore di Dio che riempie l’anima (secondo quanto io vedo) dona una gioia che non si può esprimere a parole, ma questa gioia non toglie nem­meno una scintilla di pena nelle anime del purga­torio. L’amore trattenuto produce una pena grande quanto è la perfezione di quell’amore di cui Dio l’ha resa capace. Ne consegue che le anime del pur­gatorio provano gioia grandissima e pena grandissi­ma senza che la prima ne impedisca l’altra.

Se esse potessero purgarsi per mezzo della con­trizione, purgherebbero in un istante tutto il loro debito, tale è l’impeto di contrizione che è in loro, poiché hanno la chiara consapevolezza dell’impor­tanza di quell’impedimento! E’ fuori dubbio che Dio non risparmia nulla al pagamento di quel de­bito, perché così è stato stabilito dalla sua giustizia. L’anima, d’altro canto, non ha più possibilità di scelta propria e non può vedere se non quello che Dio vuole, né vorrebbe vedere altro, perché così è stato preordinato per 1ei.

Se poi quelli che stanno nel mondo fanno l’ele­mosina per abbreviarle il periodo della pena (l’ani­ma) non può permettersi di voltarsi a guardarla con affetto e di prenderla in considerazione: l’unico a operare è Dio, che ha il suo modo di appagarsi. Il fatto di potersi voltare per guardare all’elemosina, risulterebbe una proprietàche la distoglierebbe dalla percezione del volere divino e, di conseguen­za, farebbe diventare la sua pena infernale.

Immobili di fronte a tutto ciò che Dio dà loro (di gioia o di pena) le anime del purgatorio non po­tranno mai più voltarsi verso se stesse, perché han­no trovato la loro intimità nella volontà del Signore e su di essa si sono plasmate, felici di vivere il pro­getto divino.

Presentare al cospetto di Dio un’anima in debito ancora di un’ora col purgatorio, significherebbe renderla colpevole di una grande offesa e ciò le co­sterebbe una pena pari a più di dieci purgatori, per­ché la somma giustizia e la pura bontà non potreb­bero reggerne la vista e, per parte di Dio, ciò risul­terebbe sconveniente.

Se l’anima si accorgesse che Dio non è piena­mente soddisfatto anche solo per una mancanza pa­ri a una farfallina d’occhio, non potrebbe tollerarlo, anzi, sopporterebbe più volentieri mille inferni piut­tosto di non essere ancora del tutto purificata da­vanti alla presenza di Dio (se fosse possibile sce­gliere quei mille inferni).

Mentre vedo nella luce di Dio ciò che sto rac­contando, mi viene voglia di gridare così forte da spaventare tutti gli uomini di questo mondo e dire loro: «O miseri, che vi lasciate accecare in questo mondo al punto da non stimareaffatto questa ne­cessità, quando vi imbatterete in essa! Tutti vi nascondete sotto la speranza della misericordia di Dio, che sapete essere grande; non vi rendete con­to invece che l’immensa bontà di Dio vi giudicherà per aver agito contro la sua volontà? La sua bontà ci deve guidare a compiere il suo volere e non ad avere speranza, se ci rendiamo colpevoli di un’azio­ne malvagia. La giustizia non può venir meno e de­ve compiersi in qualche modo».

Non essere troppo sicuro di poter credere: «Io mi confesserò, prenderò l’indulgenza plenaria e a quel punto sarò purgato da tutti i miei peccati!». Sappi che questo tipo di confessione e di contrizio­ne – che occorrono per ottenere l’indulgenza plena­ria – sono difficili da raggiungere. Se solo te ne ren­dessi conto, tremeresti di timore e saresti più sicuro di non poterla raggiungere che di raggiungerla.

Io vedo le anime rimanere nella pena del purga­torio consapevoli di due obiettivi: il primo consiste nel patire volentieri le pene, sapendo che Dio ha usato grande misericordia in proporzione a ciò che meriterebbero e all’importanza che ha il loro Signo­re. Se la sua bontà non temperasse la giustizia con la misericordia – e la giustizia si soddisfa col san­gue di Cristo – un solo peccato meriterebbe mille inferni eterni.

Le anime purganti conoscono la grande miseri­cordia divina e volentieri patiscono la pena senza lamentarsi e senza che ne venga meno un solo cara­to, perché pare loro di meritarla giustamente, se­condo il piano divino e poiché non possono eserci­tare la loro volontà.

L’altro scopo è accorgersi della gioia che non man­ca mai, anzi, cresce per accostarsi a Dio.

Le anime vedono queste due realizzazioni del progetto divino non in esse né per mezzo di se stes­se, ma esclusivamente in Dio, verso il quale, rispet­to alle pene che patiscono, prestano maggior atten­zione, perché per Lui nutrono una stima più gran­de: ogni attimo di cui possono godere di Dio supe­ra ogni pena e gaudio che l’uomo possa capire, ma, nonostante li superi, non toglie una scintilla di gioia o di pena.

Sento nella mia mente il processo di purificazio­ne delle anime del purgatorio nella misura in cui la vedo, in maniera sempre più chiara, come vi ho det­to ormai da due anni a questa parte; ogni giorno che passa la vedo e la sento più evidente: vedo che la mia anima sta in questo corpo come in un pur­gatorio che si sovrappone a quell’altro per salvare il corpo dalla morte – nella misura in cui il corpo stes­so è in grado di sopportare – e che cresce sempre di più, finché sopravviene la morte fisica.

Vedo che lo spirito è alienato da tutti i doni spi­rituali che possono dargli nutrimento, come la leti­zia o il piacere; non può gustare alcuna cosa dello spirito, né per volontà né per intelletto, né attraver­so la memoria per cui poter esprimere felicità di questo o di quello!

Il mio mondo interiore è immobile e assediato; tutto ciò che reggeva la vita spirituale e corporale gli è stato tolto a poco a poco; nel momento in cui sono venute meno le sue impalcature, si rende conto che per lui sono state cose di cui nutrirsi e confor­tarsi, ma, una volta riconosciute come tali, sono così aborrite che scompaiono senza lasciare traccia, poi­ché lo spirito ha in sé l’istinto di eliminare ogni co­sa che possa impedire il raggiungimento della sua perfezione, a costo di permettere che l’uomo venga gettato nell’inferno, pur di pervenire al suo intento.

Per questa ragione lo spirito elimina tutto ciò di cui l’interiorità dell’uomo si può nutrire e lo assedia in maniera così sottile da non lasciar passare il ben­ché minimo fuscello d’imperfezione, che non sia da lui veduto e aborrito.

Per questo l’anima era assediata interiormente:

non poteva sopportare che quelle persone che era­no entrate in relazione con lei e che parevano sulla via della perfezione, trovassero sostentamento in al­cuna cosa. Quando le vedeva nutrirsi di ciò che lei aborriva, lasciava quel luogo per non vederle, so­prattutto se si trattava di alcune persone in particolare.

Anche la parte esteriore restava ancora assedia­ta, perché lo spirito non le corrispondeva: non tro­vava cosa sulla terra da cui poter trarre sostegno, secondo l’istinto umano, né le rimaneva altro con­forto se non Dio, che agisce per amore e con gran­de misericordia per soddisfare la propria giustizia, la cui vista le dava una grande gioia e una immensa pace.

Non esce però di prigione né cerca di uscirne fintanto che Dio non abbia compiuto ciò che le oc­corre; la sua felicità è la soddisfazione di Dio e, per lei, non si potrebbe trovare pena alcuna, per enor­me che sia, quanto non corrispondere più all’ordi­namento di Dio, perché l’anima riconosce che il progetto è giusto e misericordioso.

Diceva: «Vedo e tocco tutte queste cose, ma non so trovare vocaboli adatti ad esprimere ciò che vor­rei dire. Quello che ho detto, lo sento operare den­tro di me, spiritualmente».

La prigione nella quale mi sembra di essere è il mondo, i legami, il corpo; la mia anima, che vive nella grazia, lo sa bene e sa bene anche che cosa im­plica essere privati della possibilità – o ritardarla – di pervenire al suo fine. L’anima è delicata ed è re­sa degna dalla Grazia divina di essere con Dio una cosa sola, perché partecipe della sua bontà.

Come è impossibile che a Dio possa accadere al­cuna pena, così vale per le anime che sono a Lui vi­cine: quanto più gli si fanno prossime, tanto mag­giormente ricevono del suo Essere. Il ritardo che l’anima ha (nell’unirsi al suo Signore) è causa di grande pena per lei e fa in modo di allontanarla dal­le proprietà che ha in sé per natura e che, per gra­zia, le sono mostrate.

Non potendole trattenere, ma essendone capa­ce, la pena è in proporzione alla stima che lei ha di Dio. La stima poi è tanto maggiore quanto l’anima più conosce e tanto più conosce, quanto è più sen­za peccato. L’impedimento è più terribile quando l’anima, completamente raccolta in Dio e senza al­cun altro impedimento esterno, giunge alla perfetta conoscenza senza errore.

L’uomo che preferisce farsi ammazzare piutto­sto di offendere Dio, sente che la morte gli procura pena, ma la luce di Dio lo induce a dare più impor­tanza al suo Signore che alla morte corporale. L’a­nima conosce il progetto di Dio e stima ancor più quel progetto di tutti i tormenti, per terribili che possano essere, tanto quelli interiori, quanto quelli esteriori, perché Dio – per il quale quest’opera si compie – eccede in tutto ciò che si possa immagi­nare e sentire.

L’anima, come già si è detto, non vede né parla né conosce danno o pena in sé propria, ma il tutto conosce in un solo istante, pur non vedendolo in se stessa, perché lo spazio che Dio occupa in lei (per poco che sia) la impregna al punto da allontanare ogni cosa e da non lasciarle considerare null’altro.

Dio fa perdere tutto ciò che è dell’uomo e che il purgatorio purifica.

I Sette Vizi Capitali: Superbia, avarizia, lussuria, ira, gola, invidia e accidia

 

Dal Catechismo Maggiore:

959. Che cosa è il vizio?

Il vizio è una cattiva disposizione dell’animo a fuggire il bene e a fare il male, causata dal frequente ripetersi degli atti cattivi.

960. Che differenza v’è tra peccato e vizio?

Tra peccato e vizio v’è questa differenza, che il peccato è un atto che passa, mentre il vizio è la cattiva abitudine contratta di cadere in qualche peccato.

961. Quali sono i vizi che si chiamano capitali?

I vizi che si chiamano capitali sono sette:

1.Superbia;
2.Avarizia;
3.Lussuria;
4.Ira;
5.Gola;
6.Invidia;
7.Accidia.

962. I vizi capitali come si vincono?

I vizi capitali si vincono con l’esercizio delle virtù opposte. Cosi la superbia si vince con l’umiltà; l’avarizia con la liberalità; la lussuria con la castità; l’ira con la pazienza; la gola con l’astinenza; l’invidia con l’amor fraterno; l’accidia con la diligenza e col fervore nel servizio di Dio.

963. Perché questi vizi si chiamano capitali?

Questi vizi si chiamano capitali, perché sono la sorgente e la cagione di molti altri vizi e peccati.

LUSSURIA

Uno dei vizi che fa più strage morale in mezzo all’umanità, è la lussuria, cioè il piacere sensuale. Questo vizio si suole anche chiamare disonestà, immoralità o impurità.

Iddio ci ha dato un corpo fornito di sensi ed un’anima intelligente e volitiva. Il corpo ha delle funzioni particolari, stabilite dal Creatore, funzioni che se si compiono contrariamente all’ordine vo­luto da Dio, sono un male molto grande.

Per la qual cosa il Signore ha mes­so nel Decalogo due comandamenti espli­citi, uno che riguarda le azioni: « Non commettere atti impuri » e l’altro che ri­guarda i pensieri: « Non desiderare la persona degli altri ». Chiunque manca volontariamente contro questi comanda­menti, commette sempre peccato mortale, non ammettendo la lussuria parvità di materia.

Funeste conseguenze.

La lussuria è un vizio così potente, che guai a lasciarsene dominare! La schiavitù delle impure passioni è infatti la più vergognosa ed umiliante.

Davanti a questo vizio si sacrifica la propria dignità e si diventa simili alle bestie senza ragione; si sacrifica la salute, per cui si va a finire al manicomio, op­pure si va alla tomba prima del tempo. Si sacrifica il denaro, la pace della famiglia, la pace del cuore; e più che tutto si sacri­fica l’anima rendendola un tizzone d’in­ferno.

Al tempo di Noè il Signore punì questo brutto vizio con il diluvio universale; ed al tempo di Abramo punì le città delle Pentapoli mandando il fuoco dal cielo, che incenerì tutti gli abitanti. Se riflet­tiamo bene, possiamo convincerci che buona parte dei mali che oggi affliggono l’umanità, sono dovuti, al dilagare della disonestà.

PUREZZA

Alla disonestà si oppone la purezza, che è chiamata « la bella virtù » per ec­cellenza; essa è detta anche virtù angelica, virtù sublime, compendio di ogni virtù.
Il simbolo di questa virtù è il giglio, fiore candido e profumato; infatti l’anima che possiede la purezza, è come un giglio che attira sopra di se gli occhi di Dio.

Gesù Cristo.

Nella Sacra Scrittura Gesù è chiamato l’Agnello che si pasce tra i gigli. Pren­dendo Egli forma umana, volle un corpo purissimo e lo prese da Maria Vergine, la più pura delle creature. Volle un custode o Padre Putativo e lo scelse nella persona di Giuseppe, il fabbro di Nazaret, uomo oltremodo puro, degno di stare a fianco di Maria Santissima.

Volle un Precursore, cioè uno che gli preparasse la via in mezzo al popolo ebreo, e lo trovò in Giovanni Battista, uomo austero, di costumi illibati, e che mori’ poi martire della purezza.

Gesù si circondò degli Apostoli, uomini ben costumati, ed amò stare tra i piccoli perchè innocenti e puri, dicendo con en­fasi: Lasciate che i pargoli vengano a me! –

Davanti alla moltitudine che lo ascol­tava estasiata, esclamò: Beati i puri di cuore, perché essi vedranno Dio! –

Il Signore permise che i suoi nemici invidiosi lo chiamassero impostore, be­stemmiatore, indemoniato … ma non permise che lo tacciassero riguardo alla purezza, tanto che potè sfidare pubblica­mente i suoi avversari, dicendo: Chi di voi può accusarmi di peccato? – e tutti tacquero.

Purezza matrimoniale.

Tutti abbiamo il dovere di essere puri, ciascuno secondo il proprio stato. C’è la purezza matrimoniale e quella verginale. Coloro che sono uniti col vincolo ma­trimoniale, hanno degli obblighi gravi, ai quali non devono mancare. Si ricordino che anche per essi c’è il sesto e il nono Comandamento. Per gli sposati il mancare contro la virtù della purezza importa una gravità maggiore che non per i celibi. Purtroppo la santità matrimoniale è profanata con tanta facilità. Iddio vede tutto e darà a suo tempo a ciascuno il dovuto castigo.

Nella vita di S. Caterina da Siena si legge che il Signore in una rivelazione le disse essere molto offeso per i peccati che si commettono dai coniugati. È bene perciò che gli sposati esami­nino la propria coscienza, per vedere se c’è da correggere qualche cosa.

Purezza verginale.

Chiamasi purezza verginale quella che devono osservare tutti coloro che sono liberi dal vincolo matrimoniale.

Per praticare bene questa virtù ci vuole buona volontà; il premio però è gran­dissimo.

Un’anima vergine dà a Dio molta gloria e si arricchisce continuamente di meriti per il Cielo.

Non mancano nel mondo queste ani­me generose, che sacrificano ogni umano diletto per amore del regno dei Cieli. Co­storo godono in terra le gioie pure dello spirito ed avranno nell’altra vita un premio particolare.

San Giovanni Evangelista in una vi­sione vide il Paradiso ed i Beati vicino al trono di Dio. Scorse una schiera di anime che seguivano festanti l’Agnello Immacolato, Gesù Cristo, dovunque Egli andasse, e cantavano un inno, che sola­mente a loro era permesso di cantare. San Giovanni chiese: – Chi sono costoro? – Gli fu risposto: Sono le ani­me vergini, che hanno lavato la loro stola nel Sangue dell’Agnello. –

Attratti dalla sublimità di questa virtù, tante anime fanno il voto di purezza, o temporanea o perpetua. Prima però di emettere un tal voto, si domandi il pa­rere al proprio Confessore, poiché è fa­cile in un momento di fervore offrirsi al Signore, ma non è sempre facile essere puri come si deve. Si sappia che chiunque fa il voto di purezza, guadagna doppio me­rito delle opere buone che compie riguar­do a questa virtù. Però se manca volonta­riamente contro la purità, o nei pensieri o nelle parole o nelle opere, commette allora doppio peccato grave, uno contro il Comandamento di Dio e l’altro contro il voto emesso. In Confessione si deve dire: Padre, ho peccato contro la purità; però ho anche il voto. –

Dal voto di purezza temporanea, cioè per mesi o per anni, si può ottenere la dispensa dal Vescovo o da altro Sacerdo­te che ne abbia facoltà. Dal voto di purezza perpetua, cioè di tutta la vita, si può ottenere la dispensa solamente dalla Santa Sede. Però, se il voto perpetuo è stato fatto prima dei diciotto anni, non occorre rivolgersi alla Santa Sede per la dispensa.

Il corpo. 
Se vogliamo essere puri, dobbiamo custodire il corpo, il quale è il più gran­de nemico della purezza.

Pur dando al corpo quanto gli spetta, non gli si conceda troppa libertà. Chi non riesce a dominare con facilità i pro­pri sensi, presto o tardi perderà la bella virtù.

Iddio ci ha dato gli occhi affinché po­tessimo servircene in bene. Essi però sono chiamati le finestre dell’impurità; difatti guardare, pensare e peccare, sono spesso indivisibili.

Non è lecito guardare ciò che non è lecito desiderare. Si custodiscano dunque gli occhi e non si posino maliziosamente nè sopra oggetti nè sopra persone. Uno sguardo cattivo può dare la morte al­l’anima. Eppure, con quanta facilità si profa­nano gli occhi! …

Dovremmo essere tanto grati a Dio per il dono della lingua; invece la maggior parte delle persone se ne serve in male. Quante parolacce triviali e libere si pro­nunziano nella rabbia, oppure nello scherzo! Quante frasi equivoche si met­tono fuori per fare dello spirito!

Tuttavia ciò che costituisce un gran­de male, è il discorso disonesto o vergo­gnoso. Il parlare scandalosamente è la rovina della propria purezza e dell’al­trui e costituisce per lo più un grande male.

Bisognerebbe fare una lotta spietata al parlare immorale, rimproverando senza tanto riserbo chi ha la sfacciataggine d’intavolare certi discorsi … che fan­no vergogna.

È necessario mortificare la curiosità di sapere e di sentire ciò che non è con­veniente.

Siccome le orecchie non si possono chiudere, come si fa per gli occhi, la mi­glior cosa è allontanarsi da chi tiene cat­tivi discorsi. Nè si pensi che l’ascoltare chi parla scandalosamente sia cosa insi­gnificante, poiché si comporta male chi fa il discorso disonesto e chi l’ascolta volentieri.

Il corpo è tempio dello Spirito Santo; si rispetti perciò come una cosa sacra. Il senso del tatto sia delicatamente custodito e si porti grande rispetto alla propria ed all’altrui persona, evitando ogni libertà illecita con se e con gli altri. Il cuore è fatto per amare; perciò non tutti gli amori sono leciti.

Quando ci si accorge che il cuore tende ad un amore non buono, bisogna subito troncare gli affetti, diversamente le fiam­me amorose aumenteranno sempre più e si svilupperà un incendio inestinguibile. Il cuore umano non tenuto a freno, porta nell’abisso della impurità e poi nell’abis­so infernale.

Pensino a custodire bene il cuore specialmente le donne, le quali sono tan­to facili ad amare!

I pensieri.

Ad una certa età, quando cioè si esce dalla fanciullezza, i pensieri cattivi co­minciano a disturbar la mente. Non è il caso di preoccuparsi per tali pensieri, perchè non sono mai peccato quando la volontà è contraria.

Chi ha nella mente cattivi pensieri ed impure immaginazioni, ma senza ba­dare al male che fa, unicamente per di­strazione ed inavvertitamente, non com­mette peccato alcuno.

Chi si ferma nei brutti pensieri con poca avvertenza, oppure senza la piena volontà, commette un semplice peccato leggero.

Chi invece si pasce di pensieri e desi­deri illeciti e fa ciò con piena conoscen­za e con piena volontà, è colpevole di grave peccato contro la purezza.

Coloro che si accorgono del cattivo pensiero e subito lo scacciano, o fanno ad esso l’atto contrario, non peccano, ma guadagnano merito davanti a Dio. Si confortino perciò le anime tentate, pen­sando che neppure i più grandi Santi sono stati esenti da simili assalti.

La cattiva abitudine.

Tutte le abitudini cattive sono fu­neste; ma l’abitudine del peccato impu­ro è la più disastrosa. Infelice chi cade e ricade con frequenza in questo pec­cato! O l’anima si rimette sulla buona via o andrà inesorabilmente perduta.

Ci sono dei mezzi efficaci per tron­care l’abitudine dell’impurità. Il primo è la buona volontà. Il demonio sugge­risce che è impossibile rompere la cate­na della cattiva abitudine; ma ciò non è vero. Chi vuole può. Quanti infatti, già schiavi del brutto vizio, si sono cor­retti ed hanno fatto penitenza! Mad­dalena, la Samaritana, Sant’Agostino, Santa Taide, Santa Maria Egiziaca, ecc…. furono anime grandemente peccatrici e scandalose, ruppero però la catena della rea abitudine ed ora sono degne di pubbli­ca venerazione sugli Altari.

Il secondo mezzo è la preghiera. Pre­gando, si rafforza la volontà ed aumenta l’energia spirituale. E’ bene anche far celebrare qualche Santa Messa.

Un mezzo potente assai è la Confes­sione frequente e ben fatta, unita alla Santa Comunione. Se è il caso, ci si con­fessi ogni giorno. Commesso un peccato impuro, non si aspetti che se ne faccia un altro prima di andare a confessarsi. Se si ritarda a mettersi in grazia di Dio, il demonio farà moltiplicare i peccati e sarà poi più difficile il rialzarsi. La Con­fessione sia fatta bene, cioè sincera e col dovuto dolore. Purtroppo, chi cade nel­l’impurità, non di raro per vergogna tace in Confessione ciò che è tenuto a mani­festare al Ministro di Dio e così commet­te il sacrilegio. Altri invece, pur confes­sando tutto, non hanno il vero dolore per detestare il peccato impuro e così non ri­cavano utilità dalla Confessione. Ripor­to una visione di San Giovanni Bosco.

La corda limacciosa.

Dice il Santo: Mi trovai in una gran­de sala illuminata, ed ecco comparire una schiera di bellissimi giovanetti come An­geli, che tenevano nelle mani dei gigli e li distribuivano qua e là, e coloro che li ricevevano si sollevavano da terra. Doman­dai alla mia guida che cosa significassero quei giovani che portavàno il giglio e mi fu risposto: Sono quelli che seppero con­servare la virtù della purità. –

Scomparve la bellissima luce ed io ri­masi al buio. Di poi vedevo facce rosse, quasi infuocate. Vidi alcuni giovani che si affaticavano attorno ad una corda li­macciosa, pendente dall’alto, e si sfor­zavano di arrampicarsi ed andare in alto; ma la corda cedeva sempre e veniva giù un poco, di modo che quei poverini erano sempre a terra con le mani e la persona infangate. Meravigliato di ciò, domandai cosa volesse significare quello che vedevo. Mi fu risposto: La corda è la Confessione; chi sa bene attaccarvisi, arriverà al Cielo, e questi sono quei giovani che vanno so­vente a confessarsi e si attaccano a questa corda per potersi innalzare; ma vanno a confessarsi senza le dovute disposizioni, con poco dolore e poco proponimento. –

Vidi in seguito un altro spettacolo più desolante. Certi giovani di aspetto tetro avevano attorcigliato al collo un gran serpentaccio, che con la coda an­dava al cuore e sporgeva innanzi la te­sta e la posava vicino alla bocca del me­schino, come per mordergli la lingua, se mai aprisse le labbra. La faccia di quei giovani era così brutta che mi faceva paura; gli occhi erano stravolti; la loro bocca era torta ed essi erano in una po­sizione da mettere spavento. Domandai il significato di ciò e mi fu detto: Il ser­pente stringe la gola a quegl’infelici e, per non lasciarli parlare in Confessione, sta attento se aprono la bocca per morderli. Poveretti! Se parlassero, farebbero una buona Confessione ed il demonio non potrebbe più niente contro di loro. Ma per rispetto umano non parlano, tengono i loro peccati nella coscienza, tornano più e più volte a confessarsi, senza mai osare di mettere fuori il ve­leno che racchiudono nel cuore. Va’ a dire ai tuoi giovani che stiano attenti e racconta loro quello che hai visto. –

La penitenza.

Tra i rimedi per vincere la cattiva abitudine del peccato impuro, è da met­tere la mortificazione o penitenza. Il cor­po è come un cavallo furioso e bizzarro, che ha bisogno della frusta e degli spe­roni per essere tenuto a bada.

