Sant’Alfonso Maria de Liguori: “L’impudicizia (atto impuro) è un vizio, dice s. Agostino, che fa guerra a tutti” “Chi dunque vuol salvarsi, non solo deve lasciare il peccato, ma anche l’occasione di peccare” “Se vogliamo che Gesù Cristo abiti in noi bisogna che teniamo chiuse le porte de’ nostri sensi alle male occasioni; altrimenti il demonio ci renderà suoi schiavi”

Sant’Alfonso Maria de Liguori, dottore della Chiesa

SERMONE XXII. – PER LA DOMENICA II. DOPO PASQUA

 

Del fuggire le male occasioni.

Cum fores essent clausae, ubi erant discipuli congregati, venit Iesus, et stetit in medio eorum. (Ioan. 20. 19.)

Abbiamo nel presente vangelo, che ritrovandosi gli apostoli congregati in una casa, entrò ivi Gesù Cristo già risorto, benché le porte erano chiuse, e si pose in mezzo di loro: Cum fores essent clausae, venit Iesus et stetit in medio eorum. Scrive s. Tommaso l’angelico su questo fatto, che il Signore, misticamente parlando, volle con ciò farci intendere ch’egli non entra nelle anime nostre, se non quando esse tengono chiuse le porte de’ sensi: Mystice per hoc datur intelligi, quod Christus nobis apparet, quando fores, idest sensus sunt clausi. Se dunque vogliamo che Gesù Cristo abiti in noi bisogna che teniamo chiuse le porte de’ nostri sensi alle male occasioni; altrimenti il demonio ci renderà suoi schiavi. E ciò voglio oggi dimostrarvi, il gran pericolo in cui si mette di perdere Dio chi non fugge le male occasioni.

Abbiamo nelle sacre Scritture, che risorse Cristo e risorse Lazaro; Cristo però risorse, e non tornò a morire, come scrisse l’apostolo: Christus resurgens ex mortuis, iam non moritur1. Lazaro all’incontro risorse e tornò a morire. Riflette Guerrico abate che Cristo risorse sciolto, ma Lazaro risorse ligatus manibus et pedibus2. Povero, soggiunge poi quest’autore, chi risorge dal peccato, ma legato da qualche occasione cattiva, questi tornerà a morire per perdere la divina grazia. Chi dunque vuol salvarsi, non solo dee lasciare il peccato, ma anche l’occasione di peccare, cioè quella corrispondenza, quella casa, quei cattivi compagni e simili occasioni che incitano al peccato.

Per il peccato originale si è intromessa in tutti noi la mala inclinazione a peccare, cioè a fare quel che ci vien proibito; onde si lamentava s. Paolo, che provava in se stesso una legge contraria alla ragione: Video autem aliam legem in membris meis, repugnantem legi mentis meae, et captivantem me in lege peccati3. Quando poi vi è l’occasione presente, ella sveglia con gran violenza l’appetito malvagio, al quale allora è molto difficile il resistere; poiché Dio nega gli aiuti efficaci a chi volontariamente si espone all’occasione: Qui amat periculum, in illo peribit4. Spiega s. Tommaso l’angelico: Cum exponimus nos periculo, Deus nos derelinquit in illo. Chi non fugge il pericolo, resta dal Signore in quello abbandonato. Dice pertanto s. Bernardino da Siena, che il migliore di tutti i consigli, anzi quasi il fondamento della religione, è il consiglio di fuggire le occasioni di peccare: Inter consilia Christi, unum celeberrimum, et quasi religionis fundamentum est, fugere peccatorum occasiones.

Scrive s. Pietro che il demonio circuit quaerens quem devoret5. Il nemico gira sempre d’intorno ad ogni anima per entrarvi a pigliarne il possesso; e perciò va trovando di mettere avanti l’occasione del peccato, per cui il demonio entra nell’anima: Explorat, dice s. Cipriano, an sit pars cuius aditu penetret. Quando l’anima lasciasi indurre ad esporsi nell’occasione, il demonio facilmente entrerà in essa e la divorerà. Questa fu la causa della rovina dei nostri primi progenitori, il non fuggire l’occasione. Iddio avea lor proibito non solo di mangiare il pomo vietato, ma anche il toccarlo; così rispose la stessa Eva al serpente che la tentava a cibarsene: Praecepit nobis Deus ne comederemus et ne tangeremus illud6. Ma l’infelice vidit, tulit, comedit: prima cominciò a guardar quel frutto, poi lo prese in mano e poi lo mangiò. E ciò accade ordinariamente a tutti coloro che volontariamente si mettono all’occasione. Quindi il demonio costretto una volta dagli esorcismi a dire qual predica fra tutte fosse quella che più gli dispiacesse, confessò esser la predica di fuggir l’occasione; e con ragione, mentre il nemico si ride di tutti i nostri propositi e promesse fatte a Dio; la maggior sua cura è d’indurci a non fuggir l’occasione; perché l’occasione è come una benda che ci si mette davanti gli occhi, e non ci lascia più vedere né lumi ricevuti, né verità eterne, né propositi fatti; insomma ci fa scordare di tutto, e quasi ci sforza a peccare.

Scito quoniam in medio laqueorum ingredieris1. Chi nasce nel mondo, entra in mezzo ai lacci. Onde avverte il Savio che chi vuole essere sicuro da questi lacci, bisogna che se ne guardi e se ne allontani: Qui cavet laqueos securus erit2. Ma se invece di allontanarsi dai lacci taluno a quelli si accosta, come potrà restarne libero? Perciò Davide, dopo che con tanto suo danno avea imparato il pericolo che reca l’esporsi alle cattive occasioni, dice che per conservarsi fedele a Dio, si avea proibito di accostarsi ad ogni occasione che potea condurlo a ricadere: Ab omni via mala prohibui pedes meos, ut custodiam mandata tua3. Non solo dice da ogni peccato, ma da ogni via mala che conduce al peccato. Non manca al demonio di trovar pretesti per farci credere che quell’occasione, alla quale ci esponiamo, non sia volontaria, ma necessaria. Quando l’occasione è veramente necessaria, il Signore non lascerà di darci il suo aiuto a non cadere, se non la fuggiamo, ma alle volte noi ci fingiamo certe necessità, che siano tali che bastino a scusarci. Scrive s. Cipriano: Nunquam securus cum thesauro latro tenetur inclusus, nec inter unam caveam habitans cum lupo tutus est agnus4. Parla s. Cipriano contro coloro che non vogliono levar l’occasione, e poi dicono: Non ho paura di cadere. Non mai, dice il santo, può tenersi sicuro alcuno del suo tesoro, se insieme col tesoro seco si tiene chiuso il ladro, né l’agnello può star sicuro della sua vita, se vuole stare dentro la caverna insieme col lupo; e così niuno può star sicuro di conservar il tesoro della grazia se vuol rimanere nell’occasione del peccato. Dice s. Giacomo che ogni uomo ha dentro di sé un gran nemico, cioè la mala inclinazione che lo tenta a peccare: Unusquisque tentatur a concupiscentia sua abstractus et illectus5. Or se poi non fugge da quelle occasioni che lo tentano di fuori, come potrà resistere e non cadere? Perciò mettiamoci avanti gli occhi quell’avvertimento generale che ci diede Gesù Cristo per vincere tutte le tentazioni e salvarci: Si oculos tuus dexter scandalizat te, erue eum et proiice abs te6. Se vedi che l’occhio tuo destro è causa di dannarti, bisogna che lo svelli e lo gitti da te lontano: proiice abs te: viene a dire che dove si tratta di perder l’anima, bisogna fuggire ogni occasione. Dicea s. Francesco d’Assisi, come io riferii in un altro sermone, che il demonio a certe anime che hanno timore di Dio, non cerca da principio di legarle colla fune di un peccato mortale, perché quelle spaventate dalla vista di un peccato mortale, fuggirebbero e non si farebbero legare; per tanto procura l’astuto di legarle con un capello, che non mette gran timore; perché così poi gli riuscirà più facile di accrescere i legami, finché le renda sue schiave. Onde chi vuol essere libero da tal pericolo, dee spezzare da principio tutti i capelli, cioè tutte le occasioni, quei saluti, quei biglietti, quei regalucci, quelle parole affettuose. E parlando specialmente di chi ha avuto l’abito all’impudicizia, non gli basterà il fuggire le occasioni prossime; se non fugge anche le rimote, facilmente di nuovo tornerà a cadere.

L’impudicizia (atto impuro) è un vizio, dice s. Agostino, che fa guerra a tutti, e rari son quelli che ne escono vincitori: Communis pugna et rara victoria. Quanti miseri che han voluto porsi a combattere con questo vizio, ne sono restati vinti? Ma no, dice il demonio ad alcuno, per indurlo ad esporsi all’occasione, non dubitare che non ti farai vincere dalla tentazione: Nolo, risponde s. Girolamo, pugnare spe victoriae, ne perdam aliquando victoriam. No, non voglio pormi a combattere colla speranza di vincere, perché ponendomi volontariamente a combattere, un giorno resterò perditore, e perderò l’anima e Dio. In questa materia vi bisogna un grande aiuto di Dio per non restar vinto, e perciò dalla parte nostra, per renderci degni di questo aiuto divino, è necessario fuggir l’occasione; e bisogna continuamente raccomandarsi a Dio per osservar la continenza, noi non abbiamo forza di conservarla. Iddio ce l’ha da concedere: Et ut scivi, diceva il Savio, quoniam aliter non possem esse continens, nisi Deus det… adii Dominum, et deprecatus sum illum1. Ma se ci esporremo all’occasione, come dice l’apostolo, noi stessi provvederemo di armi la nostra carne ribelle a far guerra all’anima: Sed neque exhibeatis membra vestra arma iniquitatis peccato2. Spiega in questo passo s. Cirillo Alessandrino, e dice: Tu das stimulum carni tuae, tu illam adversus spiritum armas et potentem facis. In questa guerra del vizio disonesto, dicea san Filippo Neri, che vincono i poltroni, cioè quei che fuggono l’occasione; all’incontro chi si mette all’occasione, arma la sua carne e la rende così potente, che sarà moralmente impossibile il resistere.

Dice Iddio ad Isaia: Clama: Omnis caro foenum3. Or se ogni uomo è fieno, dice s. Gio. Grisostomo, che il voler mantenersi puro l’uomo, quando volontariamente si mette nell’occasione di peccare, è lo stesso che pretendere di mettere la fiaccola nel fieno, senza che il fieno si bruci: Lucernam in foenum pone, ac tum aude negare, quod foenum exuratur. No, scrive s. Cipriano, non è possibile stare in mezzo alle fiamme e non ardere: Impossibile est flammis circumdari et non ardere4. E lo stesso disse prima lo Spirito santo, dicendo essere impossibile il camminar sulle brace e non bruciarsi i piedi: Numquid potest homo ambulare super prunas, ut non comburantur plantae eius5? Il non bruciarsi sarebbe un miracolo; scrive s. Bernardo che il conservarsi casto uno che si espone all’occasione prossima, sarebbe maggior miracolo che risuscitare un morto: Maius miraculum est, quam mortuum suscitare, son le parole del santo.

Dice s. Agostino1: In periculo qui non vult fugere vult perire. Onde poi scrive in altro luogo, che chi vuol vincere e non perire dee fuggir l’occasione: In occasione peccandi apprehende fugam, si vis invenire victoriam2. Taluni scioccamente si fidano della loro fortezza, e non vedono che la loro fortezza è simile alla fortezza della stoppa che è posta sulla fiamma: Et erit fortitudo vestra, ut favilla stuppae3. Si lusingano altri sulla mutazione di vita che han fatta, sulle confessioni e promesse fatte a Dio, dicendo: per grazia del Signore con quella persona ora non ci ho più fine cattivo, non ci ho neppure più tentazioni. Sentite, voi che parlate così: nella Mauritania dicesi che vi sono certe orse le quali vanno a caccia delle scimie; le scimie, quando vedono le orse, salgono sugli alberi, e così da loro si salvano; ma l’orsa che fa? Si stende sul terreno e si finge morta, ed aspetta che le scimie scendano dall’albero; allorché poi le vede scese, si alza, le afferra e le divora. Così fa il demonio, fa vedere che la tentazione è morta; ma quando poi l’uomo è sceso a mettersi nell’occasione, fa sorgere la tentazione e lo divora. Oh quante miserabili anime, anche applicate allo spirito, e che faceano orazione mentale, si comunicavano spesso, e menavano vita santa, con mettersi poi all’occasione, sono rimaste schiave del demonio! Si riferisce nelle storie ecclesiastiche, che una santa donna la quale praticava l’officio pietoso di seppellire i martiri, una volta fra quelli ne trovò uno il quale non era ancora spirato, ella condusselo in sua casa, e con medici e rimedii lo guarì; ma che avvenne? Questi due santi (come poteano chiamarsi, l’uno che già era stato vicino a morire per la fede, l’altra che facea quell’officio con tanto rischio di essere perseguitata da’ tiranni) prima caddero in peccato e perderono la grazia di Dio, e poi, fatti più deboli per il peccato, rinnegarono anche la fede. Di ciò narra s. Macario un fatto simile di un vecchio che era stato mezzo bruciato dal tiranno per non voler rinnegare la fede; ma ritornato alla carcere, per sua disgrazia prese confidenza con una donna divota che serviva que’ martiri e cadde in peccato.

Avverte lo Spirito santo che bisogna fuggire il peccato, come si fugge dalla faccia del serpente: Quasi a facie colubri fuge peccatum4. Onde siccome si fugge non solo il morso del serpe, ma anche il toccarlo, ed anche l’accostarsegli vicino; così bisogna fuggire non solo il peccato, ma l’occasione del peccato, cioè quella casa, quella conversazione, quella persona. S. Isidoro dice che chi vuole star vicino al serpente, non passerà gran tempo e ne resterà offeso: Iuxta serpentem positus non erit diu illaesus5. Onde dice il Savio che se qualche persona facilmente può esserti di rovina, Longe fac ab ea viam tuam, et ne appropinques foribus domus eius6. Non solo dice, astienti di più accostarti a quella casa, la quale è fatta via dell’inferno per te (Via inferi domus eius1); ma procura di non accostarti neppur vicino a quella, passane da lontano: Longe fac ab ea viam tuam. Ma io con lasciar quella casa perderò gl’interessi miei. È meglio perdere gl’interessi, che perdere l’anima e Dio. Bisogna persuadersi che in questa materia della pudicizia non vi è cautela che basti. Se vogliamo salvarci dal peccato e dall’inferno, bisogna che sempre temiamo e tremiamo, come ci esorta san Paolo: Cum metu et tremore vestram salutem operamini2. Chi non trema e si arrischia a porsi nelle occasioni cattive, difficilmente si salverà. E perciò fra le nostre preghiere dobbiamo replicare ogni giorno e più volte nel giorno quella preghiera del Pater noster: Et ne nos inducas in tentationem: Signore, non permettete che io mi trovi in quelle tentazioni che abbiano a farmi perdere la grazia vostra. La grazia della perseveranza da noi non può meritarsi, ma Dio certamente la concede, come dice s. Agostino, a chi la cerca, mentre ha promesso di esaudir chi lo prega; onde dice lo stesso santo che il Signore promittendo, debitorem se fecit.

 

(Sant’Alfonso Maria de Liguori)

1 Rom. 6. 9.

2 Matth. 22. 13.

3 Rom. 7. 23.

4 Eccl. 3. 27.

5 1. Petr. 5. 8.

6 Gen. 3. 3.

1 Eccl. 9. 20.

2 Prov. 11. 15

3 Psal. 118. 101.

4 L. de Sing. Cler.

5 Iac. 1. 14.

6 Matth. 5. 29.

1 Sap. 8. 21.

2 Rom. 6. 13.

3 Isa. 40. 6.

4 De Sing. Cler.

5 Prov. 6. 27. 28.

1 In psal. 5.

2 Serm. 250. de temp.

3 Isa. 1. 31.

4 Eccl. 21. 2.

5 Lib. 2. solit.

6 Prov. 5. 8.

1 Prov. 7. 27.

2 Phil. 2. 12.

Sant’Alfonso Maria de Liguori: “Dice lo Spirito santo che non è salvo chi comincia a viver bene, ma chi persevera nel ben vivere sino alla morte” “Colla confessione fatta l’anima tua è sanata; è sanata ma non è ancora salva, perché se torni a peccare, la tornerai a perdere, e il danno della ricaduta sarà molto peggiore delle tue prime cadute”

Sant’Alfonso Maria de Liguori, dottore della Chiesa

SERMONE XXI. – PER LA DOMENICA DI PASQUA

 

Dello stato miserabile dei recidivi.

Nolite expavescere: Iesum quaeritis Nazarenum, crucifixum: surrexit, non est hic. (Marc. 16. 6.)

Spero, cristiani miei, che siccome è risorto Cristo, così anche tutti voi in questa santa Pasqua vi siate confessati e siate risorti. Ma avvertite quel che dice s. Girolamo, che molti cominciano bene, ma pochi son quelli che perseverano: Incipere multorum est, perseverare paucorum. All’incontro dice lo Spirito santo che non è salvo chi comincia a viver bene, ma chi persevera nel ben vivere sino alla morte: Qui autem perseveraverit usque in finem, hic salvus erit. La corona del paradiso, dice s. Bernardo, è sol promessa a coloro che cominciano, ma non è data poi, se non a coloro che perseverano: Inchoantibus praemium promittitur, perseverantibus datur3. Giacché dunque, fratello mio, hai risoluto di darti a Dio, senti quel che ti dice lo Spirito santo: Fili, accedens ad servitutem Dei, praepara animam tuam ad tentationem4. Non credere che sieno finite per te le tentazioni. Ora apparecchiati a combattere, e guardati di ricadere nei peccati che ti hai confessati, perché se torni a perdere la grazia di Dio, sarà difficile che la ricuperi. E questo è quello che voglio dimostrarti in questo giorno, lo stato miserabile de’ recidivi, cioè di coloro che miseramente dopo la confessione ricadono negli stessi peccati di prima.

Giacché dunque ti sei confessato, cristiano mio, Gesù Cristo ti dice quel che disse al paralitico: Ecce sanus factus es: iam noli peccare, ne deterius tibi aliquid contingat1. Colla confessione fatta già l’anima tua è sanata; è sanata ma non è ancora salva, perché se torni a peccare, la tornerai a perdere, e il danno della ricaduta sarà molto peggiore delle tue prime cadute: Audis, dice s. Bernardo, recidere, quam incidere, esse deterius. Chi patisce un’infermità mortale, e da quella guarisce, se poi ricade nello stesso male perderà talmente le forze naturali, che gli sarà impossibile il ristabilirsi. Ciò appunto accade a’ recidivi nel peccato, ritornando essi al vomito, cioè ripigliando i peccati vomitati nella confessione, resteranno così deboli, che diventeranno trastulli del demonio. Dice s. Anselmo che il nemico sopra de’ recidivi acquista un certo dominio, che li fa cadere e ricadere, come vuole, onde i miseri diventano simili a quegli uccelli, che servono di giuoco ai fanciulli, i quali permettono loro che si alzino di quando in quando da terra, ma perché li tengono legati, tornano a farli cadere quando vogliono. Così fa il demonio coi recidivi: Sed quia ab hoste tenentur, volantes in eadem vitia deiiciuntur.

Scrive s. Paolo che noi abbiamo a combattere, non già contro gli uomini come noi di carne e sangue, ma contro i principi dell’inferno: Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates2. E con ciò vuole avvertirci che noi non abbiamo forze di resistere alle potenze infernali; per resistere ci è assolutamente necessario l’aiuto divino, altrimenti resteremo sempre vinti. All’incontro, quando Iddio ci aiuta potremo tutto e vinceremo, dicendo col medesimo apostolo: Omnia possum in eo qui me confortat3. Ma questo aiuto Iddio non lo concede, se non a coloro che l’impetrano coll’orazione: Petite ed dabitur vobis, quaerite et invenietis4. E chi non lo domanda non l’ottiene. Per tanto non ci fidiamo de’ nostri propositi: se mettiamo in questi la nostra confidenza, resteremo perduti; quando siamo tentati a ricadere, tutta la nostra confidenza dobbiamo riporla nel soccorso di Dio il quale certamente esaudisce chi lo prega.

Qui existimat stare, videat ne cadat5. Chi si ritrova in grazia di Dio, come dice qui s. Paolo, dee stare attento a non cadere in peccato: specialmente se prima è caduto in altri peccati mortali, poiché la ricaduta di colui che prima è stato peccatore, porta seco una maggior ruina: Et fiunt novissima hominis illius peiora prioribus6.

Dicesi nella scrittura che il nemico, sacrificabit (totum) reti tuo… et cibus eius electus7. Spiega s. Girolamo che il demonio cerca di prendere nella sua rete tutti gli uomini per sacrificarli alla divina giustizia colla loro dannazione; e però a quei peccatori che sono già nella sua rete, procura di aggiugnere nuove catene con tentarli a nuovi peccati; ma cibus eius electus, il cibo più gustoso al nemico sono quelli che si ritrovano amici di Dio; a costoro tende insidie più forti per renderli suoi schiavi, e far loro perdere tutto il bene che hanno acquistato. Scrive Dionisio Cartusiano: Quanto quis fortius nititur Deo servire, tanto acrius contra eum saevit adversarius. Quanto più taluno si unisce con Dio e si sforza di servirlo, tanto più il nemico si arma di rabbia, e cerca di rientrare nella di lui anima, ond’è stato discacciato; e dice, come si legge in s. Luca: Cum immundus spiritus exierit de homine, quaerens requiem: et non inveniens dicit: Revertar in domum meam unde exivi1. E se gli riesce di rientrarvi, non v’entra solo, ma porta compagni, per maggiormente fortificarsi in quell’anima riacquistata, e così la seconda rovina di quella misera sarà più grande della prima: Tunc vadit, et assumit septem alios spiritus nequiores se, et ingressi habitant ibi, et fiunt novissima peiora prioribus2.

All’incontro molto dispiace a Dio la ricaduta d’un ingrato, che con tanto amore è stato da lui chiamato e perdonato, vedendo che scordato delle misericordie che gli ha usate, di nuovo gli volta le spalle, e rinunzia alla sua grazia: Si inimicus meus maledixisset mihi, sustinuissem utique… tu vero, homo unanimis, dux meus et notus meus, qui simul mecum dulces capiebas cibos3. Dice Dio, se mi avesse offeso un mio nemico l’avrei sofferto con minor mio rammarico; ma il vedere che tu ti sei ribellato da me, dopo che ti ho restituita la mia amicizia, e dopo che ti ho fatto sedere alla mia mensa a cibarti delle mie stesse carni, ciò troppo mi rincresce e mi muove a castigarti. Povero colui che dallo stato d’amico di Dio, dopo molte grazie da esso ricevute passa a voler essergli nemico: troverà l’infelice pronta la spada della vendetta divina: Et qui transgreditur a iustitia ad peccatum, Deus paravit eum ad romphaeam4. Romphaea significa spada lunga.

Dice taluno: ma se ricado presto mi rialzerò, mentre penso di subito confessarmene. A chi parla così avverrà quel che avvenne a Sansone, che essendosi fatto ingannare da Dalila, la quale mentre Sansone dormiva gli fece tagliare i capelli, in cui egli tenea la sua forza, quando poi si svegliò, disse: Egrediar sicut ante feci, et me excutiam: nesciens, soggiunge la Scrittura, quod recessisset ab eo Dominus5. Pensava egli di liberarsi dalle mani dei Filistei, come avea fatto per lo passato; ma essendogli mancata la forza, restò fatto schiavo de’ medesimi, i quali prima gli cavarono gli occhi, e poi cinto di catene lo chiusero in una carcere. Il peccatore dopo che è ricaduto perde la forza di resistere alle tentazioni, poiché recedit ab eo Dominus, il Signore l’abbandona, privandolo del suo aiuto efficace, necessario a resistere; e così resta il misero accecato, abbandonato nella sua colpa.

Nemo mittens manum suam ad aratrum, et respiciens retro, aptus est regno Dei6. Ecco descritto il peccatore che ricade. Si noti la parola nemo: niuno, disse Gesù Cristo, che si mette a servirmi, e poi si rivolta in dietro, è atto ad entrare in paradiso. Scrisse Origene che l’aggiungere un nuovo peccato al peccato commesso, è lo stesso che aggiungere ad una ferita una nuova ferita: Cum peccatum peccato adiicitur, sicut vulnus vulneri7. Se taluno riceve una ferita in un membro, certamente quel membro perde il primo vigore; ma se poi riceve la seconda, quello perderà ogni forza, ogni moto, senza speranza di riaverlo. Questo è il gran danno che apporta il ricadere in peccato, resta l’anima così debole, che poco potrà più resistere alle tentazioni; poiché dice san Tommaso: Remissa culpa remanent dispositiones ex praecedentibus actis causatae1. Ogni peccato, benché perdonato, lascia sempre la ferita fatta della colpa antecedente, aggiungendosi poi alla ferita antica la nuova, questa rende l’anima talmente debilitata, che senza una grazia speciale e straordinaria del Signore l’è impossibile il superare le tentazioni.

Tremiamo dunque, fratelli miei, di ricadere in peccato, né ci valiamo della misericordia di Dio per seguitare ad offenderlo. Dice s. Agostino: Qui poenitenti veniam promisit, nulli poenitentiam promisit. Iddio ha promesso bensì il perdono a chi si pente del suo peccato, ma non ha promesso ad alcuno la grazia di pentirsi del peccato commesso. Il dolore de’ peccati è un mero dono di Dio, se egli te lo nega, come ti pentirai? E senza pentirti, come puoi esser perdonato? Eh che il Signore non si fa burlare: Nolite errare, Deus non irridetur2. Dice s. Isidoro chi replica il peccato che prima ha detestato, non è già penitente, ma irrisore di Dio: Irrisor, et non poenitens est qui adhuc agit, quod poenitet3. Oltreché ben dicea Tertulliano, che dove non si vede emenda, è segno che il pentimento non è stato vero: Ubi emendatio nulla, poenitentia vana4.

Predicava s. Pietro: Poenitemini, et convertimini, ut deleantur peccata vestra5. Molti si pentono, ma non si convertono: hanno un certo rincrescimento della loro vita sconcertata, ma non si convertono davvero a Dio; si confessano, si battono il petto, promettono di emendarsi, ma non fanno una ferma risoluzione di mutar vita: chi fermamente risolve di mutar vita, persevera, almeno si mantiene per lungo tempo in grazia di Dio. Ma quei che dopo la confessione presto ricadono, fan vedere, come dice s. Pietro, che si son pentiti, ma non convertiti, e questi finalmente faranno una mala morte. Scrive s. Gregorio: Plerumque mali sic compunguntur ad iustitiam, sicut plerumque boni tentantur ad culpam6. E vuol dire che siccome i giusti molte volte hanno certe spinte al male, ma in queste non peccano, perché le abborriscono colla volontà; così i peccatori hanno certe spinte al bene, ma queste non bastano loro a fare una vera conversione. Avverte il Savio, che non riceverà la misericordia di Dio chi solamente confessa i suoi peccati, ma chi li confessa e li lascia: Qui autem confessus fuerit (scelera sua), et reliquerit ea, misericordiam consequetur7. Chi dunque non lascia di peccare dopo la confessione, ma ritorna a peccare, non conseguirà la divina misericordia, e morrà vittima della giustizia divina: come avvenne ad un certo giovane in Inghilterra, secondo si narra nell’istoria anglicana. Era egli recidivo nel vizio disonesto, si confessava e sempre ricadeva: venne finalmente a morte, si confessò di nuovo, e parve che morisse con segni di salute; ma mentre un santo sacerdote celebrava o stava per celebrare, a fine di dargli suffragio, gli apparve il misero giovane, e gli disse ch’era dannato; gli disse di più che in morte, essendo stato tentato con un mal pensiero, si sentì quasi forzato a darvi il consenso, e come avea fatto per lo passato, vi consentì, e così erasi perduto.

Dunque per chi ricade non v’è rimedio alla sua salute? Io non dico ciò, ma dico quel che dicono i medici, secondo la loro massima: In magnis morbis a magnis initium medendi sumere oportet. Nelle grandi infermità vi bisognano grandi rimedj. Il recidivo per salvarsi dee farsi una gran forza per indi mettersi nella via della salute: Regnum coelorum vim patitur, et violenti rapiunt illud1. E specialmente nel principio della sua nuova vita dee farsi violenza il recidivo, per estirpare gli abiti cattivi contratti ed acquistare i buoni; giacché fatto poi il buon abito, gli sarà facile, anzi gli diventerà dolce l’osservanza de’ divini precetti. Disse il Signore a s. Brigida che a coloro i quali con fortezza soffrono le prime punture delle spine che si sentono negli assalti di senso, e nel dover fuggire le male occasioni, in separarsi dalle conversazioni pericolose, dipoi col tempo quelle spine diventano rose.

Ma per mettere ciò in esecuzione e fare una vita ordinata bisogna prendere i mezzi, altrimenti non si farà niente. Nella mattina in levarsi facciansi gli atti cristiani di ringraziamento, di amore a Dio, e di offerta delle opere di quel giorno: e precisamente si rinnovi il proposito di non offendere Dio, con pregare Gesù Cristo e la sua santa Madre, che ci preservino in quel giorno da’ peccati. Indi si faccia la meditazione, ed appresso si ascolti la messa. Nel giorno poi si faccia la lezione spirituale e la visita al ss. sacramento. Nella sera infine si reciti il rosario e si faccia l’esame di coscienza. Si frequenti la santa comunione, almeno ogni settimana, o più spesso secondo il consiglio del direttore, che stabilmente dee tenersi. È ancora cosa molto utile fare ogni anno gli esercizj spirituali in qualche casa religiosa. Si onori ogni giorno la Madre di Dio con qualche ossequio particolare e col digiuno nel sabato; Maria santissima si chiama la Madre della perseveranza, ed ella la promette a chi la serve: Qui operantur in me, non peccabunt2. Soprattutto bisogna sin dalla mattina domandare a Dio ed alla beata Vergine la perseveranza, specialmente in tempo di tentazioni, invocando allora i nomi di Gesù e di Maria, finché la tentazione persiste. Beato chi seguirà a far così, e così facendo sarà trovato da Gesù Cristo, quando egli verrà a giudicarlo: Beatus ille servus, quem, cum venerit Dominus eius, invenerit sic facientem3.

(Sant’Alfonso Maria de Liguori)

2 Matth. 24. 13.

3 Serm. 6. de modo bene viv.

4 Eccl. 2. 1.

1 Ioan. 5. 14.

2 Ephes. 6. 12.

3 Phil. 4. 13.

4 Matth. 7. 7.

5 1. Cor. 10. 12.

6 Luc. 11. 26.

7 Habac. 1. 16.

1 Luc. 11. 24.

2 Luc. 11. 26.

3 Psal. 54. 13. ad 16.

4 Eccl. 26. 27.

5 Iudic. 16. 20.

6 Luc. 9. 62.

7 Orig. Hom. 1. in psal.

1 1. p. qu. 86. a. 5.

2 Galat. 6. 7.

3 De summo bono.

4 Tertull. de poenit.

5 Act. 3. 19.

6 Pastor. p. 3. Admon. 31.

7 Prov. 28. 13.

1 Matth. 11. 12.

2 Eccl. 24. 30.

3 Matth. 24. 46

Sant’Alfonso Maria de Liguori, Affetti al Sacro cuore di Gesù: “O Cuore degno di regnare su tutti i cuori, e di possedere l’affetto di tutti i cuori” “Voi siete la sede di tutte le virtù: Voi la fonte di tutte le grazie. Voi la sacra fornace dove si accendono del divino amore tutte le anime sante”

“Santa Teresa si meravigliava di quelli, che tanto invidiavano chi si trovava al tempo, che, Gesù stava in terra, e potevano guardarlo, mirarlo e sentirlo. Ma noi, diceva, nel Sacramento non solo possiamo vederlo, e sentirlo, ma possiamo cibarcene; et egli ci fa animo”

“Sant’Alfonso Maria de Liguori: meditazioni sull’amore verso Gesù Cristo e sul suo Sacro Cuore”

Sul Cuore di Gesù

1. Disse Giesù a S. Caterina da Siena, che dopo la morte egli volle ricevere la ferita della lancia nel cuore, acciocché l’uomo comprendesse, ch’egli l’amava più di quello, che l’aveva dimostrato colle pene esterne; mentre le pene di Sua Passione erano state finite, ma l’amore Suo era infinito. Onde le facea vedere quel Suo Cuore ferito per farle intendere, ch’egli l’amava più di quello, che intender Ella potesse dalle pene sofferte.

2. Essendosi communicata un giorno la V. Maria Vola Monaca Cisterciense parvele, che Giesù le prese il cuore e ponendolo nel Suo Costato lo strinse talmente col Suo Cuore Divino che di due se ne fece un solo, acciocché gli affetti desideri ecc d’allora innanzi fussero l’istessi. Un’altra volta parvele che Giesù l’invitasse ad entrare nel Suo Costato aperto con dirle: Esci sposa diletta da ogni terreno affetto: Entra qui e riponi l’anima tua sopra il mio cuore. E subito intese estinguersi ogni amor proprio, e accendersi dell’istesso amore, di cui ardeva il Suo Giesù, e sfavillava nel petto di lei. In modo che pareala poi, che ogni Altare dove stava Giesù Sacramentato, ardesse come fornace. March: 8a: Qu. 23. 24. 7bre.

3. Santa Francesca Romana dopo aversi communicata vide su di un prezioso Tabernacolo un candidissimo Agnello, a cui facean riverenze e lodi due schiere di bianchi agnellini: Vide che usciva una limpidissima fonte dal suo aperto Costato, in cui compariva come un Sole il suo Divino Cuore, il quale replicava quelle parole spesso: Chi ha sete venga a me: chi ha sete venga a me. Boss. Merc. T. 1 n. 13.

Affetti al cuore di Gesù

Amore amabile del mio Salvatore. Voi siete la sede di tutte le virtù: Voi la fonte di tutte le grazie. Voi la sacra fornace dove si accendono del divino amore tutte le anime sante.

Voi siete l’oggetto di tutta la compiacenza di Dio: voi il Rifugio de’ tribolati: Voi la Stanza delle anime, che vi amano.

O Cuore degno di regnare su tutti i cuori, e di possedere l’affetto di tutti i cuori.

O Cuore, che foste per me ferito sulla croce dalla lancia de’ miei peccati, ve ne state poi continuamente ferito per me sugli altari nel Sacramento non da altra lancia, che dall’amore, che mi portate.

O Cuore amante, ch’ami gli uomini con tanta tenerezza, e con tanta poca corrispondenza sei amato dagli uomini.

Riparate voi a tanta ingratitudine. Accendete voi tutti i nostri cuori, acciocché veramente vi amiamo.

Accettate il desiderio mio, che tutti i cuori v’amassero ed ardessero più.

O Cuore divino voi siete la mia consolazione ne’ travagli: Il mio riposo nelle fatiche: Il mio sollievo nelle angustie: Il mio porto nelle tempeste.

A voi consacro il corpo mio, l’anima, il cuore, la volontà, la vita, e tutto.

Unisco coi vostri tutti i miei pensieri, affetti, desiderj: Ah ! Eterno Padre, vi offerisco gli affetti purissimi del cuore di Giesù… Se sdegnate i miei, non potete sdegnare gli affetti di questo vostro Santissimo Figlio: questi suppliscano, e parlino per me.

La Beata Caterina da Genua fu introdotta a vedere il cuore di Giesù nel Suo petto, e lo vide tutto di fuoco.

Un giorno Giesù si avvicinò al petto di S. Metilde, e intese, che il Cuore di Giesù li palpitava sì forte, come se gli fussero dati colpi sul petto, e le disse, che sin da fanciullo gli palpitava così il cuore per l’amore di cui ardeva per gli uomini.

Onde dice il P. Nieremb., che se Giesù sin da Bambino avesse data libertà alla fiamma del suo amore di operare gli affetti suoi propri, sin da fanciullo sarebbe morto di amore.

Giesù disse a S. Gertrude: Adhuc si expediret pro te sola tolerarem quae toleravi pro toto mundo. E a S. Metilde: Sappi, che l’amore mio verso le anime è l’istesso di quello, che loro portava nel tempo della mia Passione. Ed io morirei tante volte, quante sono le anime.

A San Carpo, che parea volesse precipitare quei peccatori: Impelle me Carpe, quia paratus sum pro hominibus iterum crucifigi.

San Gio. Crisostomo: Gesù tanto ama ciascuno, come tutto il Mondo.

Viva Giesù Maria Giuseppe e Teresa.

1. Il Venerabile P.M. Avila quando sentiva altri pellegrinare in santuarj, dicea il mio Santuario, è l’Altare, dove sta il SS.mo Sacramento.

2. S. Teresa si meravigliava di quelli, che tanto invidiavano chi si trovava al tempo, che, Giesù stava in terra, e poteano mirarlo, sentirlo. Ma noi, dicea, nel Sacramento non solo possiamo vederlo, e sentirlo, ma possiamo cibarcene; et egli ci fa animo: Accipite, et Comedite.

(Sant’Alfonso Maria de Liguori, dottore della Chiesa)

Sant’Alfonso Maria de Liguori, Massime Eterne: “DEL FINE DELL’UOMO, DEL PECCATO MORTALE, DELLA MORTE, DEL GIUDIZIO, DELL’ETERNITÀ DELL’INFERNO” Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo?

OPERA DI SANT’ALFONSO MARIA DE LIGUORI, DOTTORE DELLA CHIESA.

“Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”

Sette meditazioni, in tre punti, sul fine dell’uomo, la morte il giudizio e l’inferno, divise secondo i sette giorni della settimana

Atti cristiani prima dell’inizio delle meditazioni

Dio mio, verità infallibile, perché voi l’avete rivelato alla santa Chiesa, io credo tutto quello che la santa Chiesa mi propone a credere. Credo che voi siete il mio Dio, Creatore del tutto, che per un’eternità premiate i giusti col paradiso, e castigate i peccatori coll’inferno. Credo che voi siete uno nell’essenza, e trino nelle persone, cioè Padre, Figliuolo, e Spirito-Santo. Credo l’incarnazione e morte di Gesù-Cristo. Credo finalmente tutto quello che crede la santa Chiesa. Vi ringrazio d’avermi fatto cristiano, e mi protesto che in questa santa fede voglio vivere e morire.

Dio mio, fidato nelle vostre promesse, perché voi siete potente, fedele e misericordioso, spero per li meriti di Gesù-Cristo il perdono de’ miei peccati, la perseveranza finale e la gloria del paradiso.

Dio mio, perché voi siete bontà infinita, degno d’infinito amore, v’amo con tutto il cuore mio sopra ogni cosa. E di tutti i peccati miei, perché ho offeso voi bontà infinita, me ne pento con tutto il cuore e me ne dispiace. Propongo prima morire, che più disgustarvi, colla grazia vostra, che vi cerco per ora e sempre. E propongo ancora di ricevere i santi sacramenti in vita ed in morte.

Meditazione per la Domenica – DEL FINE DELL’UOMO

Considera anima mia, come quest’essere che tu hai, te l’ha dato Dio, creandoti a sua immagine, senza tuo merito: ti ha adottato per figlio col santo battesimo: ti ha amato più che da padre, e ti ha creato, acciò l’amassie servissi in questa vita, per poi goderlo in eterno in paradiso. Sicché non sei nato, né dei vivere per godere, per farti ricco e potente, per mangiare, per bere e dormire come i bruti, ma solper amare il tuo Dio, e salvarti in eterno. E le cose create te l’ha date il Signore in uso, acciocché t’aiutassero a conseguire il tuo gran fine. O me infelice, che a tutt’altro ho pensato, fuorchéal mio fine! Padre mio, per amore di Gesù fa ch’io cominci una nuova vita, tutta santa e tutta conforme al tuo divino volere.

Considera, come in punto di morte sentirai gran rimorsi, se non hai atteso a servire Dio. Che pena, quando alla fine de’ giorni tuoi ti avvederai che non ti resta altro in quell’ora, che un pugno di mosche, di tutte le ricchezze, grandezze, glorie e piaceri! Stupirai, come per vanità e cose da niente hai perduta la grazia di Dio e l’anima tua, senza poter rifare il mal fatto; né vi sarà più tempo da metterti nel buon cammino. O disperazione! O tormento! Vedrai allora quanto valga il tempo, ma tardi. Lo vorresti comperare col sangue, ma non potrai. O giorno amaro per chi non ha servito ed amato Dio.

Considera, quanto si trascura questo gran fine. Si pensa ad accumulare ricchezze, si pensa a banchettare, a festeggiare, a darsi bel tempo: e Dio non si serve, ed a salvar l’anima non si attende, e ‘l fine eterno si tiene per bagattella! E così la maggior parte de’ cristiani, banchettando, cantando e sonando se ne va all’inferno. Oh se essi sapessero che vuol dire inferno! O uomo, stenti tanto per dannarti, e nulla vuoi fare per salvarti! Moriva un segretario di Francesco re d’Inghilterra, e moriva dicendo: Misero me! ho consumato tanta carta per iscrivere le lettere del mio principe, e non ho speso un foglio per ricordarmi de’ miei peccati, e farmi una buona confessione! Filippo III re di Spagna dicea morendo: Oh fossi stato a servire Dio in un deserto, e non fossi stato mai re! Ma che servono allora questi sospiri, questi lamenti? Servono per maggior disperazione. Impara tu a spese d’altri a vivere sollecito di tua salute, se non vuoi cadere nella medesima disperazione. E sappi che quanto fai, dici e pensi fuor del gusto di Dio,tutto è perduto. Su via è tempo già di mutar vita. Che vuoi aspettare il punto della morte a disingannarti? alle porte dell’eternità, sulle fauci dell’inferno, quando non v’è più luogo di emendare l’errore? Dio mio, perdonami.Io t’amo sopra ogni cosa. Mi pento d’averti offeso sopra ogni male.

Maria, speranza mia, prega Gesù per me.

Meditazione per lo lunedì – DELL’IMPORTANZA DEL FINE

Considera uomo, quanto importi conseguire il tuo gran fine: importa il tutto; perché, se lo conseguisci e ti salvi, sarai per sempre beato, godrai in anima e in corpo ogni bene: ma se lo sgarri, perderai anima e corpo, paradiso e Dio: sarai eternamente misero, sarai per sempre dannato. Dunque questo è il negozio di tutti i negozi, solo importante, solo necessario, il servire Dio e salvarsi l’anima. Onde non dire più, cristiano mio: Ora vo’ soddisfarmi, appresso mi darò a Dio, e spero salvarmi. Questa speranza falsa oh quanti ne ha mandati all’inferno, i quali pure diceano così, ed ora son dannati, e non ci è più rimedio per essi! Qual dannato volea proprio dannarsi? Ma Dio maledice chi pecca per la speranza del perdono: «Maledictus homo qui peccat in spe».Tu dici, voglio far questo peccato e poi me lo confesso. E chi sa, se avrai questo tempo? Chi t’assicura, che non morirai di subito dopo il peccato? Frattanto perdi la grazia di Dio, e se non la trovi più? Dio fa misericordia a chi lo teme, non a chi lo disprezza: «Et misericordia eius timentibus eum» (Luc. I). Né dire più, tanto mi confesso due peccati, quanto tre: no, perché Dio due peccati ti perdonerà, e tre no. Dio sopporta, ma non sopporta sempre: «In plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 5). Quando è piena la misura, Dio non perdona più, o castiga colla morte, o con abbandonar il peccatore, sì che da peccato in peccato se n’anderà all’inferno, castigo peggiore della morte. Attento, fratello, a questo ch’ora leggi. Finiscila, datti a Dio. Temi che questo sia l’ultimo avviso, che Dio ti manda. Basta quanto l’hai offeso. Basta quanto egli t’ha sopportato. Trema che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdonerà più. Vedi che si tratta d’anima, si tratta d’eternità. Questo gran pensiero dell’eternità quanti ne ha cavati dal mondo, e gli ha mandati a vivere ne’ chiostri, ne’ deserti e nelle grotte! Povero me, che mi trovo di tanti peccati fatti? il cuore afflitto, l’anima aggravata, l’inferno acquistato, Dio perduto. Ah Dio mio e Padre mio, legamiall’amor tuo.

Considera, come quest’affare eterno è lo più trascurato. A tutto si pensa, fuorché a salvarsi. Per tutto v’è tempo, fuorché per Dio. Si dica ad un mondano che frequenti i sacramenti, che si facciamezz’ora d’orazione il giorno, risponde: Ho figli, ho nipoti, ho possessioni, ho che fare. Oh Dio, e non hai l’anima? Impegna pur le ricchezze, chiama i figli, i nipoti che ti diano aiuto in punto di morte, e ti caccino dall’inferno, se vai dannato. Non ti lusingare di poter accordare Dio e mondo, paradiso e peccati. Il salvarsi non è negozio da trattarlo alla larga; bisogna far violenzaa te stesso, bisogna farti forza, se vuoi guadagnarti la corona immortale. Quanti cristiani si lusingavano che appresso avrebbero servito Dio, e si sarebbero salvati, ed ora stanno nell’inferno! Che pazzia, pensar sempre a quello che finisce così presto, e pensar tanto poco a quello che non ha mai da finire! Ah cristiano, pensa a’ casi tuoi! Pensa che fra poco sloggerai da questa terra, ed anderai alla casa dell’eternità! Povero te, se ti danni! Vedi che non ci potrai rimediare più.

Considera cristiano, e dì: Un’anima ho, se questa mi perdo, ho perduto ogni cosa: un’anima ho, se a danno di questa mi guadagno un mondo, che mi serve? se divento un grand’uomo, e mi perdo l’anima, che mi giova? Se accumulo ricchezze, se avanzo la casa, se ingrandisco i figli, e mi perdo l’anima, che mi giova? Che giovarono le grandezze, i piaceri, le vanità a tanti che vissero nel mondo, ed ora sono polvere in una fossa, e confinati già nell’inferno? Dunque, se l’anima è mia, se un’anima ho, se la sgarro una volta, l’ho sgarrata per sempre; deggio ben pensare a salvarmi. Questo è un punto, che troppo importa. Si tratta di essere o sempre felice, o sempre infelice. O mio Dio, confesso e mi confondo che finora sono vivuto da cieco, sono andato così lontano da te, non ho pensato a salvare quest’unica anima mia. Salvami, o Padre, per Gesù-Cristo: mi contento di perder ogni cosa, purché non perda voi, mio Dio.

Maria, speranza mia, salvami tu colla tua intercessione.

Meditazione per lo martedì – DEL PECCATO MORTALE

Considera, come tu creato da Dio per amarlo, con ingratitudine d’inferno te gli sei ribellato, l’hai trattato da nemico, hai disprezzata la sua grazia, la sua amicizia. Conoscevi che gli davi un gran disgusto con quel peccato, e l’hai fatto? Chi pecca, che fa? volta le spalle a Dio, gli perde il rispetto, alza la mano per dargli uno schiaffo, affligge il cuore di Dio: «Et afflixerunt spiritum sanctum eius (Is. 63)». Chi pecca, dice a Dio col fatto: Allontanati da me, non ti voglio ubbidire, non ti voglio servire, non ti voglio riconoscere per mio Signore: non ti voglio tenere per Dio: il mio Dio è quel piacere, quell’interesse, quella vendetta. Così hai detto nel tuo cuore, quando hai preferita la creatura a Dio. S. Maria Maddalena de’ Pazzi non sapea credere, come un cristiano potesse ad occhi aperti far un peccato mortale; e tu che leggi, che dici? Quanti n’hai commessi? Dio mio, perdonami, abbi pietà di me. Ho offeso te, bontà infinita: odio i peccati miei: t’amo, e mi pento d’averti ingiuriato a torto, o Dio mio, degno d’infinito amore.

Considera, come Dio ti dicea, quando peccavi: Figlio, io sono il tuo Dio, che ti creai dal niente, e ti ricomprai col mio sangue; io ti proibisco di far questo peccato sotto pena della mia disgrazia. Ma tu peccando, dicesti a Dio: Signore, io non voglio ubbidirti, voglio pigliarmi questo gusto, e non m’importa che ti dispiace, e che perdo la tua grazia. «Dixisti, non serviam». Ah mio Dio, e ciò l’ho fatto più volte! come mi avete sopportato? Oh fossi morto prima che avervi offeso! Io non voglio più disgustarvi: io vi voglio amare, o bontà infinita. Datemi voi perseveranza. Datemi il vostro santo amore.

Considera, che quando i peccati giungono a certo numero, fanno che Dio abbandoni il peccatore: «Dominus patienter exspectat, ut cum iudicii dies advenerit, in plenitudine peccatorum puniat» (2. Mach. 6.14). Se dunque, fratello mio, sarai di nuovo tentato di peccare, non dire più: Poi me lo confesso. E se Dio ti fa morire allora? e se Dio ti abbandona? che ne sarà di te per tutta l’eternità? Così tanti si son perduti. Pur essi speravano il perdono, ma è venuta la morte, e si son dannati. Trema che lo stesso non avvenga a te. Non merita misericordia chi vuol servirsi della bontà di Dio per offenderlo. Dopo tanti peccati che Dio t’ha perdonati, giustamente hai a temere che ad un altro peccato mortale che farai, Dio non ti perdoni più. Ringrazialo che t’ha aspettato finora. E fa in questo punto una forte risoluzione di soffrir prima la morte che fare un altro peccato. Dì sempre da ogg’innanzi: Signore, basta quanto v’ho offeso; la vita che mi resta, non la voglio spendere a più disgustarvi (no, che voi non ve lo meritate), la voglio spendere solo ad amarvi, ed a piangere l’offese che v’ho fatte. Me ne pento con tutto il cuore. Gesù mio, vi voglio amare, datemi forza.

Maria, Madre mia, aiutatemi. Amen.

Meditazione per lo mercoledì – DELLA MORTE

Considera, come ha da finire questa vita. È uscita già la sentenza: hai da morire. La morte è certa, ma non si sa quando viene. Che ci vuole a morire? Una goccia che ti cade sul cuore, una vena che ti si rompe nel petto, una suffogazione di catarro, un torrente impetuoso di sangue, un animaletto velenoso che ti morde, una febbre, una puntura, una piaga, un’inondazione, un terremoto, un fulmine, un lampo basta a levarti la vita. La morte verrà ad assalirti, quando meno ci pensi. Quanti la sera si son posti a dormire, e la mattina si son trovati morti! Non può forse ciò succedere anche a te? Tanti che son morti di subito, non se lo pensavano di morir così; ma così sono morti, e se si trovavano in peccato, ora dove stanno? E dove staranno per tutta l’eternità? Ma sia come si voglia; è certo che ha da venire un tempo, nel quale per te si farà notte e non giorno, o si farà giorno e non vedrai la notte. Verrò come un ladro alla scordata e di nascosto, dice Gesu-Cristo. Te lo avvisa per tempo il tuo buon Signore, perché ama la tua salute.

Corrispondi a Dio, approfittati dell’avviso, preparati a ben morire, prima che venga la morte: «Estote parati». Allora non è tempo d’apparecchiarsi, ma di trovarsi apparecchiato. È certo ch’hai da morire. Ha da finire la scena di questo mondo per te, e non sai quando. Chi sa se fra un anno, fra un mese, se domani sarai vivo? Gesù mio, dammi luce e perdonami.

Considera, come nell’ora della morte ti troverai steso in un letto, assistito dal sacerdote che ti ricorderà l’anima, co’ parenti accanto che ti piangeranno, col Crocifisso a capo, colla candela a’ piedi, già vicino a passare all’eternità. Ti sentirai la testa addolorata, gli occhi oscurati, la lingua arsa, le fauci chiuse, il petto aggravato, il sangue gelato, la carne consumata, il cuore trafitto: lascerai ogni cosa, e povero e nudo sarai gittato a marcir in una fossa: quivi i vermi ed i sorci si roderanno tutte le tue carni, e di te non resterà che quattr’ossa spolpate, ed un poco di polvere fetente, e niente più. Apri una fossa, e vedi a che è ridotto quel riccone, quell’avaro, quella donna vana! Così finisce la vita. Nell’ora della morte ti vedrai circondato da’ demonii, che ti metteranno innanzi tutti i peccati commessi da che eri fanciullo. Ora il demonio per indurti a peccare, cuopre e scusa la colpa; dice che non è gran male quella vanità, quel piacere, quella confidenza, quel rancore, che non ci è mal fine in quella conversazione; ma in morte scoprirà la gravezza del tuo peccato; ed al lume di quell’eternità, alla quale starai per passare, conoscerai che male fu aver offeso un Dio infinito. Presto rimedia a tempo, ora che puoi, perché allora non sarà più tempo.

Considera, come la morte è un momento, dal quale dipende l’eternità. Giace l’uomo già vicino a morire, e per conseguenza vicino ad una delle due eternità; e questa sorte sta attaccata a quell’ultima chiusa di bocca, dopo la quale in un punto si trova l’anima o salva, o dannata per sempre. O punto! o chiusa di bocca! o momento donde dipende un’eternità! Un’eternità o di gloria o di pena. Un’eternità o sempre felice o sempre infelice: o di contenti o di affanni. Un’eternità o d’ogni bene o d’ogni male. Un’eternità o d’un paradiso o d’un inferno. Viene a dire che se in quel momento ti salvi, non avrai più guai, sarai sempre contento e beato. Ma se la sgarri, e ti danni, sarai sempre afflitto e disperato, mentre Dio sarà Dio. In morte conoscerai che vuol dire paradiso, inferno, peccato, Dio offeso, legge di Dio disprezzata, peccati lasciati in confessione, roba non restituita. Misero me! dirà il moribondo, da qui a pochi momenti ho da comparir innanzi a Dio? e chi sa qual sentenza mi toccherà? Dove anderò, al paradiso o all’inferno? a godere fra gli angioli o ad ardere fra’ dannati? Sarò figlio di Dio o schiavo del demonio? Fra poco oimè lo saprò, e dove alloggerò la prima volta, ivi resterò in eterno. Ah fra poche ore, fra pochi momenti che ne sarà di me? Che ne sarà di me, se non risarcisco quello scandalo; se non restituisco quella roba, quella fama? se non perdono di cuore al nemico? se non mi confesso bene? Allora detesterai mille volte quel giorno, che peccasti, quel diletto, quella vendetta che ti prendesti: ma troppo tardi, e senza frutto, perché lo farai per mero timor del castigo, senz’amore a Dio. Ah Signore, ecco da questo punto io mi converto a voi, non voglio aspettare la morte; ed ora io v’amo, v’abbraccio e voglio morire abbracciato con voi.

Madre mia Maria, fammi morire sotto il manto tuo, aiutami in quel punto.

Meditazione per lo giovedì – DEL GIUDIZIO FINALE

Considera, come appena l’anima uscirà dal corpo, che sarà condotta innanzi al tribunale di Dio, per essere giudicata. Il giudice è un Dio onnipotente, da te maltrattato, adirato al sommo. Gli accusatori sono i demonii nemici: i processi i tuoi peccati: la sentenza è inappellabile: la pena un inferno. Non vi sono più compagni, non parenti, non amici; fra te e Dio te l’hai da vedere. Allora scorgerai la bruttezza de’ tuoi peccati, né potrai scusarli come ora fai. Sarai esaminato sopra i peccati di pensieri, di parole, di compiacenze, d’opere, d’omissione e di scandalo. Tutto si ha a pesare in quella gran bilancia della divina giustizia, ed in una cosa, in cui ti troverai mancante, sarai perduto.

Gesù mio e giudice mio, perdonami, prima che m’hai da giudicare.

Considera, come la divina giustizia dovrà giudicare tutte le genti nella valle di Giosafatte, quando (finito il mondo) risusciteranno i corpi per ricevere insieme coll’anima il premio o la pena, secondo le opere loro. Rifletti, come se ti danni, ripiglierai questo tuo medesimo corpo, che servirà per eterna prigione dell’anima sventurata. A quell’amaro incontro l’anima maledirà il corpo, e ‘l corpo maledirà l’anima; sicché l’anima ed il corpo, che ora si accordano in cercar piaceri proibiti, si uniranno a forza dopo morte per essere carnefici di se stessi. All’incontro se ti salvi, questo tuo corpo risorgerà tutto bello, impassibile e risplendente: e così in anima e corpo sarai fatto degno della vita beata. E così finirà la scena di questo mondo. Saran finite allora tutte le grandezze, i piaceri, le pompe di questa terra; tutto è finito. Vi restano solo due eternità, una di gloria e l’altra di pena; l’una beata e l’altra infelice: l’una di gaudii e l’altra di tormenti. Nel paradiso i giusti, nell’inferno i peccatori. Povero allora chi avrà amato il mondo, e per li miseri gusti di questa terra avrà perduto tutto, l’anima, il corpo, il paradiso e Dio.

Considera l’eterna sentenza. Cristo giudice si volterà contra i reprobi e lorodirà: L’avete finita, ingrati, l’avete finita? È già venuta l’ora mia, ora di verità e di giustizia, ora di sdegno e di vendetta. Su, scellerati, avete amata la maledizione, venga sopra di voi: siate maledetti nel tempo, maledetti nell’eternità. Partitevi dalla mia faccia, andate privi d’ogni bene e carichi di tutte le pene al fuoco eterno. «Discedite a me, maledicti, in ignem aeternum» (Matth. 25.41). DopoGesù si volterà agli eletti, e dirà: Venite voi figli miei benedetti, venite a possedere il regno de’ cieli a voi apparecchiato. Venite, non più per portare dietro di me la croce, ma insieme con me la corona. Venite ad essere eredi delle mie ricchezze, compagni della mia gloria; venite a cantare in eterno le mie misericordie: venite dall’esilio alla patria, dalle miserie alla gioia, venite dalle lagrime al riso, venite dalle pene all’eterno riposo: «Venite, benedicti Patris mei, possidete paratum vobis regnum». Gesù mio, spero anch’io d’esser uno di questi benedetti. Io v’amo sopra ogni cosa; beneditemi da quest’ora.

E beneditemi voi, Madre mia Maria.

Meditazione per lo venerdì – DELL’INFERNO

Considera, come l’inferno è una prigione infelicissima, piena di fuoco. In questo fuoco stan sommersi i dannati, avendo un abisso di fuoco di sopra, un abisso d’intorno, un abisso di sotto. Fuoco negli occhi, fuoco nella bocca, fuoco per tutto. Tutti poi i sensi han la lor propria pena, gli occhi accecati dal fumo e dalle tenebre, ed atterriti dalla vista degli altri dannati e de’ demonii. Le orecchie odono giorno e notte continui urli, pianti, bestemmie. L’odorato èappestato dal fetore di quegl’innumerabili corpi puzzolenti. Il gusto è crucciato da ardentissima sete e da fame canina, senza potere ottener mai una goccia d’acqua, né un tozzo di pane. Onde quegl’infelici carcerati, arsi dalla sete, divorati dal fuoco, afflitti da tutti i tormenti, piangono, urlano, si disperano, ma non vi è, né vi sarà mai chi li sollevi o li consoli. O inferno, inferno! che non ti vogliono credere alcuni, se proprio non vi cadono! Che dici tu che leggi? Se ora avessi a morire, dove anderesti? Tu non ti fidi di soffrire una scintilla di candela sulla mano, e ti fiderai poi di stare in un lago di fuoco che ti divori, sconsolato ed abbandonato da tutti per tutta l’eternità?

Considera poi la pena che avranno le potenze. La memoria sarà sempre tormentata dal rimorso della coscienza: questo è quel verme che sempre roderà il dannato, nel pensare al perché si è dannato volontariamente, per pochi gusti avvelenati. Oh Dio che gli pareranno allora quei momenti di gusto, dopo cento, dopo mille milioni d’anni d’inferno? Questo verme gli ricorderà il tempo che l’ha dato Dio per rimediare; le comodità che l’ha presentate per salvarsi; i buoni esempi de’ compagni; i propositi fatti, ma non eseguiti. Ed allora vedrà che non vi è più rimedio alla sua rovina eterna. Oh Dio, oh Dio, e che doppio inferno sarà questo! La volontà sarà sempre contraddetta, e non avrà mai niente di ciò che vorrà, ed avrà sempre quel che non vorrà, cioè tutti i tormenti. L’intelletto conoscerà il gran bene che ha perduto, cioè il paradiso e Dio. O Dio, o Dio, perdonatemi per amor di Gesu-Cristo.

Peccatore, tu che ora non ti curi di perderti il paradiso e Dio, conoscerai la tua cecità, quando vedrai i beati trionfare e godere nel regno de’ cieli, e tu come cane puzzolente sarai cacciato via da quella patria beata, dalla bella faccia di Dio, dalla compagnia di Maria, degli angioli e de’ santi. Allora smaniando griderai: O paradiso di contenti, o Dio bene infinito, non sei né sarai più mio? Su, penitenza: muta vita: non aspettare che non vi sia anche per te più tempo. Datti a Dio: comincia ad amarlo davvero.

Prega Gesù, prega Maria che abbiano pietà di te.

Meditazione per lo sabbato – DELL’ETERNITÀ DELLE PENE

Considera, come nell’inferno non v’è fine: si patiscono tutte le pene, e tutte eterne. Sicché passeranno cento anni di quelle pene, ne passeranno mille, e l’inferno allora comincia; ne passeranno cento mila, e cento milioni, mille milioni d’anni e di secoli, e l’inferno sarà da capo. Se un angelo a quest’ora portasse la nuova ad un dannato che Dio lo vuol cacciare dall’inferno, ma quando? quando saran passati tanti milioni di secoli, quante sono le goccie d’acque, le frondi degli alberi e le arene del mare e della terra, voi vi spaventereste; ma pur è vero che quegli farebbe più festa a questa nuova, che non fareste voi, se aveste la nuova d’esser fatto re d’un gran regno. Sì, perché direbbe il dannato: È vero che hanno da passare tanti secoli, ma ha da venire un giorno che han da finire. Ma ben passeranno tutti questi secoli, e l’inferno sarà da capo; si moltiplicheranno tante volte tutti questi secoli, quante sono le arene, le goccie, le frondi, e l’inferno sarà da capo. Ogni dannato farebbe questo patto con Dio: Signore, accrescete voi quanto vi piace la pena mia: allungatela per quanto tempo vi piace; basta che ponghiate termine, e son contento. Ma no, questo termine non vi sarà mai. Almeno il povero dannato potesse ingannare se stesso, e lusingarsi con dire: Chi sa, forse un giorno Dio avrà pietà di me, e mi caccerà dall’inferno! No, il dannato si vedrà sempre in faccia scritta la sentenza della sua dannazione eterna, e dirà: Dunque tutte queste pene ch’ora patisco, questo fuoco, questa malinconia, queste grida non hanno da finire mai, mai? E quanto tempo dureranno? sempre, sempre. Oh mai! Oh sempre! Oh eternità! Oh inferno! Come? gli uomini ti credono, e peccano, e seguitano a vivere in peccato?

Fratello mio, sta attento, pensa che per te ancora sta l’inferno, se pecchi. Già arde sotto i tuoi piedi questa orrenda fornace, ed a quest’ora che leggi quante anime vi stan cadendo? Pensa che se tu ci arrivi una volta, non ne potrai uscire più. E se qualche volta già t’hai meritato l’inferno, ringrazia Dio che non ti ci ha mandato; e presto, presto rimedia quanto puoi, piangi i tuoi peccati; piglia i mezzi più atti che puoi per salvarti: confessati spesso, leggi questo o altro libretto spirituale ogni giorno, prendi la divozione a Maria col rosario ogni giorno, col digiuno ogni sabbato: nelle tentazioni resisti, chiamando spesso Gesù e Maria: fuggi l’occasioni di peccare, e se Dio ti chiama anche a lasciare il mondo, fallo, lascialo: ogni cosa che si fa per iscampare da una eternità di pene è poco, è niente. «Nulla nimia securitas, ubi periclitatur aeternitas» (S. Bern.). Per assicurarci nell’eternità non vi è cautela che basti. Vedi quanti anacoreti, per sfuggire l’inferno sono andati a vivere nelle grotte, ne’ deserti! E tu che fai, dopoché tante volte t’hai meritato l’inferno? Che fai? che fai? Vedi che ti danni. Datti a Dio, e digli: Signore, eccomi, voglio fare tutto quello che volete da me.

Maria, aiutami.

(Sant’Alfonso Maria de Liguori “Massime eterne cioè meditazioni per ciascun giorno della settimana”)

 

 

 

BUON NATALE! Sant’ Alfonso Maria de Liguori: “È nato Gesù Cristo, ed è nato per voi, per liberarvi dalla morte eterna e per aprirvi il paradiso, ch’è la patria nostra, dalla quale avevamo avuto il bando in pena de’ nostri peccati”

BUON NATALE A TUTTI QUANTI!!!

Ho deciso di trasportare sul blog tutte le meditazioni di Sant’Alfonso che aveva scritto in preparazione al Santo Natale. Sono tante, ma vale la pena di leggerle con attenzione.

Sant’ Alfonso Maria de Liguori “Novena del Santo Natale, colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento, sino all’Ottava dell’Epifania” anno 1758

Quest’opera, pubblicata nel 1758, fluì quasi spontanea dall’anima serafica di S. Alfonso, e la intitolò “Novena del Santo Natale colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento sino all’ottava della Epifania “. Già l’insigne Autore rilevava: “Molti cristiani sogliono per lungo tempo avanti preparare nelle loro case il presepe per rappresentare la nascita di Gesù Cristo; ma pochi sono quelli che pensano a preparare i loro cuori, affinché possa nascere in essi e riposarsi Gesù Cristo. Tra questi pochi però vogliamo essere ancora noi, acciocché siamo fatti degni di restare accesi di questo felice fuoco, che rende le anime contente in questa terra e beate nel cielo “.

A questo concetto morale ispirò il dettato, proponendosi di aiutare le anime a vivere il Natale con genuino sentimento cristiano.

 

INIZIO DELLE MEDITAZIONI DI SANT’ALFONSO, DOTTORE DELLA CHIESA:

DISCORSO I – Il Verbo Eterno da Dio s’è fatt’uomo.

Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Luc. XII, 49).