Chi vuol correggersi, si privi di tanto in tanto di piaceri anche leciti, faccia qualche penitenza speciale, come sarebbe un digiuno, il battere il corpo con qualche strumento, il portare un piccolo cilizio … Se facevano questo i Santi, i quali non ne avevano tanto bi­sogno, perchè non hanno da farlo coloro che facilmente cadono nell’impurità? … Si è provato che la penitenza del corpo mette in fuga la disonestà.

In conclusione, chi vuol correggersi davvero, ogni qual volta ha la disgrazia di cadere nel brutto peccato, s’imponga una qualche penitenza corporale. Ad ogni nuova caduta, una nuova peni­tenza. E’ impossibile non correggersi con tale rimedio.

Consigli per custodire la purezza.

Per custodire il giglio della purezza si procuri di tenere occupata la mente in buoni pensieri. Si stia sempre occu­pati, perchè l’ozio è il padre dei vizi. Si pensi che vicino a noi c’è l’Angelo Custode, notte e giorno, e perciò non deve farsi mai cosa alcuna che sia in­degna della sua presenza.

Si pensi spesso che Iddio vede tutto, anche i pensieri più nascosti, e non si abbia la spudoratezza di fare alla pre­senza del Signore, quel male che non si farebbe alla presenza dei genitori o di persona riguardevole. Quando la ten­tazione assale e minaccia di aumentare l’energia, è bene interrompere l’occu­pazione che si ha per mano, mettersi a passeggiare, lasciare la solitudine cer­cando un poco di onesta compagnia, cantare lodi sacre, ecc….

Se con tutto ciò la tentazione ingi­gantisce, il che è molto raro, non ri­mane altro che gettarsi in ginocchio, baciare il Crocifisso o la medaglia, fare la Croce possibilmente con l’acqua be­nedetta e dire con fede: Prima la morte, o Signore, anzichè peccare!

Fuga delle occasioni.

E’ occasione di peccato tutto ciò che esternamente sollecita la volontà a pec­care, sia persona, sia oggetto, sia luogo. L’occasione può essere remota e prossima. Si dice remota, quando non è ta­le da spingere fortemente la volontà alla colpa grave; è prossima, quando ordinariamente trascina al peccato mor­tale.

Chi si mette in una data occasione, ad esempio, dieci volte, e sempre o la maggior parte delle volte cade nella col­pa grave, allora si trova nella vera oc­casione prossima di peccato. Si tenga bene in mente questo: Chiunque si mette nell’occasione prossima di grave peccato volontariamente e senza una forte ragione, commette peccato mortale volta per volta, anche se casualmente non acconsentisse alla tentazione!

Attenzione a certe persone.

Occasione di peccato contro la pu­rezza sogliono essere le persone di ses­so differente. Si eviti dunque la compa­gnia di coloro che sono poco timorati di Dio e che non hanno stima della purezza.

Le donne si guardino anche dai pa­renti e specialmente dai cognati e dai cugini.

Un’occasione grave, ma necessaria, è il fidanzamento; si abbia perciò la massima vigilanza per non deturpare il giglio della purezza. I fidanzati non stiano mai soli, abbiano un grande ri­spetto vicendevole e siano disposti a dispiacere alla creatura anziché offen­dere il Creatore. I fidanzati tengano lontano il pensiero della fuga vergogno­sa, perché è peccato mortale contro la purezza. Commettono anche grave pec­cato coloro che hanno il dovere e la possibilità d’impedire questa fuga e non lo fanno, coloro che in qualche modo l’aiutano e quelli che la consi­gliano oppure l’approvano.

Scuola e laboratorio.

La compagnia dei buoni aiuta a di­ventare migliori; quella dei cattivi tra­scina al male.

Non manca la cattiva compagnia nel­le pubbliche scuole e nei laboratori. La gioventù bramosa di conservarsi pura, stia più lontano che sia possibile dagli appestati morali e, pur frequentando la scuola o il laboratorio, usi tutti i mez­zi necessari per non lasciarsi contami­nare. Per riuscire, conosciuti gli esseri pericolosi, si fugga la loro compagnia, si facciano conoscere a chi fa da superiore e, se sarà necessario, si cambi labora­torio.

Chi ha la responsabilità di un labo­ratorio, specialmente di giovani, vigili e mandi via chi può seminare l’immora­lità e non lasci mai soli i giovani lavo­ranti, perchè quando manca il capo, or­dinariamente il demonio impuro semi­na il male.

I divertimenti mondani.

Il divertirsi onestamente è lecito. Ma i divertimenti che oggi il mondo appre­sta, sono un’insidia continua alla vir­tù della purezza. Bisogna sapersi guardare. Si dovrebbero meditare bene que­ste tremende parole di Gesù Cristo: Guai al mondo per gli scandali!

Quando il cinema ed i teatri sono buo­ni, non si fa male ad andarvi; quando sono cattivi, non si vada assolutamen­te; quando si è in dubbio sulla mora­lità di qualche rappresentazione, è pru­denza cristiana non andarvi.

Allorché si ci trova davanti a certe scene poco castigate, non sempre basta abbassare gli occhi, ma è necessario al­zarsi ed andare via. Questo dovere è chiesto dalla dignità personale, dalla re­sponsabilità verso coloro che forse ivi si sono condotti e dal buon esempio che deve darsi al prossimo. – Ma facendo così, si perde il denaro del biglietto! – È meglio perdere un po’ di denaro, an­zichè il candore della purezza.

Quanti, dopo aver pascolato la mente tra scene immorali, escono dal cinema morti alla grazia di Dio, col rimorso e con le durature conseguenze delle brut­te impressioni!

Facciano un buon esame di coscienza i genitori, che fossero facili ad accon­tentare i figli con questi divertimenti e si esaminino pure tutti coloro che ac­corrono con frequenza a tali spettacoli.

Il ballo.

Di per se stesso il ballo non sareb­be un male, però la malvagità umana l’ha ridotto ad una scuola d’immoralità. I vari balli moderni, eseguiti special­mente tra persone di diverso sesso, co­stituiscono un vero pericolo per la pu­rezza.

Si faccia di tutto per impedire si­mili balli e non si permettano nelle fa­miglie che si dicono cristiane; anzi, non vi si assista neppure, per non approva­re colla propria presenza il male che al­tri commette.

I genitori, desiderosi di custodire la purezza delle figliuole, siano molto vi­gilanti su questo spasso mondano, che giustamente è chiamato il divertimento del diavolo.

La spiaggia.

Anche la vita di spiaggia è conside­rata oggi come rovina della purezza. Il costume molto ridotto, l’ozio, la pre­senza di giovani dissoluti, tutto ciò con­corre alla rovina delle anime.

È necessario quindi prendere le do­vute cautele, diversamente, mentre si va al mare per pulire il corpo e rafforzarlo, si macchia l’anima e la si potrebbe per­dere eternamente.

La moda.

Le donne son portate naturalmente a seguire la moda. Se la moda è modesta, la purezza ne avvantaggia; se è troppo libera, i buoni costumi ne risentono assai.

Al presente l’abito femminile lascia molto a desiderare, tanto che si può chiamare la provocazione delle umane passioni. Ordinariamente le donne non pensano al male che fanno col vestire immodesto; esse cercano di appagare la vanità; il demonio invece si serve di ciò per tendere insidie agl’incauti e farli cadere nel male.

Coloro che confezionano abiti femmi­nili, siano prudenti e delicati nell’eser­cizio della loro professione per non coo­perare alla rovina delle anime. Prefe­riscano perdere certi clieti, anzichè macchiare la propria coscienza.

I genitori cristiani s’impongano ener­gicamente sulle figliuole e non permet­tano di vestire immodestamente. Si ri­cordi che il migliore ornamento di una giovane è la serietà del vestire e la mo­destia del portamento.

Altri pericoli.

Libri cattivi ce n’è molti e si trovano anche presso famiglie cristiane. Si leg­gono con la scusa d’istruirsi o con la falsa idea di non ricavarne del male. Quando un libro è cattivo, non solo si fa male a leggerlo, ma si fa male pure a prestarlo, a consigliarlo ed a tenerlo conservato. Non resta dunque che di­struggere subito i libri cattivi o pericolosi.

Quello che si dice per i libri, valga anche per i giornali, le riviste ed i perio­dici cattivi.

Il televisore costituisce un pericolo per la moralità; si trasmettono opere, films e dialoghi che lasciano assai a desiderare in fatto di purezza.

In ultimo, si considerino come veri pericoli i quadri e le statuette indecen­ti, esposte senza riserbo nelle villette, lungo le scale e sulle pareti delle ca­mere. Quanto male non fanno certi la­vori, chiamati artistici, ma che in realtà si dovrebbero chiamare scandalosi!

Si distruggano anche certe cartoline indecenti, che persone senza timore di Dio mettono in circolazione.

Custodire i piccoli.

Ad una certa età, conosciuto il valore della purezza, ciascuno è in grado di vi­gilare sopra di se e sopra degli altri. I piccoli però non possono fare questo, in quanto non conoscono il male.

I genitori ed i superiori hanno il do­vere grave di vigilare affinché i piccoli non vengano scandalizzati.

I ragazzini e le ragazzine sogliono es­sere facilmente vittime delle umane passioni. Ma guai a chi compie quest’o­pera diabolica! Dice Gesù: Guai a chi dà scandalo ad uno di questi piccoli che credono in me! –

In pratica, si sia prudenti a non fare riposare, ad una certa età, nello stesso letto parecchi figliuoli. Non si la­scino senza sorveglianza i piccoli quan­do attendono al giuoco, specialmente se cercano di nascondersi per non essere visti. Non ci si fidi troppo delle persone di servizio, in modo particolare se sono poco timorate di Dio.

SUPERBIA

Dicesi superbia il desiderio disordi­nato della propria eccellenza. È un vizio molto radicato in noi, il quale è causa di una grande quantità di peccati.

Iddio odia la superbia e la punisce. Il primo peccato di superbia fu com­messo dagli Angeli in Cielo, allorché si ribellarono a Dio con a capo Lucifero. La punizione fu tremenda, poiché subito fu creato l’inferno e vi precipitarono tutti i ribelli, per starvi eternamente. Un altro grave peccato di superbia fecero i nostri progenitori Adamo ed Eva nel Paradiso Terrestre, quando fu­rono tentati dal demonio a mangiare il frutto proibito da Dio. – Perché non mangiate di questo frutto? – domandò il tentatore. – Non possiamo, risposero, perché Iddio ce l’ha proibito! – Se lo mangerete, continuò il demonio, diven­terete simili a Dio! – Adamo ed Eva prestarono fede e, mossi dal desiderio di diventare simili al Creatore, colsero il frutto e lo mangiarono. Il peccato fu grave, non solo per la disubbidienza, ma anche per la superbia. Iddio, fortemente sdegnato, tolse ai due peccatori i doni soprannaturali, già dati gratuitamente, li condannò a morire e li cacciò dal Pa­radiso Terrestre.

Il Redentore.

Dio, giusto punitore della colpa, non tralascia però di compatire l’uomo im­pastato di debolezza e gli dà un rimedio efficace contro la superbia. Infatti la se­conda Persona della Santissima Trinità, il Figlio Eterno di Dio, lascia lo splen­dore del Cielo e si riveste di umana car­ne. Lo scopo dell’Incarnazione è di ria­prire il Paradiso agli uomini e di dare un meraviglioso esempio di umiltà, in opposizione all’innata superbia.

La vita terrena di Gesù Cristo fu una lotta continua al vizio della super­bia. Avrebbe egli potuto nascere in un palazzo reale e farsi ricoprire di gloria dagli uomini; ed invece nacque in una stalla, visse in una bottega facendo il fa­legname e mori ignudo sulla Croce, tra due ladroni, come un malfattore.

Gl’insegnamenti di Gesù.

Il Vangelo è ricco di massime e di parabole, che hanno per scopo di abbat­tere la superbia e d’insegnare l’umiltà. Gli Apostoli domandarono a Gesù: Maestro, chi è il più grande nel regno dei Cieli? –

Egli prese un bambino, lo pose in mezzo a loro e poi disse: Chi si umilie­rà, facendosi piccolo come questo bam­bino, costui sarà il più grande nel re­gno dei Cieli. –

E vedendo che gli Apostoli tende­vano alla superiorità, disse loro: I prin­cipi di questo mondo signoreggiano i loro sudditi; per voi non sia così. Chi di voi vuole essere il primo, sia l’ul­timo. –

Trovandosi in un convito Gesù ed osservando che gl’invitati brigavano per avere i primi posti, parlò in questo mo­do: Quando tu sei invitato a pranzo, non andare a metterti al primo posto, poiché potrà darsi che sia stato invi­tato uno superiore a te ed allora il pa­drone dovrà dirti: Amico, lascia questo posto e mettiti in fondo! – Allora ne avrai vergogna presso tutti i commen­sali. Quando invece sei invitato a tavola, mettiti nell’ultimo posto, affinché chi ti ha invitato abbia a dirti: Amico, vieni avanti! Così ne avrai onore presso tutti i convitati. Poichè chi s’innalza sarà u­miliato e chi si umilia sarà esaltato. –

Essendo la superbia come una feb­bre che spossa ed anche il motivo dell’in­quietudine del cuore umano, Gesù Cristo si dà quale modello a tutti, dicen­do: Imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete il riposo per le anime vostre! –

Fortunati coloro che vivono in con­formità a questi divini insegnamenti!

Lo spirito di superbia.

L’amor proprio, o l’alta stima che cia­scuno sente di sé, fa sempre capolino e bisogna vigilare per non restarne vit­tima.

S. Giovanni Bosco confessa lui stesso di aver sentito nell’animo fin dalla fan­ciullezza una forte inclinazione allo spi­rito di superbia. Subito però si mise all’opera e riuscì vittorioso. Una volta potè dire in maniera lepida: Ho dovuto propormi di prendere per il collo la mia superbia, metterla sotto i piedi e cal­pestarla. –

Lo spirito di superbia porta ad es­sere ambiziosi, presuntuosi, vanitosi e rende ribelli all’autorità, per cui non si sopporta di stare soggetti ad altri e, quando lo si è costretti, internamente ci si rode. Veniamo ora alle particolari manife­stazioni della superbia.

I pensieri.

Il superbo nella sua mente ingran­disce i propri meriti e si gonfia come un pallone. Crede di essere qualche cosa di grande e perciò guarda dall’alto in basso, studiando i mezzi per eccellere sempre.

Se il superbo riceve un’offesa o una mancanza di riguardo, non sa darsi pace. Pensa e ripensa il torto ricevuto e con­cepisce desideri di vendetta. – A me fare questo affronto? … Trattare in tal modo me, che ho tanti meriti? … Ah! questo è troppo! – In preda a tali sen­timenti, perde la pace del cuore.

Le parole.

Il superbo non si contenta di pen­sare altamente di se, ma sente il biso­gno di esternare con le parole i suoi sentimenti. Si loda facilmente, metten­do in mostra i titoli di onore, dicendo di appartenere a nobile famiglia, par­lando con entusiasmo delle proprie cose e mettendo sempre avanti il proprio « io ». – Io faccio così … Io in quel­l’occasione mi comportai in tal modo … Io sono salutato sempre … Io sono sti­mato assai … Io porto abiti di lusso …

Insomma s’incensa di continuo e non ricorda il proverbio: Chi si loda, s’im­broda! –

Chi ha il vizio della superbia, non si limita a lodarsi; è anche portato natu­ralmente a disprezzare gli altri.

Il parlare del superbo suole essere impastato di critica, di mormorazione e di bugia.

Coloro che assistono a simili conver­sazioni, esternamente dimostrano di approvare, per non irritare il superbo, ma appena questi si allontana, cominciano a ridere alle sue spalle, dicendo: Che superba persona! . .. Oh, quanto è scioc­ca! … Ma cosa crede di essere?… –

E così si avvera il detto di Gesù: Chi s’innalza, sarà umiliato! –

Il volere comparire.

Il superbo è smanioso di comparire e fa di tutto per apparire in società qualche cosa di più degli altri. Se è ric­co, spende grosse somme per avere un’a­bitazione più bella degli altri ricchi, compra gioielli di grande valore ed in­dossa abiti lussuosi.

Se il superbo non è ricco, fa grande economia pur di comparire davanti agli altri; perciò limita le spese giornaliere, va forse in prestito di denaro e tutto spende in abiti eleganti ed in pro­fumi.

La persona superba e vanitosa ama di stare lungamente davanti allo specchio e studia la conciatura dei capelli e l’abbellimento del volto; studia anche il sorriso ed i movimenti del corpo, per apparire sempre più attraente. Esce di casa, non tanto per sbrigare faccende, quanto per mettersi in mostra. Lungo le vie cammina con affettazione e pare voglia dire a tutti: Guardatemi! … Chi c’è simile a me? … Desidera ricevere saluti e gode nel suo cuore ad ogni pic­cola dimostrazione di stima.

Poveri superbi vanitosi! … Ma credete che tutti abbiano a pensare a voi?… Ognuno ha i propri fastidi e tira per la sua strada! … Vale dunque la pena sprecare tanto tempo e denaro per la voglia di comparire? … Cosa ne resta a voi di utile? Vanità della vanità!…

Le opere del superbo.

Le nostre opere devono essere diret­te alla gloria di Dio ed al bene del pros­simo; soltanto così sono meritorie per l’altra vita. Ma il superbo non bada a ciò, anzi agisce in senso contrario; il fi­ne del suo operare è l’appagamento del­l’orgoglio, con la ricerca della stima e dell’approvazione altrui.

È bene qui ricordare gli Scribi ed i Farisei, uomini superbi, i quali fu­rono riprovati da Gesù Cristo. Costoro facevano elemosina, pregavano a lungo, digiunavano ed erano osservanti scru­polosi della legge di Mosè. Tuttavia non erano accetti a Dio, perchè le loro opere erano fatte per riscuotere la lode degli uomini. Gesù perciò disse ai suoi disce­poli: Se la vostra giustizia non sarà più abbondante di quella degli Scribi e dei Farisei, non entrerete nel regno dei Cieli. –

Il superbo, quando non è visto, si astiene dal far la carità o ne fa assai poca; se invece sa di essere osservato, fa elemosina ed anche abbondante­mente, affinché possa sentirsi dire: Oh, com’è caritatevole e di buon cuore! –

Quello che si dice per la carità, si dica per tutto il resto.

Quale ricompensa può sperare il su­perbo da Dio in questa o nell’altra vita? Nessuna!

La superbia spirituale.

E’ superbia spirituale il credersi buono, anzi più buono degli altri ed il disprezzare il prossimo perchè peccatore. Questo ge­nere di superbia dispiace moltissimo a Dio, il quale conosce la miseria di ciascu­no e sa che senza il suo aiuto non può farsi niente di buono.

Il Signore suole abbandonare questi superbi, lasciandoli in balia di se stessi, permette che poco per cadano in nei peccati e specialmente in quelli più ver­gognosi, affinchè imparino a conoscere la propria miseria spirituale.

Bisogna perciò guardarsi da un vizio così funesto; e per riuscirvi, ci si umili tanto più, quanto maggiore è il progresso che si fa nella via della perfezione.

UMILTA

L’umiltà è la virtù opposta alla su­perbia e consiste nello stimarci per quello che siamo, cioè un impasto di miseria, e nell’attribuire a Dio l’onore di qualche bene che in noi riscontria­mo. Non dovremmo faticare molto a praticare l’umiltà, se fossimo davvero convinti di ciò che siamo.

Facciamo delle brevi considerazioni sopra l’umana miseria, per invogliarci sempre più dell’umiltà.

Il corpo umano.

Quanti vanno superbi del proprio corpo! C’è chi va orgoglioso per la bel­lezza del volto, chi per il colore dei capelli, chi per la freschezza della carna­gione, chi per la robustezza delle mem­bra, chi per la voce, ecc. Eppure, che cosa è il corpo umano, anche il più bello? E’ un pugno di fango.

Basta un po’ di febbre per abbattere una forte corporatura; un foruncolo può deturpare in breve il viso più avve­nente; da ogni parte del corpo umano emanano odori nauseanti, per cui si ha da ricorrere alle ciprie ed ai profumi.

Appena avvenuta la morte, il corpo diventa freddo cadavere e presto ha principio la putrefazione. Si è costretti a chiuderlo in una cassa, ben saldata, e dopo lo si affida alla terra. Guai a tro­varsi vicino al corpo umano quando la dissoluzione è avanzata! La carne puru­lenta si stacca dallo scheletro e serve di pasto ai rettili più schifosi del sotto­suolo.

O uomini, o donne, che tanto vanto menate del vostro corpo e tanta cura ponete nel comparire, pensate a ciò che vi ridurrà presto o tardi la morte!

I beni di fortuna.

Cosa sono le ricchezze e la nobiltà del casato? Sono delle semplici vanità. Che merito ne hai tu, o uomo, se sei nato da nobili genitori e ne hai ereditato il nome, il denaro, il palazzo e le altre proprietà? Il merito, al massimo, sarebbe di chi ha faticato per procurar­ti tali beni. Quale differenza c’è tra te nobile e l’ultimo dei poveri? Tutti e due siete figli di Adamo e soggetti en­trambi ad un cumulo di miserie. Come tu non hai avuto merito a nascere ricco, così l’altro non ha avuto colpa a nascere povero. E dunque, perché disprezzare il povero, aver vergogna di stargli vicino e pretendere da lui atti di umiliazio­ne? …

Si pensi che i beni di fortuna oggi ci sono e domani potrebbero non esser­ci. Un terremoto, un’inondazione, un furto, un fallimento… e scompaiono le ricchezze! Quanti nobili decaduti ricor­da la storia! Vale dunque la pena d’insuperbirsi per i beni di fortuna? …

Le doti mentali.

Taluni hanno sortito da natura una memoria prodigiosa, oppure una intel­ligenza superiore, per cui ritengono quanto vedono e sentono e con facilità riescono in diversi rami della scienza. Altri, pur non avendo memoria ed in­telligenza straordinaria, hanno tuttavia un’attitudine particolare alla musica, alla poesia, alla pittura o ad altra arte bella.

Costoro hanno diritto d’insuperbir­si? Niente affatto! Le doti intellettuali sono doni di natura e si possono perde­re o in parte o completamente. Basta visitare un manicomio, per convincersi di ciò. Quanti professori valenti, medici di grido, avvocati celebri, ecc…. hanno perduto l’uso della ragione e sono rico­verati tra gli scemi!

Il bene spirituale.

Oltre alla memoria ed all’intelligen­za, noi abbiamo la volontà, che é la fa­coltà più nobile dell’anima nostra. La volontà è fatta per il bene e tende ad esso.

Molti vanno in cerca di beni falsi e passeggeri e trascurano i veri beni, che si acquistano con l’esercizio delle virtù cristiane.

Ci sono invece anime ricche di beni spirituali, che moltiplicano gli sforzi quotidiani e che hanno già raggiunto un buon grado di perfezione. Possono que­ste insuperbirsi della propria virtù? No! L’anima può fare il bene, perchè è sorretta dalla grazia di Dio; se manca quest’aiuto, la volontà non può fare niente. La volontà umana è tanto de­bole: oggi vuole il bene e domani si ap­piglia al male; oggi ama e domani odia.

Come possono insuperbirsi i virtuosi, pensando alla debolezza della loro volontà? Basta pensare al principe degli Apostoli, S. Pietro, che disse a Gesù Cristo: Io sono pronto a morire con Te! Non ti abbandonerò! – La stessa notte invece Lo rinnegò tre volte.

Quanti, che prima erano virtuosi e modello agli altri di vita cristiana, si pervertirono e divennero di scandalo! Dunque, si stia sempre umili e diffidenti di sè.

La parabola dei talenti.

Un tempo noi non esístevamo; quin­di eravamo nulla. Il Signore per sua in­finita bontà ci ha creati, dotandoci di beni nell’anima e nel corpo. Nel fare ciò, ha avuto dei fini particolari. Ascol­tiamo la parabola dei talenti, che Gesù narrò per il nostro ammaestramento:

« Un uomo, dovendo andare lontano, chiamò i suoi servi e diede loro i suoi beni. Ad uno consegnò cinque talenti, ad un altro due e ad un altro uno solo, a ciascuno secondo la propria capacità; e subito dopo partì.

Colui che aveva ricevuto cinque ta­lenti, andò a trafficarli e ne guadagnò altri cinque. Similmente colui che ne aveva ricevuto due. Il servo però che ne aveva ricevuto uno, andò a scavare in terra e nascose il denaro del suo pa­drone.

Dopo molto tempo venne il padrone di quei servi e fece i conti con essi. E fattosi avanti chi aveva ricevuto cinque talenti, ne consegnò altri cinque di­cendo: Padrone, mi hai dato cinque ta­lenti; ecco ne ho guadagnati altri cin­que. – Gli rispose il padrone: Ben ti sta, servo buono e fedele; poichè sei stato fedele nel poco, ti costituirò a capo di molto; entra nel gaudio del tuo pa­drone! –

Si fece avanti poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: Padrone, mi hai dato due talenti; ecco ne ho gua­dagnati altri due. Gli disse il padrone: Ben ti sta, servo buono e fedele, poiché sei stato fedele nel poco, ti costituirò a capo di molto; entra nel gaudio del tuo padrone. –

Dopo venne avanti anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: Padrone, so che sei uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso; avendo io timore, sono andato a nascondere sotto terra il tuo talento. Eccoti ciò che è tuo! – Gli ri­spose il padrone: Servo cattivo e infin­gardo, sapevi che mieto dove non ho seminato e che raccolgo dove non ho sparso; bisognava dunque che tu affi­dassi il mio denaro alle banche e così ritornando io avrei percepito il mio de­naro con il frutto. Perciò, sia tolto a lui il talento e sia dato a chi ne ha dieci; imperocché a chi ha, sarà dato ed ab­bonderà; a colui che non ha, sarà tolto anche quello che crede di avere. E que­sto servo inutile sia gettato nelle tene­bre esteriori; ivi sarà pianto a stridor di denti».

Questa parabola c’insegna che Iddio dà a ciascuno dei beni, ma a chi dà più ed a chi meno. Ad uno dà molta ric­chezza, ad un altro il puro necessario; a chi offre un corpo vigoroso e bello, a chi dà un corpo debole e difettoso; ad uno largisce un’intelligenza vasta e pro­fonda, ad un altro una mente mediocre oppure incapace.

Alla fine della vita, quando si ha da comparire davanti a Cristo Giudice, ciascuno dovrà dar conto dei doni rice­vuti e sarà domandato più a colui al quale più è stato dato.
Quando perciò si hanno doni parti­colari, materiali o spirituali, invece di montare in superbia, si pensi ad essere grati a Dio ed a corrispondere alle sue mire divine.

Per conservare l’umiltà, giova il con­siderare il seguente paragone.

Un ricco signore vuol cambiare di­mora e stabilisce di trasportare tutto alla nuova abitazione servendosi di al­cuni asini.

Sul primo asino mette la cassaforte, con il denaro ed i gioielli; sul secondo colloca dei quadri, capolavori di arte; sul terzo mette i drappi preziosi, sul quarto gli intensili di poco valore; sul quinto infine depone gli stracci ed altri oggetti di basso uso.

Supponiamo che questi asini possano parlare e lungo il tragitto tengano una conversazione:

– State lontani da me, dice il primo asino ai compagni; io sono il più nobile, perché ho tanta ricchezza; mi vergogno di stare accanto a voi! – Gli altri potreb­bero rispondere: Sciocco e superbo! So­no forse tuoi i tesori che porti? Non sono del padrone? Non avrebbe potuto metterli sulla nostra groppa? Del resto, appena arrivati alla nuova dimora, tutto ti sarà tolto e resterai un povero asino come noi! Pensa dunque che asino sei ed asino rimarrai! –

Quanto insegnamento dà questo pa­ragone! … Dovrebbero tenerlo presente i superbi!

L’umiltà è verità; come tale, se ci fa riconoscere la nostra miseria, non c’im­pedisce di riconoscere quanto in noi ci sia di buono, purchè tutto si riferisca a Dio.

Perciò non manca d’umiltà chi ri­conosce di essere ricco o intelligente o di bell’aspetto o arricchito di doni spiri­tuali. Quando però si riceve qualche lode per le buone qualità, si dica in cuore: Non a me, o Signore, ma sia glo­ria a te, datore d’ogni bene! –

È tanto facile però rubare a Dio la gloria! Questo si fa quando volontaria­mente noi godiamo delle nostre belle doti, quasi fosse merito nostro l’averle.

L’insegnamento della Madonna.

Maria Santissima, scelta a diventare Madre del Figlio di Dio, si umiliò davanti all’Arcangelo Gabriele, che la salutava « Piena di grazia ». Quanta umiltà in que­ste parole: « Ecco la serva del Signore! Si faccia di me secondo la tua parola! »

Iddio la sceglieva per Madre e lei si di­chiarava serva! Quantunque umilissima, la Vergine sciolse un inno d’amore e di gratitudine al Signore riconoscendo la propria dignità.

Allorché S. Elisabetta le disse: E don­de a me quest’onore, che la Madre del mio Signore viene a me! – le rispose: L’anima mia magnifica il Signore ed esul­ta il mio spirito in Dio, mia salvezza! Poi­che Egli guardò l’umiltà della sua ser­va; da questo momento tutte le gene­razioni mi chiameranno beata! Impe­rocche ha fatto a me cose grandi Colui che è potente ed il cui nome è Santo! –

La Madonna c’insegna che anche nell’umiltà possiamo riconoscere in noi i doni di Dio e gioire di ciò, purché di tutto si dia gloria al Signore.

Umiltà davanti a Dio.

Non dobbiamo mai confidare in noi stessi, come se fossimo qualche cosa davanti a Dio, stimandoci giusti. Ecco la parabola che fa al caso nostro.

– Due uomini, dice Gesù Cristo, anda­rono al Tempio per pregare; uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così: Ti ringra­zio, o Dio, che non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adulteri; e nean­che sono come quel pubblicano. Io digiu­no due volte nel sabato; do decime di tutto ciò che possiedo.

Il pubblicano invece stando in fondo al Tempio, non osava neanche alzare gli occhi al cielo; ma batteva il petto dicendo: O Dio, siate propizio a me pec­catore! –

Io vi dico, conclude Gesù, che que­sto pubblicano ritornò a casa giustifica­to, a differenza dell’altro; perché chiun­que si esalta sarà umiliato e chiunque si umilia sarà esaltato. –

La parabola é molto eloquente. Se vogliamo che Iddio ci perdoni i peccati, umiliamoci sinceramente davanti a Lui, riconoscendo la nostra miseria.

Se fossimo realmente buoni, se cioè osservassimo bene la legge di Dio, non potremmo allora pensare altamente di noi? Neppure questo è lecito. Infatti Ge­sù ci dice: Quando voi avrete fatto tutto ciò che vi è stato comandato, dite: Sia­mo servi inutili! Abbiamo fatto ciò che dovevamo fare! –

Ora, se chi adempie bene i comanda­menti di Dio, deve dirsi servo inutile, che cosa pensare di chi ha fatto, oppure fa qualche peccato? … E chi è sulla ter­ra che non pecca? …

I patimenti.

Il Signore non lascia mancare la cro­ce ne’ ai cattivi ne’ ai buoni. Ai primi il soffrire serve a castigo dei peccati ed a mezzo di richiamo sulla buona via; ai secondi è fonte di merito per il Paradiso.

Il vero umile quando riceve una cro­ce, sia una malattia, sia una disgrazia o una contrarietà, non si ribella a Dio, ma tutto facilmente abbraccia, dicendo: Signore, ho peccato! … Merito questa cro­ce, a motivo dei miei peccati! Abbiate pietà di me e datemi la forza di soffri­re! – Chi può dire quali tesori per il Cielo guadagna, facendo così l’anima umi­le?…

Il superbo invece, se si trova nella sofferenza, si arrabbia e dice: Ma che co­sa ho fatto a Dio, perché abbia a trattar­mi così? Ho fatto bene nella mia vita! – Povero superbo, come si sbaglia davan­ti a Dio! …

Umiltà col prossimo.

L’umiltà con gli altri si pratica pen­sando bene di tutti e scusando quelli che sbagliano; non mormorando dei difetti altrui, anzi sopportandoli con pazienza; trattando con rispetto e cortesia tutti, anche i poveri, i rozzi e gl’ignoranti; non usando parole sprezzanti coi dipendenti e persone di servizio; non disprezzando la compagnia di chi è di bassa condizione; finalmente, aiutando i bisognosi.

Facendo così, si diventa amici di tut­ti e naturalmente si è stimati e lodati con disinteresse.

Umiltà con se stessi.

Si pratica l’umiltà con se stessi, non soltanto riconoscendo la propria miseria, ma anche accettando con calma le umilia­zioni. Un insulto, una mancanza di ri­guardo, un merito non riconosciuto, un favore ricambiato in male … son cose che feriscono la superbia umana. L’u­miltà ci fa scoprire tutto ciò con corag­gio cristiano, pensando che per i nostri peccati siamo meritevoli di ogni umilia­zione.

L’umiltà c’insegna anche a pregare per chi ci ha umiliati.

Ma come avere la forza di praticare l’umiltà in tal guisa? Tenendo presen­te l’esempio di Gesù Cristo!

Nelle umiliazioni pensiamo a Gesù quando era insultato, ingiuriato, sputacchiato e preso a schiaffi dai perfidi Giu­dei. Se Gesù, Figlio di Dio, innocentis­simo, sopportò tante e sì gravi umilia­zioni, noi Cristiani, essendo suoi segua­ci, sforziamoci d’imitarlo come facevano i Santi e così troveremo il riposo per le anime nostre.

AVARIZIA

Il secondo vizio capitale è l’avarizia, cioè l’amore disordinato dei beni terreni, chiamati comunemente « beni di fortu­na ».

L’avarizia è peccato più o meno gra­ve, secondo che offende più o meno gra­vemente la carità o la giustizia.

Se il cuore umano è dominato da que­sto vizio, ad altro non pensa e non mira che alla ricchezza; diventa schiavo del denaro, sino ad adorare come Dio la mo­neta.

Gli avari, propriamente detti, non so­no molti; costoro si privano del neces­sario pur di accumulare denaro. Però gli attaccati alle ricchezze più del giusto, so­no in gran numero. Per convincersi di ciò, basta vedere con quale avidità si compera e si vende, quante liti si sosten­gono ed a quanti sacrifici si va incontro per accrescere il proprio guadagno.

Non è da confondersi con l’avarizia il giusto desiderio di guadagnare del de­naro, per sovvenire ai propri bisogni ed a quelli della famiglia; neppure è avarizia quel senso di economia, per cui si limi­tano le spese non necessarie, allo scopo di mettere da parte qualche cosa per gl’im­previsti della vita.

Conseguenze.

Il desiderio di arricchire suole spin­gere all’usura.

Il bisognoso si rivolge al benestante per avere in prestito denaro. Bisognereb­be immedesimarsi della necessità del pros­simo e dare in prestito generosamente, senza domandare interesse, oppure chie­dere il minimo. Chi però è attaccato alla ricchezza, o non dà in prestito o, se dà, richiede molto interesse. Quanti usurai fanno piangere intiere famiglie, spillando denaro a più non posso! Giustamente questi miserabili sono chiamati strozzini, perché strozzano il prossimo, prendendolo per la gola.

L’amore sregolato al denaro fa froda­re anche la giusta mercede all’operaio. Il lavoro dev’essere retribuito come si conviene, cioè la paga dev’essere in rap­porto alla fatica ed all’abilità.

L’avaro invece esige molto lavoro e re­tribuisce poco, dando così motivo di be­stemmiare e d’imprecare.

L’amore al denaro mette a tacere anche la voce del sangue. Perché tra genitori e figli, tra fratelli e sorelle, tra zii e ni­poti, non si mantiene la dovuta cordia­lità? … Perché spesso costoro non si vi­sitano, non si salutano, anzi si calunniano, augurandosi ogni male? È la conseguen­za dell’attacco al denaro.

E quanti delitti non si commettono per appropriarsi della roba altrui! Ed a quanti parenti si desidera la morte pre­matura, nella speranza di aver presto l’ere­dità o qualche lascito!

Giuda tradì Gesù Cristo per trenta de­nari; e chiunque si lascia vincere dall’amo­re ai beni di questo mondo, non c’è ma­le che non possa commettere, davanti alla possibilità di arricchire ancora.

IL NECESSARIO

L’esempio di Gesù.

I beni di questo mondo ci sono stati dati da Dio come mezzo di sostenimento; non bisogna dunque attaccarvi troppo il cuore e cambiare così il mezzo col fine. Gesù diede al mondo l’esempio del più completo distacco dai beni terreni, per far comprendere che le vere ricchezze sono quelle celesti. Egli perciò volle una Ma­dre povera ed un Padre Putativo povero; nacque nella massima povertà; lavorò e visse da povero, sino a dire ad un tale che voleva seguirlo: Gli uccelli dell’aria hanno i loro nidi e le volpi le loro tane, ma il Figlio dell’uomo non ha neppure dove posare il capo. –

L’insegnamento divino.

Gesù amava i poveri, sino a chiamarli beati, e proclamò questo solennemente quando disse alla moltitudine dall’alto di una montagna: Beati i poveri di spirito,. cioè i distaccati dalle ricchezze, perché di essi è il regno dei Cieli! –

Ma mentre il Divin Maestro ai poveri dice questo, ai ricchi rivolge parole terri­bili: Guai ai ricchi! E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, anziché un ricco entrare in Paradiso! – Ciò significa che chi è ricco ed è molto legato ai beni, difficilmente potrà salvare l’anima sua.

I bisogni della vita.

Finché si sta sulla terra, si ha biso­gno di cibo, di vestiti e di altre cose accessorie. Dunque si ha da brigare af­finché niente venga a mancarci.

Dice S. Paolo: Avendo di che nutrir­ci e di che coprirci, di ciò dobbiamo es­sere contenti. –

Perciò non è male cercare quello che è necessario. Il Signore però vuole che non si abbia troppa preoccupazione del cibo e del vestito; desidera invece che si viva con maggiore fiducia nella sua prov­videnza.

Gli uccelli ed i fiori.

« Guardate, – dice Gesù Cristo, – gli uccelli dell’aria; non seminano, non mietono e non raccolgono nei granai; ep­pure il vostro Padre Celeste li nutrisce. Non valete voi più di molti uccelli? E chi di voi, pensando, può aggiungere alla sua statura un solo cubito? E del vesti­mento perché vi preoccupate? Conside­rate come crescono i gigli del campo; non lavorano e non tessono. Ed io vi dico che neppure Salomone nella sua glo­ria fu coperto come uno di essi. Se adun­que l’erba del campo, che oggi c’è e do­mani si getta nel fuoco, Iddio veste in tale modo, quanto più vestirà voi, uo­mini di poca fede? Non vogliate perciò essere troppo solleciti, dicendo: Che co­sa mangeremo o che cosa berremo o come ci copriremo? – Tutte queste cose infatti cercano i pagani. Sa il vostro Padre Ce­leste che voi abbisognate di tutte queste cose ».

Queste parole sono uscite dalla boc­ca di Dio e quindi sono verissime. Ma come si spiega che tanti mancano del necessario?

La ragione la dà lo stesso Gesù, con­cludendo il discorso precedente: Cercate prima il regno di Dio e la sua giusti­zia e tutte queste cose vi saranno date per giunta. Non vogliate dunque essere preoccupati soverchiamente del doma­ni. –

Se si osserva la legge di Dio, come si deve, il Signore non ci farà mancare il necessario.

Il più datelo ai poveri! Gesù c’insegna a pensare anche al pros­simo bisognoso e dice: Quello che avete di più, datelo ai poveri! –

Oh! se si mettesse in pratica questo divino precetto, come si solleverebbe l’u­manità! Non avremmo i ricconi e neppure i miserabili.

I veri tesori.

La virtù opposta all’avarizia è la li­beralità e consiste nell’avere il cuore stac­cato dalla ricchezza e nel beneficare gli altri, nel limite della propria possibilità.

« Non vogliate, – dice il Signore; – affaticarvi per guadagnare tesori sulla ter­ra, tesori che la ruggine e la tignola di­struggono e che i ladri dissotterrano e rubano. Procuratevi invece tesori per il Cielo … Fatevi degli amici col Mam­mona d’iniquità, (cioè col denaro,) affin­ché quando verrete meno, possiate esse­re ricevuti negli eterni tabernacoli ».

Il Signore in tal modo ci esorta a te­soreggiare per il Paradiso e ci dice di servirci del denaro per assicurarci la feli­cità eterna. Chi infatti fa buon uso del denaro, esercitando la cristiana carità, sconta i peccati e si arricchisce di tesori, che troverà in Cielo quando verrà meno con la morte.

Ma mentre è promesso il Paradiso a chi fa buon uso delle ricchezze, è minac­ciato il fuoco dell’inferno a chi non fa carità, avendone la possibilità.

Il ricco epulone.

Leggiamo nel Vangelo: C’era un uo­mo ricco, che vestiva porpora e tutti i giorni dava grandi banchetti. C’era an­che un mendicante, di nome Lazzaro, il quale pieno di piaghe giaceva alla porta di lui, bramoso dl sfamarsi con le bri­ciole che cadevano dalla tavola del ricco, ma nessuno gliene dava; soltanto i cani andavano a leccargli le piaghe. Il mendi­cante mori’ e fu portato dagli Angeli in seno ad Abramo; mori’ anche il ricco e fu sepolto nell’inferno. Alzando costui gli occhi, mentre era nei tormenti, vide da lungi Abramo e Lazzaro nel suo seno. Allora ad alta voce esclamò: Padre Abra­mo, abbi pietà di me e manda Lazzaro ad intingere nell’acqua la punta del dito per rinfrescare la mia lingua, perché io spasi­mo in questa fiamma! – Ma Abramo gli rispose: Ricordati che tu avesti la tua parte di beni durante la vita, mentre Laz­zaro ebbe nel medesimo tempo la sua parte di mali; perciò ora egli è consolato e tu sei tormentato. Oltre a questo, una grande voragine è posta tra noi e voi. –

Quegli replicò: Io ti prego adunque che tu lo mandi a casa di mio padre, perchè ho cinque fratelli, per avvertirli di queste cose, affinché non abbiano anch’essi a venire in questo luogo di tor­mento. – Abramo rispose. Hanno Mosè ed i Profeti; ascoltino quelli. – E l’altro replicò: No, Padre Abramo, se un morto andrà a loro, faranno penitenza. – Ma Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non crederanno neppure ad un uomo risuscitato. –

Il ricco epulone fu condannato al fuoco eterno per il solo fatto che aveva tanti beni e non si dava pensiero di farne partecipe il povero mendicante.

IRA

Il quarto vizio capitale è l’ira o col­lera, che può definirsi, in senso stretto, come il desiderio disordinato della ven­detta. Considerata in senso largo, la col­lera è una viva commozione dell’animo, che ci fa respingere con forza e sdegno ciò che ci dispiace.

Qualche volta la collera non è pec­cato; questo avviene quando è conforme alla retta ragione. Un esempio l’abbia­mo nel Vangelo. Gesù trovò nel Tempio i profanatori; allora prese il cingolo, ne fece come un flagello e con esso battè i profanatori, mandandoli fuori dalla Casa di Dio.

Anche quando la collera è conforme alla retta ragione, potrebbe divenire peccato, più o meno grave, per quello che si fa durante l’ira o per il modo con cui si fa. Nella collera infatti si può pec­care o perché si punisce chi non merita, o perché si punisce più gravemente che non comporti la colpa, o perché si ha di mira più la vendetta anzichè la cor­rezione del colpevole, o perchè si esage­ra nella maniera di adirarsi.

Da ciò ne segue che è meglio non arrabbiarsi mai, piuttosto che arrab­biarsi giustamente, poichè è difficile mantenersi nei giusti limiti.

Simile alla pazzia.

Chi è pazzo, parla ed opera senza ri­flettere; può recare del male a se ed agli altri. Non è però responsabile del suo agire. Chi si lascia dominare dalla collera, finché è in preda alla passione, è come un pazzo: non sa ciò che dice o fa. Quante stranezze si commettono nella rabbia! Si battono i piedi, si tira­no i capelli, si mordono le mani, si bestemmia, s’impreca, si getta addosso al primo che capita ciò che si ha fra le mani, sì ferisce il prossimo e si può an­che dargli la morte. Cessata la rabbia, il collerico suole restare umiliato e dice a se stesso: Ma cosa ho fatto?… Guarda un po’ a che estremi sono arrivato!… Ah! questi nervi! Invece di pentirsi dopo, è meglio pensarci prima e non montare in col­lera.

Il collerico è di tormento agli altri ed a se. Guai a contrastarlo! Ne sanno qualche cosa le spose ed i figli, quando hanno da fare con il capo di famiglia assai nervoso. Sono ingiurie, minacce e botte! La presenza del collerico in casa tronca il sorriso dei familiari.

Chi facilmente monta sulle furie, vive nell’inquietudine, credendo che tutte le cose avverse capitino proprio a lui; pensa e ripensa i torti ricevuti, torti che a volte sono immaginari; suole avere la mente eccitata, per cui si rende inquieto lo stesso sonno.

Questi caratteri sono simili alle pen­tole in ebollizione; basta un poco più di calore ed ecco saltare il coperchio e riversarsi l’acqua; è necessario togliere legna dal fuoco, oppure aggiungere nella pentola un poco d’acqua fresca.

Al collerico si devono togliere le oc­casioni che possano eccitarlo; gli si fa così un vero atto di carità.

Quando si mantiene il dominio di se, si vede meglio la situazione delle cose e si possono prendere delle decisio­ni prudenti.

Invece il nervoso, alterandosi, non può vedere chiaramente, non è in gra­do di valutare le circostanze e facilmente può sbagliare negli affari d’importanza.

La nervosità è madre della precipi­tazione. Si sa per esperienza che la preci­pitazione è causa di tanti e tanti sbagli.

Il danno maggiore che arreca questo vizio, è quello spirituale, perché duran­te la collera si sogliono commettere di­versi peccati, con i pensieri, con le pa­role e con le azioni.

PAZIENZA

La virtù della pazienza è molto ma­gnificata dal Signore. Infatti Gesù dice: Beati i mansueti, poichè essi possederan­no la terra!

Queste parole significano che chi è paziente può divenire padrone del cuore degli uomini, è stimato dagli altri e bene­detto da Dio.

Inoltre Gesù vuole mettersi a model­lo della pazienza e proclama a tutti gli uomini: Imparate da me, che sono mite!

Pazienza con se stessi.

La pazienza è necessaria a tutti e sempre. Non mancano le occasioni in cui essa viene messa alla prova. Si deve esercitare questa virtù prima di tutto con noi stessi. Essere pa­zienti significa frenare la commozione dell’animo o mantenere in calma le po­tenze spirituali e sensitive. Non è sem­pre facile conservare il dominio di se stessi e mostrarsi sereni quando avvie­ne qualche contrarietà. La padronanza di se si acquista con un continuo eser­cizio e con l’aiuto della preghiera.

San Francesco di Sales aveva un’in­dole rabbiosa; sin da fanciullo si propo­se di correggersi e riuscì ad avere un grande dominio di se.

La pazienza deve farci sopportare i nostri stessi difetti. Tutti abbiamo del­le deficienze e per conseguenza cadia­mo in molti mancamenti. Anche quan­do commettiamo uno sbaglio, non dob­biamo arrabbiarci. Del resto, cosa giova adirarci quando lo sbaglio è avvenuto? Invece, dopo un mancamento, dobbiamo con calma dirci: Questa volta ho sba­gliato; starò più attento in seguito. –

E’ bene comportarsi così anche quan­do si commettono gravi colpe morali, poiché taluni, facendo il proposito di non cadere più in un dato vizio, si ri­tengono sicuri di sé, e, se per casa mancano, s’indispettiscono, perdono il coraggio e forse depongono il pensiero di migliorarsi.

Pazienza. col prossimo.

Il pretendere che nessuno manchi verso di noi, è assurdo. Coloro con i qua­li abbiamo da trattare, sono come noi ri­pieni di difetti e conseguentemente ci dispiacciono in molte cose. Ognuno ha i propri gusti e le proprie vedute, ed è difficile trovare due che se la inten­dano perfettamente. A questo si ag­giunge anche l’antipatia, che suole in­grandire i difetti del prossimo.

Dato questo, è necessario avere una buona dose di pazienza, per vivere in discreta armonia in famiglia ed in so­cietà. Per riuscire, è bene partire da questo principio di carità cristiana: Co­me voglio essere io sopportato e compatito nei miei difetti, così devo sop­portare e compatire il prossimo.

I pensieri.

Giova fare qualche riflessione d’in­dole pratica.

Tu, ad esempio, provi risentimento e rabbia interna verso una persona per il suo fare scortese e nervoso. Per compatirla, tieni conto dell’indole sua forse irascibile, dei dispiaceri, che forse avrà avuto in famiglia per cui è esaspe­rata; tieni conto pure della sua età, per­chè ad un certo periodo della vita l’orga­nismo è logoro ed il sistema nervoso ne risente gli effetti; tieni ancora conto dell’educazione che avrà avuto nell’in­fanzia. Insomma hai da tenere presenti tante cose, per non arrabbiarti nella tua mente contro il prossimo.

Le parole.

Quando si perde la pazienza, è la lin­gua a prendere il sopravvento. E’ necessario perciò frenarla, tenendo, se fa bi­sogno, la bocca chiusa quando si è trat­tati male e si sente già la fiamma della collera. Di certo questo è ottimo rime­dio! Si cominci a parlare quando, passa­ta la prima eccitazione interna, si rico­nosce di poter conservare la calma nelle parole e nelle opere.

L’Imperatore Augusto era d’indole collerica; avendo da trattare con ogni categoria di persone, era sovente nell’oc­casione di perdere la pazienza. Conosce­va la necessità di dominare i nervi, ma non sempre vi riusciva. Domandò con­siglio al filosofo Atenodoro. Questi gli rispose: Imperatore, se tu senti la rab­bia e vuoi subito parlare, comincia a recitare le lettere dell’alfabeto greco; quando avrai finito, comincerai a par­lare; ti troverai bene. –

Il rimedio era molto buono, poiché recitando lentamente le lettere dell’al­fabeto, la mente si distraeva un poco, il sangue circolava con più regolarità, i nervi si calmavano e così dopo era facile dominare la lingua e parlare con serenità e prudenza.

A tutti sarebbe utile questo rimedio. Però i Cristiani, invece di recitare le lettere dell’alfabeto, farebbero bene a dire lentamente il « Padre Nostro » o « 1’Ave Maria »; in questo modo, oltre a calmarsi prima di parlare, si può pre­gare per chi ha mancato.