Solennizzavano gli ebrei un giorno chiamato da essi dies ignis, giorno del fuoco, in memoria del fuoco col quale Neemia consumò il sagrificio, allorché ritornò co’ suoi nazionali dalla schiavitù di Babilonia.Così ancora, anzi con maggior ragione dovrebbe chiamarsi il giorno di Natale, giorno di fuoco, in cui viene un Dio da bambino a metter fuoco d’amore ne’ cuori degli uomini. Ignem veni mittere in terram, così disse Gesù Cristo, e in verità così fu. Prima della venuta del Messia, chi amava Dio sulla terra? Appena era egli conosciuto in un cantone del mondo, cioè nella Giudea; ed ivi pure quanti pochi erano quelli che l’amavano nel tempo che venne. Nel resto poi della terra chi adorava il sole, chi le bestie, chi le pietre, e chi altre creature più vili. Ma dopo ch’è venuto Gesù Cristo, il nome di Dio per tutto è stato conosciuto, e da molti amato. Fu più amato Dio dopo la venuta del Redentore tra pochi anni dagli uomini, accesi già da questo santo fuoco, che non era stato amato prima per quattro mila anni, da che gli uomini erano stati creati.

Molti Cristiani sogliono per lungo tempo avanti preparare nelle loro case il presepio, per rappresentare la nascita di Gesù Cristo; ma pochi son quelli che pensano a preparare i loro cuori, affinché possa nascervi in essi e riposarvi Gesù bambino. Ma tra questi pochi vogliamo essere ancora noi, acciocché ancora noi siam fatti degni di restare accesi da questo felice fuoco, che rende l’anime contente in questa terra e beate nel cielo.- Consideriamo in questo primo giorno che il Verbo Eterno appunto a questo fine da Dio si fece uomo, per infiammarci del suo divino amore. Cerchiamo lume a Gesù Cristo ed alla sua santissima Madre, e cominciamo.

Pecca Adamo il nostro primo padre; ingrato a tanti benefici ricevuti, si ribella da Dio, disubbedendo al precetto di non cibarsi del pomo vietato. Dio perciò è obbligato a cacciarlo qui in terra dal paradiso terrestre, ed a privare in futuro così Adamo, come tutti i discendenti di questo ribelle, del paradiso celeste ed eterno, che loro avea preparato dopo questa vita temporale. Ecco dunque gli uomini tutti condannati ad una vita di pene e di miserie, e per sempre esclusi dal cielo. Ma ecco Dio, come ci avvisa Isaia (Cap. LII), che a nostro modo d’intendere par che afflitto si lamenti, e pianga dicendo: Et nunc quid mihi est hic, dicit Dominus, quoniam ablatus est populus meus gratis? (Is. LII, 5). Ed ora, dice Dio, che mi è restato di delizia in paradiso, ora che ho perduto gli uomini ch’erano la mia delizia? Deliciae meae esse cum filiis hominum (Prov. 8, 31). Ma come, Signore, voi tenete in cielo tanti serafini, tanti angeli, e tanto vi accora l’aver perduti gli uomini? Ma che bisogno avete voi e degli angeli e degli uomini per compimento della vostra beatitudine? Voi sempre siete stato e siete in voi stesso felicissimo; che cosa mai può mancare alla vostra felicità ch’è infinita? Tutto è vero, dice Dio, ma perdendo l’uomo – gli fa dire Ugon cardinale sul citato testo d’Isaia – Non reputo aliquid me habere; io stimo di aver perduto tutto, mentre la delizia mia era di stare cogli uomini, ed ora questi uomini io gli ho perduti, ed essi i miseri son condannati a vivere per sempre lontani da me. Ma come può dire il Signore che gli uomini sono la sua delizia? Sì, scrive S. Tommaso, Dio ama tanto l’uomo, come se l’uomo fosse suo Dio, e come se egli senza l’uomo non potesse esser felice: Quasi homo Dei deus esset, et sine ipso beatus esse non posset (Opusc. LXIII, cap. 7). Soggiunge S. Gregorio Nazianzeno, e dice che Dio per l’amore che porta agli uomini par che sia uscito di se: Audemus dicere quod Deus prae magnitudine amoris extra se sit (Epist. VIII). Correndo già il proverbio che l’amore trae l’amante fuori di sé: Amor extra se rapit.

Ma no, disse poi Dio, io non voglio perdere l’uomo; via si trovi un Redentore che per l’uomo soddisfi la mia giustizia, e così lo riscatti dalle mani de’ suoi nemici, e dalla morte eterna a lui dovuta. Ma qui contempla S. Bernardo (Serm. I, in Annunc.), e si figura di vedere in contesa la giustizia e la misericordia divina. La giustizia dice: Io son perduta, se Adamo non è punito: Perii, si Adam non moriatur. La misericordia all’incontro dice: Io son perduta, se l’uomo non è perdonato: Perii, nisi misericordiam consequatur. In tal contesa decide il Signore che per salvare l’uomo reo di morte muoia un innocente: Moriatur qui nihil debeat morti. In terra non vi era chi fosse innocente. Dunque, disse l’Eterno Padre, giacché tra gli uomini non v’è chi possa soddisfare la mia giustizia, via su, chi vuole andare a redimere l’uomo? Gli angeli, i cherubini, i serafini, tutti tacciono, niuno risponde; solo risponde il Verbo Eterno, e dice: Ecce ego, mitte me. Padre, gli dice l’unigenito Figlio, la vostra maestà, essendo ella infinita, ed essendo stata offesa dall’uomo, non può esser ben soddisfatta da un angelo ch’è pura creatura; e benché voi vi contentaste della soddisfazione di un angelo, pensate che dall’uomo sinora con tanti benefici a lui fatti, con tante promesse e con tante minacce, pure non abbiam potuto ancora ottenere il suo amore, perché non ha conosciuto sinora l’amore che gli portiamo; se vogliamo obbligarlo senza meno ad amarci, che più bella occasione di questa possiamo trovare, che per redimerlo vada io vostro Figlio in terra, ivi io prenda carne umana, ed io pagando colla mia morte la pena da lui dovuta, così contenti appieno la vostra giustizia, e resti all’incontro l’uomo ben persuaso del nostro amore?

Ma pensa, o Figlio, gli rispose il Padre, pensa che addossandoti il peso di pagare per l’uomo, avrai da fare una vita tutta di pene. Non importa, disse il Figlio: Ecce ego, mitte me. Pensa che avrai da nascere in una grotta, che sarà stalla di bestie; di là dovrai fanciullo andare fuggiasco in Egitto, per fuggire dalle mani degli stessi uomini, che sin da fanciullo cercheranno di toglierti la vita. Non importa: Ecce ego, mitte me. Pensa che ritornato poi nella Palestina, ivi dovrai fare una vita troppo dura e disprezzata, vivendo da semplice garzone d’un povero artigiano. Non importa: Ecce ego, mitte me. Pensa che quando poi uscirai a predicare ed a manifestare chi sei, avrai sì bene alcuni, ma pochi, che ti seguiranno, ma la maggior parte ti disprezzeranno, chiamandoti impostore, mago, pazzo, samaritano; e finalmente ti perseguiteranno a tal segno che ti faran morire svergognato su d’un legno infame a forza di tormenti. Non importa: Ecce ego, mitte me.

Fatto dunque il decreto che ‘l divin Figlio si faccia uomo, ed egli sia il Redentore degli uomini, s’invia l’arcangelo Gabriele a Maria; Maria l’accetta per figlio: Et Verbum caro factum est. Ed ecco Gesù nell’utero di Maria, ch’entrato già nel mondo, tutto umile e ubbidiente dice: Giacché, Padre mio, non possono gli uomini soddisfare la vostra giustizia da loro offesa, colle loro opere e sagrifici, ecco me tuo Figlio, vestito già di carne umana, a soddisfarla colle mie pene e colla mia morte in vece degli uomini. Ideo ingrediens mundum, dicit:  Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi… tunc dixi: Ecce venio… ut faciam, Deus, voluntatem tuam (Hebr. V, 12).

Dunque per noi miseri vermi, e per cattivarsi il nostro amore, ha voluto un Dio farsi uomo? Sì, è di fede, come c’insegna la santa Chiesa: Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis,… et homo factus est. Sì questo ha fatto un Dio per farsi da noi amare. Alessandro il grande, dopo che vinse Dario e s’impadronì della Persia, egli per tirarsi l’affetto di quei popoli si fé vedere vestito alla persiana. Così appunto par che volle ancor fare il nostro Dio; per tirarsi l’affetto degli uomini, si vesti tutto alla foggia umana, e comparve fatt’uomo: Habitu inventus ut homo (Philip. II, 7). E così volle far vedere dove giungeva l’amore che portava all’uomo: Apparuit… gratia… Salvatoris nostri omnibus hominibus (Tit. II, 11). L’uomo non mi ama, par che dicesse il Signore, perché non mi vede; voglio farmi da lui vedere, e con lui conversare, e cosi farmi amare: In terris visus est, et cum hominibus conversatus est (Baruch, III, 38). L’amor divino verso l’uomo era troppo grande, e tal’era sempre stato ab eterno: In caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te miserans tui (Ier. XXXI, 3). Ma quest’amore non era ancora apparso quanto fosse grande ed incomprensibile. Allora veramente apparve, quando il Figlio di Dio si fé vedere da pargoletto in una stalla su della paglia: Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Tit. III, 4). Legge il testo greco: Singularis Dei erga homines apparuit amor. Dice S. Bernardo che prima era già apparsa nel mondo la potenza di Dio nella creazione, e la sapienza nel governo del mondo; ma solamente poi nell’Incarnazione del Verbo apparve quanto fosse grande la sua misericordia: Apparuerat ante potentia in rerum creatione, apparebat sapientia in earum gubernatione, sed benignitas misericordiae maxime apparuit in humanitate (S. Bern. Serm. I, de Nat.). Prima che Dio apparisse in terra fatt’uomo, non poteano giungere gli uomini a conoscere quanta fosse la bontà divina; perciò egli prese carne umana, acciocché apparendo da uomo si manifestasse agli uomini la grandezza della sua benignità: Priusquam appareret humanitas, latebat benignitas. Sed unde tanta agnosci poterat? Venit in carne ut, apparente humanitate, agnosceretur benignitas (S. Bern., Serm. I, in Epiph.). E in qual modo poteva meglio il Signore dimostrare all’uomo ingrato la sua bontà e l’amor che gli porta? L’uomo disprezzando Dio, dice S. Fulgenzio, s’era da Dio separato per sempre; ma non potendo più l’uomo ritornare a Dio, venne Dio a trovarlo in terra: Homo Deum contemnens, a Deo discessit, Deus hominem diligens, ad homines venit (S. Fulg., Serm. sup. Nat. Christi). E prima lo disse S. Agostino: Quia ad mediatorem venire non poteramus, ipse ad nos venire dignatus est. In funiculis Adam traham eos, in vinculis caritatis (Osee XI, 4). Gli uomini si fan tirare dall’amore; i segni d’affetto che taluno loro dimostra son certe catene che gli ligano e gli obbligano quasi per forza ad amare chi l’ama. A questo fine il Verbo Eterno volle farsi uomo per tirarsi con tal segno d’affetto – che maggiore non potea ritrovare – l’amore degli uomini: Deus factus est homo, ut familiarius ab homine diligeretur Deus (UGO de S. Vict., in Lib. Sent.). Ciò appunto par che volesse dare ad intendere il nostro Salvadore ad un divoto religioso francescano, chiamato il P. Francesco di S. Giacomo, come si narra nel Diario francescano a’ 15 di dicembre. Gli si diede a vedere più volte Gesù da vago fanciullo, ma volendolo seco ritenere il divoto frate, il fanciullo sempre fuggiva; onde di tali fughe amorosamente si lagnava il Servo di Dio. Un giorno di nuovo gli apparve il S. Bambino, ma come? Gli si fé vedere con ceppi d’oro in mano, per dargli così ad intendere ch’era allora venuto ad imprigionare lui, e ad essere da lui imprigionato, per più da esso non separarsi. Fatto con ciò ardito Francesco, pose i ceppi al piede del Bambino, e se lo strinse al cuore; ed in fatti di là avanti gli parve di vedersi come nel carcere del suo cuore, fatto suo perpetuo prigioniero, l’amato Bambino. Ciò che fece questa volta Gesù con questo suo servo, ben lo fé con tutti gli uomini allorché si fece uomo; volle già con tal prodigio d’amore esser come da noi incatenato, ed incatenare insieme i nostri cuori, obbligandoli ad amarlo, secondo quel che già aveva predetto per Osea: In funiculis Adam traham eos, in vinculis caritatis.

In diversi modi, dice S. Leone, aveva già Dio beneficato l’uomo; ma in niun modo meglio palesò l’eccesso della sua bontà, che inviandogli il Redentore ad insegnargli la via della salute ed a procurargli la vita della grazia: Diversis modis humano generi bonitas divina munera impertiit, sed abundantiam solitae benignitatis excessit, quando in Christo ipsa ad peccatores misericordia, ad errantes veritas, ad mortuos vita descendit (S. Leo, Serm. 4, de Nativ.). Dimanda S. Tommaso, perché l’Incarnazione del Verbo dicasi opera della Spirito Santo: Et incarnatus est de Spiritu Sancto. È certo che tutte le opere di Dio, chiamate da’ Teologi opera ad extra, sono opere di tutte e tre le divine persone; e perché poi l’Incarnazione si attribuisce alla sola persona dello Spirito Santo? La ragion principale che ne assegna l’Angelico è perché tutte l’opere del divin amore si attribuiscono allo Spirito Santo, ch’è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio; e l’opera dell’Incarnazione fu tutta effetto dell’immenso amore che Dio porta all’uomo: Hoc autem ex maximo Dei amore provenit, ut Filius Dei carnem sibi assumeret in utero Virginis (S. Thom., III p., q. 32, a. 1). E ciò volle significare il profeta dicendo: Deus ab austro veniet (Habac. III [3]). A magna caritate Dei in nos effulsit, commenta Ruperto abbate. A tal fine scrive ancora S. Agostino (Cap. 4, de Catech.) venne in terra il Verbo Eterno per far conoscere all’uomo quanto Dio l’amasse: Maxime propterea Christus advenit, ut cognosceret homo quantum eum diligat Deus. E S. Lorenzo Giustiniani (De casto connub., c. 23): In nullo sic amabilem suam hominibus patefecit caritatem, sicut cum Deus homo factus est.

Ma quel che più fa conoscere l’amore divino verso il genere umano, è che venne il Figlio di Dio a cercarlo quando l’uomo lo fuggiva; ciò significò l’Apostolo dicendo: Nusquam… angelos…, sed semen Abrahae apprehendit (Hebr. II , [16]). Commenta S. Grisostomo: Non dixit suscepit, sed apprehendit, ex metaphora insequentium eos qui aversi sunt, ut fugientes apprehendere valeant (Hom. V, in Epist. ad Hebr.). Venne Dio dal cielo quasi ad arrestare l’uomo ingrato che da lui fuggiva, come se gli dicesse: Uomo, vedi che per tuo amore io son venuto a posta in terra a cercarti; perché mi fuggi? Ferma, amami: non fuggire più da me che tanto t’amo.- Venne dunque Dio a cercare l’uomo perduto, ed acciocché l’uomo conoscesse meglio l’amore che questo Dio gli portava, e si rendesse ad amare chi tanto l’amava, volle nella prima volta che l’avesse avuto a mirare visibile, apparirgli da tenero bambino, posto sulle paglie. O paglie beate, più vaghe delle rose e de’ gigli, esclama S. Grisologo, e qual terra fortunata v’ha prodotte! E qual fortuna è mai la vostra in aver la sorte di servire di letto al Re del cielo! Ah! che voi – siegue a dire il santo – siete pur fredde per Gesù, mentre non sapete riscaldarlo in questa umida grotta, dov’egli ora se ne sta tremando di freddo; ma siete fuoco e fiamme per noi, giacché ci somministrate un incendio d’amore che non vagliono a smorzarlo tutte l’acque de’ fiumi: O felices paleas, rosis et liliis pulchriores, quae vos genuit tellus? Non palearum momentaneum, sed perpetuum vos suppeditatis incendium, quod nulla flumina exstinguent, (S. Petr. Chrys., serm. 38).

Non bastò, dice S. Agostino, al divino Amore l’averci fatti ad immagine sua nel creare il primo uomo Adamo, se non si fosse fatto egli poi ad immagine nostra nel redimerci: In homine fecit nos Deus ad imaginem suam; in hac die factus est ad imaginem nostram. Adamo si cibò del pomo vietato, ingannato dal serpente che aveva detto ad Eva che chi avesse assaggiato quel frutto, sarebbe diventato simile a Dio, acquistando la scienza del male e del bene. E perciò disse allora il Signore: Ecce Adam factus est quasi unus ex nobis (Gen., cap. 3). Ciò disse Dio per ironia e per rimproverare l’audacia di Adamo; ma noi dopo l’Incarnazione del Verbo con verità possiam dire: Ecco Dio diventato come uno di noi: Nunc vere dicimus, ecce Deus factus est quasi unus ex nobis (Riccar. de S. Vict.). Guarda dunque, o uomo, parla S. Agostino: Deus tuus factus est frater tuus: il tuo Dio si è fatto come te, figlio di Adamo come sei tu, s’è vestito della stessa tua carne, s’è fatto passibile e soggetto a patire e morire come te. Poteva egli assumer la natura d’angelo; ma no, volle prendere la stessa tua carne, acciocché soddisfacesse a Dio colla stessa carne – benché senza peccato – di Adamo peccatore. E di ciò egli se ne gloriava, chiamandosi spesso figliuolo dell’uomo; onde ben possiamo chiamarlo nostro vero fratello. È stato infinitamente maggior abbassamento, un Dio farsi uomo, che se tutti i principi della terra, tutti gli angeli e santi del cielo colla divina Madre si fossero abbassati a diventare un filo d’erba o un pugno di letame; si perché l’erba, il letame, ed i principi, gli angeli e santi son creature e creature, ma tra la creatura e Dio vi è una differenza infinita.

Ah che quanto più un Dio s’è umiliato per noi a farsi uomo, tanto maggiormente, dice S. Bernardo, ci ha fatto conoscere la sua bontà: Quanto minorem se fecit in humilitate, tanto maiorem se fecit in bonitate. Ma l’amore che ci porta Gesù Cristo, esclama l’Apostolo, troppo ci obbliga e ci stringe ad amarlo: Caritas… Christi urget nos (II Cor. V, 14). Oh Dio, che se la fede non ce ne assicurasse, chi mai potrebbe credere che un Dio per l’amore d’un verme, qual è l’uomo, siasi fatto verme come l’uomo! Se mai accadesse, dice un divoto autore, che voi camminando per una strada, a caso col piede schiacciaste un verme di terra, e l’uccideste; e poi avendone voi compassione, taluno vi dicesse: Or via, se volete voi restituire la vita a questo morto verme, bisogna prima che voi diventiate verme com’esso, e poi vi sveniate; e facendo un bagno dì tutto il vostro sangue, in quello dovrà immergersi il verme e riceverà la vita. Che rispondereste voi? E che m’importa, certamente direste, che ‘l verme risorga o resti morto, ch’io abbia da procurar la sua vita colla morte mia? E tanto più ciò direste, se quello non fosse un verme innocente, ma un aspide ingrato, che dopo averlo voi beneficato, avesse tentato di torvi la vita. Ma se mai l’amor vostro verso quest’aspide ingrato giugnesse a tanto che vi facesse già soffrire la morte per rendere ad esso la vita, che ne direbbero gli uomini? E’ che non farebbe per voi quel serpe, salvato colla vostra morte, se fosse capace di ragione? Ma questo ha fatto Gesù Cristo per voi verme vilissimo; e voi ingrato, se Gesù avesse potuto di nuovo morire, co’ vostri peccati avete già attentato più volte di torgli la vita. Quanto siete più vile voi a riguardo di Dio, che non è un verme a riguardo di voi? Che importava a Dio che voi rimaneste morto e dannato nel vostro peccato, come già meritavate? E pure questo Dio ha avuto tanto amore per voi, che per liberarvi dalla morte eterna, prima si e fatto verme come voi, e poi per salvarvi ha voluto spargere tutto il suo sangue, ed ha voluto patire la morte da voi meritata.

Sì, tutto è di fede. Et Verbum caro factum est (Luca I).Dilexit nos et lavit nos… in sanguine suo (Apoc. I, 5). La santa Chiesa in considerare l’opera della Redenzione si dichiara atterrita: Consideravi opera tua, et expavi (Resp. III, in 2. noct. Circumc.). Prima lo disse il profeta: Consideravi opera tua et expavi. Egressus es in salutem populi tui, in salutem cum Christo tuo (Habach III).Onde con ragione S. Tommaso chiamò il mistero dell’Incarnazione, Miraculum miraculorum. Miracolo incomprensibile, dove Dio dimostrò la potenza del suo amore verso gli uomini, che da Dio lo rendeva uomo, da Creatore creatura: Creator oritur ex creatura, dice S. Pier Damiani (Serm. I, de Nat.); da Signore lo rende a servo, da impassibile soggetto alle pene ed alla morte: Fecit potentiam in brachio suo (Luc. II).S. Pietro d’Alcantara in udire un giorno cantar l’Evangelio che si dice nella terza Messa di Natale, In principio erat Verbum, etc., in considerare questo gran mistero, talmente restò infiammato d’amore verso Dio, che in estasi fu portato per lungo tratto in aria a’ piedi del SS. Sacramento (Vita, I. 3, c. 1). E S. Agostino diceva che non si saziava di sempre considerare l’altezza della divina bontà nell’opera della Redenzione umana: Non satiabar considerare altitudinem consilii tui super salutem generis humani (Confess., cap. 6). E perciò il Signore mandò questo santo, per esser egli stato tanto divoto di questo mistero, a scriver sul cuore di S. Maria Maddalena de’ Pazzi le parole: Et Verbum caro factum est.

Chi ama, non ama ad altro fine che per essere amato; avendoci dunque Dio tanto amati, altro da noi non vuole, dice S. Bernardo, che ‘l nostro amore: Cum amat Deus, non aliud vult quam amari (Serm. 83, in Cant.). Onde poi ciascuna di noi esorta: Notam fecit dilectionem suam, ut experiatur et tuam. Uomo chiunque sei, hai veduto l’amore che ti ha portato un Dio in farsi uomo e patire e morire per te; quando sarà che Dio vedrà coll’esperienza e co’ fatti l’amore che tu gli porti? Ah che al vedere ogni uomo un Dio vestito di carne, che ha voluto fare per lui una vita così penosa, ed una morte cosi spietata, dovrebbe continuamente ardere d’amore verso questo Dio cosi amante. Utinam dirumperes coelos et descenderes; a facie tua montes defluerent…, aquae arderent igni (Is. LXIV, 1, [2]). Oh se ti degnassi, mio Dio – diceva il profeta, allorché non era ancora venuto in terra il divin Verbo – di lasciare i cieli e scendere qui tra noi a farti uomo! Ah che allora al vederti gli uomini fatto come uno di loro, montes defluerent, si spianerebbero tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà, che ora gli uomini incontrano nell’osservare le vostre leggi ed i vostri consigli. Aquae arderent igni, ah, che a questa fiamma che voi accendereste ne’ cuori umani, l’anime più gelate arderebbero del vostro amore. Ed in fatti dopo l’Incarnazione del Figlio di Dio, che bell’incendio d’amore divino s’è veduto risplendere in tante anime amanti! È certo che solo dagli uomini è stato più amato Dio in un solo secolo, dopo che Gesù Cristo è stato con noi, che in tutti gli altri quaranta secoli antecedenti alla sua venuta. Quanti giovani, quanti nobili, e quanti ancora monarchi hanno lasciate le loro ricchezze, gli onori, ed anche i regni, per ritirarsi o in un deserto o in un chiostro, poveri e disprezzati, per meglio amare questo lor Salvatore! Quanti martiri sono andati giubilando e ridendo a’ tormenti ed alla morte! Quante verginelle han rifiutate le nozze de’ grandi per andare a morire per Gesù Cristo, e così rendere qualche contraccambio d’affetto ad un Dio che s’è degnato d’incarnarsi e di morire per loro amore!

Sì, tutto è vero, ma – veniamo ora alle lagrime – è succeduto lo stesso in tutti gli uomini? Han tutti cercato di corrispondere a questo grande amore di Gesù Cristo? Oh Dio che la maggior parte poi l’han pagato e lo pagano d’ingratitudine! E tu, fratello mio, dimmi, come hai riconosciuto l’amore che ti ha portato il tuo Dio? L’hai ringraziato sempre? Hai considerato che cosa viene a dire un Dio farsi uomo per te, e per te morire?- Un cert’uomo assistendo alla Messa senza divozione, come fanno tanti, a quelle parole che in fine si dicono, Et Verbum caro factum est, non fé alcun segno di riverenza; allora un demonio gli diede un forte schiaffo, dicendo: Ingrato, senti che un Dio s’è fatt’uomo per te, e tu neppure ti degni d’inchinarti? Ah che se Iddio, disse, avesse fatto ciò per me, io in eterno starei per sempre ringraziandolo. – Dimmi, cristiano, che avea da fare più Gesù Cristo per farsi amare da te? Se il Figlio di Dio avesse avuto a salvar dalla morte il suo medesimo Padre, che più poteva fare che abbassarsi sino a prender carne umana, e sacrificarsi alla morte per la di lui salute? Dico più: se Gesù Cristo fosse stato un semplice uomo, e non già una persona divina, e avesse voluto con qualche segno d’affetto acquistarsi l’amore del suo Dio, che avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto per te? Se un servo tuo per tuo amore avesse dato tutto il sangue e la vita, non ti avrebbe già incatenato il cuore, ed obbligato almeno per gratitudine ad amarlo? E perché Gesù Cristo poi, giungendo a dare sino la vita per te, non ha potuto sinora giungere ad acquistarsi il tuo amore?

Ohimè che gli uomini disprezzano il divino amore, perché non intendono, diciam meglio, perché non vogliono intendere qual tesoro sia il godere la divina grazia, la quale, come disse il Savio, è un tesoro infinito: Infinitus est thesaurus, quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei  (Sap. VII, 14). Si stima la grazia d’un principe, d’un prelato, d’un nobile, d’un letterato, d’una carogna; e la grazia di Dio non si stima niente da taluni, mentre la rinunziano per un fumo, per un gusto bestiale, per un poco di terra, per un capriccio, per niente. Che dici, caro mio fratello, vuoi tu ancora annoverarti tra questi ingrati? Vedi, se non vuoi Dio, dice S. Agostino, se puoi ritrovare altra cosa migliore di Dio: Aliud desidera, si melius invenire potes.Va, ti trova un principe più cortese, un padrone, un fratello, un amico più amabile, e che t’ha amato più di Dio. Va, ti trova uno che possa meglio di Dio renderti felice in questa e nell’altra vita. Chi ama Dio non ha che temere di male, mentre Dio non sa non amare chi l’ama. Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17). E chi è amato da Dio, qual timore può mai avere? Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo? (Ps. II, 26). Così dicea Davide, e così diceano le sorelle di Lazzaro al Signore: Quem amas infirmatur (Io. XI, 3). Bastava lor sapere che Gesù Cristo amava il lor fratello, per credere che gli desse tutto l’aiuto per guarirlo. Ma come all’incontro può Dio, amare chi disprezza il suo amore? -Deh via risolviamoci una volta di rendere amore ad un Dio che tanto ci ha amato. E preghiamolo sempre, che ci conceda il gran dono del suo santo amore. Dicea S. Francesco di Sales che questa grazia di amare Dio è la grazia che dobbiamo desiderare e chiedere sopra ogni grazia, perché col divino amore ad un’anima viene ogni bene. Venerunt… omnia bona pariter cum illa (Sap VII, 11). Perciò diceva S. Agostino: Ama, et fac quod vis. Chi ama una persona sfugge quanto può di disgustarla, e va cercando sempre più di compiacerla. E così, chi veramente ama Dio non sa far cosa avvedutamente che gli dispiaccia, ma si studia quanto più può di dargli gusto.

E per ottenere più presto e più sicuramente questo dono del divino amore, ricorriamo alla prima amante di Dio; dico a Maria sua Madre, che fu così infiammata d’amor divino, che i demoni – come dice S. Bonaventura – non aveano ardire di accostarsi a tentarla: A sua inflammata caritate pellebantur, ut non ausi sint illi appropinquare. E soggiunge Riccardo che anche i serafini poteano scendere dal cielo ad imparare dal cuor di Maria il modo d’amare Dio: Seraphin e caelo descendere poterant, ut amorem discerent in corde Virginis. E perché il cuor di Maria fu già tutto fuoco d’amore divino, perciò, ripiglia S. Bonaventura, tutti coloro che amano questa divina madre, ed a lei si accostano, tutti ella gli accende dello stesso amore, e simili a lei li rende: Quia tota ardens fuit, omnes se amantes, eamque tangentes accendit, et sibi assimilat.

Se taluno ne’ discorsi volesse addurre qualche esempio di Gesù bambino, potrà avvalersi degli esempi posti dopo le Meditazioni.

Colloquio.

O ignis qui semper ardes, diciam con S. Agostino, accende me. O Verbo Incarnato, voi vi siete fatt’uomo per accendere ne’ nostri cuori il divino amore, e come avete potuto poi incontrare tanta sconoscenza ne’ cuori degli uomini? Voi per farvi da essi amare non avete risparmiato niente, vi siete indotto sino a dare il sangue e la vita; e come poi gli uomini vi sono cosi ingrati? Forse non lo sanno? Si lo sanno, e lo credono, che per essi voi siete venuto dal cielo a vestirvi di carne umana ed a caricarvi delle nostre miserie; sanno che per loro amore avete menata una vita di pene, ed abbracciata una morte ignominiosa; e poi come vivono cosi scordati di voi? Amano i parenti, amano gli amici, amano anche le bestie; se da quelle ricevono qualche segno d’affetto, cercano di rimunerarcelo e poi solo con voi sono così disamorati e sconoscenti? Ma oimè ch’io accusando quest’ingrati, accuso me stesso che peggio degli altri v’ho trattato! Ma mi dà animo la vostra bontà, la quale so che mi ha sopportato tanto, affin di perdonarmi e di accendermi del vostro amore, purch’io voglia pentirmi e voglia amarvi.

Sì, mio Dio, ch’io voglio pentirmi e mi pento con tutta l’anima d’avervi offeso; e voglio amarvi con tutto il cuore. Vedo già, mio Redentore, che ‘l mio cuore non meriterebbe più d’essere da voi accettato, poiché ha lasciato voi per amore delle creature; ma vedo che voi ciò non ostante pur lo volete; ed io con tutta la mia volontà ve lo consagro e dono. Infiammatelo dunque voi tutto del vostro santo amore, e fate che da oggi avanti non ami altro che voi, bontà infinita, degna d’un infinito amore. V’amo, Gesù mio, v’amo, sommo bene, v’amo, unico amore dell’anima mia.

O Maria madre mia, voi che siete la madre del bell’amore, Mater pulchrae dilectionis, voi impetratemi questa grazia di amare il mio Dio; da voi la spero.

 

DISCORSO II – Il Verbo Eterno da grande s’è fatto piccolo.

Parvulus natus est nobis, filius datus est nobis. (Is. XI, 6).

Dicea Platone che l’amore è la calamita dell’amore: Magnes amoris amor. Ond’è comune il proverbio riferito da S. Giovan Grisostomo: Si vis amari, ama; poiché non vi e mezzo più forte per tirarsi l’affetto di una persona, che amarla e farle conoscere ch’è amata.- Ma, Gesù mio, questa regola, questo proverbio, corre per gli altri, vale per tutti, ma non per voi. Con tutti sono grati gli uomini, fuorché con voi. Voi non sapete più che fare per dimostrare agli uomini l’amore che loro portate; voi non avete più che fare, per farvi amare dagli uomini; ma degli uomini quanti sono quelli che v’amano? Oh Dio, che la maggior parte, diciamo meglio, quasi tutti non v’amano né desiderano d’amarvi; anzi vi offendono e vi disprezzano. – Ma vogliamo ancor noi esser nel numero di questi ingrati? No, che non se lo merita questo Dio così buono e così amante di noi ch’essendo grande e d’infinita grandezza, ha voluto farsi piccolo per essere da noi amato. Cerchiamo luce a Gesù e Maria.

Per intendere quanto sia stato l’amore divino verso gli uomini in farsi uomo, e picciolo bambino per nostro amore, bisognerebbe intendere quanta sia la grandezza di Dio. Ma qual mente umana o angelica può comprendere la grandezza di Dio mentr’ella è infinita? Dice S. Ambrogio, che ‘l dire esser Dio più grande de’ cieli, di tutti i re, di tutti i santi, di tutti gli angeli, è un fare ingiuria a Dio, come sarebbe ingiuria ad un principe il dire ch’egli è più grande di un filo d’erba o d’un moschino. Dio è la grandezza medesima, ed ogni grandezza non è che una minima particella della grandezza di Dio. Considerando Davide la divina grandezza, e vedendo ch’egli non potea né mai avrebbe potuto giungere a comprenderla, altro non sapea dire che, Deus, quis similis tibi? (Ps. XXXIV, 10). Signore, e qual grandezza mai può trovarsi simile alla vostra? Ma come mai potea comprenderla Davide, se la sua mente era finita, e la grandezza di Dio è infinita? Magnus Dominus et laudabilis nimis; et magnitudinis eius non est finis (Ps. 144, 3). Caelum et terram ego impleo (Ier. XXIII, 24), dice Dio; sicché tutti noi, a nostro modo d’intendere, non siamo che tanti miseri pesciolini che viviamo dentro questo mare immenso dell’essenza di Dio: In ipso… vivimus, [et] movemur, et sumus (Act. XVII, 28).