Un Parroco.

Celebrandosi qualche Matrimonio, era solito un Parroco rivolgere la parola ai novelli sposi, raccomandando l’accordo ed il compatimento vicendevole. In par­ticolare diceva: Ogni volta che tra voi due sta per avvenire qualche contesa o diver­bio dovete subito dire: « Rimandiamo la contesa a domani! Per ora non ne par­liamo affatto! ». La mattina seguente, o sposi, voi non penserete più alla contesa, oppure se vi penserete, farete tutto con calma. –

Non solo gli sposi, ma tutti dovrebbero seguire questa norma. Quanti di­spiaceri e quanti peccati si potrebbero evitare!

La risposta dolce.

La risposta dolce rompe l’ira. Par­lando aspramente a chi è in collera, non si ottiene niente, anzi lo si irrita di più. Se gli si parla dolcemente e con garbo, naturalmente il collerico resta disarmato. Viene a proposito il prover­bio: Si prendono più mosche con una goccia di miele, anziché con un barile di aceto.

Il Santo Curato d’Ars aveva conver­tito alla fede cattolica una donna ebrea. Il marito di essa, pure ebreo, montò sul­le furie e si presentò al Santo con un col­tello in mano, minacciando:

– Siete voi, gli disse, colui che ha pervertito mia moglie? – Sono stato io a convertirla! … Cosa volete adesso? – Son venuto per strapparvi un occhio con questo coltello! – Quale volete strapparmi, il destro o il sinistro? – Vi strappo l’occhio destro. – Allora mi resterà il sinistro per guardarvi ed amarvi! – Vi strapperò anche il sini­stro! – Mi resterà il cuore per amarvi e vi aiuterò in ciò che potrò! –

A queste parole, improntate a calma e dolcezza, l’ebreo da leone diventò agnello e sentì il bisogno d’inginocchiar­si davanti al Santo Sacerdote per chie­dergli perdono.

La pazienza cristiana non solo mo­dera la lingua, ma tiene a freno tutti i sensi del corpo. Cosa vale non aprire bocca quando si è arrabbiati, se poi si alzano le mani, oppure si scaraventano a terra sedie, bottiglie od altro?

Bisogna sforzarsi di non apparire arrabbiati, anche quando l’animo è tur­bato assai. Il fare certi gesti sgarbati e sprezzanti, il guardare con occhio bieco, il sorridere sarcasticamente … so­no cose contrarie alla virtù della pazienza.

Norme pratiche.

Credo di fare cosa utile ai lettori, presentando norme pratiche da seguire in famiglia e fuori. Metterò sott’occhio alcune categorie di persone. Voglio spe­rare di contribuire in tal modo alla pace domestica di certe famiglie ed al loro bene spirituale.

Gli sposi.

La convivenza dell’uomo con la don­na nei primi mesi dopo la celebrazione del Matrimonio, non è difficile; il loro affetto in quel primo tempo suole es­sere grande e quindi facilmente si com­patiscono. Coll’andare del tempo, gli sposi manifestano apertamente il loro carattere e per conseguenza cominciano le dolenti note; l’uomo vuole coman­dare e la donna pure; l’uno vuol sem­pre ragione e l’altra non vuole mai torto; lo sposo alza la voce e la sposa grida; lui minaccia e lei si avventa.

Se non c’è pazienza, la vita degli sposi diviene un purgatorio e qualche volta un vero inferno. I fiori dei novelli sposi di­ventano spine e forse anche chiodi. Que­sta è la ragione per cui si domanda da taluni la separazione legale.

Perchè ci sia la pace, è necessario che gli sposi conoscano il vicendevole carat­tere; conosciutolo, facciano di tutto per non toccare i lati deboli.

Tu, o donna, sai che il marito non vuole essere contrariato? Cedi subito, anche con tuo sacrificio! Sai che egli ha un dato gusto e gli piace quel modo di pensare e di agire? Fa’ di tutto per accontentarlo, prevenendo anche i suoi desideri! Se tu agisci così, lo sposo ti apprezzerà di più ed anch’eglí si sforzerà di fare altrettan­to con te.

Tu, o sposo, ti accorgi che la con­sorte qualche giorno ha la luna a tra­verso? Sai che quando si altera non vede più dagli occhi? Compatiscila in quel gior­no, non irritarla di più, togli ogni occa­sione di contrasto! Tu forse dici: Ma io sono il capo di casa! Io devo coman­dare … e la donna mi deve stare sogget­ta! – Hai ragione; però non dimenticare che la sposa è compagna e non serva e tanto meno schiava. Ama la tua donna come te stesso e perciò compatiscila!

Ci vuole lo spirito di sacrificio e l’aiuto del Signore. È bene quindi che gli sposi, dicendo le preghiere del mattino o della sera, recitino anche un Padre Nostro con questa intenzione: « Per la pace in fami­glia ». Chi persevera in tale preghiera, presto ne vedrà i buoni frutti.

Correzione fruttuosa.

Un operaio aveva il vizio di bere trop­po, specialmente il sabato sera. La moglie era stanca di convivere con lui. A vederlo ritornare barcollante in casa, a sentirlo bestemmiare e vomitare ingiurie e paro­lacce … provava i brividi. Questo non era tutto. Sovente il marito nell’ubria­chezza rompeva qualche cosa e rovesciava le sedie; alla fine si sdraiava e si addor­mentava a terra.

La sposa sopportava sino ad un certo punto; ma dopo montava sulle furie e lo rimproverava aspramente. Finita la tempesta, quando cioè il marito si era addormentato a terra, con grande fatica lo prendeva di peso e lo metteva a letto; dopo rassettava la camera e finalmente si coricava. L’indomani riprendeva i rimpro­veri contro il marito per quello che aveva fatto la sera precedente. L’uomo, non ri­cordando niente perchè la sera era in ba­lia del vino, non faceva caso dei rimpro­veri, anzi rispondeva con una risatina. La cosa non poteva più durare.

Un giorno la donna ebbe la felice idea di chiedere consiglio ad un Sacerdote; ebbe un buon suggerimento e si affrettò ad attuarlo.

La prima sera che il marito era rinca­sato ubriaco, non gli rivolse la parola, anzi lo lasciò libero di fare. Nel bollore del vino, il misero uomo afferrò il lume e lo buttò a terra; rovesciò il piccolo tavolo su cui era la cena e tutto andò a male, minestra, piatti e bicchieri; in ultimo, come al solito, si addormentò sul pavimen­to. Questa volta la moglie si contentò di guardare; subito dopo andò a letto, senza rassettare la camera e lasciando il marito a terra. L’indomani mattina si sve­gliò l’uomo ed a vedersi in quello stato, chiamò la donna; questa con calma gli disse: Dunque cosa desideri? – Come mai mi trovo qui a terra?… Ho le ossa rotte! … E questo tavolo perché è rove­sciato? E questi, piatti ed i bicchieri?… Guarda quanta minestra per terra!… – La moglie rispose: Sono i miracoli che fai tu quando ritorni a casa ubriaco! – Sono stato io a fare questo? – Proprio tu! … Se vuoi continuare ad ubriacarti, continua pure; ma ti lascerò tutta la notte a terra. –

Quando il marito constatò con i pro­pri occhi il male che proveniva dall’u­briachezza. propose fermamente di cor­reggersi e poco per volta ci riuscì.

Questo episodio insegna che tra gli sposi è necessaria la mutua correzione; questa però si deve fare con calma e prudenza; soltanto allora è fruttuosa.

GOLA

Il vizio della gola consiste nell’abuso del mangiare e del bere.

Il corpo ha bisogno di riparare di con­tinuo le perdite che necessariamente de­ve subire; il nutrirlo quindi è un dovere. Se è un bene dare l’alimento al corpo, è però un male l’esagèrare nella quantità ed anche nella qualità. Questa esagera­zione è causata dal piacere che sente la gola. Il Creatore ha disposto che si provas­se gusto nel palato e nella gola, affinchè fa­cilmente il corpo potesse assumere i cibi e le bevande; ma quando la gola prende il sopravvento, si va contro la disposizione di Dio, perchè allora si mangia e si beve più del bisogno unicamente per saziare l’avidità della gola.

Di per sè il peccato di gola è leggero; diventa peccato grave quando l’abuso del mangiare e del bere pregiudica gravemen­te la salute del corpo e quando si beve si­no ad ubriacarsi, perdendo del tutto la ragione.

Il troppo mangiare ed il troppo bere arreca al corpo tanto male. Non poten­do l’organismo assimilare la quantità su­periore dei cibi, si sforza di riuscirvi; questo sforzo se è continuo porta all’esau­rimento. Inoltre, il cibo che non può as­similarsi, si converte in veleno per l’or­ganismo; da ciò hanno origine certe malat­tie, che presto o tardi portano al sepolcro. Le vittime della gola sono molte, tanto che c’è la frase proverbiale: Ne uccide più la gola che la spada.

L’esagerazione nel bere il vino od altre sostanze alcooliche, porta alle malattie del cervello.

L’intemperanza della gola è sorgente di molti gravi peccati.

Innanzi tutto, quando lo stomaco è troppo pieno, la volontà resta snervata e non sente la forza di operare il bene, anzi prova noia e disgusto delle cose spiri­tuali.

Quando il corpo è bene nutrito, facil­mente insorgono le passioni e specialmen­te la passione dell’impurità. Chi non sa fre­nare la gola, difficilmente è in grado di frenare gli altri sensi, per cui si può affer­mare che spesso chi cede alla gola, diven­ta debole in fatto di purezza.

Dall’ubriachezza hanno origine le be­stemmie, le parole indecenti, le percosse, i ferimenti e gli omicidi.

TEMPERANZA

Chiamasi temperanza la virtù che mo­dera e frena i sensi del corpo, specialmen­te la gola.

La temperanza è di grande utilità al­l’anima ed al corpo. I medici la raccoman­dano. Noi però dobbiamo praticare que­sta virtù in vista della nostra salvezza eterna.

Parte integrale della temperanza è la mortificazione cristiana, tanto inculcata da Gesù Cristo e dalla Santa Chiesa.

L’esempio di Gesù.

Gesù Cristo è perfetto Dio e perfetto uomo. Come tale, aveva un corpo simile al nostro, soggetto cioè al bisogno della nutrizione. Egli però era molto frugale. Durante le peregrinazioni della sua vita pubblica, veniva alimentato dalla carità di pie persone; qualche volta si conten­tava di nutrirsi con alcune spighe di grano raccolto nei campi.

Gesù volle dare inoltre un grande esempio di penitenza corporale, restan­do digiuno per quaranta giorni e quaran­ta notti. In tutto questo tempo non prese ne cibo ne bevanda; alla fine ebbe fame, tanto che il demonio colse l’occasione per tentarlo. – Se sei Figlio di Dio, gli disse, fa’ che queste pietre diventino pane.

Gli rispose Gesù: Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che pro­cede dalla bocca di Dio. –

L’esempio dei Santi.

Persuasi i Santi della necessità di se­guire le orme di Gesù, erano molto li­mitati nel cibo e per lo più si contenta­vano dello stretto necessario.

Sappiamo di alcuni Santi che s’indu­striavano di rendere disgustosi i cibi e le bevande, mettendovi sostanze amare o nauseanti.

Gli eremiti vivevano nel deserto e si nutrivano di erbe, di qualche frutto e di un po’ di acqua; con tutto ciò, sappiamo che buon numero di essi raggiunse un’età avanzata, anzi parecchi oltrepassarono i cento anni, come Sant’Antonio Abate e San Paolo, primo eremita.

Si sa di altri Santi che arrivarono a tale grado di mortificazione della gola, da su­perare la naturale ripugnanza assumendo cibi disgustosi. Un esempio lo troviamo nella vita di San Giovanni Bosco.

Questo Santo lavorava molto e man­giava poco, tanto da recare meraviglia ai commensali.

Una sera, dopo una giornata fatico­sissima, rincasò ad ora tarda; nell’Ora­torio tutti erano a riposo. Per non mo­lestare alcuno, entrò in cucina, speran­do trovare qualche boccone, fosse anche freddo. Scorse in un cantuccio un pentolino, con qualche cosa dentro. Si cibò di quella sostanza. L’indomani mattina la madre sua cercava la colla e non poteva darsi pace avendo trovato il pentolino vuoto. – Non datevi pensiero, disse tran­quillamente Don Bosco; mi servì di cena ieri sera. – Ma come potesti mangiare quella roba? – Eh, madre mia, l’appe­tito condisce ogni cosa! E poi non ci si vedeva bene in cucina; del resto il fatto è fatto. –

L’esempio dei Santi è un forte rim­provero a quelli che trattano troppo de­licatamente la gola.

Quanto tempo s’impiega nella prepa­razione di cibi prelibati! Quanto dena­ro si spreca in dolciumi ed in bibite non necessarie, e forse anche dannose!

Quanti lamenti, se un cibo non in­contra il proprio gusto! …

Coloro che assecondano il vizio della gola, invertono l’ordine voluto da Dio, cioè non mangiano per vivere, ma vivo­no per mangiare. Il loro Dio è lo sto­maco; ad esso rivolgono le cure principali della giornata; imitano in qualche modo le bestie, le quali non hanno al­tra preoccupazione.

La pratica della Chiesa.

Data l’importanza della mortificazione della gola, la Santa Chiesa prescrive delle penitenze.

È bene conoscere le norme per l’a­dempimento del precetto ecclesiastico. La Santa Chiesa prescrive che al ve­nerdì non si mangi la carne, per un sen­so di gratitudine e di rispetto verso Gesù Cristo, che in detto giorno morì in Croce. Il venerdì non si mangia la carne (o il sanguinaccio o le interiora degli ani­mali a sangue caldo). Però si può sup­plire in questo giorno con qualche altra opera buona.

In Quaresima non si mangia la carne in tutti i venerdì e nel giorno delle Ce­neri, cioè, l’indomani di carnevale, che è primo giorno di Quaresima.

Sino ai quattordici anni compiuti non si è tenuti ad osservare questa legge ec­clesiastica. Dopo i quattordici anni que­sto Precetto non ha limite di età.

Sono esenti gli ammalati e quelli che hanno qualche grave motivo. Ma in que­sto caso si può soltanto consigliare di fare qualche altra opera buona.

Il digiuno è prescritto due volte l’an­no: il giorno delle Ceneri ed il Venerdì Santo.

È tenuto al digiuno chi ha compiuti i ventuno anni di età, sino ai cinquanta­nove anni compiuti. Ne sono dispensati gli ammalati, chi è troppo debole e chi fa lavori molto faticosi. A costoro si può soltanto consigliare di fare qualche altra opera buona.

Può digiunarsi così: a colazione è per­messo, a chi ne sentisse il bisogno, un leggerissimo cibo. Il caffè non rompe il digiuno. A pranzo, che può iniziare alle ore undici, è permesso tutto, in quantità ed in qualità, tranne la carne. La cena sia molto moderata. Si può invertire il pranzo con la cena.

La mortificazione della gola.

La mortificazione della gola non so­lo fa evitare l’eccesso del mangiare e del bere, ma anche priva la gola di qualche piacere lecito. Ecco un piccolo elenco di mortificazioni, che potrà essere utile alle anime di buona volontà.

1) Sentendo la sete, non bere subito, ma aspettare alquanto; oppure bere in quantità minore di quanto si vorrebbe, cioè senza saziarsi.

2) Fuori dei pasti ordinari, non pren­dere alcun cibo o bevanda, tranne il caso di vera necessità o di convenienza sociale.

3) Avendo desiderio di mangiare un frutto, una caramella oppure qualche dol­ce, rimandare ad altro orario; meglio an­cora se ci si priva del tutto e se ne fa dono a un bambino o ad un poverello.

4) Tenere in bocca qualche sostanza amara o disgustosa, unicamente per con­trariare il gusto.

5) Privarsi dello zucchero nel pren­dere il caffè oppure il latte.

6) Stando à tavola, mangiare e bere senza avidità, anzi scegliere le porzioni meno appetitose.

7) Non lamentarsi se i cibi sono in poca quantità o se sono mal preparati.

8) Non parlare dei cibi che piaccio­no di più e non brigare per averli.

9) Dare ai poverelli il denaro che si vorrebbe destinare ai gelati, alle bibite o ai dolciumi.

10) Prendere le medicine senza lamen­tarsi e senza lasciare trasparire la natu­rale ripugnanza.

Chi si esercita nelle piccole mortifi­cazioni di gola, arreca grande bene al­l’anima sua.

Ecco l’utilità di queste mortificazioni: Si acquista il dominio di se stessi, per cui con facilità si possono tenere a freno gli altri sensi del corpo; si scontano i peccati commessi col corpo; si acquista un grado di gloria maggiore per il Paradiso; nel­l’anima scende di continuo la rugiada della grazia divina, per cui si è sempre più disposti ad operare il bene; più che tutto si dà piacere a Dio, perchè gli si offrono dei sacrifici.

INVIDIA

L’invidia è il rincrescimento o tri­stezza del bene altrui, in quanto lo si riguarda come dannoso al bene nostro.

Sembrerebbe l’invidia un piccolo vi­zio, eppure tra i vizi capitali occupa un posto eminente, in quanto è comune e dà origine a molti peccati.

Giustamente si dice che se l’invidia facesse divenire gobbi, nel mondo diffi­cilmente si vedrebbe un uomo od una donna senza gobba.

L’invidia è un vizio tutto interno, na­scosto nell’intima del cuore umano; è un vizio vile, perciò tenta di nascondersi; ma per quanto faccia l’invidioso a celare la sua malignità, non sempre vi riesce.

Dobbiamo amare il prossimo come noi stessi; è questo il comando datoci da Dio; dobbiamo cioè rallegrarci del bene altrui come del bene nostro e dobbiamo rattri­starci del male altrui come del nostro male.

L’invidioso fa al contrario; gode del male della persona che invidia e soffre del bene suo. Come tale, l’invidia è un vero peccato, opponendosi al comando di Dio.

Un pittore dipinse un quadro raffi­gurante l’invidia. Vi era rappresentata una vecchia, stecchita e corrucciata, che guardava attraverso una lente d’ingran­dimento; era circondata da serpenti, che le mordevano il cuore. Questo ritratto riproduce a meraviglia l’invidioso.

Il ladro, rubando, si procura del de­naro e con esso può godere la vita; il goloso prova il diletto del gusto ed il sensuale gode nei sensi; ma l’invidioso non riceve alcuna utilità dal suo vizio.

È indovinato il detto: Chi d’invidia campa, disperato muore!

Peggiore dei demoni.

I demoni tentano al peccato gli uo­mini per l’invidia che provano verso di loro, sapendo che potranno andare in Paradiso.

Tuttavia, pur sfogando l’ira e l’invi­dia sugli uomini, si risparmiano tra loro stessi.

L’invidioso è peggiore dei demoni, perchè non risparmia il suo simile.

Non ha rispetto a vincolo di sangue o di amicizia; cosicchè troviamo il fra­tello che per invidia lotta il fratello; la sorella che perseguita la sorella, l’amico che fa guerra all’amico.

La madre dei peccati.

La superbia è la vera madre dei peccati; l’invidia ne è figlia; però l’invidia diventa subito madre di tanti peccati, che l’enu­merarli non sarebbe facile: desideri del male altrui, giudizi temerari, sentimenti di avversione e di odio, parole mordaci, discorsi di mormorazione e di calunnia, in­sidie, crudeltà e delitti inauditi … Abele offriva a Dio le primizie della campagna e del gregge; attirò così sopra di sè lo sguardo amoroso del Creatore. Il fratello Caino ne senti’ invidia e gli tolse la vita, fracassandogli la testa. Ne ebbe però il meritato castigo, facendo una fine molto misera.

Giuseppe, figlio del Patriarca Giacob­be, fu oggetto d’invidia da parte dei fra­telli, perchè il padre lo prediligeva. In conseguenza di ciò, prima fu calato in una cisterna secca, per trovarvi la mor­te, e dopo fu venduto ad un mercante, in qualità di schiavo. Iddio, che veglia sugli innocenti, fece sl che Giuseppe diventasse il Vice Re d’Egitto e che i suoi stessi fratelli in tempo di carestia andassero a domandargli frumento. Quan­ta vergogna allorchè Giuseppe si manife­stò! – Io sono il vostro fratello … colui che per invidia volevate uccidere e poi vendeste! …

Il Re Saul sentì invidia di David, suo suddito, e lo perseguitò spietatamente. Più volte gli gettò la lancia addosso, per conficcarlo al muro; non riuscì nel mal­vagio intento, perchè la mano del Si­gnore era sopra David.

E Gesù non fu condannato a morte per invidia? Gli Scribi, i Farisei ed i capi del popolo, si rodevano di rabbia a vedere Gesù, che credevano il Figlio del fabbro di Nazaret, circondato di gloria e di stima.

Adunque, chi può enumerare gli ese­crandi delitti. che ovunque e sempre l’in­vidia ha compiuto?

COMPIACENZA

La virtù opposta all’invidia è la com­piacenza del bene altrui.

Come si è detto innanzi, la carità, o amore del prossimo, esige che amiamo il nostro simile come noi stessi. Noi ci au­guriamo sempre il bene e godiamo di quanto di buono ci possa accadere. Per il comando di Dio, dovendo amare il prossimo, dobbiamo augurargli il bene.

L’egoismo individuale trascina al la­to opposto; ma è dovere di ognuno re­primere le cattive tendenze e sforzarsi di nobilitare i propri sentimenti nei ri­guardi del prossimo.

Come reprimersi.

Appena ci accorgiamo che una per­sona eccita la nostra invidia, dobbiamo stare sull’attenti per non assecondare la passione e per reprimere subito i primi assalti.

La preghiera è utile a tutto; pre­ghiamo perciò per colui contro il quale siamo tentati d’invidia, domandando a Dio ogni benedizione per lui.

Parliamo sempre in bene della per­sona che siamo tentati ad invidiare; non opponiamoci quando sentiamo dirne bene dagli atri, anzi cerchiamo le, occasioni per lodarla.

Se possiamo fare un bene a chi muove la nostra invidia, prestiamoci volentieri. Agendo in tal modo, noi mettiamo del­l’acqua fredda sul fuoco dell’invidia e il nostro cuore godrà la pace dei figli di Dio.

La madre.

La madre è tutta per il bene dei figli; quando però viene a conoscere che i figli di altre donne, specialmente se parenti o amiche, hanno ottenuto un posto in socie­tà, hanno superato un esame ed eccellono per buone qualità, allora naturalmente, ac­cecata dall’amore dei propri figli, comincia a soffrirne internamente a motivo dell’in­vidia. Il marciume interno presto va alla bocca e così questa donna semina lamenti e calunnie.

– Già, i figli di quella signora riescono sempre! È naturale! Hanno denaro e col denaro possono fare qualunque imbro­glio! … I miei figli invece sono onesti e restano indietro! … Non c’è più giu­stizia in questo mondo! –

O donna, cosa ne guadagni dicendo così? Piuttosto educa meglio i tuoi figliuo­li, inculca loro il timore di Dio, esigi che si applichino allo studio o all’arte e poi prega il Signore affinchè prepari ad essi un buon avvenire!

L’eterna lotta!

La suocera e la nuora!… L’eterna lotta familiare! La suocera spesso ha invidia della nuora, perchè pensa: Mio figlio l’ama assai! Io sono la madre, ho fatto tanto per il figlio ed ora ecco mia nuora a goderselo! – Spesso avviene il contrario: Mio ma­rito, dice la nuora, appartiene a me, do­vrebbe essere tutto mio ed intanto pen­sa a sua madre! Va a trovarla spesso, le porta dei regali… ; io invece sono l’ul­tima ad essere pensata! –

Chi non vede la forte gelosia in tutto ciò? La madre dovrebbe essere contenta che il figlio ami la sposa, perchè da que­sto amore nasce l’armonia nella famiglia.

La sposa dovrebbe essere anche lieta che il marito ami la propria madre pen­sando che un giorno essa pure avrà da di­venire suocera e vorrà certamente essere amata e rispettata dai figli sposati.

Tra sorelle ed amiche.

Non è difficile trovare sì brutto vizio anche tra sorelle.

Una giovane è stata chiesta per fi­danzata. Dovrebbero in famiglia goderne tutti, quando il partito si presenta bene; qualche sorella invece sente gelosia.

– Hanno scelto mia sorella!… Io so­no stata posposta! Eppure sono più gran­de, più giudiziosa; ho il viso più grazio­so! – Questi e simili sentimenti sorgono dal cuore invidioso e superbo, e presto co­minciano in famiglia i malumori e le rabbie.

Non è raro il caso in cui la sorella metta in cattiva luce la sorella presso il fidanzato e solo allora è contenta quan­do ha tirato dalla sua parte il giovane, oppure questi si è allontanato definitiva­mente dalla famiglia. Lo stesso e peggio ancora suole av­venire tra amiche.

Quando la gelosia ha preso piede nel cuore di una giovane, perché l’amica ha trovato un buon fidanzato, subito comin­ciano le parole mordaci, le critiche e le mormorazioni.

Si mettono alla luce i difetti occulti dell’amica, le magagne segrete della sua famiglia e, quando ciò non basta, si ri­corre alle lettere anonime calunniose.

Non sempre, ma spesso l’invidiosa ami­ca raggiunge lo scopo di far perdere al­l’amica il fidanzato.

Quante lacrime ha fatto versare l’in­vidia a schiere di signorine!

Quante giovani si sono ammalate o suicidate in seguito a simili calunnie!

E quante altre sono state rinchiuse nel manicomio in conseguenza di un amore fallito!

Grande responsabilità davanti a Dio hanno le sorelle e le amiche invidiose! In questa categoria di persone, cioè tra sorelle e tra amiche, non solo trovasi l’invidia per il fidanzato, ma per tante altre cose: per la casa, per la mobilia, per le vesti, per la bellezza, ecc.

In questo campo la gelosia fa conimettere un gran numero di piccinerie, di ridicolaggini, le quali dovrebbero far vergogna a persona che abbia un po’ di dignità!

ACCIDIA

L’ultimo dei vizi capitali è l’accidia. Consiste in una certa noia nel fare il bene e nel fuggire il male. In conse­guenza di ciò, si trascurano i doveri del­la vita cristiana, oppure si compiono ma­lamente.

Esempi d’accidia sono: il tralasciare la preghiera per pigrizia, il pregare sba­datamente, senza sforzo di stare rac­colti; il rimandare da un giorno all’al­tro un buon proponimento, senza poi attuarlo; il mettere da parte l’esercizio della virtù per non imporsi dei sacrifici; il darsi poco pensiero dell’anima pro­pria, ecc….

L’assecondare l’accidia è peccato. Se per accidia si tralascia, ad esempio, la Messa in giorno festivo, si pecca grave­mente; se invece si trascura qualche pre­ghiera, unicamente per noia, si manca leg­germente.

Pericolo di dannarsi.

La persona accidiosa dice: Io non vo­glio darmi fastidio di combattere le mie perverse tendenze! … Mi piace vivere nella tranquillità! La vita è così breve e tanto cosparsa di spine! Perchè ama­reggiarsela di più?! … Purchè in non am­mazzi alcuno … non, rubi … e non be­stemmi … ciò mi basta! Tutte le altre attenzioni per custodire l’anima mia, mi seccano e non ci voglio pensare! … Per­ché tante Comunioni? Basta quella di Pasqua! … Perché andare spesso in Chiesa? … Posso pensare a Dio anche stando in casa! Perché andare ad ascoltare le prediche? Ne so fin troppe cose di Re­ligione! Perché tante preghiere lungo il giorno? Mi è sufficiente il segno della Croce prima di coricarmi! … A me non piacciono gli scrupoli! Questo ballo non si può fare … quella pellicola non si deve vedere … quel romanzo non si può leg­gere … quell’amicizia non è ammes­sa! … Queste cose le osservino i Frati e le Monache, ma non io, che devo saper stare in società … Nell’altra vita spero di passarmela bene lo stesso; del resto, come fanno gli altri, faccio io! –

Facilmente si può comprendere co­me una tale anima accidiosa si metta in pericolo di perdersi eternamente. Ha più sollecitudine degli affari temporali e del benessere del corpo, che non della salvezza eterna. Se quest’anima non si risolverà una buona volta a cominciare una vita veramente cristiana, finirà con l’essere travolta dal torrente delle cat­tive inclinazioni.

Quante di queste anime neghittose ci sono nel mondo! Esse appartengono alla categoria di coloro di cui parla Gesù: La via che conduce all’eterna per- dizione è larga e sono molti quelli che s’incamminano per essa! –

Effetti dell’accidia.

Questo vizio capitale snerva poco per volta l’anima, come l’ozio snerva il corpo. Per l’accidia la volontà diviene debole; si decide e non si decide, vuole e non vuole.

Le opere buone sogliono produrre un certo gusto spirituale, il quale ap­paga il cuore, come il cibo appaga il palato. L’accidia fa perdere il gusto spi­rituale, sicché le opere buone diventa­no pesanti e noiose e per questo moti­vo si mettono da parte o si fanno di mala voglia.

Lo Spirito Santo paragona l’anima dell’accidioso ad una vigna affidata ad un contadino poltrone. Una tale vigna, poco curata, si ricopre di erbe cattive e di spine e non produce frutto; così l’anima accidiosa resta priva di virtù e di meriti e si riempe di passioni. Può piacere a Dio un’anima che sia do­minata dall’accidia?

DILIGENZA

La virtù che si oppone all’accidia è la diligenza spirituale, cioé il vero in­teressamento della salvezza dell’anima propria.

Gesù c’inculca questa virtù quando dice: Una sola cosa è necessaria: salvar­si l’anima! Che cosa giova all’uomo gua­dagnare il mondo intero, se poi perde­rà l’anima sua? Che cosa potrà dare in cambio di essa? –

I Santi ci sono maestri a questo ri­guardo; si misero di buona volontà, si diedero all’esercizio delle cristiane vir­tù, attinsero dalla preghiera e dalla fre­quenza ai Sacramenti la forza necessa­ria; così riuscirono ad avere la pace della coscienza in vita e conseguirono an­che il Paradiso.

Nè si pensi che i Santi siano nati Santi! Anch’essi erano come noi, fatti di carne e di ossa; avevano tutte le cat­tive tendenze che ha ogni figlio di Ada­mo; per riuscire a santificarsi, dovette­ro imporsi dei veri sacrifici, sino a per­dere taluni anche la vita. Quanti milio­ni di Martiri perdettero prima le ric­chezze e poi la vita tra tormenti! Quan­ti abbandonarono i piaceri della vita e si ritirarono nel _deserto a fare peniten­za! Quanti, rinunziando a cariche ono­rifiche, si chiusero nei conventi per pen­sare unicamente all’anima! E quanti, pur restando nel mondo, intrapresero una vita di mortificazione rigorosa!

Non solo i Santi propriamente detti, ma anche innumerevoli schiere di uo­mini e di donne attualmente ci sono mae­stri in proposito: i Missionari che vanno fra i selvaggi; le Suore di Carità che spen­dono l’esistenza negli ospedali; le anime vergini dell’uno e dell’altro sesso, le quali pur restando in famiglia, conducono una vita di continua mortificazione per con­servare immacolato il corpo ed il cuore. Costoro lottano contro l’accidia e supe­rano generosamente le difficoltà della pra­tica del bene.

Pia riflessione.

Chi vive nella pigrizia spirituale, ri­sorga dal suo stato compassionevole, ser­vendosi di una pia riflessione.

La vita è breve, molto breve; da un momento all’altro possiamo morire e tro­varci davanti a Dio per dargli conto del­l’anima nostra. Quale scusa potrà por­tare al tribunale di Dio l’accidioso, tro­vandosi con l’anima sprovvista di opere buone e carica di colpe? …

L’etisia spirituale.

L’anima che è schiava dell’accidia, è come il corpo colpito dalla etisia. Il ti­sico cammina, ride, mangia e sembra che stia bene; invece si avvia alla tomba a grandi passi; ha bisogno di cura urgente e forte per resistere al microbo micidiale; se tralascia la cura, è segno che vuole perdere presto la vita.

Tu, o anima accidiosa, hai urgente bisogno di cura spirituale. Voglio sug­gerirti dei buoni rimedi per guarirti. Come l’ammalato ha bisogno di aria pu­ra e di sana nutrizione, così a te occor­re il tenere la mente occupata in buoni pensieri ed il pregare con frequenza e devozione. Leggi dunque qualche buon libro, recita mattina e sera le tue pre­ghiere, non lasciare mai la recita del Santo Rosario e lungo il giorno alza spes­so la mente a Dio con fervorose giacula­torie.

La Confessione.

Mezzo infallibile di risveglio spiri­tuale è la frequenza ai Sacramenti della Confessione e della Comunione.

. Comincia col fare una buona Confes­sione, la quale ti lasci la coscienza tran­quilla.

Discopri perciò al Ministro di Dio le píaghe dell’anima tua, senza nascon­dere volontariamente nessuna colpa grave e senza diminuirne la malizia.

Prendi dopo una magnanima risolu­zione di vita più cristiana. Ritorna in seguito con fede a questo Sacramento della Divina Misericordia, ogni qual volta ne sentissi il bisogno.

La Confessione mensile, e meglio an­cora settimanale, ti fornirà un valido aiuto per sollevarti spiritualmente.

Non è vero, o anima, che quando nella vita passata ricorrevi a questo Sacramento con le dovute disposizioni, ti sentivi lie­ta e più disposta a fare il bene? Pensaci con serietà! …

La Comunione.

La Santissima Eucaristia è il Pane dei forti. L’anima accidiosa è molto de­bole; ricorra a questo Cibo Celeste e subito sentirà aumentare la forza spi­rituale.

Tu, o anima cristiana, desiderosa or­mai di lasciare la vita accidiosa, va’ a ricevere la Santa Comunione con più frequenza che ti sarà possibile! Proverai tanta pace nel cuore, quanta da tempo non ne hai trovata nelle creature! Ogni giorno festivo sia per te una vera festa spirituale ricevendo Gesù Sacramentato.

L’esame di coscienza. Come lo specchio serve a vedere i difetti del volto, così l’esame di coscienza fa scoprire i difetti dell’anima. Chi de­sidera aver cura dell’anima sua, non la­sci passare giorno senza aver fatto alcu­ni minuti di questo esame.

Ogni sera, o anima cristiana, rientra in te stessa e pensa alle mancanze che avrai potuto commettere nella giornata; chiedi poi perdono a Dio con tutto il cuore, promettendo di essere più vigi­lante il giorno appresso.

Meditazione e lettura spirituale. Giova moltissimo al progresso spiri­tuale la pratica della meditazione e della lettura spirituale. Non è necessario im­piegarvi molto tempo; bastano alcuni mi­nuti al giorno. Volendo, il tempo si può trovare.

“Non nobis, Domine, sed nomine Tuo da gloriam”
Non a noi, o Signore, ma al Tuo nome da’ gloria
il che esprime l’aspirazione al retto agire secondo la Santa Dottrina Cattolica

 

 

 

Pio XII «Il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». -Effetti del peccato impuro sull’anima, prima che sopraggiunga la morte-

 

Insegna Pio XII, «il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». Perduto o laicizzato: essi possono avere ancora il senso della colpa, un complesso di colpevolezza, ma non più il vero senso del peccato. Perciò bisogna ritrovare il vero senso di Dio e dell’uomo, della creatura davanti al suo Creatore; il peccato non è una semplice mancanza, una contravvenzione, un mancamento: è una ribellione a Dio stesso, è porre i beni transitori prima o al posto del Bene ultimo, che è Dio; anche la contrizione è ben altra dal semplice dispetto di aver compiuto qualcosa di irregolare. Bisogna tornare a concepire il peccato nel suo senso teologico di offesa a Dio, il che suppone una retta conoscenza della psicologia del peccatore e della sua vera responsabilità. 

Effetti del peccato impuro sull’anima, prima che sopraggiunga la morte

Colui che pecca con piena consapevolezza e deliberato consenso contro la purezza, assecondando lo spirito di lussuria compie un atto gravemente disordinato di disaffezione nei confronti di Dio. Trattandosi di peccato mortale, l’anima subisce una netta separazione da Dio. L’affezione al peccato anestetizza, ammutolisce la voce della coscienza, la “voce di Dio” che costantemente richiama l’uomo sulla retta via e pertanto conduce verso un progressivo abbrutimento dell’anima, che si manifesta con la comparsa di comportamenti istintuali e peccaminosi. “Il peccato genera peccato”(cf Mc 4,25).

A proposito di questa “anestesia della coscienza” si legga quanto afferma S. Alfonso Maria de Liguori:

CONSIDERAZIONE XXII – DEL MAL’ABITO

Uno de’ maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l’Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch’egli abborriva: «Video aliam legem in membris meis… captivantem me in lege peccati» (Rom. 7. 23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d’un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare? Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d’un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual’è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal’abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.

Per prima il mal’abito «accieca». E perché mai i santi sempre cercano lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? «Excaecavit eos malitia eorum» (Sap. 2. 21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l’accecazione. Dio è la nostra luce; quanto più dunque l’anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. «Ossa eius implebuntur vitiis» (Iob. 20. 11). Siccome in un vaso, ch’è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina.

GLI EFFETTI DEL PECCATO IMPURO SULL’ANIMA

Come dice San Tommaso d’Aquino della Summa Theologica “ Niente impedisce che l’effetto di un peccato sia causa di un altro. Infatti dal momento che l’anima viene disordinata da un peccato, più facilmente è inclinata a peccare”. 

Quando un’anima commette un peccato si dice che questa viene macchiata. Cos’è questa macchia?

Dice San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 86: 

[…]In senso proprio si parla di macchia per le cose materiali, quando un corpo nitido, p. es., l’oro, l’argento, o una veste, perde la sua lucentezza a contatto con altri corpi. Perciò nelle cose spirituali se ne deve parlare per analogia a codesta macchia. Ora, l’anima umana può avere due tipi di lucentezza: l’una dovuta allo splendore della luce naturale della ragione, che la dirige nei suoi atti; l’altra dovuta allo splendore della luce divina, cioè della sapienza e della grazia, che porta l’uomo a compiere il bene dovuto. Ma quando l’anima aderisce con l’amore a una cosa, si ha come un contatto di essa. E quando pecca aderisce a qualche cosa che è contraria alla luce della ragione e della legge divina, com’è evidente da quanto sopra abbiamo detto. Ebbene, codesta perdita di luminosità metaforicamente è chiamata macchia dell’anima.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. L’anima non viene macchiata dalle cose inferiori per la virtù di esse, come se queste agissero su di essa: al contrario è l’anima che col suo agire si sporca, aderendo ad esse disordinatamente, contro la luce della ragione e della legge divina.

2. L’atto intellettivo si compie con la presenza delle cose intelligibili nell’intelletto; perciò l’intelletto non può esserne macchiato, ma piuttosto ne riceve un perfezionamento. Invece l’atto della volontà consiste in un moto verso le cose, cosicché l’amore unisce l’anima alla cosa amata. Per questo l’anima si macchia quando vi aderisce disordinatamente, secondo il detto di Osea: “Diventarono abominevoli come le cose che amarono”.

3. La macchia non è qualche cosa di positivo nell’anima, e non indica una semplice privazione: indica invece una privazione della lucentezza dell’anima in rapporto alla sua causa, cioè al peccato. Perciò peccati diversi arrecano macchie diverse. Avviene qualche cosa di simile con l’ombra, privazione della luce dovuta all’interposizione di un corpo: secondo la diversità dei corpi le ombre cambiano. […]

La macchia rimane nell’anima anche dopo l’attaccamento 

[…] RISPONDO: La macchia del peccato resta nell’anima anche dopo l’atto peccaminoso. E la ragione si è che la macchia importa, come si è visto, un difetto di luminosità dovuto a un rifiuto di fronte alla luce della ragione, o della legge divina. Perciò finché uno rimane estraneo a codesta luce, resta in lui la macchia del peccato: questa scompare soltanto col ritorno della luce di Dio e della ragione, mediante la grazia. Infatti, pur cessando l’atto del peccato, col quale si era allontanato dalla luce della ragione e della legge divina, l’uomo non torna immediatamente al punto in cui era; ma si richiede un moto della volontà contrario al precedente. Se uno, p. es., si allontana da una persona con una camminata, non si ritrova subito vicino a lei appena smette di camminare, ma deve riavvicinarsi tornando con un moto contrario.[…]

Il peccato è una terribile forza disgregatrice, che provoca lentamente ed inesorabilmente la rovina dell’anima. E’ più che evidente la differenza tra una persona che ha costruito la propria anima, attraverso decisioni e azioni, nella propria libertà, seguendo un percorso tracciato nel bene, e un’altra persona che con decisioni e azioni malvage, si è costruita nel male, acconsentendo al male, piuttosto che combatterlo. In sintesi: tra bontà e perversione la differenza è abissale! Il potere del peccato abbrutisce l’umanità, degradandola attraverso una via discendente, che ci avvicina all’animalità, privando per gradi dell’autentica dignità originaria: lo spirito si asservisce alla carne, che prende il sopravvento senza alcun controllo. La via discendente, la via del piacere, la via della carne, è quella che conduce a Satana. Questo è il percorso nel quale la coscienza individuale perde la sua sensibilità, dove è sempre più difficile distinguere tra il bene e il male: progressivamente l’anima muore, nel senso che cade totalmente immersa nelle tenebre del nulla; si vive solo per soddisfare l’istinto e l’egoismo. In questo processo, ha la sua genesi il peccato mortale: totale separazione da Dio, anticipazione della sofferenza eterna. 

Se non interviene la Grazia di Dio, se l’anima non ritorna a Dio(=confessione del peccato), convertendo il proprio cuore cambiando radicalmente strada, da un cammino discendente verso un cammino ascendente, l’anima in stato di peccato mortale continuerà a vivere nella separazione da Dio per tutta l’eternità! 

Effetti del peccato impuro sull’anima, in seguito alla morte

Come abbiamo precedentemente accennato, l’anima che fino alla fine della propria vita terrena rimane tenacemente legata alla propria situazione di peccato mortale, morendo impenitente sarà necessariamente destinata all’inferno. 

Qualcuno, evidentemente poco addentrato nella s. teologia potrà ritenere eccessive queste parole sui castighi che Dio infligge.
Per queste persone aggiungo il seguente testo di Paolo VI , Papa, tratto dalla “Indulgentiarum doctrina”al n. 2 

“ È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Così come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.”

Come dice la Scrittura: non c’è pace per gli empi!! Chi pecca non avrà mai la vera pace, perché la pace viene dalla carità, è dono di Dio e non si potrà mai trovare in chi è contro Dio! 

Dunque siamo nell’alveo della vera teologia cattolica si noti la distinzione che il Papa fa tra le pene del fuoco e i tormenti che dicono la pena, e dunque la punizione, che è propria dell’inferno, ed è eterna, e le pene purificatrici, che sono proprie del Purgatorio, e che sono limitate nel tempo.
Questa falsa cultura di cui dicevo tende precisamente a nascondere la reale gravità morale della lussuria e la pena terribile che ad essa segue, presentando il peccato che è un grave male come un grande bene. Di questi tali, paladini dell’inganno e del male, Dio, per bocca del profeta Isaia, afferma “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro.” (Isaia 5:20)

Circa il merito di una pena eterna per chi muore in condizione di peccato mortale, afferma San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 87: 

[…]un peccato merita una punizione in quanto sconvolge un dato ordine. E finché rimane la causa, rimane anche l’effetto. Quindi finché dura il sovvertimento dell’ordine, deve rimanere l’obbligazione alla pena. Ora, uno può sconvolgere l’ordine in modo riparabile, o in modo irreparabile. Ebbene, irreparabile è la mancanza che ne elimina il principio stesso: invece se ne salva il principio, in virtù di esso le deficenze si possono riparare. Se si corrompe, p. es., il principio visivo, la vista non è più ricuperabile, se non per virtù divina: se invece la vista soffre delle difficoltà, ma ne è salvo il principio, è ancora riparabile per la natura o per l’arte. Ma ogni ordine ha un principio in rapporto al quale le altre cose ne divengono partecipi. Se quindi il peccato distrugge il principio dell’ordine, col quale la volontà umana è sottomessa a Dio, si avrà un disordine di per sé irreparabile, sebbene possa essere riparato dalla virtù di Dio. Ora, il principio di quest’ordine è il fine ultimo, al quale l’uomo aderisce con la carità. Perciò tutti i peccati che ci distaccano da Dio, col distruggere la carità, di per sé importano un’obbligazione alla pena eterna.
[…]
come insegna S. Gregorio, è giusto che sia punito nell’eternità di Dio, chi osò peccare contro Dio nell’eternità del proprio essere. E si dice che uno ha peccato nell’eternità del proprio essere, non solo per la continuità dell’atto peccaminoso durante tutta la sua vita: ma perché costituendo il proprio fine nel peccato, mostra la volontà di voler peccare eternamente. Perciò S. Gregorio afferma, che “gli iniqui avrebbero voluto vivere senza fine, per poter rimanere senza fine nel peccato”.  

IL PURGATORIO Dalle visioni dei Santi ” Saranno puniti anche i falli leg­geri, anche le mancanze che crediamo trascurabili e nelle quali cadiamo tanto spesso e tanto volentieri, il­ludendoci di non doverne pagare poi pena alcuna nell’altra vita.”

LE PENE DEL PURGATORIO E IL LORO RIGORE

Pena del danno e pena del senso

Dopo, la divina sentenza, supposto che l’anima sia condannata al Purgatorio, il desiderio di purificazione invade l’anima stessa, che nella pena che le è riservata vede la via che la condurrà più presto in Paradiso. S. Caterina da Genova, nel suo meraviglioso Trattato del Purgatorio, dice che l’anima corre a precipitarsi in Purgatorio, tanto è grande l’orrore che concepisce dei suoi falli dinanzi alla purezza e alla santità di Dio e tanto è impaziente di purificarsi dalle sue sozzure. Ecco le parole della Santa: «Siccome lo spirito mondo e purificato non trova luogo, eccetto Dio, per suo riposo, essendo stato creato a questo fine; così l’anima in peccato, altro luogo non trova adatto, salvo l’Inferno, avendole ordinato Iddio quel luogo per fine suo: perciò in quell’istante in cui lo spirito e separato dal corpo, l’anima corre verso l’ordinato suo luogo, senz’altra guida che la natura del peccato, quando l’anima parte dal corpo in peccato mortale. E se l’anima non trovasse in quel punto quell’ordinazione (procedente dalla giustizia di Dio) rimarrebbe in un maggiore inferno; perciò non tro­vando luogo conveniente, nè di meno male per lei, per l’ordinazione di Dio vi si getta dentro, come nel suo proprio luogo.

« Così a proposito del Purgatorio, l’anima separata dal corpo, non trovandosi in quella purezza nella qua­le fu creata, e vedendo in sè l’impedimento che non le può essere levato se non per mezzo del Purgatorio, presto vi si getta dentro, e volentieri e se non trovas­se questa ordinazione, atta a levarle quell’impaccio, in quell’istante in lei si genererebbe un vero inferno, vedendo di non potere accostarsi (per l’impedimento) al suo fine, che è Dio, il quale le è tanto a cuore, che in comparazione al Purgatorio è da stimarsi nulla, benchè, come si è detto, sia simile all’Inferno (cap- 7)».

Le rivelazioni dei Santi confermano quanto dice S. Caterina da Genova. Leggiamo in S. Geltrude come una religiosa del suo monastero, nota per le sue austere virtù, essendo morta ancor giovane con senti­menti di edificante pietà, si manifestasse alla Santa, mentre questa stava pregando per lei. La defunta fu vista innanzi al trono dell’Altissimo circondata da una brillante aureola e ricoperta di ricche vesti tuttavia sembrava triste in volto e pensierosa, e teneva gli oc­chi bassi quasi si vergognasse di comparire innanzi a Dio. Sorpresa Geltrude, domandò al divino Sposo delle vergini la causa di quella tristezza e di quel ti­more, e lo pregò di invitare quella sua sposa presso a lui. Allora Gesù, fatto cerino a quella buona religiosa di avvicinarsi, le sorrideva con amore; ma ella sempre più turbata ed esitante, dopo aver fatto un grande inchino alla Maestà di Dio, si allontanò. San­ta Geltrude, più che mai stupita, rivolgendosi diretta­mente a quell”anima, le disse: – Figlia mia, perché egiti e ti allontani, mentre il Salvatore t’invita? Hai sempre desiderato questa suprema felicità durante la vita terrena, ed ora che sei chiamata a goderne, te ne rimani così fredda e impassibile? Non vedi forse che il buon Gesù ti aspetta? – Ma quell’anima rispose – Ah! madre mia, io non sono ancora degna di com­parire innanzi all’Agnello immacolato, poiché mi re­stano ancora alcune macchie da purificare. Per potersi avvicinare al Sole di Giustizia bisogna essere più puri della luce stessa ed io non ho ancora questa perfetta purezza che egli brama di contemplare nei suoi Santi. Anche se le porte del cielo fossero spalancate dinanzi a me e da me sola dipendesse il varcarle, non oserei giammai di farlo prima di essere intieramente purifi­cata dalle più piccole colpe; mi sembrerebbe che il coro delle Vergini, che seguono di continuo l’Agnello divino, mi dovesse scacciare lontano da lui per non esserne degna. – Ma come può esser ciò che mi dici, rispose la Santa, se io ti vedo, o mia figlia, circon­data di luce e di gloria? – Quanto voi vedete, rispose quella, non è che la frangia delle vesti sublimi del­l’immortalità. Ben altra cosa è il vedere Iddio, il vi­vere in lui e possederlo per sempre! Per conseguire però questa grazia è necessario che l’anima non abbia in sè la più piccola macchia. di colpa.­

Così, dopo il giudizio, si inizia la purificazione, hanno inizio le pene. E quali pene! Vicino alla bara di un nostro caro, che le sofferenze hanno consumato, ci confortiamo ordinariamente dicendo: – Almeno ha finito di patire!… – Oh! finissero veramente, col fi­nire della vita presente, le nostre pene! Il corpo cessa di soffrire, ma le sofferenze dell’anima possono conti­nuare, possono accrescersi, e continuano e crescono generalmente.