Che siamo noi dunque a rispetto di Dio? e che sono tutti gli uomini, tutti i monarchi della terra, ed anche tutti i santi e tutti gli angeli del cielo, a fronte dell’infinita grandezza di Dio? Siam tutti come, anzi meno che non è un acino d’arena a rispetto di tutta la terra: Ecce gentes quasi stilla situlae…: quasi pulvis exigua (Is. XL, 15). Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo (Is. XL, 17).

Or questo Dio così grande, s’è fatto picciolo bambino; e per chi? Parvulus natus est nobis, per noi. E perché? risponde S. Ambrogio: Ille parvulus, ut vir possis esse perfectus; ille involutus pannis, ut tu a mortis laqueis absolutus sis; ille in terris, ut tu in caelis (In Luca, lib. 2, cap. 2). S’è fatto piccolo, dice il santo, per fare noi grandi: ha voluto esser ligato tra le fasce, per liberare noi dalle catene della morte: è disceso in terra, acciocché noi possiamo salire in cielo. Ecco dunque l’Immenso fatto bambino! Quello che non capiscono i cieli, eccolo ristretto tra poveri pannicelli, e posto in una picciola e vil mangiatoia d’animali, sopra poca paglia che gli serve di letto e di guanciale. Videas potentiam regi, dice S. Bernardo, sapientiam instrui, virtutem sustentari, Deum lactentem et vagientem, sed miseros consolantem. Guarda un Dio che tutto può, chiuso fra fasce, talmente che non può moversi! un Dio che tutto sa, fatto muto che non parla! un Dio che regge il cielo e la terra, aver bisogno d’esser portato in braccio! Un Dio che pasce di cibi tutti gli uomini e gli animali, aver bisogno d’un poco di latte per sostentarsi! Un Dio che consola gli afflitti ed è il gaudio del paradiso, che vagisce, che piange, che cerca chi lo consoli!

In somma, dice S. Paolo, che il Figlio di Dio, venendo in terra, Semet ipsum exinanivit (Philip. 2, 7), per così dire, si annichilò. E perché? Per salvare l’uomo, e per essere amato dall’uomo: Ubi te exinanivisti – S. Bernardo – ibi pietas, ibi caritas magis effulsit. Sì, caro mio Redentore, che quanto fu più grande il tuo abbassamento nel farti uomo e col nascere bambino, tanto maggiore fu la tua misericordia e l’amore che ci dimostrasti, affin di guadagnarti i nostri cuori.- Gli Ebrei, benché avessero la cognizione così certa del vero Dio con tanti segni loro dati, non erano però contenti, voleano mirarlo da faccia a faccia. Dio trovò il modo di contentare anche questo desiderio degli uomini; si fece uomo per farsi loro visibile: Sciens Deus visendi se desiderio cruciari mortales, unde se visibilem faceret, hoc elegit (S. Petr. Chrys., serm. 47). E per farsi a noi più caro, volle farsi vedere la prima volta da bambino, perché in questa guisa riuscisse a noi la sua vista più grata ed amabile. Se parvulum exhibuit, ut se ipsum faceret gratum (Id. Chrys.). Si umiliò a farsi vedere picciolo infante, per rendersi con tale abbassamento più gradevole a’ nostri affetti. Exinanitio facta ad usum nostrum (S. Cyr. Alex.), mentre questo era già il modo più atto a farsi da noi amare. – Ebbe ragione dunque il profeta Ezechiele di dire che ‘l tempo della vostra venuta in terra, o Verbo Incarnato, doveva essere il tempo degli amanti: Ecce tempus tuum, tempus amantium (Ezech. XVI, 8). E per che altro mai Dio ci ha amati tanto, e ci ha palesati tanti segni del suo amore, se non per esser da noi amato? Ad nihil amat Deus, nisi ut ametur, dice S. Bernardo. E lo disse prima lo stesso Dio: Et nunc, Israel, quid Dominus Deus tuus petit a te, nisi ut timeas… et diligas eum ? (Deuter. X, 12).

Egli per obbligarci ad amarlo non ha voluto mandare altri, ma ha voluto esso stesso con farsi uomo venire a redimerci. Fa una bella riflessione S. Giovan Grisostomo su quelle parole dell’Apostolo: Non enim angelos apprehendit, sed semen Abrahae (Hebr, cap. II).

Dimanda il santo (Hom. in loc cit.): Quare non dixit, suscepit, sed apprehendit? Perché non disse S. Paolo semplicemente, Dio prese carne umana, ma disse che la pigliò come per forza, secondo significa più propriamente la parola apprehendit? E risponde che disse così, ex metaphora insequentium eos qui versi sunt; per ispiegare che Dio desiderava già d’essere amato dall’uomo, ma l’uomo gli voltava le spalle, e non volea neppure conoscere il di lui amore; onde Dio venne dal cielo e prese carne umana, per farsi così conoscere e farsi amare quasi per forza dall’uomo ingrato che lo fuggiva.

Per ciò dunque il Verbo Eterno si fece uomo, e per ciò ancora si fece bambino. Poteva egli venire a comparir sulla terra uomo perfetto, come comparve il primo uomo Adamo. No, il Figlio di Dio volle comparire all’uomo in forma di grazioso pargoletto, affin di tirarsi più presto e con più forza il di lui amore. I bambini per se stessi si fanno amare e si tiran l’amore di ciascun che gli guarda. A questo fine, dice S. Francesco di Sales, il Verbo divino fé vedersi bambino, per conciliarsi così l’amore di tutti gli uomini. E S. Pier Grisologo scrive: Et qualiter venire debuit qui voluit pellere timorem, quaerere caritatem? Infantia haec quam barbariem non solvit, quid non amoris expostulat? Sic ergo nasci voluit qui amari voluit, non timeri (Serm. 138). Se il nostro Salvatore – vuol dire il santo – avesse preteso colla sua venuta di farsi temere e rispettare dagli uomini, più presto avrebbe presa la forma d’uomo già perfetto e di dignità regale; ma perché egli veniva per guadagnarsi il nostro amore, volle venire e farsi vedere da bambino, e tra’ bambini il più povero ed umile, nato in una fredda grotta, in mezzo a due animali, collocato in una mangiatoia e steso sulla paglia senza panni bastanti e senza fuoco. Sic nasci voluit qui amari voluit, non timeri.– Ah mio Signore, chi mai dal trono del cielo vi ha tirato a nascere in una stalla? È stato l’amore che portate agli uomini. Chi dalla destra del Padre dove sedete, vi ha messo a stare in una mangiatoia? Chi dal regnare sulle stelle vi ha posto a giacere sulla paglia? Chi da mezzo agli angeli vi ha collocato a stare in mezzo a due animali? È stato l’amore. Voi infiammate i Serafini, ed ora tremate di freddo? Voi sostenete i cieli, ed ora avete bisogno d’esser portato al braccio? Voi provvedete di cibo gli uomini e le bestie, ed ora avete bisogno d’un poco di latte per sostentarvi la vita? Voi rendete beati i santi, ed ora vagite e piangete? Chi mai vi ha ridotto a tanta miseria? È stato l’amore. Sic nasci voluit qui amari voluit, non timeri.

Amate dunque, amate, o anime, esclama S. Bernardo, amate pure questo bambino ch’è troppo amabile: Magnus Dominus et laudabilis nimis. Parvulus Dominus et amabilis nimis (Ser. 17, in Cant.). Sì, questo Dio, dice il santo, era già prima ab eterno, com’è anche al presente, degno d’ogni lode e rispetto per la sua grandezza, come già cantò Davide: Magnus Dominus et laudabilis nimis. Ma ora che lo vediamo fatto picciolo bambinello, bisognoso di latte, e che non può muoversi, che trema di freddo, che vagisce, che piange, che cerca chi lo prenda, chi lo riscaldi, chi lo consoli: ah che ora egli si è fatto troppo amabile a’ nostri cuori! Parvulus Dominus et amabilis nimis. Dobbiamo adorarlo come Dio, ma a pari della riverenza deve in noi regnare l’amore verso un Dio così amabile e così amante. –Puer cum pueris – ci avverte S. Bonaventura – cum floribus, cum brachiis libenter esse solet. Se vogliamo compiacere questo Fanciullo, vuol dire il santo, bisogna che ci facciamo fanciulli anche noi, semplici ed umili; portiamogli fiori di virtù, di mansuetudine, di mortificazione, di carità; stringiamolo tra le nostre braccia coll’amore. E che aspetti più di vedere- soggiunge S. Bernardo – o uomo, per darti tutto al tuo Dio? Vedi con quanta fatica, con quale ardente amore è venuto dal cielo il tuo Gesù a cercarti: Oh quanto labore, et quam ferventi amore quaesivit animam tuam amorosus Iesus! Senti, siegue a dire, com’egli appena nato a guisa de’ bambini co’ suoi vagiti ti chiama, come dicesse: Anima mia, te cerco; per te e per acquistarmi il tuo amore son venuto dal cielo in terra: Virginis uterum vix egressus dilectam animam tuam more infantium vocat, a, a, Anima mea, anima mea, te quaero, pro te hanc peregrinationem assumo.

Oh Dio, che anche le bestie, se noi loro facciamo qualche beneficio, qualche piccolo dono, ci sono così grate, ci vengono appresso, ci ubbidiscono al loro modo come sanno, danno segni d’allegrezza quando ci vedono. E noi perché poi siamo così ingrati con Dio, che ci ha donato se stesso, ch’è sceso dal cielo in terra, e s’è fatto bambino per salvarci e per essere amato da noi? Or via amiamo il Fanciullo di Betlemme, Amemus Puerum de Bethlehem, esclamava l’innamorato S. Francesco; amiamo Gesù Cristo, che con tanti stenti ha cercato di guadagnarsi i nostri cuori.

E per amor di Gesù Cristo dobbiamo amare i nostri prossimi; anche coloro che ci hanno offesi. Il Messia fu chiamato da Isaia Pater futuri saeculi; ora per essere figli di questo Padre, Gesù stesso ci ammonì che dobbiamo amare i nostri nemici, e far bene a chi ci fa male: Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos… ut sitis filii Patris vestri (Matth. V, [44], 45). E di ciò egli medesimo ce ne diede l’esempio sulla croce, pregando l’Eterno Padre a perdonare coloro che lo crocifiggevano. Chi perdona il nemico, dice S. Giovan Crisostomo, non può restare non perdonato da Dio: Non est possibile quod homo qui dimiserit proximo non recipiant remissionem a Domino. E n’abbiamo la promessa anche divina: Dimittite et dimittemini (Luc. IV, 37.): Perdonate e sarete perdonati. Un certo religioso, il quale per altro non aveva fatta una vita molto esemplare, in morte piangeva i suoi peccati, ma con molta confidenza ed allegrezza, poiché, diceva, Numquam iniurias vindicavi. Volendo dire: È vero ch’io ho offeso il Signore, ma egli ha promesso il perdono a chi perdona i suoi nemici; io ho perdonato chi m’ha offeso, dunque debbo star sicuro che Dio perdoni anche me.

Ma generalmente poi parlando per tutti, come mai possiamo noi peccatori diffidare del perdono, pensando a Gesù Cristo? Il Verbo Eterno a questo fine s’è umiliato a prender carne umana, per ottenerci il perdono da Dio: Non… veni vocare iustos, sed peccatores (Matth. IX, [13]). Onde replichiamogli con S. Bernardo: Ubi te exinanivisti, ibi pietas, ibi caritas magis effulsit. E ben ci fa animo S. Tommaso da Villanova, dicendo: Quid times, peccator? quomodo damnabit poenitentem, qui moritur ne damneris? quomodo abiiciet redeuntem, qui de caelo venit, quaerens te? Che timore hai, diceva il santo, misero peccatore? Se tu ti penti de’ tuoi peccati, come ti condannerà quel Signore che muore per non condannarti? E se tu vuoi ritornare alla sua amicizia, come ti caccerà quegli ch’è venuto dal cielo a cercarti?

Non tema dunque il peccatore che non vuol essere più peccatore, ma vuole amare Gesù Cristo; non si spaventi, ma confidi: se odia il peccato e cerca Dio, non sia afflitto, ma lieto: Laetetur cor quaerentium Dominum (Ps. CIII, 15). Il Signore si è protestato che vuole scordarsi dell’ingiurie ricevute, se ‘l peccatore se ne duole: Si… impius egerit poenitentiam…, omnium iniquitatum eius… non recordabor (Ezech. XVIII, 21 [22]). – E ‘l nostro Salvatore affin di darci maggior confidenza, s’è fatto bambino. Ad parvulum quis accedere formidat? siegue a dire lo stesso S. Tommaso da Villanova. Chi mai si atterrisce di accostarsi ad un bambino? I bambini non ispirano già spavento e sdegno, ma dolcezza ed amore: Puer nescit irasci; et si irascitur, facile placatur, dice S. Pier Grisologo. I fanciulli par che non sanno sdegnarsi; e se mai qualche volta si adirano, è facile placarli; basta donar loro un frutto, un fiore, basta far loro una carezza, dir loro una parola d’affetto, che subito perdonano, e si scordano d’ogni offesa loro fatta. Basta una lagrima di dolore, basta un pentimento di cuore per placare Gesù bambino. Parvulorum mores agnoscitis, siegue a parlare S. Tommaso da Villanova: una lacrymula placatur offensus, iniuriam non recordatur. Accedite ergo ad eum dum parvulus est, dum maiestatis videtur oblitus. Egli ha deposta la sua maestà divina, e si fa veder da bambino per darci più animo di accostarci a’ suoi piedi. Nascitur parvulus, ut non formides potentiam, non iustitiam, dice S. Bonaventura. Egli per liberarci dalla diffidenza che potrebbe causarci il pensiero della sua potenza e della sua giustizia, ci si presenta da bambino, tutto pieno di dolcezza e di misericordia. Celasti, Deus, dice il Gersone, sapientiam in infantuli aetate, ne accuset; oh Dio di misericordia, voi avete nascosta la vostra divina sapienza nello stato d’un fanciullino, acciocché quella non ci accusi de’ nostri delitti. Iustitiam in humilitate, ne condemnet, avete nascosta la vostra giustizia nell’abbassamento, acciocché quella non ci condanni. Potentiam in infirmitate, ne cruciet, avete nascosta la vostra potenza, nella debolezza, acciocché quella non ci castighi.

Adamo, riflette S. Bernardo, dopo il suo peccato in sentir la voce di Dio che lo chiamava, Adam, ubi es? Tutto si riempì di spavento, vocem tuam audivi, et timui. Ma il Verbo Incarnato, dice il santo, Homo natus terrorem deposuit, comparendo da uomo in terra, ha lasciate tutte le sembianze di spavento. Perciò soggiunge il santo, discaccia ora il timore, or che viene il tuo Dio non a castigarti, ma a salvarti. Ecce infans est et sine voce; nam infantis vox magis est miseranda, quam timenda; tenera membra virgo mater pannis alligat, et adhuc trepidas? (Serm. 1, in Nat.). Quel Dio che dovea punirti si è fatto bambino, e non ha più voce che ti spaventi, poiché la voce d’un infante, essendo voce di pianto, muove più presto a pietà che a terrore; non puoi temere che Gesù Cristo stenda le mani per castigarti, mentre la madre gli stringe le mani tra le fasce acciocché non ti castighi. Allegramente dunque, o peccatori, dice S. Leone: Natalis Domini, natalis est pacis, la nascita di Gesù è nascita di allegrezza e di pace. Princeps pacis fu chiamato da Isaia; principe è Gesù Cristo, non di vendetta contro i peccatori, ma di misericordia e di pace, facendosi mediatore di pace tra i peccatori e Dio.

Si peccata nostra superant nos, dice S. Agostino, sanguinem suum non contemnit Deus: Se noi non possiamo soddisfare a’ debiti che abbiamo colla divina giustizia, l’Eterno Padre non sa disprezzare il sangue di Gesù Cristo che paga per noi. Un certo cavaliere, chiamato D. Alfonso Alburgherche, viaggiando per mare, ed essendo naufragata la nave tra scogli, si stimò già morto; ma avendosi veduto casualmente un bambino accanto che piangeva, che fece? Se lo prese in braccio, e poi alzandolo verso il cielo: Signore, disse, se non merito io d’esser esaudito, esaudite almeno il pianto di questo bambino innocente, e salvateci. Dopo ciò, si calmò la tempesta e restò salvo. Facciamo così ancora noi miseri peccatori; noi abbiamo offeso Dio, già siamo stati condannati alla morte eterna; la divina giustizia cerca d’esser soddisfatta, ed ha ragione; che abbiam da fare? disperarci? no, offeriamo a Dio questo bambino che gli è Figlio, e diciamogli con confidenza: Signore, se noi non possiamo soddisfarvi per l’offese che vi abbiam fatte, ecco che questo bambino che vagisce, che piange, che trema di freddo sulla paglia in questa spelonca, vi sta soddisfacendo per noi, e vi cerca pietà. Se non meritiamo noi perdono, lo meritano i patimenti e le lagrime di questo vostro Figlio innocente, che vi prega a perdonarci. Questo è quello che ci avverte a fare S. Anselmo; dice il santo che Gesù stesso per il desiderio che tiene di non vederci perduti, a chi di noi si trova reo con Dio, gli fa animo dicendo: Peccatore, non diffidare, se tu per li tuoi peccati già sei fatto schiavo dell’inferno, e non hai modo di liberartene, fa così: piglia me, offeriscimi per te al Padre mio, e così scamperai la morte e sarai salvo: Quid misericordius intelligi valet, quod Filius dicat: Tolle me et redime te? E ciò ancora insegnò la divina Madre a Suor Francesca Farnese; le diede in braccio Gesù bambino, e poi le disse: Eccoti questo mio Figlio, sappiatene prevalere con offerirlo spesso a Dio.

E se vogliamo più assicurarci del perdono, interponiamoci l’intercessione di questa medesima divina Madre, la quale è onnipotente appresso il Figlio per ottenere il perdono a’ peccatori, come disse S. Giovanni Damasceno; sì, perché le preghiere di Maria, come dice S. Antonino, appresso il Figlio che tanto l’ama e tanto cerca di vederla onorata, han ragione di comando: Oratio Deiparae habet rationem imperii. Onde scrisse S. Pier Damiani che quando Maria va a pregar Gesù Cristo a favore di qualche suo divoto, Accedit – in certo modo imperans, non rogans: Domina, non ancilla; nam Filius nihil negans honorat {Serm. 1, de Nat. B. V.). E perciò soggiunge S. Germano che la SS. Vergine per l’autorità di madre che tiene, o per meglio dire, che tenne un tempo col Figlio in terra, può impetrare il perdono ad ogni più perduto peccatore: Tu autem materna auctoritate pollens, etiam iis qui enormiter peccant eximiam remissionis gratiam concilias (In encom. B. V.).

Colloquio.

O dolce, o amabile, e santo mio Bambino, voi per farvi amare dagli uomini non avete saputo più che fare. Basta dire che da Figlio di Dio vi siete fatto figlio dell’uomo; e tra gli uomini avete voluto nascere come tutti gli altri bambini, ma più povero e più avvilito degli altri, eleggendovi una stalla per casa, una mangiatoia per culla, e un poco di paglia per letto. Avete voluto comparire a noi la prima volta in questa sembianza di povero pargoletto, per cominciare così a tirarvi i nostri cuori sin dalla vostra nascita; seguendo poi per tutta la vostra vita a dimostrarci sempre maggiori segni del vostro amore, sino a voler morire svenato e svergognato sopra di un legno infame. E come avete potuto poi trovare tanta sconoscenza appresso la maggior parte degli uomini, mentre vedo che pochi vi conoscono, e più pochi sono quelli che v’amano? Ah Gesù mio, tra questi pochi voglio essere anch’io. Per lo passato io pure v’ho sconosciuto, e scordato del vostro amore non ho atteso che a soddisfarmi, senza far conto di voi e della vostra amicizia. Ma ora conosco il male che ho fatto: me ne dolgo, me ne dispiace con tutto il cuore. Bambino mio, e Dio mio, perdonatemi per li meriti della vostra santa infanzia.

Io v’amo, e v’amo tanto, o Gesù mio, che se sapessi che tutti gli uomini avessero a ribellarsi da voi e abbandonarvi, io vi prometto di non lasciarvi, ancorché avessi a perdervi mille volte la vita. So già che questa luce e questa buona volontà che ora ho, voi me la date; ve ne ringrazio, amor mio, e vi prego a conservarmela colla grazia vostra. Ma voi sapete la mia debolezza, sapete i tradimenti che vi ho fatti, per pietà non mi abbandonate; altrimenti io tornerò ad essere peggiore di prima. Accettate ad amarvi il mio povero cuore che un tempo v’ha disprezzato, ma ora s’è innamorato della vostra bontà, o infante divino.

O Maria, o gran Madre del Verbo Incarnato, non mi abbandonate neppure voi che siete la madre della perseveranza e la dispensiera delle divine grazie. Aiutatemi e aiutatemi sempre; col vostro aiuto, o speranza mia, confido d’esser fedele a Dio sino alla morte.

DISCORSO III – Il Verbo Eterno da signore si è fatto servo.

Humiliavit semet ipsum formam servi accipiens. (Philip. II, 8).

Considerando S. Zaccaria la gran misericordia del nostro Dio nell’opera della Redenzione umana, ebbe ragione di esclamare: Benedictus Dominus Deus Israel, quia visitavit et fecit redemptionem plebis suae ,(Luc. I, 68): Sia benedetto sempre Iddio, che si è degnato di scendere in terra e farsi uomo per redimere gli uomini. Ut sine timore de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus illi: Acciocché sciolti dalle catene del peccato e della morte, con cui ci tenean legati e schiavi i nostri nemici, senza timore, ed acquistando la libertà de’ figli di Dio, possiamo in questa vita servirlo ed amarlo, per poi andare a possederlo e a goderlo da faccia a faccia nel regno de’ beati, che prima a noi era chiuso, ma ora ci viene aperto dal nostro Salvatore. Dunque tutti noi eravamo già schiavi dell’inferno; ma il Verbo Eterno, il nostro supremo Signore, per liberarci da tale servitù, che ha fatto? da signore si è fatto servo. Consideriamo qual misericordia e qual amore immenso è stato questo; ma prima cerchiamo luce a Gesù e a Maria.

Iddio è il Signore del tutto che vi è e vi può essere nel mondo: In ditione tua cuncta sunt posita; tu enim creasti omnia. Chi mai può negare a Dio il dominio supremo sopra tutte le cose, se egli è il creatore ed il conservatore del tutto? Et [habet] in vestimento et in femore suo scriptum: Rex regum, et Dominus dominantium (Apoc. XIX, 16). Spiega quell’in femore il Maldonato, e dice, suapte natura; e vuol dire, che a’ monarchi della terra sta la maestà annessa al di fuori, per dono e favore del supremo Re ch’è Dio: ma Dio è Re per natura; sicché non può non essere egli il Re e Signore del tutto. Ma questo supremo Re dominava nel cielo sugli angeli, dominava sopra tutte le creature, ma non dominava sopra i cuori degli uomini; gli uomini miseramente gemevano sotto la schiavitù del demonio. Sì, questo tiranno, prima della venuta di Gesù Cristo, era il signore che dagli uomini si faceva adorare anche per Dio con incensi e con sacrifici, non solo di animali, ma anche de’ propri figli e delle proprie vite; ed egli, il nemico, il tiranno, che cosa loro rendeva? come li trattava? Con somma barbarie tormentava i loro corpi, accecava le loro menti, e per una via di pene miseramente li conduceva alla pena eterna. Questo tiranno venne il Verbo divino ad abbattere, ed a liberare gli uomini dalla di lui troppo infelice servitù, affinché i miseri liberati dalle tenebre di morte, sciolti dalle catene di questo barbaro regnante, ed illuminati a conoscere qual fosse la vera via della loro salute, servissero al lor vero e legittimo Signore, che l’amava da padre, e da servi di Lucifero volea renderli suoi diletti figli: Ut sine timore de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus illi. Predisse già il profeta Isaia che ‘l nostro Redentore dovea distruggere l’imperio che tenea il demonio sopra degli uomini: Sceptrum exactoris eius superasti. E perché il profeta chiamò il demonio esattore? perché, dice S. Cirillo, questo barbaro padrone da’ poveri peccatori suoi schiavi suole esigere gravissimi tributi di passioni, di rancori e di affetti malvagi, co’ quali a sé più gl’incatena, e nello stesso tempo li flagella. Venne dunque il nostro Salvatore a liberarci dalla servitù di questo nemico, ma come? in qual modo egli ci liberò? Sentite che fece, dice S. Paolo: Cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semet ipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus. Era già egli, dice l’Apostolo, il Figlio unigenito di Dio, eguale al suo Padre, eterno come il Padre, onnipotente come il Padre, immenso, sapientissimo, e supremo Signore del cielo e della terra, degli angeli e degli uomini come il Padre; ma per amore dell’uomo si abbassò a prender la forma di servo, con vestirsi di carne umana e farsi simile agli uomini; e perché questi per cagion de’ loro peccati eran divenuti servi del demonio, venne in forma di uomo a redimerli, con soddisfare colle sue pene e colla sua morte alla divina giustizia la pena da loro meritata. Ah se la santa fede di ciò non ci assicurasse, chi mai avrebbe potuto crederlo? chi mai sperarlo? chi mai neppure immaginarlo? Ma la fede ci fa sapere e ce ne fa certi, che questo sommo, supremo Signore exinanivit semet ipsum, formam servi accipiens.

E sin da bambino volle il Redentore, facendosi servo, cominciare a spogliar il demonio del dominio che avea sopra dell’uomo, siccome predisse Isaia: Voca nomen eius: Accelera spolia detrahere: Festina praedari. Hoc est, spiega S. Girolamo, ne ultra patiatur regnare diabolum. Ecco Gesù, che appena nato, dice Beda, per ottenere a noi la liberazione dalla schiavitù dell’inferno, comincia a far la figura e l’officio di servo, facendosi descrivere per suddito di Cesare colla paga del censo: Mox natus censu Caesaris adscribitur, et ob nostri liberationem ipse servitio adscribitur. Eccolo come in segno della sua servitù per cominciare a pagare colle sue pene i nostri debiti, qual servo si lascia da bambino ligare dalle fasce – simbolo delle funi, colle quali dovea poi un giorno farsi ligare da’ carnefici per esser condotto alla morte-. Patitur Deus, dice un autore, se pannis alligari, eo quod venerat mundi debita soluturus. Eccolo poi per tutta la sua vita ubbidire qual suddito ad una vergine, ad un uomo: Erat subditus illis. Eccolo qual servo in quella povera casa di Nazaret applicato da Maria e da Giuseppe ora a dirozzare i legni atti al lavoro dell’arte di Giuseppe, ora a raccogliere i frammenti di quei legni per fuoco, ora a scopar la casa, a prender l’acqua, ad aprire e serrar la bottega; in somma, dice S. Basilio ch’essendo Maria e Giuseppe poveri, e dovendo vivere colle proprie fatiche, Gesù Cristo per esercitare l’ubbidienza e per dimostrare loro la riverenza, che come a superiori loro portava, cercava di far esso tutte le fatiche che umanamente poteva adempire: In prima aetate (Iesus) subditum parentibus omnem laborem corporalem obedienter sustinuit. Cum enim illi essent pauperes, merito laboribus dediti erant. Iesus autem his subditus, omnium etiam simul perferendo labores, obedientiam declarabat (Instit. monach., cap. 4). Un Dio che serve! un Dio che scopa la casa! un Dio che fatica! Ah che un pensiero di questi dovrebbe infiammarci tutti e incenerirci d’amore.

Quindi uscendo a predicare il nostro Salvatore, si fece servo di tutti, dichiarando ch’egli non era venuto ad essere servito, ma a servire tutti: Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare (Matth. XX, 28). Come se dicesse, secondo commenta Cornelio a Lapide: Ita me gessi et gero, ut velim omnibus ministrare, quasi omnium servus. Indi Gesù Cristo in fine di sua vita, dice S. Bernardo che si contentò, non solo di prender la forma di semplice servo, per soggettarsi agli altri, ma anche di servo malvagio, per esser in tal forma castigato, e così pagare la pena che toccava a noi come servi dell’inferno in castigo de’ nostri peccati: Non solum formam servi accipiens, ut subesset, sed etiam mali servi, ut vapularet et servi peccati ut poenam solveret. Eccolo finalmente, dice S. Gregorio Nisseno, che ‘l Signore di tutti qual suddito ubbidiente si sottomette alla sentenza benché ingiusta di Pilato, ed alle mani de’ carnefici, che barbaramente lo tormentano e lo crocifiggono: Omnium Dominus iudicis sententiae subiicitur, omnium rex carnificum manum experiri non gravatur (Tom. II, cap. 7). E lo disse già prima S. Pietro: Tradebat autem iudicanti se iniuste (I Petr. II, 23). E qual servo che volontariamente si sottomette al castigo, come se giustamente lo meritasse, cum malediceretur non maledicebat, cum pateretur non comminabatur. Sicché questo Dio ci amò a tal segno, che per nostro amore volle ubbidire da servo sino a morire, e morire con una morte amara ed ignominiosa, qual’è la morte di croce: Factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Ubbidì non già come Dio, ma come uomo, come servo che si fece: Formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus. Fece ammirare il mondo quel grande atto di carità che fé S. Paolino allorché si rendé schiavo per riscattare il figlio ad una povera vedova. Ma che ha che fare questa carità con quella del nostro Redentore, che essendo Dio, per riscattar noi dalla schiavitù del demonio e dalla morte a noi dovuta, si fé servo, si fé ligare con funi, si fé inchiodar sulla croce, dove lasciar volle finalmente la vita in un mare di disprezzi e di dolori? Acciocché il servo diventasse padrone, dice S. Agostino, volle Dio farsi servo: Ut servus in dominum verteretur, formam servi Dominus accepit.

O mira circa nos tuae pietatis dignatio! O inaestimabilis dilectio caritatis! esclama la S. Chiesa (In sab. s., Exult.). O ammirabile opera di misericordia, o imprezzabile degnazione dell’amore divino: Ut servum redimeres Filium tradidisti. Voi dunque, o Dio d’infinita maestà, siete stato cosi preso d’amore verso gli uomini, che per redimere questi servi ribelli, avete voluto condannare alla morte il vostro unico Figlio? Ma, Signore, gli dice all’incontro Giobbe: Quid est homo, quia magnificas eum? aut quid apponis erga eum cor tuum? (Iob VII, 17). Che cosa è l’uomo, il quale è cosi vile, e vi è stato cosi ingrato, che voi lo rendete si grande, onorandolo ed amandolo tanto? Ditemi, siegue a dire, ché tanto v’importa la salute e la felicità dell’uomo? Ditemi perché tanto l’amate, che par che il vostro cuore non attenda ad altro che ad amare e a render beato quest’uomo?