Infatti secondo quello che insegnano i Dottori, i patimenti del Purgatorio non solo son riservati a quasi tutte le creature umane, ma per la loro intensità nep­pure sono da paragonarsi ai patimenti della vita pre­sente. Secondo S. Tommaso, il quale del resto non fa che riferire l’unanime insegnamento dei Padri, le pene del Purgatorio in nulla differiscono dalle pene dell’In­ferno, eccetto che nella durata. Altrettanto asseriscono i mistici. Ecco quel che leggiamo in S. Caterina da Genova

«Le anime purganti provano un tal tormento, che lingua umana non può riferire, nè alcuna intelligenza darne la più piccola nozione, a meno che Iddio non lo facesse conoscere per grazia speciale (Tratt. del Purg., cap. 2).

V’è nel Purgatorio, come nell’Inferno, doppia pe­na, quella del danno, che consiste nella privazione di Dio, e quella del senso. La pena del danno è senza paragone più grande, ed è tanto più intensa in quan­tochè quelle anime vivendo nell’amicizia di Dio; sen­tono più forte il bisogno di unirsi a lui » (Id.).

La Chiesa non si è mai pronunziata sulla natura della pena del senso. Nel Concilio di Firenze fu lungamente dibattuta anche questa questione fra i Greci e i Latini, ma per non porre ostacolo alla desiderata unione delle due Chiese, nulla venne deciso. Però sic­come tutti i teologi insegnano che questa pena è quella del fuoco, come pei dannati, sarebbe temerità allontanarsi da tale opinione. Secondo S. Gregorio Magno, S. Agostino e S. Tommaso, questo fuoco è sostan­zialmente uguale a quello dell’Inferno: la differenza consiste solo nella durata.

Agli insegnamenti dei Padri e dei Teologi, fanno eco gli insegnamenti dei Mistici e le rivelazioni dei Santi. Nella storia del Padre Stanislao Choscoa, do­menicano, leggiamo il fatto seguente (Brovius, Hist.Hist, de, Pologne, année 1590).

Un giorno, mentre questo santo religioso pregava per i defunti, vide un’anima tutta divorata dalle fiamme, alla quale avendo egli domandato se quel fuoco fosse più penetrante di quello della terra: – Ahimè!, rispose gridando la misera, tutto il fuoco della terra paragonato a quello del Purgatorio è come un soffio d’aria freschissima. -. E come ciò è possibile? sog­giunse il religioso. Bramerei farne la prova a condi­zione che ciò giovasse a farmi scontare una parte delle pene che dovrò un giorno soffrire in Purgatorio. – Nessun mortale, replicò allora quell’anima, potrebbe sopportare la minima parte di quel fuoco senza mo­rirne all’istante tuttavia se tu, vuoi convincertene, stendi la mano: – Il padre, senza sgomentarsi, porse la mano, sulla quale il defunto avendo fatto cadere una goccia del suo sudore, o almeno di un liquido che sembrava tale, ecco all’improvviso il religioso emettere grida acutissime e cadere in terra tramortito, tanto era grande lo spasimo che provava. Accorsero i suoi confratelli, i quali prodigarono al poveretto tutte le cure, finchè non ottennero che ritornasse in sè. Allora egli pieno di terrore raccontò lo spaven­toso avvenimento, di cui egli era stato testimone e vit­tima, conchiudendo il suo discorso con queste parole – Ah! fratelli miei, se ognuno di noi conoscesse il rigore dei divini castighi, non peccherebbe giammai facciamo penitenza in questa vita, per non doverla poi fare nell’altra, perché terribili sono quelle pene; com­battiamo i nostri difetti, e correggiamoli, e special­mente guardiamoci dai piccoli falli, poichè il Giudice divino ne tiene stretto conto. La maestà divina è tanto santa che non può soffrire nei suoi eletti la minima macchia. – Dopo di che si pose in letto, ove visse per lo spazio di un anno in mezzo ad incredibili sof­ferenze prodottegli dall’ardore della piaga che gli si era formata sulla mano. Prima di spirare esortò nuo­vamente i suoi confratelli a ricordarsi dei rigori della divina giustizia, e quindi morì nel bacio del Signore. Lo storico soggiunge che questo esempio terribile ria­nimò il fervore in tutti i monasteri, e che i religiosi si eccitavano a vicenda nel servizio di Dio, affine d’essere salvi da così atroci supplizi.

Un fatto quasi uguale avvenne alla beata Caterina da Racconigi (Diario Domenicano, Vita della Beata, 4 Sett.).

Una sera, mentre ella assalita dalla febbre stava co­ricata in letto si mise a pensare agli ardori del Pur­gatorio, e secondo la sua abitudine, rapita di lì a poco in estasi, fu condotta da nostro Signore in quel luogo di pena.

Mentre osservava con terrore quegli ardenti bracieri e quelle fiamme divoratrici, in mezzo alle quali son trattenute le anime che hanno ancora da espiare qual­che fallo, udì una voce che le disse: – Caterina, af­finchè tu con maggior fervore possa procurare la libe­razione di queste anime, sperimenterai per un istante nel tuo corpo le loro sofferenze. – In questo mentre una favilla di quel fuoco andò a colpirla nella guan­cia sinistra: le consorelle che si trovavano vicino a lei per curarla videro benissimo questo fatto, e nel tempo stesso osservarono con orrore che il viso di lei si gon­fiò in maniera spaventosa, mantenendosi poi per più giorni in quello stato. La Beata raccontava alle sue sorelle che tutti i patimenti da lei sofferti fino a quel momento (ed erano stati molti), erano nulla a para­gone di quello che le faceva soffrire quella scintilla. Fino a quel giorno erasi sempre occupata in modo tutto speciale di sollevare le anime purganti, ma d’al­lora in poi raddoppiò il fervore e l’austerità per acce­lerare la loro liberazione, poichè sapeva omai per espe­rienza il gran bisogno che quelle hanno d’essere sot­tratte ai loro supplizi.

Racconteremo ora quanto accadde a Sancio virtuo­sissimo re di Spagna, com’è riferito da Giovanni Va­squez. (Cronica, an. 940)

Questo principe, fervente cristiano, morì avvelenato da uno de’ suoi vassalli. Dopo la sua morte la con­sorte Guda non cessava di pregare e di far pregare pel riposo di quell’anima: fece celebrare un numero immenso di Messe, e per non separarsi da quelle care spoglie, prese il velo nel monastero di Castiglia, dove era stato sepolto il corpo del consorte. Indi a qualche tempo mentre un sabato ella stava pregando con gran fervore la SS. Vergine per la liberazione del defunto, le apparve costui, ma oh Dio! in qual misero stato! Era vestito in gramaglia, e per cintura portava doppio giro di catene arroventate, e rivolgendosì a Guda, le dìsse: – Ti ringrazio delle preghiere che fai per me e delle Messe che facesti celebrare in mio suffragio, ma prosegui, te ne prego, in quest’opera caritatevole. Se tu sapessi quanto io soffro faresti certamente assai di più, e il tuo zelo nel sollevare me, che tanto amasti sulla terra e che non hai cessato di amare, aumente­rebbe d’assai. Per le viscere della divina misericordia soccorrimi, o Guda, soccorrimi, poichè queste fiamme mi divorano! – La pia Regina incominciò allora a raddoppiare preghiere, digiuni e buone opere affin di sollevare quell’anima si duramente martoriata. Per quaranta giorni non cessò di piangere a calde lacrime per ispegnere le fiamme che divoravano il suo povero marito; fece dispensare larghe elemosine ai poveri a nome del defunto, fece celebrare un gran numero di Messe, e a tal fine donò al monastero splendidi arredi. Passati i quaranta giorni le apparve nuovamente il Re, ma libero dalle catene di fuoco, e invece di gra­maglia, ricoperto di un manto candidassimo, nel quale Guda riconobbe con sorpresa quello da lei donato alla chiesa del monastero, e che scomparso all’improvviso – dalla sacristia, si credette involato dai ladri. – Ecco, le disse il Re; grazie a te, io son libero e non ho più nulla a soffrire; sii benedetta per sempre! Persevera nei tuoi pii esercizi, e medita spesso sul rigore delle pene dell’altra vita e sulle gioie del Paradiso, dove io vado ad aspettarti. – A tali detti la Regina, piena di gioia, volle tendere le braccia verso il defunto con­sorte, ma questo disparve lasciando in mano di lei il mantello, che ella rese alla chiesa cui lo aveva donato la prima volta.

Assai interessante il fatto seguente, che leggiamo nella vita di S. Nicola da Tolentino. Un sabato, di notte, mentre il Santo dormiva, vide in sogno una povera anima del Purgatorio, che lo supplicò di ce­lebrare nella mattina seguente il divin Sacrificio per lei e per molte altre anime che soffrivano in Purgato­rio. Il Santo, avendo riconosciuto la voce di chi gli parlava, senza potersi tuttavia ricordare a quale per­sona a lui nota appartenesse, domandò allo spirito chi – fosse. – Io sono il tuo defunto amico Fra Pellegrino da Osimo, che purtroppo sarei andato dannato senza il soccorso della divina misericordia; mi trovo in luogo di pena; ho bisogno del tuo aiuto, ed anche a nome di molte altre anime infelici vengo a supplicarti di voler celebrare per noi domani la santa Messa, dalla quale attendiamo la liberazione, o almeno un gran sol­lievo dalle nostre pene. – Voglia il Signore appli­carti i meriti del suo Sangue prezioso, rispose il San­to, ma in quanto a me, non posso soccorrerti domani col suffragio che mi domandi, perchè essendo offician­te di settimana, siccome domani è giorno di festa, non potrei celebrare all’altare del coro la Messa dei defun ti. – Deh! vieni, vieni almeno con me, gridò allora il defunto con lacrime e sìnghiozzi, te ne scongiuro per amor di Dio, vieni a contemplare le nostre soffe­renze, e non sarai più sì crudele da negarmi il favore che ti domando: so che il tuo cuore è troppo buono perchè tu possa più oltre lasciarci in tante pene. ­Parve allora al Santo di essere trasportato in Purga­torio, dove vide una vasta pianura, nella quale una moltitudine di anime di tutte le età e condizioni erano tormentate con vari ed atroci supplizi. E qui biso­gnerebbe la penna dell’immortale Alighieri, del can­tore sublime dell’Inferno e del Purgatorio per riferire i tormenti indicibili da cui vide il Santo afflitte quelle povere anime, e forse l’immaginazione stessa di Dante impallidirebbe dinanzi a tanto spettacolo di dolore. Non ci proveremo quindi a farlo, ma diremo solo che quegli spiriti penanti imploravano in coro coi gesti e colla voce gemente l’aiuto di san Nicola, al quale Fra Pellegrino disse: – Ecco, come vedi, la situazione di quelli ché mi hanno a te inviato: essendo tu caro al Signore, confidiamo che nulla rifiuterà egli all’obla­zione del santo Sacrificio compiuta dalle tue mani, e siamo sicuri che la divina misericordia ci libererà. – Sparita in tal modo l’apparizione, il Santo non potè frenare le lacrime alla considerazione di sì straziante spettacolo, e postosi in preghiera per tutto il resto della notte, appena albeggiato corse a trovare il priore per raccontargli l’accaduto. Questi, penetrato dalla descrizione di quelle pene, lo dispensò non solo per quel giorno, ma per l’intera settimana dall’ufficio di ebdomadario, onde potesse durante quel tempo offrire il divin Sacrificio a sollievo di quelle povere anime. Il Santo in quel giorno e per tutta la settimana celebrò la Messa con straordinario fervore, dedicandosi inol­tre giorno e notte alla pratica delle virtù e delle peni­tenze più austere, prolungando le sue veglie e le sue orazioni, digiunando a pane ed acqua, martoriando il suo corpo con discipline e portando una catena di fer­ro strettamente serrata ai fianchi. Al termine di quei sette giorni, il Santo ebbe la consolazione di vedersi nuovamente comparire Fra Pellegrino, non più in mezzo a quelle orribili torture, ma ricoperto di una veste candidissima e circondato di splendori celesti, in mezzo ai quali gioivano molte altre anime bene­dette, che tutte salutarono il Santo, chiamandolo loro liberatore, e cantando mentre salivano al cielo: Sal­vasti nos de af fligentibus nos, et odientes nos confu­disti! (Ps. 43, 7)

Un altro fatto assai impressionante si legge nelle cronache domenicane a proposito del fuoco del Pur­gatorio (v. Ferdinando di Castiglia, Storia di S. Do­menico, 2a parte, libro I, cap. a3).

A Zamora, città del regno di Leon in Spagna, vi­veva in un convento di Domenicani un buon religio­so, legato in santa amicizia ad un Francescano, uomo anch’egli di esimia virtù. Un giorno in cui i due frati s’intrattenevano fra loro di cose spirituali, si promi­sero scambievolmente che il primo che fosse morto sarebbe apparso all’altro, se cosa Dio fosse piaciuto, per informarlo della sarte toccatagli nell’altro mondo. Morì per primo il Francescano, e, fedele alla sua pro­messa, apparve un giorno al religioso Domenicano mentre stava preparando il refettorio, e – dopo averlo salutato con straordinaria benevolenza, gli disse di essere bensì salvo, ma che gli rimaneva ancora molto da soffrire per una infinità di piccoli falli, dei quali non si era emendato durante la vita. Poi soggiunse: – Niente v’è sulla terra che possa dare un’idea delle mie pene. – E perchè l’amico ne avesse una prova, il defunto stese la destra sulla tavola del refettorio, dove l’impronta rimase così profonda, quasi vi aves­sero applicato sopra un ferro rovente. Quella tavola si conservò a Zamora fino al termine del ‘700, epoca nel­la quale le rivoluzioni politiche la fecero sparire in­sieme con tanti altri ricordi di pietà dei quali abbon­dava l’Europa.

«Usque ad novissimum quadrantem!»

Ma forse, dirà qualcuno, supplizi così atroci saranno riservati ai grandi peccatori o a coloro che avendo accumulato quaggiù in terra colpe su colpe, si convertono solo in punto di morte senza far penitenza dei loro falli. Purtroppo non è così: i fatti sopra narrati e quelli che stiamo per raccontare dimostrano proprio il contrario, che saranno cioè puniti anche i falli leg­geri, anche le mancanze che crediamo trascurabili e nelle quali cadiamo tanto spesso e tanto volentieri, il­ludendoci di non doverne pagare poi pena alcuna nell’altra vita.

Si legge nella vita della ven. Agnese di Gesù, reli­giosa domenicana, che per più di un anno sottopose il suo corpo ad asprissime penitenze, ed innalzò a Dio molte e ferventi preghiere pel defunto padre del suo confessore. Quest’anima le appariva sovente implo­rando i suffragi di lei, e un giorno avendole toccata una spalla con la mano, ebbe a soffrirci per più di sei ore gli ardori intollerabili del Purgatorio: finalmente il defunto fu liberato dopo tredici mesi da quelle tor­ture. Sopra di che gli autori delle memorie sulla vita della madre Agnese fanno osservare il rigore dei di­vini giudizi; poichè il defunto avea santamente vis­suto nel secolo, era un confessore della fede, essendo stato perseguitato dai protestanti di Nimes, i quali si erano impadroniti de’ suoi beni, l’aveano gettato in prigione e vessata con ogni sorta di angherie; prima di morire aveva sopportato con pazienza esemplare una lunga e dolorosa malattia; eppure nonostante tanti meriti acquistati, nonostante i digiuni, le pre­ghiere, le discipline della caritatevole Agnese, nono­stante le numerose Messe celebrate dal figlio suo, ei restò più di un anno in mezzo a quelle torture spa­ventose.

Ma udite un esempio ancor più meraviglioso. Allorchè questa stessa madre Agnese era priora del suo monastero, una delle religiose per nome suor Ange­lica, venuta a morte, il dì seguente, a quello in cui era spirata il confessore della comunità ordinò alla superiora che si recasse a pregare sulla tomba di lei. Vi andò ella infatti, e trovandosi là inginocchiata tutta sola e nel cupo della notte, fu assalita da un su­bitaneo timore, insinuatole forse dal demonio, che voleva distorla da quel caritatevole officio. Abituata però com’era alle sue astuzie, si tenne salda ed offrì a Dio quello spavento in espiazione per la defunta, rappresentandogli come non fosse curiosità ma obbe­dienza che la induceva ad interessarsi dello stato di quell’anima, e poichè era a lui piaciuto di farla cu­stode in vita di quella povera pecorella, fosse naturale ch’ella trepidasse per lei dopo la morte. Ed ecco ve­nirle innanzi la morta in abito da religiosa, emettendo dal capo come una fiamma ardente, il cui calore bru­ciava quasi il viso della priora, alla quale suor Ange­lica con grande umiltà domandò perdono dei dispia­ceri causatile durante la vita, ringraziandola dell’af­fettuosa assistenza che le avea prodigata nell’ultima malattia. La madre Agnese, da parte sua, tutta con­fusa, domandava perdono alla suora, pretendendo nel­la sua umiltà di non averle prestato tutte quelle cure, alle quali sarebbe stata tenuta nella sua carica di su­periora. Ma suor Angelica seguitava a ringraziarla e ad attestarle la sua riconoscenza, perchè in vita le aveva spesso inculcate quelle parole del Vangelo: «Maledetto colui che compie con negligenza l’opera di Dio». La spronava in pari tempo ad eccitare le suore a servir Dio con sollecitudine e ad amarlo con tutto il cuore, e soggiunse: – Se si potesse arrivare a comprendere quanto son grandi i tormenti del Pur­gatorio, si starebbe sempre all’erta per cercare di evi­tarli. -­

Tutti sanno quanto grande fosse il fervore delle prime compagne di S. Teresa, di quelle anime elette, che ella si era associate per la riforma del Carmelo. Eppure malgrado la loro santità e le loro eroiche pe­nitenze, quasi tutte dovettero provare le pene del Purgatorio. Ecco quanto racconta a tal proposito la Santa stessa (Vita S. Teresa, scritta da lei stessa, cap. 30).« Una religiosa di questo monastero, gran serva di Dio, essendo morta appena da due giorni e recitan­dosi per lei in coro l’Ufficio dei defunti, mentre una suora leggeva una lezione ed io ero in piedi per dire il versetto, alla metà della lezione vidi l’anima della suddetta uscire dal fondo della terra e salire al cielo. « Nello stesso monastero moriva, in età di diciotto o venti anni circa, un’altra religiosa vero modello di fervore e di virtù, la cui vita era stata una serie non interrotta di patimenti e di dolori sofferti con ammirabile pazienza. Io non dubitavo che sarebbe libera dalle fiamme del Purgatorio; eppure, mentre circa quattro ore dopo la sua morte recitavo l’Ufficio, vidi parimenti la sua anima uscir dalla terra e salire al cielo ».

Dalla vita della beata Stefanina Quinzana togliamo un esempio, che avvalora quanto stiamo asserendo. Una religiosa domenicana, chiamata Suor Paola, era morta a Mantova dopo una lunga vita menata nell’e­sercizio delle più eroiche virtù. Il cadavere di lei, portato in chiesa, era stato posto in mezzo al coro, e mentre, secondo il rito ecclesiastico, ne veniva fatta l’assoluzione, la beata Stefanina Quinzana, che era legata da stretta amicizia alla defunta, inginocchia­tasi presso la bara, si pose a raccomandare a Dio con tutto il fervore dell’anima la compianta amica. Quan­d’ecco questa all’improvviso lasciar cadere il croci­fisso che teneva fra le mani, tendere la sinistra, ed afferrando con questa la mano destra della beata, stringerla con tanta forza, da non poterla più svinco­lare. Per più di un’ora quelle due mani restarono così serrate, durante il qual tempo Suor Stefanina sentiva in fondo al suo cuore una voce inarticolata, che dice­va: – Soccorretemi, sorella mia, soccorretemi negli spaventosi supplizi che mi tormentano. Oh! se sape­ste la rabbia dei nostri nemici invisibili nell’ora della morte, e la severità del Giudice che esige il nostro amore, che esamina le nostre più indifferenti opera­zioni, e l’espiazione da farsi prima di giungere alla ricampensa! Se sapeste come bisogna esser puri per ottenere la corona immortale! Pregate molto per me, sorella mia; ponetevi mediatrice fra la giustizia di Dio e i falli di me meschina; pregate, pregate e fate pe­nitenza per me che non posso più aiutarmi. – Tutta la comunità rimase stupita a quel fatto, quantunque nessuno intendesse i lamenti della defunta; finalmente intervenne il superiore che in virtù di santa obbedien­za comandò a suor Paola di lasciare Stefanina. Ub­bidì subito la defunta, e la sua mano ripiombò inani­mata sul feretro. – La storia della Beata riferisce che ella fu fedele alla preghiera dell’amica, e si diè ad ogni sorta di penitenze e di opere soddisfattorie, fin­chè una nuova rivelazione le fece conoscere che suor Paola era stata finalmente liberata da quei tormenti ed ammessa alla gloria eterna.

Vorremmo che le anime pie restassero colpite da questi esempi e ne approfittassero per emendarsi, con­siderando che quelle piccole imperfezioni, quei difetti di ogni giorno, di cui si accusano sì spesso al santo tribunale della penitenza, senz’averne però quasi mai una sufficiente contrizione, trovano nell’altra vita una rigorosa espiazione. Il fatto seguente valga ad affer­mare quanto andiamo dicendo.

Cornelia Lampognana fu una santa matrona che visse a Milano, ad imitazione di Santa Francesca Ro­mana, nella professione perfetta dei tre stati di ver­gine, di sposa e di vedova. Essendo strettamente in santa amicizia con una religiosa del terz’Ordine di san Domenico, un giorno in cui s’intrattenevano delle co­se dell’altra vita, si promisero scambievolmente che se così fosse piaciuto a Dio, la prima di loro che morisse, apparirebbe all’altra. Dopo cinque anni Cornelia pas­sò da questa vita, e in capo a tre giorni si presentò alla sua compagna, mentre era in cella inginocchiata ai piedi del crocifisso. Stupita a tal vista, la religiosa esclamò: – O Cornelia, Cornelia mia, come sono fe­lice di rivederti! Dove ti trovi tu dunque? Certo sarai già nel seno di Dio, che servisti in questa vita con tanto zelo ed amore! – Ahimè! Ancora no, rispose l’altra. Vedi come sono diversi i giudizi di Dio da quelli degli uomini! Io sono in luogo di pena e vi dovrò restare ancora per qualche tempo in espiazione dei falli della mia vita, che avrebbe potuto essere più fedele e più fervente. – Prendendo poi per mano la sua amica, soggiunse: – Vieni con me, e ti farò ve­dere cose meravigliose. – E postosi in cammino, ar­rivarono in un vasto campo tutto ripieno di bellissime viti, sulle cui foglie erano impressi dei caratteri. – Leggi – disse Cornelia alÍ’amica. Si chinò allora la suora e con grandissima sorpresa avendo letto su quel­le foglie i propri difetti ed imperfezioni quotidiane, domandò attonita che cosa volesse ciò significare. Nulla di strano, sorella mia – rispose la defunta non hai forse letto spesse volte quelle parole pronun­ziate da nostro Signore nell’ultima cena: «Io sono la vite e voi i tralci»? Ogni nostra azione buona o cat­tiva è una foglia di questa mistica vigna; per entrare ­in cielo è necessario che le foglie del male siano di­strutte e consumate dal fuoco: ma, consolati, sorella mia, poichè guardando ben da vicino, vedrai che poco ti resta a distruggere, avendo tu fedelmente perseve­rato nelle tue promesse verginali, e servito con zelo il tuo buon maestro. Sono è vero ancor numerose le tue mancanze, ma non tanto quanto le mie che percorsi sulla terra stati sì differenti e te ne voglio far con­vinta. – E avanzandosi di pochi passi si trovarono di nuovo in una località ripiena di viti serpeggianti e intrecciantesi da tutte le parti, in maniera che le fo­glie ricoprivano il suolo; ed appressandosi ansiosa­mente la suora per vedere che cosa fosse scritto su queste: – Fermati, le disse l’amica: il mio divin Salvatore non permette che tu conosca fin d’ora le offese che io gli feci, e vuol risparmiarmi tanta vergogna. Leggi soltanto quel che troverai scritto sulle foglie che vedi vicine a te. – Allora ella posando lo sguardo su quelle che le erano più dappresso, vide registrate tutte le mancanze commesse dalla defunta nel luogo santo, le irriverenze, le distrazioni, i discorsi inutili fatti in chiesa. – O mio Gesù, gridò allora la religiosa, che s’avrà da fare per rimediare a tanti falli? Come mai dopo le tue confessioni e comunioni sì frequenti, dopo le indulgenze da te guadagnate ti resta ancor tanto da espiare? – Giusto è quanto dici, o sorella, ma sappi che per la mia tiepidezza e per l’abitudine presavi, io non trassi tutto quel frutto che avrei dovuto dalle mie comunioni e confessioni, e quanto alle indulgenze avendone guadagnate pochissime, tre o quattro al più, a motivo delle mie abituali distrazioni e della man­canza di fervore, bisogna che faccia ora quella peni­tenza che non feci quando pur mi sarebbe riuscito si facile. –

Ragionerebbe quindi da insensato colui che dicesse di non pregare per un defunto, perchè visse e morì da santo. Quante anime deploreranno amaramente in Purgatorio questi giudizi troppo favorevoli sulla loro sorte di oltretomba. Noi abbiamo visto che S. Ago­stino aveva tutt’altra idea del rigore dei divini giudi­zi, dal momento che dopo venti anni pregava tutti i giorni e scongiurava i suoi lettori pel riposo dell’ani­ma della sua santa madre Monica. A proposito dell’eccessiva facilità di giudicar santi alcuni defunti, ri­portiamo un esempio tratto dalla Cronaca dei Frati Minori. (Parte II, libro IV, cap. 7).

Nel convento dei Frati Minori di Parigi, essendo morto un santo religioso, che per la sua eminente pie­tà veniva soprannominato l’Angelico, uno de’ suoi confratelli, dottore in teologia e uomo di molte virtù omise di celebrare le tre Messe solite a dirsi dai reli­gìosi alla morte di ciascun confratello, sembrandogli di far quasi ingiuria alla misericordia e giustizia di Dio pregando per la salvezza di un uomo sì santo e che, secondo lui, doveva già trovarsi elevato al più alto grado di gloria. Ma ecco che in capo a pochi giorni, mentr’egli stava passeggiando assorto in me­ditazione per un viale del giardino, gli apparve il de­funto tutto circondato di fiamme, gridando con voce lamentevole: – Caro maestro, ve ne scongiuro, ab­biate pietà di me e soccorretemi. – E qual bisogno avete de’ miei poveri aiuti, o anima santa? rispose il religioso. – Ahimè! Ahimè! Io sono ancor trattenuto nel fuoco del Purgatorio, in attesa delle tre Messe che voi avreste dovuto celebrare per me. Se aveste esat­tamente soddisfatto all’obbligo che le nostre costitu­zioni c’impongono, a quest’ora sarei già nella celeste Gerusalemme. – E poichè il religioso allegava per iscusa la vita santa ch’egli aveva menato, le preghie­re, le penitenze, l’esattezza scrupolosa da lui usata nell’osservanza della regola e tante altre sublimi vir­tù, il defunto esclamò: – Ahimè! Ahimè! Nessuno crede, nessuno comprende con quanta severità Iddio giudica e punisce le sue creature. L’infinita purezza di lui scopre difetti in tutte le nostre azioni. Se i cieli medesimi non vanno esenti da imperfezioni davanti ai suoi occhi purissimi, come l’uomo, creatura tanto miserabile, potrà comparire davanti a lui? Occorre rendere conto a Dio fino all’ultimo centesimo, usque ad novissimum quadrantem. Se con tutta la scienza che possedete, voi aveste compreso un po’ meglio la santità infinita di Dio, oh! non mi avreste trattato con tanto rigore! – E ciò detto scomparve. Affretta­tosi il buon religioso a celebrare le tre Messe doman­date, nel terzo giorno gli apparve di nuova quell’a­nima benedetta per ringraziarlo e per annunziargli che, finite le pene, se ne andava a ricevere la ricom­pensa delle sue virtù.

Da tutto questo dobbiamo concludere che purtrop­po non si pensa abbastanza ai rigori del Purgatorio e alla santità di Colui che non tollera la più lieve mac­chia nei suoi Santi. Se si meditassero un po’ più spes­so queste verità si eviterebbero con maggior cura quei falli leggeri, di cui facciamo si poco conto, e si pre­gherebbe con più fervore per quelle povere anime martoriate, che mentre viviamo ci sarebbe tanto facile soccorrere.

I PECCATI E LE LORO PENE

Una visione di S. M. Maddalena de’ Pazzi Se dalle considerazioni generali fin qui esposte sul rigore delle pene del Purgatorio, noi passiamo ad esaminare particolarmente le pene proprie a ciascun peccato, non potremo aver guida migliore delle rive­lazioni di santa Maria Maddalena de’ Pazzi, la quale fra tutte le Sante canonizzate dalla Chiesa è quella che, dopo santa Francesca Romana, ci ha lasciato la descrizione più minuziosa, e per così dire, la più esatta topografia del Purgatorio. Una sera mentr’ella insieme con alcune suore passeggiava nel giardino del monastero, fu all’improvviso rapita in estasi ed intesa gridare più volte: – Sì ne farò il giro, sì ne farò il giro. – Colle quali parole voleva acconsentire all’in­vito che dal suo Angelo custode le veniva fatto di vi­sitare il Purgatorio. Così le sue consorelle la videro con ammirazione e terrore intraprendere quel doloroso viaggio di cui, cessata poi l’estasi, scrisse una splen­dida narrazione: – Per due ore continue fu veduta girare intorno al vasto giardino del monastero ferman­dosi con attenzione a considerare quanto probabilmen­te le veniva mostrato dall’Angelo, spesso torcendosi le mani dalla commiserazione e divenendo pallidissi­ma in viso. Inoltravasi colla persona curva verso terra e come schiacciata sotto un pesantissimo fardello, dan­do sì manifesti segni di orrore, che solo a guardarla faceva paura. Le consorelle la seguivano ascoltando con pia avidità le esclamazioni di terrore o di compassione che le sfuggivano di tratto in tratto. Talora si sentiva gridare: – Oh che pena! Misericordia, mio Dio, misericordia! Sangue prezioso del mio Salvato­re, scendete su queste anime e liberatele dai loro spa­simi. Povere anime quanto soffrite! eppure vi vedo ilari e contente fra i vostri tormenti! Eppure vi è an­cora chi soffre di più! – Una volta esclamò: – Come vorrei non rimirar da vicino quelle povere tormenta­te! – Nondimeno dovette obbedire e discendere eziandio in altri abissi. Ma dopo aver fatto alcuni passi eccola fermarsi ad un tratto spaventata e tre­mante e mandando alte grida esclamare: – Come! Sacerdoti e religiosi in questo luogo sì orribile! Ah! mio Dio, mio Dio, come li veggo tormentati! – E l’orrore e il tremito che agitava il suo corpo dava a conoscere l’intensità delle sofferenze che in quel momento contemplava.

Uscita dal carcere dei sacerdoti traversò luoghi me­no lugubri ed andò in quello delle anime semplici, dei bambini e di coloro, le cui colpe sono attenuate dall’ignoranza. Là non v’era che ghiaccio e fuoco, e le anime passavano alternativamente dall’uno all’altro. Ivi la Santa riconoscendo l’anima del suo fratello morto poco prima, fu intesa gridare: – Povera ani­ma del fratello mio, quanto soffri! eppure te ne con­soli: bruci eppur sei contenta, perchè sai che queste pene sono strada alla felicità. – Fatti altri passi an­cora, fece capire che stava contemplando anime assai più infelici, e gridò: – Ahimè quanto è orribile que­sto luogo! Come e pieno di schifosi demoni e di incredibili tormenti! Chi sono mai, o mio Dio, questi infelici tormentati? Oh! come li vedo trafitti da punte d’aghi acutissimi e quasi fatti a brani! – Allora le fu risposto che quelle erano le anime di coloro che in vita avevano cercato di piacere agli altri ed avevano tal­volta peccato di ipocrisia. Ancora più innanzi vide una turba spinta verso un dato luogo e quasi schiac­ciata sotto un enorme peso, e capì per rivelazione che quelle erano le anime impazienti e disobbedienti. Men­tre le guardava, faceva gesti svariatissimi, ora chinando il capo fino a terra, ora fissando l’occhio atter­rito su qualche punto, ora sospirando con atteggia­mienti di profonda compassione.

Dopo un pò di tempo sembrò anche più afflitta, ed emise un grido di spavento: entrava allora nella car­cere dei bugiardi. Dopo averla attentamente osserva­ta, disse ad alta voce che i bugiardi stanno in un luogo vicinissimo all’Inferno, che grandi sono le loro pene e che nella loro bocca viene versato piombo fuso, mentre stanno immersi in uno stagno ghiacciato, così che bruciano e gelano al tempo stesso.

Arrivata poi alla prigione di coloro che peccarono per troppa fragilità, gridò: – Ahimè! m’ingannai credendovi insieme a coloro che peccarono per igno­ranza, giacchè vi vedo bruciare in un fuoco assai più ardente. – Più lontano riconobbe gli avari che si li­quefanno come il piombo nella fornace. Quindi passò tra coloro che sono debitori alla divina giustizia per i peccati d’impudicizia, perdonati, ma non abbastan­za espiati in vita. La loro prigione era talmente sudi­cia e fetente, che solo a vederla da lungi chiudeva il cuore. La Santa passò oltre senza dire parola, ma alla fine del suo doloroso pellegrinaggio fu intesa grida­re: – Ditemi, o mio Signore Gesù, quale sia stata la vostra sublime intenzione nello svelarmi pene così or­ribili. Forse per appagare il mio desiderio di sapere dove fosse l’anima del mio fratello, o per spingermi a pregare di più per le anime del Purgatorio?… No ora comprendo: voi avete voluto così, onde conoscessi meglio la vostra immacolata purezza!

Dal carcere degli impudici, la Santa passò a quello degli ambiziosi e superbi, i quali soffrono acerbamen­te in mezzo a foltissime tenebre. – Miseri, disse, co­storo, che per aver voluto elevarsi sugli altri, sono ora condannati a vivere in tanta oscurità! – Vide poi le anime di quelli che, ingrati verso Dio e duri di cuore, non hanno mai conosciuto cosa volesse dire amare il loro Creatore, Redentore e Padre. Costoro sono immersi in un lago di piombo fuso, in pena di aver fatto rimanere sterili con la loro ingratitudine le sorgenti della grazia.

Finalmente in un’ultima prigione le furono mostra­te quelle anime che pur non avendo avuto in vita al­cun vizio particolare, si macchiarono di tanti piccoli falli, ed osservò che per pena dovevano subire tutti i castighi propri ai vizi stessi, ma in piccola propor­zione.

Dopo due ore di sì penoso e duro pellegrinaggio, la Santa ritornò in sè, ma in tale stato di debolezza e di prostrazione morale, che le occorsero parecchi giorni per rimettersi dall’impressione del terribile spettacolo che aveva avuto sott’occhi.

Tali particolarità sul Purgatorio, che troviamo nella vita di S. M. Maddalena de’ Pazzi, le ritroviamo nelle rivelazioni di molti altri Santi, che con le anime pur­ganti ebbero particolare relazione.

Nella vita di S. Bernardino da Siena (Bollandisti, Vita S. Bernardini Sen., 20 Maji, in Supplemento) si legge il fatto seguente.

Un giovanetto, morto all’età di undici anni, men­tre gli si facevano i funerali, per la preghiera di San Bernardino si scosse come da un sonno profondo e postosi a raccontare quel che aveva veduto nell’altra vita, descrisse con straziante precisione i tormenti dei dannati nell’Inferno, raccontò quindi le gioie ineffa­bili dei beati in Paradiso e le pene delle povere anime del Purgatorio. A proposito di queste ultime, descris­se le precise particolarità che si trovano nelle rivela­zioni di quei Santi, i quali, come S. M. Maddalena de’ Pazzi, S. Francesca Romana o la venerabile Ma­ria Francesca del Sacramento, ebbero particolarmente a cuore la causa delle anime purganti.

PENE PARTICOLARI

Adesso entriamo ancora più addentro nelle partico­larità di tante sofferenze, e non contenti di questo, per dir così, panorama generale delle pene del Purgatorio, audíamo nelle rivelazioni dei Santi le pene speciali inflitte dalla gìustizia di Dio a quei falli, che la maestà sua ha più particolarmente in orrore.

Fra codeste mancanze Iddio punisce molto severa­mente la vanità. Citeremo qui due esempi che vor­remmo facessero rinsavire tanta frivola gioventù che consuma il tempo in acconciarsi ed abbellirsi per pia­cere in questa vita, accumulandosi tormenti inauditi per l’altra. Il primo è tratto dalle rivelazioni di santa Brigida (lib. VI, capo 52), la quale, in una delle estasi che le discoprirono il Purgatorio, osservò fra le altre una fanciulla di alto lignaggio, che le fece conoscere quanto penasse in espiazione dei suoi peccati di va­nità. Quel capo, che con tanta cura aveva coltivato, era divorato all’interno e all’esterno da fiamme cocen­tissime; quelle spalle e quelle braccia, che tante volte aveva amato di portar denudate, erano strette da ca­tena di ferro rovente; i piedi si agili nella danza erano avvinghiati e morsi da vipere, che li insozzavano colla loro bava immonda; tutte le membra, che in vita, era solita di sopracaricare di monili, di gioie, di perle, di fiori; erano torturate da spaventevoli pene. E andava gridando: – Madre mia, madre mia, quanto sei col­pevole verso di me! La tua soverchia indulgenza, peg­giore dll’odio più atroce che tu avessi potuto portarmi, mi ha fatto precipitare ìn queste orribili pene! Tu mi conducevi alle feste, ai balli, agli spettacoli, a tutte le riunioni mondane che sono la rovina dell’anima e per le quali ora soffro miseramente, e quantunque tal­volta mi consigliassi preghiere ed atti di virtù, questi si trovaron sempre superati e quasi perduti per i sol­lazzi e le compiacenze che io mi prendeva nella vita.

Nondimeno rendo grazie infinite al mio Dio perchè non permise la mia eterna dannazione. Prima di mo­rire, presa da pentimento, mi confessai, e quantunque lo facessi in considerazione delle pene che mi pote­vano essere riservate nel l’altro mondo, e quindi la mia confessione non fosse valida, nel momento però d’en­trare in agonia mi ricordai della dolorosa passione del Salvatore, e potei così formare un atto di vera contri­zione, promettendo, se ne avessi avuto tempo, di ri­parare colla penitenza alle mie colpe. – Lo storico soggiunge che la Santa avendo raccontato l’appari­zione ad una cugina della defunta, l’impressione da questa riportata fu tale, che rinunziato alle vane lusin­ghe del secolo, si rinchiuse in un monastero di auste­rissima penitenza, dove santamente visse e morì.

Il secondo esempio è tratto dalla vita della beata Maria Villani, scritta dal padre Maschi (lib. II, capo 5). – Mentre un giorno questa serva di Dio pregava per le anime del Purgatorio, fu condotta in ispirito nel luogo delle lor pene, e fra tutte quelle infelici sof­ferenti ne vide una tormentata più delle altre da orri­bili fiamme che da cima a pie’ ravvolgendola, la con­sumavano continuamente. Interrogata dalla Serva di Dio sul perchè di tanto soffrire, e se avesse mai un momento di tregua fra quelle sofferenze, rispose: -­ Già da molto tempo mi trovo qui a scontare severa­mente, le mie vanità passate e il lusso scandaloso in cui vissi, ma fino ad ora non ottenni mai il benché minimo sollievo, avendo il Signore permesso nella sua giustizia che io fossi completamente dimenticata dai miei parenti, dai miei figlie dai miei amici, perché quando ero in vita, tutta dedita alle vanità del mondo, alle feste e ai piaceri, assai di rado pensavo a Dio e ai doveri del mio stato. Così ora Iddio permette che sia dimenticata da tutti. – E ciò detto disparve.

L’altro grave peccato che Iddio odia e punisce or­ribilmente è lo scandalo. « Maledetto colui per cui viene lo scandalo» disse il Maestro. « Se il tuo occhio ti scandalizza cavatelo e gettalo via da te; è meglio entrare nella vita eterna con un solo occhio, o con un sol piede, che andare all’Inferno con ambedue ».

Un pittore di fama e buon cristiano; essendosi la­sciato trascinare per qualche tempo dal cattivo esem­pio, aveva dipinto dei quadri sconci. Se ne era poi pentito e si era dato esclusivamente alla pittura sacra. L’ultimo suo lavoro fu un bellissimo dipinto in un Convento di Carmelitani Scalzi; terminato il quale, essendo stato colto da mortale, malattia, chiese in gra­zia al priore di essere sepolto nella chiesa del conven­to, lasciando alla comunità il prezzo assai alto della sua opera col patto che dai religiosi fossero celebrate altrettante Messe in suo suffragio. Era morto da po­chi giorni nel bacio del Signore, quando un frate ri­masto in coro dopo mattutino, se lo vide comparire tutto piangente e dibattendosi fra le fiamme. Sbalor­dito a tal vista, gli domandò se fosse veramente egli il buon pittore morto, poco prima, e perché lo vedesse ridotto in sì misero stato. – Allorchè resi l’anima a Dio, rispose il defunto, mi trovai al suo divin tribu­nale circondato da molte persone, le quali deponevano a mio svantaggio, perchè eccitate in vita a malvagi pensieri ad impuri desideri da un quadro osceno da me dipinto, erano state condannate al Purgatorio; ma quel che più mi atterrì si fu il vederne uscire altre dall’Inferno, gridando, che poiché io ero stato causa della loro eterna rovina, era giusto che subissi lo stes­so loro castigo. Per buona sorte accorsero dal cielo molti Santi a prender le mie difese, dimostrando il divin Giudice come quello fosse stato un lavoro di mia gioventù inesperta, compensato da tanti altri che ave­vano servito di edificazione a moltissime anime. Fui salvo allora dalla pena eterna, ma condannato bensì a soffrire tra queste fiamme, finchè quella maledetta pittura sia bruciata e non possa più dare scandalo ad alcuno. Vi prego adunque, mio buon Padre, di recar­vi dal proprietario del quadro, e dirgli in quale stato io mi trovi per aver ceduto alle sue premure, suppli­candolo da parte mia a disfarsi di quella pittura, get­tandola immediatamente alle fiamme. Che se rifiutas­se, guai a lui! In prova di quanto dico e in punizione del suo delitto annunziategli poi che fra, poco perderà i suoi due figli, e qualora mancasse di ubbidire agli ordini divini, egli stesso perirà di morte prematura. – Il possessore del quadro, sapute tali cose, tosto lo bruciò; tuttavia in meno di un mese vide morire i due suoi figli, per il quale castigo fu preso da tanto dolore, che passa il resto della sua vita nel far peni­tenza del fallo commesso coll’ordinare e conservare quella pittura scandalosa. (Vedi: Rossignoli, Meravi­glie del Purgatorio, lib. IV, cap. 9).

Altra colpa alla quale Dio riserba severa punizione sono i discorsi vani. Si quis in verbo non offendit, hic perfectus est vir (Iac. 3, z), disse l’apostolo S. Giacomo e ben a ragione, poichè la lingua è fomite di ini­quità. Senza parlare delle bestemmie, dei propositi licenziosi, delle maldicenze e calunnie, chi non ha da rimproverarsi tante e poi tante di quelle parole vane e leggere, delle quali il divin Maestro ha detto che ci domanderà conto nel giorno del giudizio? L’esempio che qui sotto riferiamo dovrebbe far riflettere quei fa­ceti, maldicenti per professione, i quali occupano il posto d’onore nelle conversazioni mondane e son sem­pre pronti a far ridere gli altri a spese del prossimo.

L’abate Durando, priore di un monastero di bene­dettini, indi Vescovo di Tolosa; era uomo di rara pie­tà, di singolare mortificazione e pieno di zelo pel suo spirituale avanzamento; però amava troppo lo scherzo e non sapeva frenare abbastanza la lingua. Fin da quando era semplice monaco, il suo abate Ugo lo ave­va parecchie volte ammonito, predicendogli che se non si fosse emendato di questo difetto ne avrebbe avuto a soffrire molto in Purgatorio, ma egli non die­de troppo ascolto a questo avviso e proseguì anche da vescovo a dire facezie e scherzi in abbondanza. Dopo morto però si vide quanto fosse giusta la pre­dizione dell’abate Ugo, poichè apparso Durando ad un religioso suo amico lo pregò vivamente d’interce­dere per lui, che trovavasi martoriato in Purgatorio da strazi acutissími a cagione dell’intemperanza usata nel parlare a carico altrui. Radunatisi allora tutti quei monaci, si stabilì che l’intera comunità avrebbe osser­vato per otto giorni un rigoroso silenzio in suffragio di quell’anima penante. Ma ecco in capo a questo tempo comparire di nuovo il defunto e lamentarsi, perchè uno dei monaci essendo venuto meno alla pro­messa del silenzio, era riuscito sterile per la sua libe­razione il frutto di quel suffragio. Si ripeté allora dal­la comunità la pia mortificazione, la quale, essendo stata osservata fedelmente da tutti, meritò al defunto vescovo Durando la liberazione dalle pene del Purga­torio.

Quanto al peccato della menzogna, abbiamo già ve­duto dalla rivelazione di S. Maria Maddalena de’ Pazzi come sia punito in modo singolarmente terribi­le, poiché Iddio, eterna Verità, ha in orrore la bugìa. In molte apparizioni noi vediamo le povere anime raccomandarci di astenerci dalla menzogna, e dichia­rare che all’altro mondo quelle che da taluni si con­siderano come cose da poco o semplici esagerazioni sono severamente punite.

Raccomandano parimente quelle anime sante di astenersi dal fare i voti alla leggera e quando siano fatti, di osservarli scrupolosamente, poiché la giusti­zia di Dio è inesorabile. Sul qual proposito voglio qui raccontare il seguente fatto, tratto dalla vita del ve­nerabile Dionigi Cartusiano. – Questo santo religio­so stava assistendo un novizio moribondo, il quale parecchi anni prima avendo fatto voto di recitare per due volte l’intero Salterio e non avendo poi adem­piuto mai la sua promessa, si trovava molto perplesso sul letto di morte, paventando la severità dei divini giudizi. Allora Dionigi per incoraggiarlo e consolarlo in quei momenti supremi, gli promise che avrebbe soddisfatto a quell’obbligo in vece sua, ma, così forse permettendo la giustizia di Dio, dopo la morte del novizio il buon Padre dimenticò anch’egli la promes­sa, mentre intanto quello sventurato era trattenuto fra le fiamme del Purgatorio. Un giorno finalmente aven­dogli Iddio concesso di comparire a Dionigi per ri­cordargli l’impegno preso, il defunto mostrandosegli tutto mesto e addolorato, pronunziò sospirando queste due parole: – Pietà, pietà! – Stupito e desolato al­lora della sua dimenticanza, il buon Padre voleva spiegare a quell’anima la causa di tanto oblìo, ma il defunto con voce supplichevole gridò: – Ohimè! se voi soffriste la millesima parte de’ miei tormenti non ammettereste scusa di sorta, anche se in apparenza legittima, e in quest’istante medesimo soddisfereste all’obbligo contratto in mio nome dinanzi a Dio. – E così dicendo scomparve.

Bisognerebbe che gli uomini del mondo, la cui vita molle e sensuale non è altro che una catena continua di peccati, pensassero per qualche momento alla pe­nitenza che dovranno fare nell’altra vita, prescinden­do dal grave pericolo di dannazione al quale espon­gono la loro anima. La venerabile suor Francesca di Pamplona, celebre per le sue visioni sul Purgatorio, vide una volta un uomo di mondo, il quale del resto era stato un buon cristiano, condannato a penare lun­ghi anni in Purgatorio, per aver desiderato troppo i comodi della vita. La causa di così gravi e lunghe pene è che in mezzo ad una vita dissipata e mondana è impossibile non commettere una gran moltitudine di difetti, i quali non venendo cancellati dalla peniten­za, accumulano un debito enorme davanti al tribu­nale di Dio, e così quello che avremmo potuto scontare facilmente in questa vita con qualche mortifica­zione o penitenza od opera buona, bisognerà pagare nell’altra vita inevitabilmente con un lungo Purgatorio.

Lo scrupolo non è un peccato di per sè, ma siccome disgraziatamente ne fa commettere molti alle anime per il troppo attaccamento alla propria volontà e per l’or­goglio di cui è quasi sempre figlio, perciò è punito da Dio molto severamente. La suddetta suor France­sca da Pamplona vide molte anime straordinariamen­te scrupolose essere tormentate in Purgatorio da dub­bi, da oscurità e da incertezze.

La tiepidezza ha pure la sua punizione in Purga­torio. Santa Maria Maddalena de’ Pazzi, mentre un giorno pregava dinanzi al santissimo Sacramento, vi­de uscir di sotterra l’anima d’una religiosa, la quale avendo avuto l’unico difetto di omettere talvolta la comunione nei giorni stabiliti dalla regola, era coperta in punizione da un manto di fuoco, di sotto al quale mostravasi una veste candidissima, ed osservò che avvicinandosi all’altare con gran rispetto fece una profonda genuflessione passando dinanzi al santo ta­bernacolo; e la rimase un’ora in adorazione. Madda­lena conobbe poi per rivelazione che quell’anima, in pena della sua tiepidezza nel ricevere la santa Euca­ristia, era condannata a venire ogni giorno ad ado­rare la sacra Ostia con quel mantello di fuoco, per compensare così le sue passate freddezze; e che la veste bianca che la difendeva in parte da quel tor­mento significava la ricompensa dovuta alla sua per­fetta verginità. Continuò per vario tempo quell’anima in tale quotidiana adorazione, finchè le preghiere della Santa, unite alla propria espiazione, la condus­sero in Paradiso.

Più rigorosamente fu punito un ecclesiastico, per mancanza per ben più grave. (Vedi Michele Alix, Hortus pasto-rum, trait. VI, capo 2). Trovandosi egli in punto di morte, o sia perchè non volesse ricono­scere la propria posizione per quell’illusione troppo comune nei sacerdoti, abituati a veder morire, o sia perchè si trovasse sotto il dominio di quel fatale pre­giudizio che fa paventare a tanti malati gli ultimi Sacramenti, tanto tardò e temporeggiò che se ne morì senza i conforti della Chiesa. Mentre veniva condotto alla sepoltura, il misero sacerdote, aprendo gli occhi, fece intendere chiaramente queste parole: – In puni­zione del ritardo da me frapposto nel ricevere la gra­zia dell’estremo lavacro, mi trovo condannato a lunghi anni di Purgatorio. Se avessi ricevuto l’Olio San­to, come era mio dovere, io sarei scampato alla morte in grazia della virtù propria di questo Sacramento di ridare talvolta al malato la salute temporale, e così avrei avuto tempo di far penitenza, mentre ora sto soffrendo acerbi tormenti. – Ciò detto, richiudendo gli occhi, lasciò i presenti nella più grande costerna­zione.