Allegramente dunque, o anime, che amate Dio e sperate in Dio, allegramente; se il peccato di Adamo, e più i peccati propri ci han recato gran danno, intendiamo che bene assai maggior del danno ci ha apportato la Redenzione di Gesù Cristo. Ubi… abundavit delictum, superabundavit gratia, ci fa sapere l’Apostolo (Rom. V, 20). Maggiore è stato l’acquisto dice anche S. Leone – che noi abbiamo fatto per la grazia del Redentore, che non è stata la perdita che abbiam patita per opera del demonio: Ampliora adepti sumus per Christi gratiam, quam per diaboli amiseramus invidiam (Serm. 1, de Ascens.). E ‘l predisse già Isaia che l’uomo per mezzo di Gesù Cristo dovea ricever da Dio maggiori grazie, che non eran le pene che meritavano i suoi peccati: Suscepit de manu Domini duplicia pro omnibus peccatis suis (Is. XL, 2). Così appunto spiega questo testo l’interprete Adamo appresso Cornelio a Lapide: Deus ita dimisit Ecclesiae iniquitates per Christum, ut duplicia – id est multiplicia bona – susceperit pro poenis peccatorum, quas merebatur. Disse il Signore: Ego veni, ut vitam abeant, et abundantius habeant (Io. X,10). Io son venuto a dar la vita all’uomo, ed una vita più abbondante di quella che avea perduta col peccato: Non sicut delictum, ita et donum (Rom. V, 15). È stato grande il peccato dell’uomo, ma più grande è stato, dice l’Apostolo, il dono della Redenzione, la quale non solo è stata sufficiente al rimedio, ma sovrabbondante: Et copiosa apud eum redemptio (Ps. CXXIX, [7]). Dice S. Anselmo che il sacrificio della vita di Gesù Cristo superò ogni debito de’ peccatori: Vita hominis illius superat omne debitum quod debent peccatores (De Red. hom., c. 5). Onde la S. Chiesa chiama felice la colpa di Adamo: O felix culpa, quae tantum meruit habere Redemptorem! È vero che ‘l peccato ci ha ottenebrata la mente nella cognizione delle verità eterne, e ci ha intromessa nell’anima la concupiscenza verso i beni sensibili e vietati dalla divina legge; sì, ma quanti aiuti e mezzi ci ha ottenuti Gesù Cristo co’ suoi meriti, per acquistare la luce e la forza di vincere tutti i nostri nemici, e d’avanzarci nelle virtù! I santi sacramenti, il sacrificio della Messa, la preghiera a Dio per li meriti di Gesù Cristo, ah che queste son armi e mezzi valevoli non solo ad ottener la vittoria contro ogni tentazione e concupiscenza, ma anche di correre e volare nella via della perfezione. È certo che con questi mezzi stessi che son dati a noi, si son fatti santi tutti i santi della nuova legge. La colpa e nostra dunque, se non ce ne vogliamo avvalere. Oh quanto dobbiamo più noi ringraziare Dio, che ci ha fatti nascere dopo la venuta del Messia! Quanti maggiori beni abbiam ricevuto noi dopo la Redenzione fatta da Gesù Cristo! Quanto desiderò Abramo, quanto desiderarono i profeti, i patriarchi dell’antico testamento di veder nato il Redentore! ma non lo videro. Assordarono per così dire i cieli coi loro sospiri e colle loro preghiere. Rorate caeli desuper, esclamavano, et nubes pluant iustum (Is. XLV, 8). Piovete, o cieli, ed inviate a noi il giusto a placare Dio sdegnato, che non può esser placato da noi, poiché tutti siam peccatori. Emitte agnum… dominatorem terrae (Is. XVI, 1). Mandate, o Signore, l’agnello, che sagrificando se stesso soddisferà per noi la vostra giustizia, e cosi regnerà ne’ cuori degli uomini, che in questa terra vivono miseramente schiavi del demonio... Ostende nobis… misericordiam tuam, et salutare tuum da nobis (Ps. LXXXIV, 8). Dimostrate su presto a noi, o Dio delle misericordie, la più gran misericordia che voi ci avete già promessa, cioè il nostro Salvatore. Cosi dunque esclamavano e sospiravano i santi; ma con tutto ciò, per lo spazio di quattromila anni non ebbero già la sorte di veder nato il Messia. Noi si abbiamo avuta questa fortuna. Ma che facciamo? come ce ne sappiamo avvalere? Sappiamo amare quest’amabil Redentore che già è venuto, che già ci ha riscattato dalle mani de’ nostri nemici, ci ha liberati colla sua morte dalla morte eterna da noi meritata, ci ha aperto il paradiso, ci ha provveduti di tanti sagramenti e di tanti aiuti per servirlo ed amarlo con pace in questa vita, e per andare poi a goderlo nell’altra? Fuit ille, dice S. Ambrogio, pannis involutus, ut tu laqueis absolutus sis; illius paupertas meum patrimonium est; infirmitas Domini mea est virtus: lacrimae illae mea delicta laverunt. Troppo saresti ingrata al tuo Dio, o anima, se non l’amassi, dopo che ha voluto essere ligato dalle fasce, acciocché tu fossi liberata da’ lacci dell’inferno; dopo che si è fatto povero, per far te partecipe delle sue ricchezze, dopo che si è fatto debole, per dare a te la fortezza contro de’ tuoi nemici; dopo che ha voluto patire e piangere acciocché le lagrime sue lavassero i tuoi peccati.

Ma oh Dio e quanti pochi sono stati quelli poi che grati a tanto amore sono stati fedeli ad amare questo lor Redentore! Oimè che la maggior parte degli uomini dopo un tanto beneficio, dopo tante misericordie e tanto amore, dicono a Dio: Signore, non ti vogliamo servire; siamo più contenti d’essere schiavi del demonio e condannati all’inferno, che servi tuoi. Sento che così rinfaccia Iddio a tanti ingrati: Rupisti vincula mea, [et] dixisti: Non serviam (Ier. II, 20). Che dici, fratello mio, sei stato ancor tu uno di questi? Ma dimmi, col vivere lontano da Dio e schiavo del demonio, dimmi sei vivuto contento? Hai avuto pace? Ah che non possono venir meno le parole divine: Eo quod non servieris Domino Deo tuo in gaudio…, servies inimico tuo… in fame et siti et nuditate et omni penuria (Deuter. XXVIII, 47, [48]). Giacché tu non hai voluto servire al tuo Dio, ma al tuo nemico, vedi come questo tiranno ti ha trattato. Ti ha fatto gemere quale schiavo tra le catene, povero, amitto e privo d’ogni consolazione interna. Ma via su, ti parla Dio, ora che stai in istato di poter esser liberato da queste catene di morte da cui ti trovi avvinto, Solve vincula colli tui, captiva filia Sion (Is. LII, 2). Presto, or che vi è tempo, sciogliti, povera anima, che volontariamente ti sei fatta schiava d’inferno, sciogliti da questi infelici lacci che ti tengon destinata per l’inferno; e fatti su ligare dalle mie catene d’oro, catene d’amore, catene di pace, catene di salute: Vincula eius alligatura salutaris (Eccli. VI, 31).

Ma in qual modo l’anime si ligano con Dio ? Coll’amore. Caritatem habete, quod est vinculum perfectionis (Coloss. III, 14). Un’anima, sempre che cammina per la sola via del timore de’ castighi, e per questo solo timore si astiene dal peccare, sta sempre in gran pericolo di tornare presto a cadere. Ma chi si liga a Dio coll’amore sta certo di non perderlo, sino che l’ama. E perciò bisogna che sempre cerchiamo a Dio il dono del suo santo amore, pregando sempre e dicendo: Signore, tenetemi legato con voi, non permettete ch’io m’abbia a separare da voi e dal vostro amore. Il timore che dobbiamo più desiderare e chiedere a Dio, è il timor filiale, il timor di disgustare questo nostro buono Signore e padre. Ricorriamo ancora sempre alla nostra madre, preghiamo Maria SS. che ci ottenga la grazia di non amare altro che Dio, e ch’ella ci leghi talmente coll’amore al suo Figlio, che non abbiamo a vedercene più divisi col peccato.

Colloquio.

O Gesù mio, voi per mio amore e per liberarmi dalle catene dell’inferno avete voluto farvi servo; e non solo del vostro Padre, ma anche degli uomini e de’ carnefici, sino a perdervi la vita; ed io tante volte per qualche misero e avvelenato piacere mi sono licenziato dalla vostra servitù e mi son fatto schiavo del demonio. Maledico mille volte quei momenti in cui abusandomi così male della mia libertà, ho disprezzata la vostra grazia, o Maestà infinita. Deh perdonatemi e ligatemi a voi con quelle amabili catene d’amore con cui tenete a voi strette l’anime vostre dilette.

V’amo, o Verbo incarnato; v’amo, mio sommo bene. Altro ora non desidero che amarvi, e d’altro non temo che di vedermi privo del vostro amore. Deh non permettete ch’io abbia a separarmi più da voi. Vi prego, o Gesù mio, per tutte le pene della vostra vita e della vostra morte, non permettete che io abbia più a lasciarvi: Ne permittas me separari a te, ne permittas me separari a te. Ah mio Dio s’io dopo tante grazie che mi avete fatte, dopo che tante volte mi avete perdonato, e dopo che ora con tanta luce m’illuminate, e con tanto affetto m’invitate ad amarvi, io infelice ritornassi a voltarvi le spalle, come potrei sperare da voi più perdono? e non temere che giustamente in quello stesso punto voi non mi subissaste all’inferno? Ah non lo permettete, torno a replicarvi: Ne permittas me separari a te.

O Maria, rifugio mio, voi sinora siete stata la mezzana felice per me, che mi avete fatto aspettare da Dio e perdonare con tanta misericordia; aiutatemi ora, impetratemi la morte e mille morti prima ch’io avessi a perdere di nuovo la grazia di Dio.

DISCORSO IV – Il Verbo Eterno da innocente si è fatto reo.

Consolamini, consolamini, popule meus, dicit Deus vester. (Is. XL, 1).

Prima della venuta del Redentore, tutti gli uomini afflitti miseramente gemevano su questa terra; erano tutti figli d’ira, né vi era chi potesse placare Iddio giustamente sdegnato per li loro peccati. Ciò facea piangere il profeta Isaia, dicendo Ecce tu iratus es, et peccavimus… non est… qui consurgat et teneat te (Is. LXIV, [5, 7]). Sì, perché Dio era stato quello che dall’uomo era stato offeso: l’uomo, non essendo che una misera creatura, non potea con qualunque sua pena soddisfare l’offesa fatta ad una maestà infinita: vi bisognava un altro Dio che soddisfacesse alla divina giustizia, ma questo Dio non v’era, né potea trovarsi altro che un solo Dio: Dio all’incontro ch’era l’offeso, non poteva egli soddisfare a se stesso: sicché per noi era disperato il caso. Ma consolatevi, consolatevi, o uomini, disse loro il Signore per Isaia: Consolamini, consolamini, popule meus, dicit Deus vester, …quoniam completa est malitia (Is. XL, [2] ). Poiché Dio medesimo ha trovato il modo di salvare l’uomo, contentando insieme la sua giustizia e la sua misericordia: iustitia et pax osculatae sunt (Ps. LXXXIV, 11). E come si è fatto? Il medesimo Figlio di Dio si è fatto uomo, ha presa la forma di peccatore, ed egli addossandosi il peso di soddisfare per gli uomini, colle pene della sua vita e colla sua morte ha soddisfatta appieno la divina giustizia per la pena dagli uomini meritata; e così son restate appagate la giustizia e la misericordia. Dunque per liberare gli uomini dalla morte eterna, Gesù Cristo da innocente si è fatto reo: cioè ha voluto comparir peccatore. Sì, a questo l’ha ridotto l’amore ch’esso porta agli uomini. Consideriamolo, ma cerchiamo prima luce a Gesù e a Maria per cavarne profitto.

Qual era Gesù Cristo? Era, ci risponde S. Paolo: Sanctus, innocens, impollutus (Hebr. VII, 26). Era santo, innocente, immacolato; era, diciam meglio, la stessa santità, la stessa innocenza, la stessa purità, mentre egli era vero Figlio di Dio, vero Dio come è il Padre, e tanto caro al Padre, che ‘l Padre si dichiarò colà sull’acque del Giordano, che in questo Figliuolo avea trovate tutte le sue compiacenze. Ma volendo questo Figlio diletto liberare gli uomini da’ loro peccati e dalla morte a’ peccati dovuta, che fece? Apparuit, ut peccata nostra tolleret (I Io. III, 5). Egli si presentò al suo divin Padre e si offerì a pagare per gli uomini; e ‘l Padre allora, come dice l’Apostolo, lo mandò in terra a vestirsi di carne umana, con prendere la sembianza d’uomo peccatore, tutto fatto simile agli uomini peccatori: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati (Rom. VIII, 3). E poi soggiunge S. Paolo: Et de peccato damnavit peccatum in carne. E volle dire, come spiegano S. Giovan Grisostomo e Teodoreto, che ‘l Padre condannò il peccato ad esser privato del regno che avea sopra degli uomini, condannando alla morte il suo divin Figliuolo, il quale benché sembrasse di vestire carne infetta dal peccato, nulladimeno era santo ed innocente.

Dunque Dio per salvare gli uomini e per vedere insieme soddisfatta la sua giustizia, ha voluto condannare il proprio Figlio ad una vita penosa e ad una morte spietata? È stato ciò mai vero? Egli è di fede, e ce ne assicura S. Paolo: Proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum (Rom. VIII, 32). Ce n’assicura Gesù medesimo: Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16). Narra Celio Rodigino, che un certo chiamato Deiotaro, avendo egli più figli, perché uno tra essi era da lui più amato, il barbaro uccise tutti gli altri per lasciare intiera la sua eredità a quel figlio più diletto. Ma Dio ha fatto tutto l’opposto; ha ucciso il suo Figlio più diletto, e l’unico Figlio che aveva, per dare la salute a noi vermi vili ed ingrati. Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. Consideriamo queste parole: Sic Deus dilexit mundum. Come? un Dio si degna d’amare gli uomini, vermi miserabili che gli sono stati ribelli ed ingrati, ed amarli a tal segno – verbum sic significat vehementiam amoris, dice S. Giovan Grisostomo – ut Filium suum unigenitum daret? che abbia voluto loro dare il suo medesimo Figlio, e Figlio unigenito che ama quanto se stesso! Non servum, non angelum, non archangelum dedit, sed Filium suum, soggiunge lo stesso santo dottore. Daret, e come l’ha voluto dare? l’ha dato umiliato, povero, disprezzato, in mano de’ servi a trattarlo come un ribaldo, sino a farlo morire svergognato su d’un patibolo infame. Oh grazia, oh forza dell’amore d’un Dio! qui esclama S. Bernardo: Oh gratiam! oh amoris vim! (Serm. 64, in Cant.). Oh Dio, chi non s’intenerirebbe in sentire questo caso, che un monarca per liberare il suo schiavo sia stato costretto a dar la morte al suo unico figlio, ch’era l’amor del padre, e l’amava quanto se stesso. Se Dio ciò non l’avesse fatto, chi mai, dice S. Giovan Grisostomo, avrebbe potuto pensarlo o sperarlo? Quae numquam humanus animus haud cogitare, haud sperare potuit, haec nobis largitus est.

Ma, Signore, questa sembra un’ingiustizia, condannare alla morte un figlio innocente per salvare lo schiavo che v’ha offeso. Secondo la ragione umana, dice Salviano, si stimerebbe certamente troppo ingiusto un uomo, se volesse uccidere il figlio innocente per liberare i servi dalla morte loro dovuta: Quantum ad rationem humanam, iniustam rem quilibet homo faceret, si pro pessimis servis filium bonum occidisset (De Prov., lib. 4). Ma no, che non è stata ingiustizia appresso Dio; poiché il Figlio esso medesimo si è offerto al Padre di voler soddisfare per gli uomini: Oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, 7). Ecco dunque Gesù che volontariamente qual vittima d’amore si sagrifica per noi. Eccolo che qual muto agnello si mette in mano di chi lo tosa, e benché innocente viene a soffrire dagli uomini tanti disprezzi e tormenti, senza neppure aprire la bocca: Et quasi agnus coram tondente se obmutescet, nec aperiet os suum (Is. LIII, 7). Ecco in somma il nostro amante Redentore, che per salvare noi vuol egli patire la morte e le pene da noi meritate. Vere languores nostros ipse tulit, et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII, 4). Dice S. Gregorio Nazianzeno: Tamquam impius pati non recusabat, modo homines salutem consequantur (Orat. pr. apolog.).

Chi mai ha fatto ciò? dimanda S. Bernardo. Quale mai è stata la cagione di questo immenso prodigio? Un Dio morire per le sue creature! Quis fecit? Fecit caritas: L’ha fatto l’amore che questo Dio porta agli uomini. Il santo va contemplando quando il nostro amabil Salvatore fu preso da’ soldati nell’orto di Getsemani, secondo riferisce S. Giovanni: Et ligaverunt eum (XVIII, 12): E poi si fa a dimandargli: Quid tibi et vinculis? Mio Signore, gli dice, io vi rimiro legato qual reo da questa canaglia, che vuol condurvi alla morte ingiustamente; ma oh Dio che han che fare con voi le funi e le catene? queste toccano a’ malfattori, ma non a voi che siete innocente, siete figlio di Dio, la stessa innocenza, la stessa santità. Risponde S. Lorenzo Giustiniani che i legami co’ quali Gesù Cristo fu condotto alla morte, non furon già le funi con cui l’avvinsero i soldati; ma fu l’amore verso degli uomini, e quindi esclama: Oh caritas, quam magnum est vinculum tuum, quo Deus ligari potuit! Indi lo stesso S. Bernardo si fa a contemplare l’ingiusta sentenza di Pilato che condanna Gesù alla croce, dopo averlo egli stesso dichiarato più volte innocente; e poi rivolto il santo a Gesù gli dice piangendo: Quid fecisti, o innocentissime Salvator, quod sic iudicareris? Ah mio Signore, sento che questo iniquo giudice vi condanna a morir crocifisso; e che male avete voi fatto? qual delitto avete mai commesso per meritare una morte sì penosa ed infame? morte che tocca a’ rei più scellerati? Ma poi ripiglia e dice: Ah che intendo, o mio Gesù, qual è il delitto che voi avete commesso, è il troppo amore che avete portato agli uomini: Amor tuus, peccatum tuum. Sì, che quest’amore, più che Pilato, vi condanna alla morte; mentre voi per pagare la pena dovuta agli uomini, avete voluto morire. – Approssimandosi il tempo della Passione del nostro Redentore, egli pregava il Padre che presto lo glorificasse, con ammetterlo a sacrificargli la vita: Clarifica me tu, Pater (Io. XVII, [5]). Ma stupito l’interroga S. Giovan Grisostomo: Quid dicis? Haec gloriam appellas? Una passione ed una morte accompagnata da tanti dolori e disprezzi, questo voi chiamate la vostra gloria? E ‘l santo poi si fa a rispondere in vece di Gesù Cristo: Ita pro dilectis haec gloriam existimo. Sì, è tanto l’amore ch’io porto agli uomini, che egli mi fa stimare mia gloria il patire e ‘l morire per essi.

Dicite, pusillanimes confortamini, et nolite timere: ecce Deus vester ultionem adducet retributionis, Deus ipse veniet et salvabit vos (Is. XXXV). Non temete dunque, dice il profeta, non diffidate più, poveri peccatori. Che timore avete di non essere perdonati, mentre viene il Figlio di Dio dal cielo a salvarvi? ed egli stesso rende a Dio col sacrificio della sua vita il compenso della giusta vendetta che meritavano i vostri peccati? Se voi colle vostre opere non potete placare Dio offeso, ecco chi lo placa, questo bambino che ora vedete giacere sulla paglia, che trema di freddo, che piange, egli colle lagrime sue lo placa. Non avete ragione di stare più mesti, dice S. Leone, per la sentenza di morte contro voi fulminata or che nasce per voi la vita: Neque fas est locum esse tristitiae, ubi natalis est vitae. E S. Agostino: Dulcis dies poenitentibus, hodie peccatum tollitur, et peccator desperat? Se voi non potete rendere alla divina giustizia la dovuta soddisfazione, ecco Gesù che per voi fa la penitenza; già ha cominciato a farla in questa grotta, la proseguirà in tutta la sua vita e finalmente la compirà sulla croce, alla quale, secondo dice S. Paolo, affiggerà il decreto della vostra condanna, cancellandolo col suo sangue: Delens quod adversus nos erat chirographum decreti, quod erat contrarium nobis, et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. II, 14). Dice lo stesso Apostolo che morendo per noi Gesù Cristo, si è fatto la nostra giustizia: Factus est nobis sapientia… [et] iustitia, [et] sanctificatio et redemptio (I Cor. I, [30] ). Iustitia, commenta S. Bernardo, in ablutione peccatorum. Sì, perché accettando Dio per noi le pene e la morte di Gesù Cristo, atteso il patto, è obbligato per giustizia a perdonarci: Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit, ut nos efficeremur iustitia Dei in ipso (II Cor. V, [21]). L’innocente si fé vittima de’ nostri peccati, acciocché poi per giustizia spettasse a noi il perdono per li meriti suoi. Che perciò Davide pregava Dio a salvarlo, non solo per la sua misericordia, ma anche per la sua giustizia: In iustitia tua libera me (Ps. XXX, [2]).

Sommo fu sempre il desiderio di Dio di salvare i peccatori. Questo desiderio lo faceva andare appresso di loro gridando: Redite praevaricatores ad cor (Is. XLVI, 8). Peccatori, ritornate al vostro cuore, pensate a’ benefici da me ricevuti, all’amore che vi ho portato, e non mi offendete più. Convertimini ad me… et ego convertar ad vos (Zac. I, 3). Rivolgetevi a me ed io v’abbraccerò. Quare moriemini, domus Israel?… revertimini et vivite (Ezech. XXI, 31). Figli miei, perché volete perdervi, e condannarvi da voi stessi ad una morte eterna? Tornate a me e vivete. In somma la sua infinita misericordia lo fé scendere dal cielo in terra per venire a liberarci dalla morte: Per viscera misericordiae Dei nostri, in quibus visitavit nos oriens ex alto (Luc. I, 78). Ma qui bisogna riflettere quel che dice S, Paolo: prima che Dio si facesse uomo, conservava per noi la misericordia, ma non poteva già sentire compassione delle nostre miserie, perché la compassione importa pena, e Dio non è capace di pena. Or dice l’Apostolo che il Verbo Eterno, affin di avere ancor compassione di noi, volle farsi uomo, capace di patire e simile agli uomini che sono afflitti dalla compassione, acciocché così potesse non solo salvarci, ma anche compatirci: Non enim habemus pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris, tentatum autem per omnia pro similitudine, absque peccato (Hebr. IV, 15). Ed in altro luogo: Debuit per omnia fratribus similari, ut misericors fieret (Hebr. II, 17).

Oh la gran compassione che ha Gesù Cristo de’ poveri peccatori! Questa gli fé dire ch’egli è quel pastore che va cercando la pecorella perduta, e quando la ritrova fa festa dicendo: Congratulamini mihi, quia inveni ovem meam quae perierat (Luc. XV, [6]). E se la mette sulle spalle: Imponit in humeros suos gaudens (Ibid. [5]), e così la stringe a sé per timore di non tornarla a perdere.- Questa gli fé dire ch’egli è quel padre amoroso, che quando torna a’ suoi piedi un qualche figlio prodigo che l’ha lasciato, egli non lo discaccia, ma l’abbraccia, lo bacia, e quasi vien meno per la consolazione e tenerezza che sente in vederlo pentito: Accurrens cecidit super collum eius, et osculatus est eum (Luc. ib., [20]).

Questa gli fa dire: Sto ad ostium et pulso (Apoc. III, 20). Cioè ch’egli, benché discacciato dall’anima col peccato, non l’abbandona, ma si mette fuori della porta del cuore, e bussa colle sue chiamate per rientrarvi.- Questa gli fé dire ai discepoli, che con zelo indiscreto desideravano vendetta contro coloro che gli avevano discacciati: Nescitis cuius spiritus estis (Luc. VI, 53). Voi vedete ch’io ho tanta compassione de’ peccatori, e voi desiderate vendette? Andate, andate via, perché voi non siete dello spirito mio.- Questa compassione finalmente gli fece dire: Venite ad me, omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. XI, [28]): Venite a me tutti che state afflitti e tormentati dal peso dei vostri peccati, ed io vi solleverò. Ed in fatti con qual tenerezza quest’amabil Redentore perdonò a Maddalena, subito ch’ella si ravvide, e la convertì in santa! Con qual tenerezza perdonò al paralitico, ed insieme gli donò la sanità del corpo! Con qual tenerezza specialmente si portò colla donna adultera! Gli presentarono i sacerdoti questa peccatrice, acciocché l’avesse condannata; ma Gesù a lei rivolto le disse: Nemo te condemnavit?… nec ego te condemnabo (Io. VIII). Come avesse voluto dirle: niun di costoro che ti hanno qui condotta ti ha condannata, e come voglio condannarti io che son venuto per salvare i peccatori ? Va in pace, e non peccar più. Vade, et iam amplius noli peccare.

Deh non temiamo di Gesù Cristo, temiamo solo della nostra ostinazione, se dopo averlo offeso, non vogliamo ubbidire alla sua voce che ci chiama al perdono. Quis est qui condemnet? dice l’Apostolo. Christus Iesus qui mortuus est;… qui etiam interpellat pro nobis (Rom. VIII, [34]). Se vogliamo restare ostinati, Gesù Cristo sarà costretto a condannarci. Ma se ci pentiamo del mal fatto, che timore abbiamo da avere di Gesù Cristo? Chi ti ha da condannare? pensa, dice san Paolo, che ha da condannarti quello stesso Redentore ch’è morto per non condannarti: quegli stesso, che per perdonare a te, non ha voluto perdonare a se medesimo. Ut servum redimeret sibi ipsi non pepercit, S. Bernardo.

Va dunque, peccatore, va alla stalla di Betlemme, e ringrazia Gesù bambino, che trema di freddo per te in quella grotta, vagisce e piange per te su quelle paglie; ringrazia questo tuo Redentore, ch’è venuto dal cielo a chiamarti ed a salvarti. Se desideri il perdono, egli ti sta aspettando in quella mangiatoia per perdonarti. Va presto dunque, fatti perdonare.

E poi non ti scordare dell’amore che ti ha portato Gesù Cristo. Gratiam fideiussoris ne obliviscaris (Eccli. XXIX, 20). Non ti scordare, dice il profeta, di questa somma grazia che ti ha fatta, in farsi egli mallevadore de’ tuoi debiti appresso Dio, con prender sopra di sé il castigo da te meritato: non te ne scordare, ed amalo. E sappi che se tu l’amerai, non t’impediranno i tuoi peccati di ricever da Dio le grazie più grandi e più speciali ch’egli suol donare all’anime più dilette: Omnia cooperantur in bonum (Rom. VIII, 8] . Etiam peccata, soggiunge la Glossa. Sì anche la memoria de’ peccati fatti giova al profitto d’un peccatore che li piange e li detesta; poiché quella concorrerà a farlo più umile e più grato a Dio, vedendo che Dio l’ha accolto con tanto amore. Gaudium erit in caelo super uno peccatore poenitentiam agente, quam super nonagintanovem iustis (Luc. XV, 7). Ma di qual peccatore ciò s’intende, che dà più gaudio al cielo, che molti giusti insieme? S’intende di quel peccatore che grato alla divina bontà si dedica tutto con fervore all’amor divino; come appunto fecero un S. Paolo, una S. Maddalena, una S. Maria Egiziaca, un S. Agostino, una S. Margherita da Cortona. A questa santa specialmente, la quale prima era stata per molti anni peccatrice, Dio fece vedere il suo luogo apparecchiato in cielo tra’ Serafini; e frattanto in vita le facea mille favori; ond’ella vedendosi così favorita un giorno gli disse: Signore, come tante grazie a me ? vi siete scordato delle offese che vi ho fatte? E Dio le rispose: E non sai, come io ho già detto, che quando un’anima si pente delle sue colpe, io mi scordo di tutti gli oltraggi che mi ha fatti? Secondo già si protestò per Ezechiele: Si… quis egerit poenitentiam… omnium iniquitatum eius non recordabor (Ezech. XVIII, 22).

Concludiamo. Dunque i peccati fatti non c’impediscono di farci santi. Dio ci offerisce pronto tutto l’aiuto, se lo desideriamo e lo domandiamo. Che resta? Resta che noi ci diamo tutti a Dio, e gli consagriamo almeno i giorni che ci rimangono di vita. Presto su, che facciamo? Se manca, manca per noi, non per Dio. Non facciamo che queste misericordie e queste amorose chiamate che ci fa Dio ci abbiano da essere di rimorso e di disperazione in punto di morte, allora che non sarà più tempo di fare più niente; allora si farà notte: Venit nox in qua nemo potest operari (Io. IX, 4). -Raccomandiamoci a Maria SS. che si gloria, come dice S. Germano, di render santi i peccatori più perduti, con ottener loro una grazia non solo ordinaria, ma esimia di conversione; e ben ella può farlo, perché quando dimanda a Gesù Cristo, lo dimanda da madre: Tu autem materna in Deum auctoritate pollens, etiam iis qui enormiter peccant, eximiam remissionis gratiam concilias (S. Germ., In encom. Deip.). Ed ella stessa ci fa animo, come la fa parlare la S. Chiesa, dicendo: Mecum sunt divitiae… ut ditem diligentes me (Prov. VIII, [18, 21]). E in altro luogo: In me gratia omnis viae et veritatis, in me omnis spes vitae et virtutis (Eccli. XXIV, [25]). Venite, dice, a me tutti, perché troverete tutta la speranza di salvarvi, e salvarvi da santi.

Affetti e preghiere.

O mio Redentore e Dio, e chi son io che tanto mi avete amato e tanto seguite ad amarmi? Che cosa avete mai ricevuto da me, che a tanto amore vi ho obbligato, se non disprezzi e disgusti, che v’obbligano ad abbandonarmi e discacciarmi per sempre dalla vostra faccia? Ma, Signore, io accetto ogni castigo, ma non questo. Se voi mi abbandonate e mi private della vostra grazia, io non vi posso più amare. Io non pretendo di sfuggire la pena; ma voglio amarvi e voglio amarvi assai. Voglio amarvi, com’è tenuto ad amarvi un peccatore che dopo tanti favori speciali, e tanti segni d’amore da voi ricevuti, ingrato tante volte vi ha voltato le spalle; e per gusti miseri, momentanei e avvelenati ha rinunziato alla vostra grazia e al vostro amore.

Perdonatemi, amato mio Bambino, mentr’io mi pento con tutto il cuore di quanti disgusti vi ho dati. Ma sappiate che non mi contento del semplice perdono; io voglio ancora la grazia d’amarvi assai, voglio compensar quanto posso coll’amor mio l’ingratitudine che vi ho usata per lo passato. Un’anima innocente v’ama da innocente, con ringraziarvi d’averla preservata dalla morte del peccato. Io debbo amarvi da peccatore, cioè da ribelle che vi sono stato, da condannato all’inferno per tante volte, per quante me l’ho meritato; e poi tante volte aggraziato da voi e rimesso in istato di salute, e di più arricchito di lumi, d’aiuti, e d’inviti a farmi santo.

O Redentore dell’anima mia, l’anima mia già si è innamorata di voi, e v’ama. Troppo voi mi avete amato, onde vinto dal vostro amore non ho potuto più resistere a tante finezze, finalmente già mi son renduto a collocare in voi tutto l’amor mio. V’amo dunque, o bontà infinita, v’amo, o amabilissimo Dio. Accrescete voi sempre più fiamme e più saette al mio cuore. Per vostra gloria fatevi amare assai da chi assai v’ha offeso.

DISCORSO V – Il Verbo Eterno da forte si è fatto debole.

Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos. (Is XXXV).1

Parlando Isaia della venuta del Redentore, predisse: Laetabitur deserta, et invia, et exsultabit solitudo; et florebit quasi lilium (Is. XXXV, 1). Parlava già il profeta de’ Pagani – tra’ quali erano già allora i nostri miseri antenati – i quali viveano nella gentilità, come in una terra deserta, abbandonata da uomini che conoscessero e adorassero il vero Dio, ma piena solamente di schiavi del demonio: terra deserta e senza via, poiché ivi era a questi miserabili ignota la via della salute. E predisse che poi questa terra sì infelice, alla venuta del Messia dovea rallegrarsi, in vedersi piena di seguaci del vero Dio, renduti forti dalla sua grazia contro tutti i nemici della loro salute; e dovea fiorire come giglio in purità di costumi e in odore di sante virtù. Quindi siegue a dire Isaia: Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos. Questo che predisse Isaia, già è succeduto; onde lasciate ch’io esclami ora con giubilo e dica: Allegramente, o figli d’Adamo, allegramente, non siate più pusillanimi; se vi conoscete deboli e non atti a resistere a tanti vostri nemici: Nolite timere, Deus ipse veniet et salvabit vos. È venuto Dio stesso in terra, e vi ha salvati, con comunicarvi forza bastante a combattere e vincere ogni nemico della vostra salute. E come il nostro Redentore vi ha procurata questa fortezza? Egli da forte e da onnipotente si e fatto debole. Ha presa sopra di sé la nostra debolezza, e così ci ha comunicata la sua fortezza. Vediamolo. Ma cerchiamo luce a Gesù Cristo ed a Maria.

Dio è quel forte che solamente può chiamarsi forte, poich’è la stessa fortezza; e tutti i forti da esso ricevono la loro forza: Mea est fortitudo, egli dice, per me reges regnant (Prov. VIII, 14, [15]). Dio è quel gran potente che può quanto vuole, e lo può facilmente, basta che voglia: Ecce tu fecisti caelum et terram in fortitudine tua, …et non erit[tibi] difficile omne verbum (Ier. XXII, 17). Egli con un cenno ha creato dal niente il cielo e la terra: Ipse dixit et facta sunt (Ps. CXLVIII, 5). E se volesse, con un altro cenno potrebbe distruggere tutta la gran macchina del mondo: Potest… universum mundum uno nutu delere (II Macch. VIII, 18). Sappiamo già che con un diluvio di fuoco, quando volle, in un momento bruciò cinque intiere città. Sappiamo che in altro tempo prima di ciò con un diluvio d’acque inondò tutta la terra colla morte di tutti gli uomini, alla riserva di sole otto persone. In somma dice Isaia: Signore, chi mai può resistere alla forza del vostro braccio? Virtuti brachii tui quis resistet? (Is. XL, 10).

Da ciò si vede poi quanto sia grande la temerità del peccatore che se la piglia con Dio, e giunge a tanta audacia, che non lascia di stender la mano contro l’Onnipotente: Tetendit adversus Dominum manum suam; contra Omnipotentem roboratus est (Iob XV, 21). Se mirassimo una formica che se la prendesse con un soldato, qual temerità si stimerebbe! Ma quanto è più temerario un uomo che se la prende col medesimo Creatore, che disprezza i suoi precetti, disprezza le sue minacce, disprezza la sua grazia, e se gli dichiara nemico!

Ma quest’uomini temerari ed ingrati, questi e venuto a salvare il Figlio di Dio, facendosi uomo, e caricandosi de’ castighi da loro meritati, per ottenere ad essi il perdono. E vedendo poi che per le ferite ricevute dal peccato era restato l’uomo molto debole ed impotente a resistere alle forze de’ nemici, che fece? da forte e da onnipotente ch’egli era, si fece debole ed assunse sopra di sé le corporali debolezze dell’uomo, per ottenere all’uomo co’ suoi meriti la fortezza dello spirito, necessaria a superare gl’insulti della carne e dell’inferno. Ed eccolo fatto bambino, bisognoso di latte per sostentarsi la vita; e così debole che da sé non può cibarsi, da sé non può muoversi. Il Verbo Eterno nel venire a farsi uomo volle nascondere la sua fortezza: Deus ab austro veniet;… ibi abscondita est fortitudo eius (Habac., cap. 3, [3, 4] ). Noi troviamo Gesù, dice S. Agostino, forte ed infermo: forte, mentr’egli ha creato il tutto: infermo, mentre lo vediamo fatt’uomo come noi: Invenimus Iesum fortem et infirmum; fortem, per quem sine labore facta sunt omnia; infirmum vis nosse? Verbum caro factum est (Tract. XV, in Io.). Or questo forte ha voluto farsi debole, dice il santo, per riparare colla sua debolezza la nostra infermità e così ottenerci la salute. Condidit nos fortitudine sua, quaesivit nos infirmitate sua.4 E perciò soggiunge che egli si nominò simile alla gallina, parlando con Gerusalemme: Quoties volui congregare filios tuos, quemadmodum gallina congregat pullos suos sub alas, et noluisti? (Matth. XXIII, 37). La gallina, riflette S. Agostino, per allevare i suoi pulcini s’inferma, e con tal segno si fa conoscere per madre; così fece il nostro amoroso Redentore, coll’infermarsi e farsi debole si fé conoscere per padre e per madre di noi poveri infermi.

Ecco quegli che regge i cieli – dice S. Cirillo – involto tra’ panni, che non può neppure stender le braccia: Qui caelum regit fasciis involvitur.6 Eccolo nel viaggio che dee fare all’Egitto per ordine del suo Eterno Padre; egli vuole già ubbidire, ma non può camminare; bisogna che Maria e Giuseppe a vicenda lo portino sulle loro braccia. E al ritorno dall’Egitto, come contempla S. Bonaventura, bisogna che per la via spesso si fermi a riposare, poiché il divino fanciullo è fatto così grande di corpo, che non può più esser portato in braccio; ma all’incontro è così picciolo e debole, che non può far lungo cammino: Sic magnus est, ut portari non valeat; et sic parvus est, quod per se ire non possit.7

Eccolo poi nella bottega di Nazaret fatto già grandicello, che tutto s’affatica e suda in aiutare Giuseppe nel mestiere che quegli esercita di legnaiuolo. Oh chi mai si facesse attentamente a contemplare Gesù, quel bel giovinetto che fatica e stenta su d’un rozzo legno, e gli dicesse: Ma voi, amabile garzoncello, voi non siete quel Dio che con un cenno dal niente avete creato il mondo? e come ora da un giorno avete stentato, siete tutto sudato per dirozzare questo legno, e neppure l’avete finito ancora? Chi vi ha renduto così debole! Oh santa fede! Oh amore divino! Oh Dio, oh Dio, che un pensiero di questi ben penetrato dovrebbe, non solo infiammarci, ma, per così dire, incenerirci d’amore. A questo segno dunque è arrivato un Dio? e perché? per farsi amare dagli uomini! Eccolo finalmente nel termine di sua vita ligato da funi nell’orto, da cui non si può sciogliere; ligato nel pretorio alla colonna ad esser flagellato: eccolo colla croce in ispalla, ma che non ha forza di portarla, e perciò va spesso cadendo per la via: eccolo affisso alla croce da chiodi da’ quali non può liberarsi: eccolo in fine che per debolezza già agonizza, vien meno e spira.

E perché Gesù Cristo si fece così debole? Si fé debole, per comunicare così, come sopra si disse, a noi la sua fortezza, e per così vincere ed abbattere le forze dell’inferno, Vicit leo de tribu Iuda (Apoc. V, 5). Dice Davide ch’è proprio di Dio ed insita nella sua natura divina la volontà di salvarci e liberarci dalla morte: Deus noster, Deus salvos faciendi; et Domini Domini exitus mortis (Ps. LXVII, 21). Così appunto commenta il Bellarmino: Hoc est illi proprium, haec est eius natura: Deus noster est Deus salvans; et Dei nostri sunt exitus mortis, id est liberatio a morte. Se siamo deboli, confidiamo in Gesù Cristo e potremo tutto: Omnia possum in eo qui me confortat, dicea l’Apostolo (Philip. IV, 13). Io posso tutto, non colle forze mie, ma colla fortezza che mi ha ottenuta il mio Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum (Io. XVI, 33). Fate animo, figli miei, ci dice Gesù Cristo; se Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum sappiate ch’io l’ho vinto per voi; la vittoria mia è stata per vostro bene. Avvaletevi ora voi dell’armi ch’io vi lascio per difendervi, che certamente vincerete.

Quali sono quest’armi che ci ha lasciate Gesù Cristo? Sono due, l’uso de’ sacramenti e la preghiera.

Già si sa che per mezzo de’ sacramenti, specialmente della penitenza e dell’Eucaristia, si comunicano a noi le grazie che il Salvatore ci ha meritate. E si vede colla sperienza tutto giorno che chi frequenta i sacramenti ben si mantiene in grazia di Dio. Singolarmente chi spesso si comunica oh che forza riceve per resistere alle tentazioni! La Santa Eucaristia si chiama pane, Pane celeste, acciocché intendiamo che come il pane terreno conserva la vita del corpo, così la comunione conserva la vita dell’anima, ch’è la divina grazia. Perciò il Concilio di Trento chiamò la comunione, rimedio col quale veniam liberati dalle colpe veniali e preservati dalle gravi: Antidotum quo liberemur a culpis quotidianis et a peccatis mortalibus praeservemur (Sess. 13, cap. 2). Dice S. Tommaso, parlando dell’Eucaristia, che la piaga rimastaci dal peccato sarebbe incurabile, se non ci fosse dato questo rimedio divino: Esset incurabilis, nisi subveniret medicina Dei (Opusc. de sacram.). Ed Innocenzo III (De myster. Missae) disse che la Passione di Gesù Cristo ci libera dalle catene del peccato, e la santa comunione ci libera dalla volontà di peccare! Mysterium crucis eripit nos a potestate peccati, mysterium eucharistiae eripit nos a voluntate peccandi.

L’altro gran mezzo per superar le tentazioni è la preghiera fatta a Dio per li meriti di Gesù Cristo. Amen amen dico vobis– disse il Redentore- si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XIV, 14). Quanto dunque chiederemo a Dio in nome di Gesù Cristo, cioè per li di lui meriti, tanto otterremo. E ciò anche si vede continuamente avvenire; coloro che sono tentati, e ricorrono a Dio e lo pregano per Gesù Cristo, tutti restano vincitori; e coloro all’incontro che nelle tentazioni – specialmente d’impurità – non si raccomandano a Dio, cadono miseramente e si perdono. E poi si scusano con dire che son di carne e che son deboli. Ma come può lor valere la scusa della loro debolezza, se potendo rendersi forti con ricorrere a Gesù Cristo- bastando per ciò solamente l’invocare con confidenza il suo santissimo nome- non vogliono farlo? Quale scusa, dico, avrebbe colui che si lagnasse d’essere stato vinto dal nemico, se essendogli state presentate l’armi da difendersi, l’avesse disprezzate e rifiutate? Se costui volesse allegar la sua debolezza, non lo condannerebbe ognuno, dicendogli: E tu, giacché sapevi la tua debolezza, perché non hai voluto avvalerti dell’armi che ti sono state offerte? – Dice S. Agostino che il demonio e stato posto in catena da Gesù Cristo; può egli latrare, ma non mordere, se non chi vuole esser morso. Troppo stolto, soggiunge, e colui che si fa mordere dal cane messo in catena: Venit Christus, et alligavit diabolum. Alligatus est tamquam innexus canis catenis. Stultus est homo, quem canis in catena positus mordet. Ille latrare potest, sollicitare potest, mordere non potest. nisi volentem: non enim extorquet a nobis consensum, sed petit (Serm. 197). Ed in altro luogo dice che il Redentore ci ha dati tutti i rimedi per guarirci; chi non vuol osservare la legge e muore, muore perché egli medesimo vuole uccidersi: Quantum in medico est, sanare venit aegrotum. Ipse se interimit qui praecepta observare non vult.

Chi si avvale di Gesù Cristo non è debole no, ma si rende forte colla fortezza di Gesù Cristo. Egli è quello, come dice S. Agostino, che non solo ci esorta a combattere, ma ci dà l’aiuto; se veniamo meno, esso ci solleva; e poi per sua bontà esso medesimo ci corona: Hortatur ut pugnes, et adiuvat ut vincas, et deficientem sublevat, et vincentem coronat (S. August., in Psal 32).14 Predisse Isaia (Cap. XXXV) tunc saliet sicut cervus claudus; cioè che per li meriti del Redentore chi era inabile a dare neppure un passo, avrebbe saliti anche i monti come cervo veloce. Et quae erat arida, erit in stagnum, et sitiens in fontem aquarum; predisse che le terre più aride sarebbero divenute feconde di virtù. In cubilibus, in quibus prius dracones habitabant, orietur viror calami et iunci; e che in quell’anime, dove prima abitavano i demoni, sarebbe nato il vigor della canna, cioè dell’umiltà, quia humilis, commenta Cornelio a Lapide, est vacuus in oculis suis; e del giunco, cioè della carità, poiché i giunchi – come commenta lo stesso autore – in certe parti si mettono come lucignoli ad ardere nelle lampade. In somma noi troviamo in Gesù Cristo ogni grazia, ogni fortezza, ogni aiuto, quando a lui ricorriamo: In omnibus divites facti estis…, ita ut nihil vobis desit in ulla gratia (I Cor. I, [5,7]). Egli a questo fine si è fatt’uomo e si è esinanito Exinanivit semet ipsum (Philip. II, 7). Quasi, dice un autore, ad nihilum se redegit; se evacuavit maiestate, gloria et robore. Quasi si è ridotto a niente, si è spogliato della sua maestà, della sua gloria e della sua fortezza, ed ha presi sopra di sé i disprezzi e le debolezze, per comunicare a noi i suoi pregi e la sua virtù; e per essere la nostra luce, la nostra giustizia, la nostra santificazione e ‘l nostro riscatto. Factus est nobis sapientia a Deo, [et] iustitia, [et] sanctificatio, et redemptio (I Cor. I, [30]). Ed egli sta sempre pronto per dare aiuto e forza a chiunque ce la domanda.

Vidi… praecinctum ad mamillas zona aurea (Apoc. I, [12], 13). S. Giovanni vide il Signore col petto ripieno di latte, cioè ripieno di grazie, e cinto da una fascia d’oro; viene a dire che Gesù Cristo è quasi circondato e costretto dall’amore che porta agli uomini; e siccome una madre che avendo il petto ripieno di latte va cercando bambini che succhino e la sgravino da quel peso, così egli anela che noi andiamo a cercargli grazie ed aiuti per vincere i nostri nemici, che ci contrastano la sua amicizia e l’eterna salute. Oh come è buono e liberale Dio con un’anima che veramente e risolutamente lo cerca! Bonus est Dominus… animae quaerenti illum (Thren. III, 25). Dunque se non ci facciamo santi, manca solamente per noi, perché non ci risolviamo a voler solo Dio. Vult et non vult piger (Prov. XIII, [4]). I tepidi vogliono e non vogliono, e perciò restano vinti perché non hanno volontà risoluta di piacere solo a Dio. Volontà risoluta vince tutto, perché quando un’anima si risolve da vero di darsi tutta a Dio, Dio subito le dà la mano e la forza da superar tutte le difficoltà che incontra nella via della perfezione. Questa fu la bella promessa che ci significò Isaia, dicendo: Utinam dirumperes caelos et descenderes, a facie tua montes defluerent! (LXIV, 1). Erunt prava in directa et aspera in vias planas (XL, 4). Alla venuta del Redentore, colla forza ch’egli donerà all’anime di buona volontà, troveranno elle spianati i monti di tutti gli appetiti carnali; e troveranno le vie torte divenute diritte, e le aspre fatte dolci, cioè i disprezzi e i travagli che prima agli uomini erano difficili ed aspri, per mezzo poi della grazia data da Gesù Cristo, e dell’amore divino ch’egli accenderà ne’ loro cuori, si renderanno facili e dolci. Così un S. Giovanni di Dio giubilava in vedersi bastonato da pazzo in uno spedale; così una S. Lidovina godea, trovandosi per tanti anni impiagata e inchiodata in un letto; così un S. Lorenzo esultava e burlava il tiranno, stando sulla graticola bruciando, e dando la vita per Gesù Cristo. E così ancora tante anime innamorate di Dio trovano pace e contento, non già ne’ piaceri e onori del mondo, ma ne’ dolori e nelle ignominie.

Ah preghiamo noi Gesù Cristo che ci doni quel fuoco ch’egli è venuto ad accendere in terra, che così ancora noi non troveremo più difficoltà a disprezzare i beni di fango, e ad imprendere cose grandi per Dio. Qui amat non laborat, dice S. Agostino.22 Non è fatica, né pena il patire, l’orare, il mortificarsi, l’umiliarsi, e ‘l distaccarsi dai diletti della terra, ad un’anima che non ama altro che Dio. Quanto più ella opera o patisce, tanto più desidera di fare e patire. Dura sicut infernus aemulatio; lampades eius lampades ignis atque flammarum (Cant. VIII 6): Le fiamme dell’amor divino sono come le fiamme dell’inferno, che non dicono mai basta. Qualunque cosa non basta ad un’anima che ama Dio.

Siccome all’inferno

Niun fuoco è bastante,

Neppure all’amante

Mai basta il suo ardor.

Preghiamone Maria Santissima, per mezzo di cui – come fu rivelato a S. Maria Maddalena de’ Pazzi23 – Si dispensa all’anime l’amor divino, ch’ella ci ottenga questo gran dono. Ella è il tesoro di Dio, la tesoriera di tutte le grazie, e specialmente del divino amore, come disse l’Idiota: Thesaurus et thesauraria gratiarum.

Maria madre mia, voi siete la speranza, il rifugio de’ peccatori, aiutate un peccatore che vuol esser grato al suo Dio; aiutatemi ad amarlo e ad amarlo assai.

Colloquio

Mio sommo Dio e Redentore, io era perduto, voi col vostro sangue mi avete riscattato dall’inferno; ma io misero poi più volte mi son perduto di nuovo, e voi mi avete ricuperato dalla morte eterna. Tuus sum ego, salvum me fac. Giacché ora son vostro, come spero, non permettete ch’io abbia da ritornare a perdermi con ribellarmi da voi. Io son risoluto di soffrire la morte e mille morti, prima che vedermi di nuovo vostro nemico e schiavo del demonio. Ma voi sapete la mia debolezza, sapete i miei tradimenti, voi avete da darmi la forza a resistere agli assalti che mi darà l’inferno. Io so che nelle tentazioni sarò da voi soccorso, sempreché a voi ricorrerò, mentre vi è la vostra promessa: Petite et accipietis. Omnis qui petit accipit. Ma questo è il mio timore, temo che ne’ miei bisogni io trascuri di raccomandarmi a voi, e cosi miseramente resterò vinto. Questa è la grazia dunque che maggiormente vi domando: datemi luce e forza di ricorrere sempre a voi, e d’invocarvi ogni volta che sarò tentato; e di più vi domando l’aiuto per sempre domandarvi questa grazia. Concedetemela per li meriti del vostro sangue.

E voi Maria, ottenetemela per l’amore che portate a Gesù Cristo.

DISCORSO VI – Il Verbo Eterno da suo si è fatto nostro.

Parvulus… natus est nobis, [et] Filius datus est nobis. (ISAIA IX, 6).

Dimmi, barbaro Erode, perché mandi ad uccidere e sagrificare alla tua ambizion di regnare tanti bambini innocenti? Dimmi di che ti disturbi? che timore hai? temi forse che il Messia già nato abbia da spogliarti del tuo regno? Quid est, parla S. Fulgenzio, quod sic turbaris, Herodes? Rex iste qui natus est non venit reges pugnando superare, sed moriendo subiugare (Serm. 5, de Epiph.). Questo Re di cui temi, dice il santo, non è venuto a vincere i potenti della terra combattendo coll’armi, ma è venuto a regnare ne’ cuori degli uomini col patire e morire per loro amore: Venit ergo, conclude S. Fulgenzio, non ut pugnet vivus, sed ut triumphet occisus. È venuto l’amabile nostro Redentore non a far guerra in sua vita, ma a trionfare dell’amore degli uomini, per quando avrà lasciata la vita sul patibolo di una croce, com’egli stesso disse: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum (Io. XII, 32). Ma lasciamo Erode da parte, o anime divote, e veniamo a noi. Dunque il Figlio di Dio perché è venuto in terra? per darsi a noi? Sì, ce ne assicura Isaia: Parvulus… natus est nobis [et] filius datus est nobis. A ciò l’ha condotto l’amore che ci porta questo amante Signore, e ‘l desiderio che ha d’essere amato da noi. Da suo si è fatto nostro. Vediamolo; ma prima cerchiamo luce al SS. Sacramento, e alla divina Madre.

Il maggior pregio di Dio, anzi il tutto di Dio, è l’essere suo, cioè l’essere da sé, e non dipendere da niuno. Tutte le creature, per grandi ed eccellenti che sieno, in fatti sono niente, perché quanto hanno tutto l’hanno da Dio che l’ha create e le conserva; in modo tale che se Dio lasciasse per un momento di conservarle, subito perderebbero il loro essere e ritornerebbero al niente. Dio all’incontro, perch’è da sé, non può mancare, né può esservi chi lo distrugga, o diminuisca la sua grandezza, la sua potenza, o la sua felicità. Ma S. Paolo dice che l’Eterno Padre ha dato il Figlio per noi: Pro nobis omnibus tradidit illum (Rom. VIII, 32). E che ‘l Figlio medesimo si è dato per noi: Dilexit nos, et tradidit semet ipsum pro nobis (Ephes. V, 2) – Dunque Dio dandosi per noi, egli si è fatto nostro? Sì, dice S. Bernardo: Natus est nobis, qui sibi erat; quegli ch’era tutto a se stesso, ha voluto nascere a noi e farsi nostro. Triumphat de Deo amor Questo Dio che da niuno può esser dominato, l’amore, per dir così, l’ha vinto e ne ha trionfato, sì che da suo l’ha fatto nostro. Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16): Sino a questo segno, disse Gesù Cristo, Dio ha amati gli uomini, che loro ha donato il suo medesimo Figlio. E ‘l Figlio stesso anche per amore ha voluto donarsi agli uomini, per essere da loro amato.

In più modi avea già procurato Iddio di cattivarsi i cuori degli uomini, ora con benefici, ora con minacce, ora con promesse; ma non era giunto a conseguire l’intento. Il suo infinito amore, dice S. Agostino, trovò il modo di farlo dare per mezzo dell’incarnazione del Verbo tutto a noi, per obbligarci così ad amarlo con tutto il nostro cuore: Modum tunc, ut se proderet, invenit amor (Serm. 206, de temp.). Poteva egli mandare un angelo, un Serafino a redimere l’uomo; ma vedendo che l’uomo, se fosse stato redento da un Serafino, avrebbe avuto a dividere il suo cuore, amando con parte di quello il Creatore, e con parte il suo Redentore; Dio, che voleva tutto il cuore e tutto l’amore dell’uomo, voluit esse nobis, dice un divoto autore, Creator et Redemptor; siccome egli era il nostro Creatore, volle farsi ancora nostro Redentore.

Ed eccolo già venuto dal cielo in una stalla, da bambino nato per noi e dato tutto a noi: Parvulus… natus est nobis [et] Filius datus est nobis. E ciò appunto volle significare l’Angelo quando disse a’ pastori: Natus est vobis hodie Salvator (Luc. II, 11). Come dicesse: uomini, andate alla grotta di Betlemme, adorate ivi quel bambino che vi troverete, steso sulla paglia, dentro una mangiatoia, che trema di freddo e piange; sappiate che quegli è il vostro Dio, che non ha voluto mandare altri a salvarvi, ma ha voluto venire egli stesso, per così acquistarsi tutto il vostro amore. Sì, perciò è venuto in terra il Verbo Eterno a conversare cogli uomini per farsi amare. Cum hominibus conversatus est (Baruch III, 38). Un re, se dice una parola di confidenza ad un vassallo, se gli fa un sorriso, se gli dona un fiore, oh quanto quel vassallo si stima onorato e fortunato! Quanto più poi se il re lo cercasse per amico! se lo tenesse con sé ogni giorno a mensa; se volesse che abitasse nel suo medesimo palagio, e che gli stasse sempre vicino! – Ah mio sommo re, mio caro Gesù, voi non potendo portare l’uomo prima della Redenzione in cielo, che gli era chiuso per cagion del peccato, siete venuto voi in terra a conversar con l’uomo qual loro fratello, e a darvi tutto all’uomo per l’amore che gli portate.- Dilexit nos et tradidit semet ipsum pro nobis. Sì, dice S Agostino, questo amorosissimo e pietosissimo Dio, per l’amore che porta all’uomo, non solo ha voluto donargli i suoi beni, ma anche se stesso: Deus piissimus prae amore hominis, non solum sua, verum se ipsum impendit.

Dunque tanto è l’affetto che questo sommo Signore conserva per noi vermi miserabili, che si contenta di darsi tutto a noi, nascendo per noi, vivendo per noi, sino a dare per noi la vita e tutto il suo sangue, per apparecchiarci un bagno di salute e lavarci da tutti i nostri peccati: Dilexit nos, et lavit nos… in sanguine suo (Apoc. I, 5). Ma, Signore, dice Guerrico abbate, questa par che sia una soverchia prodigalità che fate di voi stesso, per questa grand’ansia che avete di essere amato dall’uomo: Oh Deum, si fas est dicere, prodigum sui prae desiderio hominis! E come no, soggiunge, come non ha da dirsi prodigo di se stesso questo Dio, che per acquistare l’uomo perduto non solo dà le sue cose, ma anche se medesimo? An non prodigum sui, qui non solum sua, sed se ipsum impendit, ut hominem recuperaret?

Dice S. Agostino che Dio per cattivarsi l’amore degli uomini, ha scoccate diverse saette d’amore ai loro cuori: Novit Deus sagittare ad amorem; sagittat, ut faciat amantem (In psal. 119). Quali sono queste saette? Son tutte queste creature che vediamo, poiché tutte l’ha create Dio per l’uomo, acciocché l’uomo l’amasse; onde dice lo stesso santo: Caelum et terra, et omnia mihi dicunt ut amem te. Pareva al santo che il sole. la luna, le stelle, i monti, le campagne, i mari, i fiumi gli parlassero e dicessero: Agostino, ama Dio, perché Dio ha creati noi per te, acciocché tu l’amassi. – S. Maria Maddalena de’ Pazzi, quando teneva in mano un bel pomo o un bel fiore, diceva che quel pomo, quel fiore l’era come una saetta al cuore, che la feriva d’amore verso Dio; pensando che Dio da un’eternità aveva pensato a creare quel fiore, acciocch’ella scorgesse il di lui affetto, e l’amasse. S. Teresa ancora dicea che tutte queste belle creature che noi vediamo, le marine, i ruscelli, i fiori, i frutti, gli uccelli, tutti ci rinfacciano la nostra ingratitudine a Dio, poiché tutti sono segni dell’amore che Dio ci porta. Narrasi ancora di un certo divoto romito, che andando per la campagna, e trovando l’erbette e i fiori, gli sembrava che quelli gli rimproverassero la sua sconoscenza, e perciò l’andava percuotendo col suo bastoncello, loro dicendo: Tacete, tacete, v’ho inteso, non più; voi mi rimproverate la mia ingratitudine, mentre Dio v’ha creati così belli per me, acciocché io l’amassi, ed io non l’amo; tacete, v’ho inteso, non più non più. E così andava sfogando l’affetto che sentiva accendersi nel cuore verso Dio da quelle belle creature.

Erano dunque saette d’amore tutte queste creature al cuor dell’uomo, ma Dio di queste saette non fu contento; elle non erano già bastate a guadagnarsi l’amore degli uomini. Posuit me sicut sagittam electam, in pharetra sua abscondit me (Is. IL, [2] ). Dice Ugon cardinale su questo passo, che siccome il cacciatore tien riserbata la saetta migliore per l’ultimo colpo a fermare la fiera; così Dio fra tutti i suoi doni tenne riserbato Gesù, sino che venne la pienezza de’ tempi, ed allora inviollo come per ultimo colpo a ferire d’amore i cuori degli uomini: Sagitta electa reservatur; ita Christus reservatus est in sinu Patris, donec veniret plenitudo temporis, et tunc missus est ad vulneranda corda fidelium. Gesù dunque fu la saetta eletta e riserbata, al colpo della quale predisse già Davide che doveano cader vinti popoli intieri: Sagittae tuae acutae, populi sub te cadent (Ps. XLIV, [6]). Oh quanti cuori feriti io vedo ardere d’amore avanti la mangiatoia di Betlemme! Quanti a’ piedi della croce nel Calvario! Quanti alla presenza del SS. Sacramento su gli altari!

Dice S. Pier Grisologo che ‘l Redentore per farsi amare dall’uomo volle prendere diverse forme: Propter nos alias monstratur in formas, qui manet unica suae maiestatis in forma (Serm. 23). Quel Dio ch’è immutabile volle farsi vedere or da bambino in una stalla, or da garzone in una bottega, or da reo su d’un patibolo, or da pane su d’un altare. Volle Gesù dimostrarsi a noi in queste varie sembianze, ma in tutte queste comparse fé sempre la comparsa d’amante. Ah mio Signore, ditemi, v’è più che inventare per farvi amare? Notas facite (gridava Isaia) …adinventiones eius (Is. XII, 4). Andate, o anime redente, dicea il profeta, andate da per tutto pubblicando le invenzioni amorose di questo Dio amante, ch’egli ha pensate ed eseguite per farsi amare dagli uomini, mentre dopo che ha dati loro tanti suoi doni, ha voluto dare se stesso, e darsi loro in tanti modi. Si vulneris curam desideras, dice S. Ambrogio (Lib. 3, de Virg.), medicus est: se sei infermo e vuoi guarire, ecco Gesù che col suo sangue ti sana. Si febribus aestuaris, fons est: se sei tormentato da fiamme impure di affetti mondani, ecco il fonte che colle sue consolazioni ti conforta. Si mortem times, vita est; si caelum desideras, via est: in somma, se non vuoi morire, egli è la vita: se vuoi il cielo, egli è la via.

E non solo Gesù Cristo si è dato a tutti gli uomini in generale, ma ha voluto darsi ancora a ciascuno in particolare. Ciò era quel che facea dire a S. Paolo: Dilexit me et tradidit semet ipsum pro me (Galat. II, 20). Dice S. Giov. Grisostomo, che Dio così ama ciascuno di noi, come ama tutti gli uomini: Adeo singulum quemquam hominem diligit, quo diligit orbem universum (Hom. 24, in Ep. ad Gal.). Sicché se nel mondo, fratello mio, non vi fosse stato altri che voi, per voi solo sarebbe venuto il Redentore, ed avrebbe dato il sangue e la vita. E chi mai potrà spiegare o capire, dice S. Lorenzo Giustiniani, l’amore che questo Dio innamorato porta ad ogni uomo? Neque valet explicari quo circa unumquemque Deus moveatur affectu. Ciò faceva dire anche a S. Bernardo, parlando di Gesù Cristo: Totus mihi datus, totus in meos usus expensus (Serm. 3, de Circumcis.). Ciò facea dire anche a S. Giovan. Grisostomo: Totum nobis dedit, nihil sibi reliquit. Ci ha dato il suo sangue, la sua vita, se stesso nel Sacramento; non gli è restato più che darci. In somma, dice S. Tommaso, dopo che Dio ci ha dato se stesso, che più può restargli da darci? Deus ultra quo se extenderet non habet (Serm. 3, de Circumcis.). Dopo l’opera dunque della Redenzione, Dio non ha più che darci né ha più che fare per amore dell’uomo.

Sicché ogni uomo dovrebbe dire quel che dicea S. Bernardo: Me pro me debeo, quid retribuam Domino pro se? Io sono di Dio, e a Dio debbo rendermi per avermi egli creato e dato l’essere; ma io dopo avergli dato me, che renderò a Dio per avermi egli dato se stesso? Ma non occorre andarci più confondendo; basta che diamo a Dio il nostro amore, e Dio è contento. I re della terra si gloriano nel dominio de’ regni e delle ricchezze: Gesù Cristo è contento del regno de’ nostri cuori; questo reputa il suo principato; e questo principato egli volle acquistarselo morendo in croce. Et factus est principatus super humerum eius (Is. IX, 6). Per queste parole, principatus super humerum eius, più interpreti con S. Basilio, S. Cirillo, S. Agostino ed altri, intendono la croce che ‘l nostro Redentore portò sulle spalle. Questo Re celeste, dice Cornelio a Lapide, è un signore molto diverso dal demonio; il demonio carica di pesi le spalle dei suoi sudditi, Gesù all’incontro si addossa egli i pesi del suo principato, abbracciandosi la croce, sulla quale vuol morire per acquistarsi il dominio de’ nostri cuori: Diabolus onera imponit humeris subditorum, Christus suis humeris sustinebit onus sui principatus, quia Christus sceptrum imperii sui, puta crucem, humeris suis baiulabit, et regnabit a ligno (A Lap., in loc. cit. Isaiae). Tertulliano disse che dove i monarchi terreni portano lo scettro e la corona per insegne del loro dominio, Gesù Cristo portò la croce, che fu il trono dove salì a regnare del nostro amore: Quis regum insigne potestatis suae humero praefert, et in capite diadema, aut in manu sceptrum? Solus Rex Christus Iesus potestatem suam in humero extulit, crucem scilicet, ut exinde regnaret.

Quindi parla Origene e dice: Se Gesù Cristo ha dato se stesso ad ogni uomo, che gran cosa farà l’uomo se si dà tutto a Gesù Cristo? Christus semet ipsum dedit; quid ergo magnum faciet homo, si semet ipsum offerat Deo, cui ipse se prior obtulit Deus? (Hom. 24, in Nat.). Doniamo dunque di buona voglia il nostro cuore e ‘l nostro amore a questo Dio, che per acquistarselo ha dovuto dare il sangue, la vita, e tutto sé.- Oh si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Mulier, da mihi bibere! (Io. IV, 7). Oh se intendessi, disse Gesù alla Samaritana, la grazia che ricevi da Dio, e chi è quello che ti cerca da bere! Oh se intendesse l’anima, che grazia è quella, quando Dio le domanda che l’ami, dicendole: Diliges Dominum Deum tuum!30 Se un suddito sentisse dirsi dal suo principe che l’amasse, questa sola richiesta basterebbe ad incatenarlo. E non c’incatena un Dio, chiedendoci il nostro cuore, dicendo: Praebe, fili mi, cor tuum mihi? (Prov. XXIII, 26).

Ma questo cuore non lo vuol dimezzato, lo vuole tutto ed intiero; vuole che noi con tutt’il cuore l’amiamo: Diliges Dominum tuum ex toto corde tuo. Se no, non è contento. A questo fine egli ci ha dato tutto il suo sangue, tutta la sua vita, tutto se stesso, acciocché gli diamo tutti noi stessi, e siamo tutti suoi. Ed intendiamo che allora noi daremo tutt’il nostro cuore a Dio, quando gli daremo tutta la nostra volontà; non volendo da qui avanti se non quello che vuole Dio, il quale certamente non vuole che ‘l nostro bene e la nostra felicità: In hoc Christus, dice l’Apostolo, mortuus est, ut mortuorum et vivorum dominetur. Sive ergo morimur, sive vivimus, Domini sumus (Rom. XIV, 8).31 Gesù ha voluto morire per noi; più non avea che fare per guadagnarsi tutto il nostro amore, e per essere unico signore del nostro cuore; onde da oggi innanzi dobbiamo far sapere al cielo ed alla terra, in vita ed in morte, che non siamo più nostri, ma siamo solamente e tutti del nostro Dio.