A coloro poi, la cui vita intera trascorse abitual­mente in peccato mortale, e che differiscono la con­versione al punto di morte, sono riservate pene, delle quali il seguente esempio può dare appena una lan­guida idea.

Il barone Giovanni Sturton, nobile inglese, quantunque cattolico in fondo al cuore, per conservare le sue cariche a corte e per sfuggire alle ire del Re, as­sisteva regolarmente al servizio divino protestante, e apparentemente adempiva a tutti gli obblighi del culto anglicano. Teneva però nascosto in casa sua un prete cattolico a rischio dei più gravi pericoli, lusin­gandosi di potersi servire del suo ministero per ricon­ciliarsi con Dio in punto di morte. Colpito però da morte improvvisa, non ebbe tempo di mandare ad effetto il voto della sua tardiva conversione; nondi­meno la divina misericordia, tenendo conto di quanto egli aveva fatto per la Chiesa perseguitata nel suo paese, gli aveva concesso la grazia della perfetta con­trizione, e quindi la salvezza eterna, condannandolo però a pagare ben cara in Purgatorio la sua colpevole negligenza.

Molti anni passarono dal giorno della sua morte, durante i quali la vedova di lui tornata a seconde nozze ebbe due figlie: una di esse, testimonio ocu­lare del fatto, racconta quanto segue: – Un giorno mia madre pregò il P. Corneille della Compagnia di Gesù, uomo di molti meriti e che più tardi morì mar­tire della fede, di celebrare la Messa pel riposo del­l’anima del suo primo marito Giovanni Sturton: accettò egli l’invito, e mentre era all’altare, fra la con­sacrazione e il memento, restò lungo tempo assorto in orazione: finita poi la Messa, fece un’esortazione, nella quale raccontò: d’avere avuto in quel tratto di tempo ia seguente visione: Stendevasi dinanzi a lui un’im­mensa foresta in fiamme, in mezzo alla quale si di­vincolava il povero barone, emettendo grida compassionevoli, piangendo ed accusandosi della vita colpevole che aveva menata nel mondo e alla corte, e dopo aver fatta la confessione dettagliata delle sue colpe l’infelice aveva terminato con quelle parole che la Scrittura pone in bocca di Giobbe: Pietà, pietà almeno voi che mi siete amici, poichè la mano del Si­gnore si è aggravata sopra di me. Il P. Corneille nel raccontare queste cose piangeva a calde lacrime, e tutta la famiglia nostra e tutti i parenti in numero di ottanta persone piangevano pure, quando scorgemmo sul muro al quale era addossato l’altare, un bagliore simile al riflesso di carboni ardenti. – Tale è il rac­conto di Lady Arundell, che ognuno può leggere nella storia d’Inghilterra del Daniel.

I peccati poi che Dio sembra punire con rigore implacabile nell’altra vita sono quelli contro la giu­stizia e contro la carità. Quanto ai primi, pare che Iddio si attenga veramente all’assioma teologico: Non remittitur peccatum nisi restituatur ablatum:. – Non si rimette il peccato, se non si restituisce la cosa rubata. –

Un ricco signore, essendo morto senza porre in ordine le sue cose, comparve dopo qualche tempo al P. Agostino d’Espinoza, della Compagnia di Gesù, la cui santa vita era tutta dedicata a suffragare le anime del Purgatorio. – Mi riconoscete? – domandò il defunto. – Senza dubbio – rispose il Padre e – ben mi ricordo di avervi amministrato il Sacramento della Penitenza pochi giorni avanti della vostra mor­te. – Proprio così continuò il defunto – e perciò ho avuto dal Cielo la grazia di venirvi a trovare e a supplicarvi di rendermi propizia la divina clemenza con le vostre preghiere, e di più a chiedervi di porre in esecuzione certe opere necessarie alla mia libera­zione dal Purgatorio. Pertanto vi prego a compia cervi di venire ora con me per un breve viaggio. – Ottenuta licenza dal Superiore del Convento e chiesto ai confratelli che pregassero per lui, il P. Agostino seguì il defunto, dal quale fu condotto sopra un ponte discosto non molto dalla città. Qui il defunto pregò il Padre di fermarsi ed attendere, chè egli sarebbe corso a prendere alcune cose necessarie e avrebbe fatto sollecitamente ritorno. Quando il defunto tornò, por­tava tra le mani una grande borsa, piena di denaro, parte del quale trasse fuori, dicendo: – Padre, pie­gate per favore una falda dei vostro mantello e rice­vete questo denaro, chè l’altro lo porterò con me fino alla vostra camera, e là ve lo consegnerò. – Giunti che furono, il morto gli consegnò il resto dei denari, e, porgendogli una carta scritta, gli disse: – Da que­sto scritto scorgerete a chi ho da restituire e quanto. Impiegherete ciò che rimane in opere di suffragio per la mia anima. – Ciò detto disparve. Il P. Agostino fece diligente ricerca dei creditori, ai quali puntual­mente, e con grande loro meraviglia soddisfece ogni debito, ricevendo essi quei denari come inviati dal cielo. Il resto del denaro poi fu applicato in celebrazioni di Messe, in elemosine e in distribuzioni ai po­veri. Passati otto giornì, ecco nuovamente comparire al P. Agostino il defunto, per ringraziarlo dell’opera prestata a suo favore e per annunziargli la sua libe­razione dalle pene del Purgatorio.

Nella vita di S. Margherita da Cortona (Bolland., 22 Febbr.) si legge di due mercanti, passati all’altra vita lasciando impegni di giustizia non soddisfatti, i quali, per grazia di Dio, comparvero alla Santa chie­dendole che avvertisse i loro parenti di soddisfare per loro, poichè altrimenti non sarebbero passati alla glo­ria degli eletti.

Quando poi la restituzione riesce assolutamente im­possibile, trova Iddio, nei segreti della sua Giustizia, i mezzi per supplirvi. “Giusto è Iddio, e giusti sono i suoi giudizi e i suoi disegni” e senza numero sono le vie attraverso alle quali salva le anime.

Un giorno in cui S. Margherita Maria Alacoque stava pregando per due personaggi molto illustri e potenti in questo mondo, le fu rivelato che uno di essi era condannato per molti anni in Purgatorio, e che tutte le preghiere e le Messe numerosissime, che si celebravano in suo suffragio, venivano applicate dalla giustizia di Dio ad alcune famiglie, che da detto personaggio erano state rovinate o danneggiate per mancanza di carità e di giustizia, e siccome a quei disgraziati non erano rimasti mezzi per far celebrare Messe dopo morte, il Signore vi suppliva in questo modo. (Vita della Santa. Lettera della M. Greyfie sua Superiora).’

Quanto alle mancanze contro la carità, Iddio usa rigore estremo sopratutto quando son commesse da anime a lui consacrate; e la ragione è chiara. Dio: è amore, come dice san Giovanni, e quindi non v’è cosa che più gli dispiaccia quanto le inimicizie, i ran­cori, le maldicenze, i giudizi temerari e tutti que’ falli contro la carità, che purtroppo si riscontrano spesso nelle persone più pie e di più esemplare con­dotta. – Nella vita della Santa Margherita si legge che due religiose, per le quali ella pregava dopo la loro morte, le furono mostrate giacenti nel carcere del Purgatorio, una di esse soffrendo pene incomparabil­mente più atroci di quelle dell’altra. Per la qual cosa ne ascriveva a colpa sopratutto quei difetti contrari alla carità reciproca e a quella santa amicizia che deve regnare nelle comunità religiose, ed alla quale avendo ella contravvenuto, erasi meritata, fra le altre puni­zioni, quella di non usufruire dei suffragi che la co­inunità faceva ed offriva a Dio per lei, ricevendo unico sollievo nei suoi mali dalle preghiere di tre o quattro persone della stessa comunità, per le quali ella vi­vendo aveva avuto meno stima ed affezione (Vita della Santa – Lettera della M. Greyfie).

Ecco dunque, secondo le più autentiche rivelazioni, i diversi castighi inflitti dalla divina Giustizia ai di­versi peccati. Domandiamoci adesso quale sarebbe il nostro posto in Purgatorio – ammesso di meritarci solo il Purgatorio – e procuriamo di non cadervi. 

PURGATORIO DI DESIDERIO

Sete di Dio

Abbiamo veduto quali sarebbero secondo le rivela­zioni di S. Maria Maddalena de’ Pazzi le suddivisioni del Purgatorio; aggiungiamo ora dei particolari, che apprendiamo da una celebre visione di S. Francesca Romana (Bolland. Vita S. Franciscae, 9 Martii). Se­condo questa Santa dunque il Purgatorio risulta di tre parti distinte: nella regione superiore stanno le anime che soffrono la sola pena del danno o al più qualche pena mite e di poca durata; nella regione media, ove la Santa vide scritto la parola Purgatorio, soffrono le anime che commisero colpe leggere; final­mente in fondo all’abisso e precisamente in vicinanza dell’Inferno v’è la terza regione, ossia il Purgatorio inferiore, tutto ripieno di un fuoco chiaro e penetran­te, diverso da duello dell’Inferno, che è oscuro e te­nebroso. Questa terza regione si divide a sua volta in tre scompartimenti, ove le pene vanno gradata­mente aumentando, e sono riservati ai secolari il primo, ai chierici non ordinati in sacris il secondo, e il terzo ai sacerdoti e ai vescovi: Citi multum datum est, multum quaeretur ab eo (Luc., 12-48).

Che vi sia un Purgatorio superiore in cui le anime non soggiacciono a pene sensibili è confermato da molte rivelazioni anche dai Santi. Fu la Vergine SS. a rivelare a S. Brigida che esiste un Purgatorio spi­rituale, detto Purgatorio di desiderio, nel quale son trattenute alcune anime, che sebbene immuni da ogni peccato, nel tempo però della loro vita mortale non hanno sospirato abbastanza verso il loro Creatore. Altrettanto leggiamo presso altri Santi.

Nella vita di S. Maria Maddalena de’ Pazzi si legge che una delle sue consorelle per nome Maria Benedet­ta Vittoria, religiosa di molte virtù, che le morì tra le braccia, mentre era in agonia fu vista dalla Serva di Dio aspettata da una moltitudine di angeli di aspet­to ilare e sereno che dovevano condurla nella celeste Gerusalemme, e nel momento poi in cui spirò vide quell’anima eletta sotto forma di colomba dalla testa dorata volare fra quegli spiriti celesti e quindi spa­rire. Tre ore dopo vegliando vicino al cadavere in compagnia d’un’altra suora per nome Pacifica di To­vaglia, questa interruppe le preghiere per domandare alla Santa dove si trovasse in quel momento la loro consorella, se in Paradiso o in Purgatorio. Nè in questo nè in quello, rispose la Santa. La suora stupì a tal risposta, e quasi se ne scandalizzò, ma poco dopo recitando con Maddalena l’Ufficio de’ morti, essen­dole accaduto alla fine di un salmo di recitare il Glo­ria Patri invece del Requiem, ed avendo voluto riprendersi, la Santa le disse che bene avea detto, poi­ché non occorreva più implorare per quell’anima l’e­terno riposo. Suor Pacifica quantunque non arrivasse a comprendere il senso di quest’assicurazione, non osò interrompere la compagna. – La mattina del giorno dopo celebrandosi la Messa per la defunta, nel momento del Sanctus Maddalena fu rapita in estasi, nel­la quale il Signore le fece vedere quell’anima benedetta in mezzo alla gloria eterna. La sua fronte aveva una stella d’oro, segno di ricompensa alla sua ar­dente carità; le sue dita erano cariche di anelli pre­ziosi, e la corona che portava sul capo era pìù ricca di quella di un’altra religiosa di gran perfezione, morta poco tempo prima. Questa differenza proveniva dal gran desiderio di soffrire per Iddio, che Maria Bene­detta avea avuto in vita.

Di più per la gran carità con cui avea sempre trattato il prossimo e le sue conso­relle godeva in cielo del singolar favore di accostare la sua bocca a quella del divin Salvatore e di berne a lunghi sorsi una bevanda deliziosissima. Il che ve­dendo, Maddalena si pose a felicitarla della sua sorte; indi chiese al Signore perchò appena morta invece di ammetterla immediatamente alla sua divina pre­senza, l’avesse trattenuta (com’era accaduto difatti) per cìnque ore non in Purgatorio, ma in un luogo par­ticolare, dove pur non soffrendo alcuna pena sensi­bile, era rimasta priva della vista di lui. I1 Signore le rispose che questa suora nella sua ultima malattia essendosi troppo compiaciuta delle premure e dei di­sturbi che si davano le consorelle nell’assisterla, aveva per qualche tempo interrotto quell’unione abituale e perfetta che aveva con Dio, e per ciò era stata in tal maniera punita.

La stessa Santa vide un’altra volta una religiosa della sua comunità, morta di recente, brillare di cele­ste chiarezza in tutto il corpo, fuori che nelle mani, a cagione di certe imperfezioni da lei avute contraria­mente al voto di povertà. Ma dopo pochi istanti le mani pure le s’irradiarono, ed entrò in pieno pos­sesso della gloria eterna.

Il P. Francesco Gonzaga, francescano e poi vesco­vo di Mantova, racconta un fatto consimile nel suo libro sull’origine della religione Serafica (Parte IV, N. VII).

Frà Giovanni de Via, religioso di molte virtù, cad­de malato e morì in un convento delle isole Canarie. Il suo infermiere, che si chiamava frate Ascerisio, anch’egli molto avanzato nella perfezione, stava un giorno pregando pel riposo di quell’anima, quando all’improvviso si vide comparire davanti un religioso del suo Ordine, circondato da raggi luminosi, che riempirono la cella di una dolce chiarezza; il frate fuori di sè dalla gioia non lo riconobbe in quel mo­mento, e non osò domandargli il nome; ma essendogli riapparso una seconda e poi una terza volta, fat­tosi finalmente coraggio, gli chiese, in nome di Dio, chi fosse e perché venisse. Io sono, rispose allora il defunto, l’anima di fra Giovanni de Via, e vengo a ringraziarti sinceramente per le preghiere che innalzi al Signore in mio suffragio e ad annunziarti che, gra­zie alla misericordia divina, io mi trovo in luogo di salvazione, fra i predestinati alla gloria; del che ti siano prova questi raggi che partono dal mio corpo. Tuttavia siccome non sono stato ancora giudicato de­gno di contemplare faccia a faccia il mio Dio, per­ché durante la mia vita dimenticai colpevolmente di recitare alcuni Uffici pei defunti, a’ quali io era tenuto in forza della regola, ti scongiuro in nome dell’ami­cizia che mi hai sempre portato, anzi in nome dell’a­more che nutri per Gesù, di fare in modo che questi Uffici siano recitati in mia vece colla maggior solle­citudine, affinchè io possa quanto prima godere la vista del mio Signore. Frà Ascensio corse a raccon­tare l’accaduto al Guardiano, il quale ordinò che fos­sero immediatamente recitati gli Uffici. Ciò fatto, com­parve di nuovo l’anima di frà Giovanni, circondata di luce assai pù brillante, annunziando di essere en­trata in possesso della completa felicità.

S. Geltrude nelle sue rivelazioni racconta che una pia religiosa, morta nel fior dell’età e nel bacio del Signore dopo una vita passata in continua adorazione verso il SS. Sacramento, le apparve appena morta tutta sfolgorante di luce celeste, inginocchiata davanti al divino Maestro, che faceva partire dalle sue piaghe gloriose cinque raggi infiammati, che andavano a toc­car dolcemente i cinque sensi della pia suora. Ciononostante, sembrando la fronte di questa come offusca­ta da una nube di tristezza profonda, S. Geltrude, piena di meraviglia, domandò al Signore come mai, mentre egli favoriva la sua serva in modo tanto spe­ciale, questa sembrava che non godesse di una gioia perfetta. – Fino ad ora, rispose Gesù, quest’anima fu giudicata degna di contemplar solamente la mia Umanità glorificata e le mie cinque piaghe in conside­razione della sua devozione verso il Mistero Eucari­stico, ma non può essere ammessa alla visione beatifi­ca a cagione di alcune macchie leggerissime da lei contratte nella pratica della regola. – E poichè la Santa intercedeva per lei, nostro Signore le fece conoscere che senza numerosi suffragi quell’anima non avrebbe potuto così presto terminar la sua pena, esi­gendo così la giustizia divina; il che era tanto ben compreso dalla defunta, che fece segno a Geltrude di non voler essere liberata prima di aver soddisfatto in­teramente al suo debito; per la qual cosa il Signore, in segno di particolare benevolenza, le stese la mano sul capo e la benedisse.

Finiremo col raccontare la storia di un’anima, che dovette lungamente aspettare il giorno in cui finisse per lei la dura prova della privazione di Dio, e la citeremo per disteso affin di far conoscere i sentimenti interni dai quali sono animate quelle infelici. Possa­no i loro ardori di carità riscaldare il nostro cuore di ghiaccio, che nel tempo di questo misero esilio non sa comprendere che cosa sia aver fame e sete insa­ziabile di Dio.

Il giorno di tutti i Santi una giovane di rara pietà e modestia vide comparirsi dinanzi l’anima d’una dama di sua conoscenza, morta poco tempo prima, la quale le fece conoscere com’ella soffrisse bensì la sola pena della privazione di Dio, ma che questa pri­vazione era per lei così intensa, che le procurava un tormento intollerabile. In tale stato le si fece vedere più volte e quasi sempre in chiesa, poichè non potendo contemplar Dio faccia a faccia nel cielo, cer­cava di trovar compenso contemplandolo almeno sotto le specie eucaristiche. Sarebbe impossibile riferire a parole con che slancio di adorazione e con che umile rispetto rimanesse quell’anima davanti alla sacra Ostia. Quando assisteva al divin Sacrificio, nel momen­to dell’elevazione il suo volto si illuminava in tal mo­do, che si sarebbe detta un serafino; del che stupita la giovinetta, dichiarava di non aver mai visto spetta­colo più bello. Ogni volta che questa si comunicava, l’anima della matrona l’accompagnava alla sacra mensa e rimaneva poi accanto a lei per tutto il tempo del ringraziamento, quasi volesse partecipare alla sua felicità e godere anch’essa della presenza di Gesù. Le compariva ordinariamente vestita di bianco e con un lungo rosario in mano, in segno della sua divozione verso la Regina del cielo. Un giorno la pia fanciulla insieme con altre compagne, dopo aver decorato pia­mente l’altare della Vergine, s’inginocchiò con loro e propose che baciando i piedi della statua, tutte l’abbracciassero due volte, una per loro stesse, l’altra per­la defunta amica. Il che fatto, ecco venir questa tutta ilare e festosa à ringraziarla con indicibile affetto: che anzi in quel giorno le confidò come avendo una volta fatto voto di far celebrare tre Messe all’altare della SS.. Vergine e non avendo poi potuto adempierlo, questo debito sacro non soddisfatto aumentava la sua pena, e poichcè la pregò di adempierlo in vece sua, – cosa che la fanciulla fece subito – le apparve di nuovo tutta giuliva per ringraziarla, e in ricom­pensa della sua carità la consigliò a non far voti giammai, senza essere decisa a compierli all’istante, poichè la giustizia di Dio su questo punto è inesora­bile. – L’esortava poi sempre ad una tenera divozio­ne verso la Vergine, e specialmente al ricordo dei do­lori da lei sofferti sul Calvario, e le inculcava di sa­lutarne l’effigie colle tre invocazoni delle Litanie, Mater admirabilis, Consotairix af fictorum, Regina Sanctorum omnium; e diceva che più vivo è il no­stro amore in vita verso questa buona Madre, e più efficace sarà la sua assistenza nel finale giudizio. – La consigliava pure ad una gran carità e compas­sione verso le povere anime del Purgatorio, per le quali voleva che offrisse tutte le sue preghiere, pe­nitenze e buone opere.

– Un giorno in cui la pia giovinetta, docile a’ suoi consigli, recitava colle brac­cia aperte cinque Pater ed Ave pei defunti, quell’a­nima accorse a sostenerle le braccia già stanche e ad aiutarla nella sua preghiera. – Un altro giorno men­tre in chiesa le parlava, avendo inteso suonare il campanello dell’elevazione, corse tosto all’altare dove si celebrava il divin Sacrificio, e colla faccia a terra si pose ad adorare nostro Signore con profondo ri­spetto. Ogni volta che avesse pronunziato o inteso pronunziare i santi nomi di Gesù e di Maria, ella chinava il capo con angelico raccoglimento. – Pas­savano però in tal modo giorni e mesi, e malgrado i suoi ardenti desiderii e le preghiere dell’amica, quell’anima santa non veniva ammessa ancora alla contemplazione immediata di Dio. Finalmente il tre dicembre, festa di S. Francesco Saverio, la giovinetta dovendo andare a comunicarsi nella chiesa dei Padri Gesuiti, invitò la defunta a seguirla e questa, fedele all’invito, l’accompagnò alla sacra mensa e rimase vi­cino a lei per tutto il tempo del ringraziamento che fu molto lungo, dopo del quale affettuosamente rin­graziandola, le annunziò che la sua prova era finita. L’otto dicembre, festa dell’Immacolata Concezione, le riapparve un’altra volta, ma sfolgorante già di tal luce che l’amica non poteva fissare su di lei lo sguar­do. Finalmente il 10 dicembre, mentre si celebrava la santa Messa, la vide, fra splendori assai più intensi e sublimi, avvicinarsi all’altare genuflettendo, e dopo averla ringraziata un’ultima volta delle preghiere da lei fatte, salire al cielo in compagnia del suo Angelo custode.

È dunque provata dalle rivelazioni dei Santi e da­gli esempi riferiti l’esistenza di un Purgatorio supe­riore, o, se vogliamo, di un luogo intermedio fra il Paradiso e il Purgatorio propriamente detto, dove le anime compiono la loro purificazione immuni da tor­menti, ma accese dal desiderio di raggiungere Dio.

Sembra inoltre confermato come le anime purganti passino dalle regioni inferiori alle superiori man ma­no che va compiendosi la loro purificazione. E’ celebre a questo proposito. l’interessantissima apparizione av­venuta dal settembre al dicembre 1871 nel monastero delle Redentoriste a Malines nel Belgio.

Il padre di una religiosa di quel convento, certa suor Maria Serafina, al secolo Angela Aubepin, es­sendo passato di questa vita, apparve per lo spazio di tre mesi consecutivi alla figlia per chiederle suf­fragi. Durante il primo mese, le compariva tutto circondatto di fiamme, gridando: – Pietà, figlia mia, abbi pietà di tuo padre! – Guarda, le disse un gior­no, questa cisterna di fuoco in cui sono immerso! Siamo qui a soffrire in parecchie centinaia! Oh! se si conoscesse che cosa sia il Purgatorio, si farebbe di tutto per evitarlo e per soccorrere le povere anime che vi son racchiuse. – Spesso poi in mezzo alle fiam­me da cui era ravvolto, gridava: – Ho sete, ho sete! – Dal 14 ottobre in poi il povero defunto, quantun­que tormentato sempre da atroci patimenti, parve che non fosse più circondato da fiamme; senza dubbio egli era passato nella regione media del Purgatorio. Durante questo periodo disse un giorno alla figlia che i teologi non esagerano affatto, insegnando che i tormenti patiti dai martiri sono inferiori a quelli delle anime del Purgatorio; e avendogli nella vigilia d’O­gnissanti domandato la religiosa, dietro comando del confessore, su quale argomento sarebbe stato meglio che questi avesse predicato nel giorno della festa se­guente, rispose: – Ahimè! gli uomini non sanno o non credono abbastanza che il fuoco del Purgatorio è simile a quello dell’Inferno; se potesse ogni mor­tale fare una visita sola in quel carcere, non si com­metterebbe più un sol peccato veniale, tanto è punito rigorosamente!

– Il giorno 30 novembre la religiosa intese che il padre con un doloroso sospiro pronun­ziava queste parole: – Mi pare un’eternità che son qui, la mia pena più grande in questo momento è una sete di Dio che mi divora e un desiderio irrefre­nabile di possederlo; ed ogni volta che mi slancio verso di lui mi sento sempre respinto nell’abisso, poichè la mia pena non è ancora compiuta. – Dal che è da dedurre che fosse già passato nel Purgatorio superiore; tanto più che il 5 dicembre si manifestò tutto splendido attraverso un’aureola di tristezza. Dal 5 al 12 dicembre non apparve più, ma dal 12 al 15 si mo­strò sempre più splendente. Finalmente durante la Messa della mezzanotte e precisamente nell’intermez­zo dell’elevazíone, apparve il defunto per l’ultima volta, circondato di luce e di beatitudine, dicendo a sua figlia: – Il tempo dell’espiazione è compiuto, ed io vengo a ringraziare te e l’intera comunità delle preghiere e dei suffragi fatti per l’anima mia. Pre­gherò in cielo per tutte voi, e per te, mia cara figlia, impetrerò una sottomissione perfetta alla divina vo­lontà e la grazia di entrare in cielo senza passare per le pene del Purgatorio. – Queste furono le sue ulti­me parole; la religiosa potè appena vedere il volto del padre suo, tanto era immerso nella divina luce.