Oh quanto desidera Dio di vedere, e quanto gli è caro un cuore ch’è tutto suo! Oh le finezze amorose che fa Dio, i beni, le delizie, la gloria che apparecchia Dio nel paradiso ad un cuore ch’è tutto suo! Il Ven. P. Gian Leonardo di Lettera domenicano vide un giorno Gesù Cristo che in sembianza di cacciatore andava per la foresta di questa terra con un dardo in mano; gli domandò il servo di Dio, che andasse così facendo! Gesù rispose che andava a caccia de’ cuori.32 Chi sa, dico io, se in questa novena riuscirà al Redentore bambino di ferire e di far preda di qualche cuore, del quale prima è andato molto tempo a caccia, e non gli è riuscito mai di ferirlo e guadagnarlo. Anime divote, se Gesù farà acquisto di noi, noi faremo acquisto di Gesù. Il cambio è assai più vantaggioso per noi. Teresa – disse un giorno il Signore a questa santa – sinora non sei stata tutta mia; or che tu sei tutta mia, sappi ch’io sono tutto tuo.33 S. Agostino chiama l’amore Vittam copulantem amantem cum amato,34 una fascia che stringe l’amante coll’amato. Dio ha tutto il desiderio di stringersi e d’unirsi con noi; ma bisogna che noi ancora procuriamo di unirci con Dio. Se vogliamo che Dio diasi tutto a noi, bisogna che ancora noi ci diamo tutti a Dio.

Affetti e preghiere.

Oh me felice, se da oggi avanti potrò sempre dire colla sagra Sposa: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). Il mio Dio, l’amato mio s’è dato tutto a me; è ragione ch’io mi dia tutto al mio Dio, e dica sempre: Quid… mihi est in caelo, et a te quid volui super terram?… Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXII, 11).35 O diletto mio Bambino, caro mio Redentore, giacché voi siete sceso dal cielo per donarvi tutto a me, che altro voglio andar cercando io nella terra e nel cielo fuori di voi, che siete il sommo bene, l’unico tesoro, il paradiso dell’anime? Voi siate dunque l’unico Signore del mio cuore, voi possedetelo tutto. Solo a voi il mio cuore ubbidisca e cerchi di piacere. Solo voi ami l’anima mia, e voi solo siate la mia parte. Si procurino gli altri, e si godano – se mai può trovarsi vero godimento fuori di voi – i beni e le fortune di questo mondo; voi solo voglio che siate la mia fortuna, la mia ricchezza, la mia pace, e la mia speranza in questa vita e nell’eternità.

Eccovi dunque il cuore, tutto ve lo dono; egli non è più mio, è vostro. Siccome voi in entrare nel mondo offeriste all’Eterno Padre e gli donaste tutta la vostra volontà, secondo ci fate sapere per Davide: In capite libri scriptum est de me, ut facerem voluntatem tuam; Deus meus, volui (Ps. XXXIX, [8, 9]); così oggi io offerisco a voi, mio Salvatore, tutta la mia volontà. Ella un tempo vi è stata ribelle, e con quella io v’ho offeso; ma di tutti i miei malvagi consensi, coi quali ho perduta miseramente la vostra amicizia, ora me ne dolgo con tutto il cuore, e questa mia volontà a voi tutta la consagro. Domine, quid me vis facere?36 Ditemi quel che volete da me, che tutto voglio farlo. Disponete di me e delle mie cose come vi piace, ch’io tutto accetto ed in tutto mi rassegno. So che voi volete il meglio per me, onde tutta abbandono nelle vostre mani l’anima mia. In manus tuas commendo spiritum meum.37 Aiutatela per pietà e conservatela voi, e fate che sia sempre vostra e tutta vostra, giacché l’avete redenta con tutto il vostro sangue. Redemisti me, Domine, Deus veritatis.38

O beata voi, SS. Vergine Maria! Voi foste tutta e sempre tutta di Dio; tutta bella, tutta pura e senza macchia: Tota pulchra es,… et macula non est in te.39 Voi foste quell’una chiamata fra tutte l’anime dal vostro Sposo la sua colomba, la sua perfetta: Una est columba mea, perfecta mea.40 Voi l’orto chiuso41 ad ogni difetto e colpa, e tutto colmo di fiori e frutti di virtù. Ah regina e madre mia, voi che siete così bella agli occhi del vostro Dio, abbiate pietà dell’anima mia ch’è divenuta così deforme per li suoi peccati!

Ma se per lo passato io non sono stato di Dio, ora voglio esser suo e tutto suo. La vita che mi resta voglio spenderla solo in amare il mio Redentore che mi ha tanto amato: basta dire che si è dato tutto a me. Impetratemi voi, speranza mia, forza d’essergli grato e fedele sino alla morte. Amen, così spero.

DISCORSO VII – Il Verbo Eterno da beato si fé tribolato.1

Et erunt oculi tui videntes praeceptorem tuum. (Is. XXX, 20).

Dice S. Giovanni: Omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, [et] concupiscentia oculorum, et superbia vitae (I Io. II, 16). Ecco i tre malvagi amori da cui venne ad esser dominato l’uomo dopo il peccato di Adamo: amor de’ piaceri, amor delle ricchezze, amor degli onori, da’ quali poi nasce la superbia umana. Il Verbo divino per insegnare a noi col suo esempio la mortificazione de’ sensi, che vince l’amor de’ piaceri, da beato si fé tribolato. Per insegnarci il distacco dai beni di questa terra, da ricco si fé povero. E finalmente per insegnarci l’umiltà che vince l’amor degli onori, da sublime si fece umile. Di questi tre punti parleremo in questi tre ultimi giorni della Novena. Parliamo oggi del primo.

Venne dunque il nostro Redentore ad insegnarci più coll’esempio della sua vita, che colle dottrine che predicò, l’amore alla mortificazione de’ sensi; e perciò da beato ch’egli è ed e stato sempre ab eterno, si fece tribolato. Vediamolo; e cerchiamo luce a Gesù ed a Maria. L’Apostolo, parlando della divina beatitudine, chiama Dio l’unico beato e potente: Beatus et solus potens (I Tim. VI, 15). E con ragione, perché ogni felicità che può godersi da noi sue creature, altro non è che una minima partecipazione della felicità infinita di Dio. I beati del cielo in quella trovano la loro beatitudine, cioè in entrare nel mare immenso della beatitudine di Dio: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Questo è il paradiso che il Signore dona all’anima, allorché ella entra al possesso del regno eterno.

Dio a principio creando l’uomo, non lo pose in terra a patire, ma posuit… in paradiso voluptatis (Gen. II 15). Lo pose in un luogo di delizie, acciocché di là poi passasse al cielo, dove godesse in eterno la gloria de’ beati. Ma l’uomo infelice col peccato si rendé indegno del paradiso terrestre, e si chiuse le porte del celeste, condannandosi volontariamente alla morte ed alle miserie eterne. Ma il Figlio di Dio, per liberare l’uomo da tanta ruina, che fece? Di beato e felicissimo ch’egli era, volle diventare afflitto e tribolato. Potea già il nostro Redentore riscattarci dalle mani de’ nostri nemici senza patire. Potea venire in terra e godersi la sua felicità, facendo una vita beata anche quaggiù, con quell’onore che a lui era dovuto, come Re e Signore del tutto. Bastava in quanto alla Redenzione, che avesse offerto a Dio una sola goccia di sangue, una lagrima sola, per redimere il mondo, ed infiniti mondi: Quaelibet passio Christi, dice l’Angelico, suffecisset ad Redemptionem propter infinitam dignitatem personae (Quodlib. II, a. 2).2 Ma no: Proposito sibi gaudio, sustinuit crucem (Hebr. XII, 2). Egli volle rinunziare a tutti gli onori e piaceri, e si elesse in questa terra una vita tutta piena di travagli e d’ignominie.

Bastava sì, dice S. Giovan Grisostomo, alla Redenzione dell’uomo qualunque opera del Verbo Incarnato; ma non bastava all’amore ch’egli portava all’uomo: Quod sufficiebat Redemptioni non sufficiebat amori.3 E poiché chi ama vuol vedersi amato, Gesù Cristo per vedersi amato dall’uomo, volle patire assai, e scegliersi una vita tutta di pene, per obbligare l’uomo ad amarlo assai. Rivelò il Signore a S. Margherita da Cortona, che in sua vita non provò mai una minima consolazione sensibile.4 Magna… velut mare contritio tua (Thren. II, 13). La vita di Gesù Cristo fu amara come il mare, ch’è tutto amaro e salso, e non ha goccia che sia dolce. E perciò con ragione Isaia chiamò Gesù Cristo Virum dolorum (Cap. LIII, [3]): l’uomo de’ dolori, come se d’altro non avesse ad esser capace in questa terra, che di stenti e di dolori. Dice S. Tommaso che il Redentore non si caricò di semplici dolori, ma assumpsit dolorem in summo;5 viene a dire che voll’essere l’uomo più addolorato che mai fosse vivuto o avesse a vivere sulla terra.

Sì, perché quest’uomo nacque a posta per patire. Perciò assunse un corpo tutto atto al patire. Egli in entrare nell’utero di Maria, come ci avvisa l’Apostolo, disse al suo Eterno Padre: Ingrediens mundum dicit: Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi (Hebr. X, 5). Padre mio, voi avete rifiutati i sacrifici degli uomini, perché quelli non erano bastanti a soddisfare la vostra divina giustizia per le offese che vi han fatte: avete dato a me un corpo, com’io già ve l’ho richiesto, delicato, sensitivo, e tutto adattato al patire: questo corpo io volentieri l’accetto e ve l’offerisco, poiché con questo, soffrendo tutti i dolori che mi accompagneranno nella mia vita, e finalmente mi daranno la morte sulla croce, così intendo placarvi verso il genere umano e così acquistarmi l’amore degli uomini.

Ed eccolo che appena entrato nel mondo dà principio al suo sacrificio e comincia a patire; ma d’altro modo che non patiscono gli uomini. Gli altri bambini, stando nell’utero delle loro madri, non patiscono, poiché stanno nel loro sito naturale; e se qualche poco patiscono, almeno non conoscono quel che patiscono, mentre son privi d’intendimento; ma Gesù bambino patisce per nove mesi l’oscurità di quella carcere, patisce la pena di non potersi muovere, e ben conosce quel che patisce. Perciò disse Geremia: Femina circumdabit virum (XXXI, 22). Predisse che una donna, quale fu Maria, dovea tenere involto tra le sue viscere, non già un bambino, ma un uomo: bambino si, in quanto all’età; ma uomo perfetto in quanto all’uso della ragione, poiché Gesù Cristo sin dal primo momento di sua vita fu ripieno di tutta la sapienza: In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi (Coloss. III, 3). Onde disse S. Bernardo: Vir erat Iesus necdum etiam natus, sed sapientia, non aetate (Hom. 2, sup. miss.).6 E S. Agostino: Erat ineffabiliter sapiens, sapienter infans (Serm. 27, de temp.).7

Esce poi dalla carcere dell’utero materno, ma a che? forse esce a godere? Esce a più patire, mentre si elegge di nascere nel cuore dell’inverno in una spelonca, la quale è stalla d’animali, di mezza notte; e nasce con tanta povertà, che non ha fuoco che lo riscaldi né panni bastanti che lo riparino dal freddo. Magna cathedra praesepium illud, dice S. Tommaso da Villanova.8 Oh come bene c’insegnò Gesù Cristo l’amore al patire nella grotta di Betlemme! In praesepe, soggiunge il P. Salmerone, omnia sunt vilia visui, ingrata auditui, olfactui molesta, tactui dura et aspera.9 Nel presepio tutto dà pena: tutto dà pena alla vista, perché non si vede che pietre rozze e oscure: tutto dà pena all’udito, perché altro non si sente che voci d’animali quadrupedi: tutto dà pena all’odorato, per la puzza che vi è di letame: e tutto dà pena al tatto, perché la culla non è altro che una piccola mangiatoia, ed il letto non è composto che di sola paglia. Ecco questo Dio bambino come sta tra le fasce stretto, sì che non può muoversi: Patitur Deus, disse S. Zenone, pannis alligari, quod mundi venerat debita soluturus.10 E qui soggiunge S. Agostino: O felices panni, quibus peccatorum sordes extersimus (Serm. 9, de temp.).11 Eccolo come trema per lo freddo; come piange, per darci ad intendere che patisce, e presenta al Padre quelle prime sue lagrime per liberarci dal pianto eterno da noi meritato: Felices lacrimae, quibus nostrae obliterantur impietates, dice S. Tommaso da Villanova;12 o lagrime per noi beate, che ci ottengono il perdono de’ nostri peccati!

E così sempre afflitta e tribolata seguitò ad esser la vita di Gesù Cristo. Tra poco, appena nato, è costretto a fuggire esule e ramingo in Egitto, per liberarsi dalle mani di Erode. Ivi in quel paese barbaro visse molti anni nella sua fanciullezza povero e sconosciuto. E poco dissimile fu poi la vita che fece ritornato dall’Egitto, abitando in Nazarette, sino finalmente a ricevere la morte per man di carnefici su d’una croce in un mare di dolori e di obbrobri. Ma inoltre bisogna qui intendere che i dolori che Gesù Cristo soffrì nella sua Passione, la flagellazione, la coronazione di spine, la crocifissione, l’agonia, la morte, e tutte l’altre pene ed ingiurie che patì nel fine, tutte le patì dal principio della sua vita; perché fin dal principio gli fu sempre avanti gli occhi rappresentata la scena funesta di tutti i tormenti che dovea soffrire nel partirsi da questa terra, com’egli predisse per bocca di Davide: Dolor meus in conspectu meo semper (Ps. XXXVII, 18). Ai poveri infermi si nasconde il ferro o il fuoco con cui bisogna tormentarli per conseguire la loro sanità; ma Gesù non volle che gli si nascondessero gli strumenti della sua Passione, co’ quali dovea finir la vita per ottenere a noi la vita eterna; ma volle tener sempre avanti gli occhi i flagelli, le spine, i chiodi, la croce, che doveano spremergli tutto il sangue delle vene, sino a farlo spirare abbandonato da ogni conforto per puro dolore. A Suor Maddalena Orsini che da molto tempo pativa una grave tribolazione, apparve un giorno Gesù in forma di Crocifisso, per così confortarla colla memoria della sua Passione, e l’animò a soffrir con pazienza quella croce. La serva di Dio gli disse: Ma Signore, voi solamente per tre ore foste sulla croce; ma io già son più anni che patisco questa pena. Ah ignorante, allora le rispose il Crocifisso, io sin dal primo punto che stetti nell’utero di Maria soffersi tutto quel che poi ebbi a patire nella mia morte.13Christus, dice il Novarino, crucem etiam in ventre matris menti impressam habuit, adeo ut vix natus principatum eius super humerum eius habere dicitur.14 Dunque, mio Redentore, io non ti troverò per tutta la tua vita in altro luogo, se non sulla croce: Domine, nusquam te inveniam, nisi in cruce, disse Drogone Ostiense.15 Sì, perché la croce dove morì Gesù Cristo sempre gli fu innanzi alla sua mente a tormentarlo. Anche dormendo, dice il Bellarmino, il Cuore di Gesù era assistito dalla vista della croce: Crucem suam Christus semper ante oculos habuit. Quando dormiebat cor vigilabat, nec ab intuitu crucis vacuum erat.16

Ma quello che più rendé tribolata ed amara la vita del nostro Redentore, non furono tanto i dolori della sua Passione, quanto il vedersi innanzi i peccati, che dopo la sua morte avevano da commettere gli uomini. Questi furono quei crudeli carnefici che lo fecero vivere in una continua agonia, oppresso sempre da una sì terribil mestizia, che sarebbe bastata colla sua pena a farlo morire in ogni momento di puro dolore. Scrive il P. Lessio che la sola vista dell’ingratitudine degli uomini avrebbe bastato a far morire mille volte di dolore Gesù Cristo.17 I flagelli, la croce, la morte non furono già a lui oggetti odiosi, ma cari, e da lui stesso voluti e desiderati. Egli medesimo spontaneamente s’era offerto a soffrirli: Oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, [7]). Egli non diè la sua vita contro sua voglia, ma per propria elezione, come ci fé intendere per S. Giovanni: Animam meam pono pro ovibus meis (Io. X, 15). Anzi questo fu il suo maggior desiderio in tutta la sua vita, che presto giungesse il tempo della sua Passione, per vedere compita la Redenzione degli uomini; che perciò disse nella notte precedente alla sua morte: Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum (Luc. XXII, 15). E prima di giungere questo tempo par che si andasse consolando con dire: Baptismo… habeo baptizari, et quomodo coarctor usquedum perficiatur (Luc. XII, 50). Io debbo già esser battezzato col battesimo del mio medesimo sangue, non già per lavare l’anima mia, ma le mie pecorelle dalle macchie de’ loro peccati; e quanto mi sento struggere per lo desiderio che giunga presto l’ora di vedermi esangue e morto sulla croce! Dice S. Ambrogio che il Redentore non era amitto già dal timore della sua morte, ma dalla dimora del nostro riscatto: Non ex metu mortis suae, sed ex mora redemptionis nostrae.18

Contempla S. Zenone in un sermone che fa della Passione, che Gesù Cristo si elesse il mestiere di legnaiuolo in questa terra, come già per tale fu conosciuto e chiamato: Nonne hic est faber et filius fabri? (Marc. VI, 3);19 perché i legnaiuoli tengono sempre fra le mani legni e chiodi; e Gesù esercitando quest’arte, par che si dilettasse di tali cose, perché meglio gli rappresentavano i chiodi e la croce, in cui voleva morire: Dei filius illis delectabatur operibus, quibus lignorum segmentis et clavis sibi saepe futurae crucis imago praeformabatur (S. Zeno, Serm. de laud. Pass.).20 Sicché ripigliamo il punto non fu tanto la memoria di sua Passione che afflisse il cuore del nostro Redentore, quanto l’ingratitudine con cui gli uomini doveano pagare il suo amore. Questa ingratitudine lo fé piangere nella stalla di Betlemme: questa gli fé sudar vivo sangue con agonia di morte nell’orto di Getsemani: questa gli recò tanta mestizia che giunse a dire ch’ella sola bastava a dargli morte: Tristis est anima mea usque ad mortem:21 e questa ingratitudine finalmente fu quella che lo fece morire desolato e abbandonato da ogni consolazione sulla croce; poiché dice il P. Suarez che Gesù Cristo più principalmente volle soddisfare per la pena del danno dovuta all’uomo, che per la pena del senso: Principalius Christus satisfecit pro poena damni, quam sensus.22 E perciò furono assai più grandi le pene interne dell’anima del Signore, che tutte l’altre dei corpo.

Dunque ancora noi coi nostri peccati ebbimo23 parte a rendere così amara e tribolata tutta la vita del nostro Salvatore. Ma ringraziamo la sua bontà che ci dà tempo di rimediare al male fatto.- Come abbiam da rimediare? Con soffrire con pazienza le pene e le croci ch’egli ora ci manda per nostro bene. E per soffrire con pazienza queste pene, esso medesimo ci dà il modo: Pone me ut signaculum super cor tuum (Cant. VIII, 6). Metti sopra il tuo cuore l’immagine di me crocifisso; viene a dire, considera il mio esempio, i miei dolori che ho sofferti per te, e così soffrirai tutte le croci con pace.- Dice S. Agostino che questo medico celeste volle esso infermarsi per sanare noi infermi colla sua infermità: Mirabile genus medicinae. Medicus voluit aegrotare, et aegrotos sua infirmitate sanare (Serm. 19, de Sanct.).24 Secondo quel che già disse Isaia (Cap. LIII, [5]): Livore eius sanati sumus. All’anime nostre inferme per causa del peccato, era unicamente necessaria questa medicina del patire; e Gesù Cristo prima la volle esso bere, acciocché non ripugnassimo di prenderla noi che siamo i veri infermi: Prior bibit medicus, ut bibere non dubitaret aegrotus (S. Aug., serm. 18., de Verb. Dom.).25 Posto ciò, dice S. Epifanio che noi per farci conoscere veri seguaci di Gesù Cristo dobbiamo ringraziarlo quando ci manda croci: Christianorum propria virtus est, etiam in adversis referre gratias.26 E con ragione, perché trattandoci così, egli ci fa simili a lui. Soggiunge S. Giovan Grisostomo una cosa di gran consolazione: dice che quando noi ringraziamo Dio de’ benefici, allora gli rendiamo ciò che gli dobbiamo, ma quando sopportiamo qualche pena per amor suo con pazienza, allora in certo modo Dio resta a noi debitore: In bonis gratias agens, reddidisti debitum; in malis, Deum reddidisti debitorem.27 – Se vuoi rendere amore a Gesù Cristo, impara da lui, dice S. Bernardo, come dei amarlo: Disce a Christo, quemadmodum diligas Christum (Serm. 20, in Cant.).28 Contentati di patire qualche cosa per quel Dio che tanto ha patito per te. Il desiderio di dar gusto a Gesù Cristo e di fargli conoscere l’amore che gli si porta era quello che rendeva avidi e sitibondi i santi, non di onori o piaceri, ma di pene e disprezzi. Ciò faceva dire all’Apostolo: Mihi… absit gloriari, nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi (Gal. VI, 14). Fatto egli felice compagno del suo Dio crocifisso, non ambiva altra gloria che di vedersi in croce. Ciò facea dire anche a S. Teresa: O morire, o patire;29 come dicesse: Sposo mio, se vuoi tirarmi a te colla morte, eccomi, son pronta a venire, e te ne ringrazio; ma se vuoi lasciarmi per altro tempo in questa terra, io non mi fido30 di starvi senza patire: O morire, o patire. Ciò faceva avanzarsi a dire S. Maria Maddalena de’ Pazzi: Patire e non morire;31 come dicesse: Gesù mio, desidero il paradiso per meglio amarti, ma più desidero il patire, per compensare in parte l’amore che voi mi avete dimostrato in patire tanto per me.32 E la Ven. Suor Maria Crocifissa di Sicilia era sì innamorata del patire, che giungeva a dire: È bello sì il paradiso, ma vi manca una cosa, perché vi manca il patire.33 Ciò indusse ancora S. Giovanni della Croce, allorché gli apparve Gesù colla croce in ispalla e gli disse: “ Giovanni, cercami quel che vuoi-”; l’indusse, dico, a non cercare altro che patimenti e disprezzi: Domine, pati et contemni pro te.34

Noi, se non abbiamo lo spirito di desiderare e cercare il patire, almeno procuriamo di accettar con pazienza quelle tribolazioni che Dio ci manda per nostro bene: Ubi patientia, ibi Deus, dice Tertulliano.35 Dove sta Dio? Datemi un’anima che patisca con rassegnazione, ed in questa certamente vi è Dio: Iuxta est Dominus iis qui tribulato sunt corde (Ps. XXXIII, 19). Si compiace il Signore di starsene vicino a’ tribolati. Ma a quali tribolati? S’intende a coloro che patiscono con pace, rassegnati nella divina volontà. A costoro fa provare Dio la vera pace, la quale tutta consiste, come dice S. Leone, in unire la nostra volontà a quella di Dio: Christiana vera pax est a Dei voluntate non dividi.36 La divina volontà, ci avvisa S. Bonaventura, è come il mele che rende dolci ed amabili anche le cose amare.37 La ragione si è, perché chi ottiene tutto quel che vuole, non ha altro che desiderare: Beatus est qui habet omnia quae vult, dice S. Agostino.38 E perciò chi non vuol altro se non ciò che vuole Dio, sempre sta contento; giacché, avvenendo sempre quel che vuole Dio, l’anima sempre ottiene quel che vuole.

E quando Dio ci manda croci, non solo rassegniamoci, ma ringraziamolo, mentre è segno che ci vuol perdonare i peccati e salvarci dall’inferno meritato. Chi ha offeso Dio dev’esser castigato; e perciò dobbiamo sempre pregarlo che ci castighi in questa, e non già nell’altra vita. Povero quel peccatore che in questa vita non si vede punito, ma prosperato! Dio ci guardi da quella misericordia della quale parla Isaia: Misereamur impio (XXVI, 10).39 Misericordiam hanc nolo, dice S. Bernardo, super omnem iram miseratio ista.40 Signore, pregava il santo, io non voglio questa misericordia, la quale è più terribile d’ogni castigo. Quando Dio non punisce il peccatore in questa vita, è segno che aspetta a punirlo nell’eternità, dove il castigo non avrà più fine. Dice S. Lorenzo Giustiniani: De pretio erogato Redemptoris tui agnosce munus, tuaeque praevaricationis pondus (De triumph. carit., cap. 10).41 Vedendo un Dio morto in croce, dobbiamo considerare il gran dono che ci ha fatto del suo sangue, per redimerci dall’inferno; e riconoscere insieme la malizia del peccato che ha ridotto un Dio a morire per ottenerci il perdono. Nihil ita me deterret, sicut videre Filium tuum propter peccatum crudelissima morte mulctatum, dicea Drogone (De Passione):42 O Dio eterno, niente più mi spaventa, che vedere il tuo Figlio punito con una morte così spietata per causa del peccato.

Consoliamoci dunque, allorché dopo i peccati ci vediamo afflitti da Dio in questo mondo, perché è segno allora che vuol usarci misericordia nell’altro. Il solo pensiero di aver disgustato un Dio così buono, se l’amiamo, deve più consolarci nel vederci afflitti e castigati, che se ci vedessimo prosperati e colmi di consolazioni in questa vita. Dice S. Giovan Grisostomo: Maior consolatio erit ei qui punitur si amet Dominum, postquam exacerbavit tam misericordem, quam qui non punitur. A chi ama, siegue a dire il santo, dà più pena il pensare d’aver data amarezza all’amato, che lo stesso castigo del suo delitto.43 Consoliamoci dunque nel patire; e se questi pensieri non bastano a consolarci, andiamo a Gesù Cristo, ch’egli ci consolerà, come ha promesso a tutti: Venite ad me, omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. XI, 28). Quando ricorriamo al Signore, o egli ci libererà da quella tribolazione, o ci darà forza di sopportarla con pazienza. E questa è grazia maggior della prima; poiché le tribolazioni sofferte con rassegnazione, oltre di farci soddisfare in questa vita i nostri debiti, di più ci fan meritare gloria maggiore ed eterna in paradiso.- Andiamo ancora, quando ci troviamo afflitti e desolati, a trovar Maria che si chiama la Madre della misericordia, la causa della nostra allegrezza, e la consolatrice degli afflitti. Andiamo a questa buona Signora, la quale come dice Lanspergio non permette che alcuno si parta mesto da’ piedi suoi, e non consolato: Omnibus pietatis sinum apertum tenet, neminem a se tristem redire sinit.44 Dice S. Bonaventura, ch’ella ha per officio di compatire gli afflitti: Tibi officium miserendi commissum.45 Onde soggiunge Riccardo di S. Lorenzo che chi l’invoca, sempre la troverà apparecchiata ad aiutarlo: Inveniet semper paratam auxiliari.46 E chi mai ha cercato il suo aiuto ed è restato abbandonato? Quis umquam, o beata, tuam rogavit opem et fuit derelictus (B. Eutich., in Vita S. Theoph.).

Affetti e preghiere.

S. Maria Maddalena de’ Pazzi (P. I, cap. 25) prescrisse a due religiose sue suddite, che nel tempo di Natale se ne fossero restate ai piedi del santo Bambino a far l’officio che facevano gli animali nel presepio, cioè che fossero state a riscaldare Gesù che tremava di freddo, colle loro lodi amorose, ringraziamenti e sospiri d’amore che uscissero da cuori ardenti.48

-Oh potessi, caro mio Redentore, fare io ancora quest’officio! Sì, ti lodo Gesù mio, lodo la tua misericordia infinita, lodo la tua carità infinita che ti rende gloria nel cielo e nella terra, ed unisco la mia voce con quella degli angeli: Gloria in altissimis Deo.49

Ti ringrazio da parte di tutti gli uomini; ma specialmente ti ringrazio io misero peccatore. Che ne sarebbe di me, che speranza potrei avere di perdono e di salute, se voi, Salvator mio, non foste venuto dal cielo a salvarmi? Vi lodo dunque, vi ringrazio e v’amo.

V’amo più d’ogni cosa, v’amo più di me stesso, v’amo con tutta l’anima mia, e tutto a voi mi dono. Ricevete, o santo Bambino, questi atti d’amore; e se son freddi, perché escono da un cuore gelato, riscaldate voi questo povero mio cuore: cuore, che v’ha offeso, ma cuore pentito.

Sì, mio Signore, mi pento sopra ogni male di aver disprezzato voi, che mi avete tanto amato. Ora non desidero altro che amarvi, e questo solo vi cerco: datemi il vostro amore e fatene di me quel che vi piace. Sono stato un tempo misero schiavo dell’inferno; ma ora che son libero da quelle infelici catene, tutto a voi mi consagro; vi consagro il mio corpo, i miei beni, la mia vita, l’anima mia, la mia volontà, e tutta la mia libertà. Io non voglio esser più mio, ma solo di voi unico mio bene. Deh ligate a’ piedi vostri questo povero mio cuore, acciocché non si parta più da voi.

O Maria SS., impetratemi voi questa grazia, che io viva sempre ligato dalle beate catene d’amore verso il vostro Figlio. Ditegli che mi accetti per ischiavo del suo amore. Egli fa quanto voi gli domandate. Pregatelo, pregatelo. Così spero.

DISCORSO VIII – Il Verbo Eterno da ricco si fece povero.

Excutere de pulvere, consurge, sede, Ierusalem

(Isaia, LII, 2).

Via su, anima cristiana, ti dice il profeta, scuotiti dalla polvere degli affetti terreni: Excutere de pulvere, consurge; via su alzati dal fango, dove stai miseramente a giacere; e siedi, sede, Ierusalem, siedi regina a dominare sopra le passioni che t’insidiano la gloria eterna, e ti espongono al pericolo d’un’eterna ruina. Ma che avrà da fare quest’anima per giungere a ciò? Guardare e considerare la vita di Gesù Cristo, il quale essendo quel ricco che possiede tutte le ricchezze del cielo e della terra, si è fatto povero, disprezzando tutti i beni della terra. Chi considera Gesù fatto povero per suo amore, non è possibile che non si muova a disprezzar tutto per amor di Gesù. Consideriamolo noi, e perciò cerchiamo lume a Gesù ed a Maria.

Quanto v’è nel cielo e nella terra, tutto è di Dio: Meus est… orbis terrae, dice il Signore, et plenitudo eius (Ps. XLIX, 12). Ma questo è poco, il cielo e la terra non è il tutto, ma è una minima parte delle ricchezze di Dio. Dio è quel ricco, la di cui ricchezza è infinita, e non può mancare; perché la sua ricchezza non dipende da altri, ma la possiede in se stesso ch’è bene infinito. Perciò dicea Davide: Deus meus es tu, quoniam bonorum meorum non eges (Ps. XV, 2). Or questo Dio sì ricco si fé povero col farsi uomo, affin di far diventare ricchi noi poveri peccatori: Egenus factus est, cum esset dives, ut illius inopia vos divites essetis (II Cor. VIII, 9). Come? un Dio venire a farsi povero! E perché? Intendiamo il perché. I beni di questa terra non possono essere che terra e fango, ma fango che acceca talmente gli uomini, ch’essi non vedono più quali siano i veri beni. Prima della venuta di Gesù Cristo, era il mondo pieno di tenebra, perché pieno di peccati. Omnis… caro corruperat viam suam (Gen. VI, 12): Ogni uomo avea corrotta la legge e la ragione, sì che vivendo come bruti, intenti solo ad acquistarsi beni e piaceri di questa terra, niente più curavano de’ beni eterni. Ma la divina misericordia fé che venisse lo stesso Figlio di Dio ad illuminare questi uomini accecati: Habitantibus in regione umbrae mortis, lux orta est eis (Isaia, IX, 2).

Gesù fu chiamato la luce delle genti: Lumen ad revelationem gentium:1 lux in tenebris lucet.2 Già il Signore prima ci avea promesso di farsi egli medesimo il nostro maestro, e maestro visibile agli occhi nostri; il quale venisse ad insegnarci la via della salute, ch’è la pratica delle sante virtù, e specialmente della santa povertà. Et erunt oculi tui videntes praeceptorem tuum (Is. XXX, 20). Ma questo maestro dovea insegnarci non solo colla voce, ma ancora, anzi più coll’esempio della sua vita. Dice S. Bernardo che la povertà non si ritrovava in cielo, solo in terra poteva trovarsi; ma l’uomo non conosceva il di lei pregio, e perciò non la cercava. Pertanto il Figlio di Dio discese dal cielo in terra, e l’elesse per compagna di tutta la sua vita, per renderla col suo esempio anche a noi preziosa e desiderabile: Paupertas non inveniebatur in caelis, porro in terris abundabat, et nesciebat homo pretium eius. Hanc itaque Filius concupiscens descendit, ut eam eligat sibi, et nobis sua aestimatione faciat pretiosam (Serm. 1, in vig. Nat.).3 Ed ecco il nostro Redentor bambino, che già sul principio di sua vita è fatto maestro di povertà nella spelonca di Betlemme, chiamata appunto dallo stesso S. Bernardo, Schola Christi,4 e da sant’Agostino, Spelunca magistra.5

A questo fine dispose Dio che uscisse l’editto di Cesare, acciocché il Figlio nascesse non solo povero, ma il più povero di tutti gli uomini, facendolo nascere fuori della propria casa, in una grotta ch’era stanza d’animali. Gli altri poveri, nascendo nelle loro case, almeno nascono con qualche maggior comodità di panni, di fuoco, e d’assistenza di persone, che almeno per compassione loro soccorrono. Qual figlio mai di alcun povero nasce nelle stalle? Nelle stalle appena nascono le bestie. Come ciò avvenisse, lo narra S. Luca. Venuto il tempo che Maria dovea partorire, Giuseppe le va cercando alloggio in Betlemme. Va girando e cercandolo per le case, ma non lo trova. Lo va a cercare nell’osteria, e neppure lo trova. Non erat eis locus in diversorio (Luc. II, 7). Onde fu costretta Maria a ricoverarsi e partorire in quella spelonca, dove con tutto il concorso di tanta gente non vi stavano già uomini, ma appena erano due animali. – A’ figli de’ principi che nascono si apprestano le stanze calde e addobbate di arazzi, le culle d’argento, e i panni più fini, coll’assistenza de’ primi nobili e dame del regno. Al re del cielo in vece della stanza addobbata e calda gli tocca una grotta fredda, vestita d’erbe: in vece delle coltrici di piume, gli tocca un poco di paglia dura e pungente: in vece de’ panni fini, gli toccano poveri pannicelli, rozzi, freddi ed umidi: Conditor angelorum, dice S. Pier Damiani, non ostro opertus, sed vilibus legitur panniculis involutus. Erubescat terrena superbia, ubi coruscat humilitas Salvatoris (Lib, 6, cap. 18).6 In vece di fuoco, e dell’assistenza de’ grandi, appena gli tocca l’alito e la compagnia di due bestie: in vece finalmente della culla d’argento, gli tocca una vil mangiatoia.- Come? dice S. Gregorio Nisseno, il Re de’ regi, che riempie il cielo e la terra, non trova altro luogo nascendo che un povero presepio di animali? Qui complexu suo ambit omnia, in brutorum praesepe reclinatur?7 Sì, perché questo Re de’ regi per nostro amore voll’esser povero, ed il più povero di tutti. Almeno i bambini de’ poveri hanno latte che basta a saziarli; ma anche in ciò voll’esser povero Gesù Cristo, mentre il latte di Maria era latte miracoloso, di cui era ella provveduta, non dalla natura, ma dal cielo, come ci avvisa la santa Chiesa: Virgo lactabat ubere de caelo pleno.8 E Dio, per compiacere il desiderio di suo Figlio, che voleva essere il più povero di tutti, non provvide Maria di latte abbondante, ma solamente di quello che appena bastava per sostentare la vita del Figlio; onde canta la stessa santa Chiesa: Modico lacte pastus est.9

E conforme nacque povero Gesù Cristo, così seguì a viver povero in tutta la sua vita; e non solo povero, ma mendico, mentre la parola egenus di S. Paolo,10 nel testo greco significa mendico; onde dice Cornelio a Lapide: Patet Christum non tantum pauperem fuisse, sed etiam mendicum.11 Il nostro Redentore dopo esser nato così povero, fu costretto a fuggire dalla patria in Egitto. In questo viaggio S. Bonaventura va considerando e compatendo la povertà di Maria e di Giuseppe, che viaggiano da poveri, per un cammino così lungo, portando il santo bambino, che molto venne a patire per la loro povertà. Quomodo, dice il santo, faciebant de victu? Ubi nocte quiescebant ? Quomodo hospitabantur?12 Ma di che altro potevano cibarsi, che di poco pane, e duro ? Dove di notte alloggiavano in quel deserto, se non sopra il terreno allo scoperto e sotto qualche albero? Oh chi mai avesse incontrati per quelle vie questi tre gran pellegrini, per quali mai gli avrebbe allora riputati, se non per tre poveri mendici! – Giungono in Egitto; ed ivi ciascun può considerare, essendo essi poveri e forestieri, senza parenti, senza amici, la gran povertà che dovettero soffrire per quei sette anni che vi abitarono. Dice S. Basilio che in Egitto appena arrivavano a sostentarsi, procacciandosi il vitto colle fatiche delle loro mani: Sudores frequentabant, necessaria vitae inde sibi quaerentes.13 Scrisse Landolfo da Sassonia che talvolta Gesù fanciullo costretto dalla fame andava a cercare un poco di pane a Maria. e Maria lo licenziava, dicendo che non vi era pane: Aliquando Filius famem patiens panem petiit, nec unde daret Mater habuit (In vita Christi, c. 13).14

Da Egitto passano di nuovo alla Palestina a vivere in Nazaret, ed ivi siegue Gesù a vivere da povero. Ivi la casa è povera, e povera la suppellettile: Domus paupercula, suppellex exigua. Tale elegit hospitium fabricator mundi, dice S. Cipriano (Serm. 1, de Nat.).15 In questa casa vive da povero, sostendando la vita coi sudori e colle fatiche, come appunto vivono gli artigiani e i figli degli artigiani, secondo era già chiamato e creduto dagli ebrei, che diceano: Nonne hic est faber? (Marc. VI, 3). Nonne hic est fabri filius? (Matth. XIII, 55).- Esce poi il Redentore finalmente a predicare, ed in questi ultimi tre anni di sua vita non muta già fortuna o stato, ma vive con maggior povertà di prima, vivendo di limosine. Ond’ebbe a dire ad un cert’uomo che volea seguirlo, affin di poter vivere più comodamente; sappi, gli disse, Vulpes foveas habent, volucres caeli nidos; Filius… hominis non habet ubi caput reclinet (Matth. VIII 20). E volle dire: Uomo, se tu speri con farti mio seguace di avanzare il tuo stato, erri, perché io sono venuto ad insegnare in terra la povertà; e perciò mi sono fatto più povero delle volpi e degli uccelli, che hanno le loro tane e i loro nidi; ma io in questo mondo non ho neppure un palmo di terra mio proprio, dove mettere a riposare la testa; e tali voglio che sieno ancora i miei discepoli. Speras commenta il suddetto testo Cornelio a Lapide- te in mei sequela rem tuam augere? Sed erras, quia ego, velut perfectionis magister, pauper sum, talesque volo esse meos discipulos.16 Poiché, come dice S. Girolamo: Servus Christi nihil praeter Christum habet (Epist. ad Herod.):17 I veri servi di Gesù non hanno né desiderano d’avere altro che Gesù. Povero in somma visse sempre Gesù Cristo, e povero finalmente morì; mentre per seppellirsi18 bisognò che Giuseppe d’Arimatea gli desse un luogo, ed altri per limosina gli dessero un lenzuolo da coprirgli il morto corpo.

Ugon cardinale, considerando la povertà, i disprezzi e le pene a cui volle sottomettersi il nostro Redentore, dice: Quasi insanus factus, ad miserias nostras descendit: Sembra che Dio per amore degli uomini sia andato in pazzia, volendo abbracciarsi con tante miserie, per ottenere loro le ricchezze della grazia divina e della gloria beata. E chi mai, dice lo stesso autore, avrebbe potuto credere, se Gesù Cristo non l’avesse fatto, ch’egli essendo il padrone di tutte le ricchezze, abbia voluto rendersi così povero! essendo il signore di tutti, abbia voluto farsi servo! essendo Re del cielo, assumere tanti disprezzi! essendo beato, assumere tante pene! Quis crederet divitem ad paupertatem descendere, dominum ad servitutem, regem ad ignominiam, deliciosum ad austeritatem!19 Vi sono in terra sì bene de’ principi pietosi, che godono d’impiegare le loro ricchezze in sollievo de’ poveri; ma dove mai si è ritrovato un re, che per sollevare i poveri siasi fatto egli povero simile ad essi, come Gesù Cristo? Si narra come un prodigio di carità quel che fece il santo re Eduardo, che vedendo un povero mendico sulla via, il quale non potea muoversi e stava da tutti abbandonato, questo principe con affetto se lo prese sulle spalle e lo portò alla chiesa.20 Sì, fu questo un grand’atto di carità che fé stordire i popoli; ma S. Eduardo con far ciò non lasciò di esser monarca, e restò ricco qual era. Ma il Figlio di Dio, il Re del cielo e della terra, per salvare la pecorella perduta, qual era l’uomo, non solo discese dal cielo per venire a cercarla, non solo se la pose sulle spalle, ma depose anche la sua maestà, le sue ricchezze, i suoi onori; e si fece povero, anzi il più povero tra gli uomini. Abscondit purpuram sub miseriae vestimentis, dice S. Pier Damiani (Serm. 61):21 Nascose la porpora, cioè la sua maestà divina, sotto le vesti d’un misero garzone di un fabbro. Qui alios ditat – ammira S. Gregorio Nazianzeno – paupertate afficitur; carnis meae paupertatem subit, ut ego divinitatis opes consequar:22 Quegli che provvede di ricchezze i ricchi, si elegge d’esser povero, affin di meritare a noi, non già le ricchezze terrene misere e caduche, ma le divine che sono immense ed eterne; procurando così col suo esempio di distaccarci dall’affetto de’ beni mondani, che portano seco un gran pericolo dell’eterna ruina. Si riferisce nella vita di S. Giovan Francesco Regis, che l’ordinaria sua meditazione era la povertà di Gesù Cristo.23

Riflette Alberto Magno che Gesù Cristo volle nascere in un presepe, esposto alla via pubblica, per due fini: l’uno per farci meglio intendere che tutti siam pellegrini in questo mondo, e che vi stiamo di passaggio.24 Hospes es, vides et transis, dice S. Agostino.25 Chi si trova ad alloggiare in un luogo di passaggio, certamente che non vi mette affetto, pensando che tra poco l’ha da lasciare. Oh se gli uomini pensassero continuamente che su questa terra son viandanti, e di passaggio all’eternità, chi mai si attaccherebbe a questi beni con pericolo di perdere i beni eterni? L’altro fine fu, dice Alberto Magno, ut mundum contemnere doceret; acciocché noi dal suo esempio imparassimo a disprezzare il mondo, che non ha beni che possano contentare il nostro cuore.26 Insegna il mondo a’ suoi seguaci, che la felicità consiste nel possesso delle ricchezze, de’ piaceri e degli onori; ma questo mondo ingannatore fu condannato dal Figlio di Dio nel farsi uomo: Nunc iudicium est mundi (Io. XII, 31). E questa condanna del mondo – come dicono S. Anselmo,27 e S. Bernardo28 – principiò nella stalla di Betlemme. Volle Gesù Cristo in quella nascer povero, ut inopia illius divites essemus;29 acciocché al suo divino esempio togliessimo dal cuore l’affetto alle robe, e lo ponessimo alle virtù ed al santo amore. Initiavit Christus, scrisse Cassiano, viam novam, dilexit quae mundus odio habuit, paupertatem.30

Perciò i santi, all’esempio del Salvatore, han cercato di spogliarsi di tutto, per seguire da poveri Gesù Cristo povero. Dice S. Bernardo: Ditior Christi paupertas cunctis thesauris saeculi (Serm. 5, in Vig. Nat.).31 La povertà di Gesù Cristo apportò a noi più beni che tutti i tesori mondani, perché ella ci muove ad acquistare le ricchezze del cielo con disprezzare quelle della terra. Ecco un S. Paolo che diceva: Omnia… arbitror ut stercora, ut Christum lucrifaciam (Philip. III, [8]). L’Apostolo, a confronto della grazia di Gesù Cristo, stimava ogni altra cosa letame e sterco. Ecco un S. Benedetto, che nel fiore della sua gioventù lascia i comodi della sua ricca casa paterna, e va a vivere in una spelonca, ricevendo la limosina di un poco di pane dal monaco Romano, che per carità così lo sostentava.32 Ecco un S. Francesco Borgia, che lascia tutte le sue ricchezze, e se ne va a vivere da povero nella Compagnia di Gesù.33 Ecco un S. Antonio abbate, che vende tutto il suo ricco patrimonio, lo dispensa a’ poveri e poi se ne va a vivere in un deserto.34 Ecco un San Francesco d’Assisi che rinuncia al padre anche la camicia, per vivere mendicando in tutta la sua vita.35

Chi vuole robe, diceva S. Filippo Neri, non si farà mai santo.36 Sì, perché in quel cuore che sta pieno di terra non trova luogo l’amor divino. Affersne cor vacuum? Questo era il requisito più necessario che cercavano i monaci antichi, per accettare alcuno che veniva ad aggregarsi nella loro compagnia.37 E dicendo, porti il cuor vuoto degli affetti di terra? volean dire: Altrimenti sappi che non mai potrai essere tutto di Dio. Ubi enim, disse Gesù Cristo, est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum (Matth. VI, [21]). Quello è il tesoro di ciascuno, quel bene ch’egli stima ed ama. Essendo morto una volta un certo ricco, ed essendosi dannato, S. Antonio di Padova pubblicò dal pulpito la sua dannazione, ed in segno di ciò disse che andassero a vedere il luogo dove stavano i suoi danari, che avrebbon trovato il suo cuore. In fatti andarono e trovarono il cuore di quel miserabile ancora caldo in mezzo a’ denari.38 Non può esser Dio il tesoro di quell’anima che tiene l’affetto ai beni di questa terra; perciò pregava Davide: Cor mundum crea in me Deus (Ps. L, [12]): Signore, purgate il mio cuore dagli affetti terreni, acciocch’io possa dire che voi solo siete il Dio del mio cuore e la mia ricchezza eterna: Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum.39 Chi dunque vuol farsi veramente santo, bisogna che scacci dal cuore ogni cosa che non è Dio. Che onori!40 che robe! che ricchezze! A che servono questi beni, se non contentano il cuore, e presto l’abbiamo da lasciare? Nolite thesaurizare vobis thesauros in terra, ubi aerugo et tinea demolitur…: thesaurizate… vobis thesauros in caelo (Matth. VI, 19, [20]).

Oh che beni immensi apparecchia Dio nel cielo a chi l’ama! Oh che tesoro è la grazia di Dio, e ‘l divino amore a chi lo sa conoscere! Mecum sunt divitiae, et …opes superbae,… ut ditem diligentes me (Pro VIII, 8).41 Dio in se stesso contiene, e porta seco la ricchezza, e ‘l premio: Ecce merces mea cum eo, diceva Isaia (LXII, 11). Dio solo in cielo è tutto il premio de’ beati; egli solo basta a farli appieno contenti: Ego… ero merces tua magna nimis (Gen. XV, 1).42 Ma chi vuole amare Dio assai in cielo, bisogna che prima l’ami assai in questa terra. Con quella misura d’amore colla quale finiremo il viaggio di nostra vita, con quella seguiremo poi ad amare Dio in eterno. E se vogliamo assicurarci di non averci più a separare da questo sommo bene nella presente vita, stringiamolo sempre più coi legami del nostro amore, dicendo colla sacra Sposa: Inveni quem diligit anima mea: tenui eum, nec dimittam (Cant. III, [4]). Come la Sposa tenne il suo diletto? Brachiis caritatis,43 colle braccia dell’amore, risponde Guglielmo nel luogo citato.44 Sì, dice S. Ambrogio (In Ps. CXVIII, serm. 7): Tenetur Deus vinculis caritatis: Dio da noi si fa legare dai lacci dell’amore. Felice dunque chi potrà dire con S. Paolino: Habeant sibi divitias suas divites, regna sua reges, mihi Christus divitiae, et regnum est.45 E con S. Ignazio: Amorem tui solum cum gratia tua mihi dones, et dives sum satis.46 Signore, dammi la grazia tua, il tuo santo amore; fa ch’io t’ami, e sia amato da te; et dives sum satis, e son ricco abbastanza; altro non desidero, né ho più che desiderare. Non pavet, dice S. Leone, indigentia laborare, cui donatum est in Domino omnia possidere (Serm. 4, in Quadr.).47 Non lasciamo poi sempre di ricorrere alla divina Madre, e di amarla sopra ogni cosa dopo Dio, assicurandoci ella – come la fa parlare la santa Chiesa – che fa ricchi di grazie tutti coloro che l’amano: Mecum sunt divitiae… ut ditem diligentes me.

Colloquio.

Caro mio Gesù, infiammatemi del vostro santo amore, giacché a questo fine voi siete venuto in questa terra. È vero ch’io misero, per avervi offeso dopo tanti lumi e grazie speciali a me fatte, non meriterei più di ardere di quelle beate fiamme, di cui ardono i santi, solamente mi toccherebbe ad ardere nel fuoco dell’inferno; ma trovandomi ora fuori di quel carcere da me meritato, sento che voi, rivolto anche verso di me ingrato, mi dite: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde e tuo.48

Vi ringrazio, mio Dio, che ritornate a darmi questo dolce precetto; e già che mi comandate ch’io vi ami, sì, voglio ubbidirvi, e voglio amarvi con tutto il mio cuore. Signore, per lo passato sono stato uno sconoscente, un cieco, perché ho voluto scordarmi dell’amore che mi avete portato. Ma ora che di nuovo m’illuminate e mi fate conoscere quanto avete fatto per amor mio: or che penso che vi siete fatto uomo per me, e vi siete addossato le mie miserie: or che vi vedo sulla paglia tremar di freddo, vagire e piangere per me, o mio Dio bambino, come posso vivere senza amarvi?

Deh perdonatemi, amor mio, tutti i disgusti che vi ho dati. O Dio, come io, sapendo per fede quanto voi avete patito per me, ho potuto darvi tanti disgusti ? Ma queste paglie che vi pungono, questa vil mangiatoia che vi accoglie, questi teneri vagiti che mandate, queste amorose lagrime che spargete, queste mi fanno fermamente sperare il perdono e la grazia di amarvi nella vita che mi resta. V’amo, o Verbo incarnato: v’amo, o Fanciullo divino, e tutto a voi mi dono. Per quelle pene che patiste nella stalla di Betlemme, accettate, o Gesù mio, questo misero peccatore che vuole amarvi. Aiutatemi, datemi perseveranza, tutto a voi spero.

O Maria, o gran Madre di questo gran Figlio, e da questo Figlio la più amata, pregatelo per me.

DISCORSO IX – Il Verbo Eterno da sublime si fece umile.

Discite a me, quia mitis sum, et humilis corde.

(Matth. XI, 29).

La superbia fu la prima causa della caduta de’ nostri primi parenti, i quali per non volersi sottomettere alla divina ubbidienza, perderono se stessi e tutto il genere umano. Ma la misericordia di Dio per rimedio d’una tanta ruina fece che il suo Unigenito si umiliasse a prendere carne umana, e coll’esempio della sua vita inducesse l’uomo ad innamorarsi della santa umiltà, e a detestare la superbia, che ci rende odiosi agli uomini e a Dio. A tal fine c’invita oggi S. Bernardo a visitare la grotta di Betlemme, con dirci: Transeamus usque Bethlehem, ibi habemus quod admiremur, quod amemus, quod imitemur.1 Sì in quella spelonca avremo per prima che ammirare. Come! un Dio in una stalla! un Dio sulla paglia! Come! quel Dio che siede in trono di maestà, il più sublime nel cielo: Vidi Dominum, disse Isaia, super solium excelsum et elevatum (VI, 1); vederlo collocato poi dove? In una mangiatoia, sconosciuto e abbandonato, sì che appena gli stan d’intorno due animali e pochi poveri pastori! – Habemus quod amemus, ben troveremo ivi a chi mettere il nostro affetto, trovando un Dio, bene infinito, che ha voluto avvilirsi a comparire nel mondo da povero bambino, per farsi a noi più amabile e caro, come diceva lo stesso S. Bernardo: Quantum mihi vilior, tantum mihi carior.2 – Troveremo finalmente che imitare, habemus quod imitemur: il sublime, il Re del cielo, fatto umile, piccolo e povero bambino, che già in questa grotta vuol cominciare dalla sua infanzia ad insegnarci col suo esempi quel che poi dovrà dirci colla voce. Clamat exemplo – parla il medesimo santo abbate – quod post docturus est verbo: Discite a me, quia mitis sum et humilis corde.3 Cerchiamo lume a Gesù e a Maria.

Chi non sa che Dio è il primo, il sommo nobile, dal quale ogni nobiltà dipende? Egli è l’infinita grandezza. Egli è indipendente, sicché la sua grandezza non l’ha ricevuta da altri, ma sempre l’ha posseduta in se stesso. Egli è il Signore del tutto, a cui tutte le creature ubbidiscono: Mare et venti obediunt ei (Matth. VIII, 27).4 Dunque ha ragione di dire l’apostolo che solo a Dio spetta l’onore e la gloria: Soli Deo honor et gloria (I Tim. I,17). Ma il Verbo Eterno per recar rimedio alla disgrazia dell’uomo, che per la sua superbia si era perduto, siccome fecesi esempio di povertà – come considerammo nel precedente discorso – per distaccarlo da i beni mondani; così volle anche farsi esempio di umiltà, per liberarlo dal vizio della superbia. Ed in ciò il primo e maggior esempio d’umiltà fu il farsi uomo e vestirsi delle nostre miserie: Habitu inventus ut homo (Philip. II, [7]). Dice Cassiano, che colui che si mette la veste d’un altro, sotto quella si nasconde; così Dio nascose la sua natura divina sotto l’umile veste di carne umana: Qui vestitur, sub veste absconditur; sic natura divina sub carnis veste se delituit.5 E S. Bernardo: Contraxit se maiestas, ut se ipsum limo nostro coniungeret, et in persona una uniretur Deus et limus, maiestas et infirmitas, tanta vilitas et sublimitas tanta (Serm. 3, in vigil. Nat.).6 Un Dio unirsi al fango! la grandezza alla miseria! la sublimità alla viltà! Ma quello che più dee farci stupire, è che non solo un Dio volle comparir creatura, ma volle comparir peccatore, vestendosi di carne peccatrice: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati (Rom. VIII, 3).

Ma non fu contento il Figlio di Dio di comparir uomo, ed uomo peccatore; di più volle eleggersi una vita la più bassa ed umile tra gli uomini; talmente che Isaia ebbe a chiamarlo l’ultimo, il più umiliato tra gli uomini: Novissimum virorum (Is., c. LIII, [3] ). Geremia disse che doveva esser saziato d’ignominie: Satiabitur opprobriis (Thren. III, 30).7 E Davide che dovea rendersi l’obbrobrio degli uomini, e ‘l rifiuto della plebe: Opprobrium hominum et abiectio plebis (Ps. CXXI, 6)8 A tal fine volle nascer Gesù Cristo nel modo più vile che possa immaginarsi. Quale obbrobrio d’un uomo, ancorché povero, è l’esser nato in una stalla? Chi nasce nelle stalle? I poveri nascono nelle casucce, almeno nella paglia, ma non già nelle stalle; nelle stalle appena nascono le bestie, i vermi; e da verme volle nascere in terra il Figlio di Dio: Ego vermis, et non homo (Iob, XXI, 7).9 Sì, con tale umiltà, dice S. Agostino, nascer volle il Re dell’universo, per dimostrarci nella stessa umiltà la sua maestà e potenza, in rendere col suo esempio amanti dell’umiltà quegli uomini, che nascono tutti pieni di superbia: Sic nasci voluit Excelsus humilis, ut in ipsa humilitate ostenderet maiestatem (S. Aug., I. 2, de Symb., c. 5).10

L’angelo annunziò a’ pastori la nascita del Messia, e i segni che diede loro per ritrovarlo e riconoscerlo, furono tutti segni d’umiltà. Quel bambino, disse, che troverete in una stalla fasciato tra’ panni, e collocato in una mangiatoia sulla paglia, quello sappiate ch’è il vostro Salvatore: Et hoc vobis signum, invenietis infantem pannis involutum et positum in praesepio (Luc. II, [12]). Così fa trovarsi un Dio che viene in terra a distruggere la superbia. La vita poi che Gesù Cristo fece in Egitto, dopo essere stato esiliato, fu conforme alla sua nascita. Visse ivi, per quegli anni che vi stette, da forestiere, sconosciuto e povero tra quei barbari; ivi chi mai lo conosceva? chi ne facea conto? Ritornò nella Giudea; e la sua vita non fu molto dissimile da quella che avea fatta in Egitto. Visse per trent’anni in una bottega, stimato da tutti per figlio d’un vile artigiano, facendo l’officio di semplice garzone, povero, nascosto, e disprezzato. In quella santa famiglia non v’erano già né servi, né serve. Ioseph et Maria – scrisse S. Pier Grisologo – non habent famulum, non ancillam: ipsi domini et famuli.11 Un solo servo vi era in questa casa, ed era il Figlio di Dio, che volle farsi figlio dell’uomo, cioè di Maria, per farsi umile servo, e qual servo ubbidire ad un uomo e ad una donna: Et erat subditus illis (Luc. II, 51).

Dopo trent’anni di vita nascosta, venne finalmente il tempo che ‘l nostro Salvatore dovette comparire in pubblico a predicare le sue celesti dottrine, ch’egli dal cielo era venuto ad insegnarci; e perciò fu bisogno che si facesse conoscere per quello ch’era, vero Figlio di Dio. Ma oh Dio, quanti furono coloro che lo riconobbero e l’onorarono come meritava? Toltine pochi discepoli che lo seguirono, tutti gli altri in vece d’onorarlo lo disprezzarono qual uomo vile ed impostore. Ah che allora maggiormente si avverò la profezia di Simeone: Positus est hic… in signum cui contradicetur (Luc. II, [34] ). Fu Gesù Cristo contraddetto e disprezzato in tutto. Disprezzato nella dottrina, poiché palesando ch’egli era l’Unigenito di Dio, fu stimato bestemmiatore, e come tale giudicato degno di morte; così disse l’empio Caifas: Blasphemavit, reus est mortis (Io. IX, 22).12 Disprezzato nella sapienza, mentre fu stimato pazzo, privo di senno: Insanit, quid eum auditis? (Io. X, 20). Disprezzato ne’ costumi, mentre fu stimato crapulone, ubbriaco, ed amico dei ribaldi: Ecce homo devorator, [et] bibens vinum, amicus publicanorum et peccatorum (Luc. VII, 34). Fu stimato stregone che avesse commercio co’ demoni: In principe daemoniorum eiicit daemonia (Matth. IX, 34).13 Stimato eretico e indemoniato: Nonne bene dicimus nos, quia samaritanus es tu, et daemonium habes? (Io. VIII, 48). Stimato seduttore: Quia seductor ille dixit etc. (Matth. XXVII, 63). In somma fu stimato Gesù Cristo uomo così scellerato appresso il pubblico, che non vi bisognasse processo per condannarlo a morir crocifisso, siccome dissero gli Ebrei a Pilato: Si non esset hic malefactor, non [tibi] tradidissemus eum (Io. XVIII, 30).

Giunse in fine il Salvatore finalmente al termine di sua vita, ed alla sua Passione; e nella sua Passione, oh Dio, quali disprezzi e vilipendi non ricevette! Fu tradito e venduto da uno de’ suoi stessi discepoli per trenta danari, prezzo minore di quel che vale una bestia. Da un altro discepolo fu rinnegato. Fu portato per tutte le vie di Gerusalemme ligato da ribaldo, abbandonato da tutti, anche dagli altri suoi pochi discepoli. Fu trattato vilmente da schiavo col castigo de’ flagelli. Fu schiaffeggiato in pubblico, fu trattato da pazzo, facendolo vestire Erode con una veste bianca per farlo riputare- quale scemo senza senno: Sprevit illum tamquam ignorantem, dice S. Bonaventura, quia verbum non respondit: tamquam stolidum, quia se non defendit.14 Fu trattato da re di burla, con porgli nelle mani una canna rozza in vece di scettro, uno straccio rosso sulle spalle in vece di porpora, ed un fascio di spine in testa in vece di corona; e quindi deridendolo lo salutavano: Ave Rex Iudaeorum;15 e poi lo caricavano di sputi e di guanciate: Et exspuentes in eum (Matth. XXVII, [30]). Et dabant ei alapas (Io. XIX, [3]).- Finalmente volle morire Gesù Cristo, ma con qual morte? colla morte più ignominiosa, quale fu la morte di croce: Humiliavit semet ipsum factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Chi moriva allora giustiziato in croce, era stimato il più vile e ribaldo fra’ rei: Maledictus [omnis] qui pendet in ligno (Galat. III, 13). Onde il nome de’ crocifissi restava per sempre maledetto ed infamato. Perciò scrisse l’Apostolo: Christus factus est pro nobis maledictum (Galat. III).16 Commenta S. Atanagio: Dicitur maledictum, quod pro nobis maledictum suscepit.17 Volle Gesù prender sopra di sé una tal maledizione, per salvare noi dalla maledizione eterna. Ma dove, Signore, esclama S. Tomaso da Villanova, dov’è il tuo decoro, la tua maestà nello stato di tanta ignominia? Ubi est, Deus, gloria tua, maiestas tua? E risponde: Noli quaerere, extasim passus est Deus (Ser. de Transfig.).18

E vuol dire il santo: Non andar cercando gloria e maestà in Gesù Cristo, poich’egli è venuto a dar esempio di umiltà ed a manifestare l’amore che porta agli uomini, e l’amore l’ha fatto quasi uscir di se stesso.

Son favole quelle che narravano i gentili, che il dio Ercole per l’amore che portava al re Augia, si pose a governargli i cavalli; e che il dio Apollo per amore di Admeto gli guardasse la greggia.19 Queste son invenzioni di cervello; ma è di fede che Gesù Cristo vero Figlio di Dio per amor dell’uomo si e umiliato a nascere in una stalla, a fare una vita disprezzata, e finalmente a morir giustiziato in un patibolo infame. O gratiam, o amoris vim! esclama S. Bernardo. Ita ne summus omnium imus factus est omnium? (Serm. 64, in Cant.).20 Oh forza dell’amor divino; il più grande di tutti si è fatto il più vile di tutti! Quis hoc fecit? seguita S. Bernardo. Amor dignitatis nescius. Triumphat de Deo amor (Serm. 84, in Cant.).21 L’amore non riguarda dignità quando si tratta di guadagnar l’affetto della persona amata. Dio che da niuno può esser mai vinto, è stato vinto dall’amore, mentre l’amore l’ha ridotto a farsi uomo e a sagrificarsi per amor dell’uomo in un mare di dolori e di disprezzi. Semet ipsum exinanivit, conclude il santo abbate, ut scias amoris fuisse, quod altitudo adaequata est.22 Il Verbo divino ch’è la stessa altezza, si umiliò sino per così dire ad annientarsi, per far conoscere all’uomo l’amore che gli portava. Sì, perché, dice S. Gregorio Nazianzeno che in niun altro modo potea meglio palesarsi l’amor divino, che con abbassarsi ad abbracciare le maggiori miserie ed ignominie che patiscono gli uomini in questa terra: Non aliter Dei amor erga nos declarari poterat, quam quod nostra causa ad deteriorem partem se deiecerit (Lib. 2. De Incarn. hom. 9.).23 Aggiunge Riccardo di S. Vittore che avendo l’uomo avuto l’ardire di offendere la maestà di Dio, fu necessario a purgare il suo delitto, che v’intervenisse un’umiliazione dal sommo all’infimo: Oportuit ut ad expiationem peccati fieret humiliatio de summo ad imum (Lib. de Incarn., cap. 8).24 Ma quanto più, ripiglia S. Bernardo, il nostro Dio si è abbassato, tanto più grande si è dimostrato nella bontà ed amore: Quanto minorem se fecit in humanitate, tanto maiorem se exhibuit in bonitate.25

Dopo dunque che un Dio si è tanto umiliato per amore dell’uomo, avrà ripugnanza l’uomo di umiliarsi per amore di Dio? Hoc… sentite in vobis, quod et in Christo Iesu (Philip. II, 5). Non merita nome di cristiano chi non è umile, e non cerca d’imitare l’umiltà di Gesù Cristo, il quale, come dice S. Agostino, è venuto umile al mondo per abbattere la superbia. La superbia dell’uomo è stato il morbo che ha estratto dal cielo questo medico divino, l’ha colmato d’ignominie e l’ha fatto morire in croce. Si vergogni dunque l’uomo d’esser superbo, almeno in vedere un Dio che, per guarirlo dalla superbia, s’è tanto umiliato: Propter hoc vitium superbiae Deus humilis venit. Iste morbus medicum de caelo deduxit, usque ad formam servi humiliavit, contumeliis egit, ligno suspendit. Erubescat homo esse superbus, propter quem factus est humilis Deus (S. Aug., in Ps. XVIII, enarr. 2, n. 15).26 E S. Pier Damiani scrisse: Ut nos erigeret se inclinavit.27 Ha voluto abbassarsi per sollevar noi dal lezzo de’ nostri peccati, e collocarci insieme cogli angeli nell’alto regno del cielo: De stercore erigens pauperem, ut collocet eum eum principibus… populi sui (Ps. CXII, 7, [8]). Humilitas eius nostra nobilitas est (S. Hilar., lib. II, de Trinit.).28 O immensità dell’amore divino! ripiglia S. Agostino. Un Dio per amor dell’uomo viene a prendersi i disprezzi, per fargli parte del suo onore: viene ad abbracciarsi con i dolori per dargli la salute; viene a patire la morte per ottenergli la vita: Mira dignatio! Venit accipere contumelias, dare honores: venit haurire dolores, dare salutem: venit subire mortem, dare vitam.29

Gesù Cristo con eleggersi una nascita così umile, una vita così disprezzata, ed una morte così ignominiosa, ha renduti nobili ed amabili i disprezzi e gli obbrobrii. Che perciò i santi in questo mondo sono stati così amanti, anzi avidi dell’ignominie, che par che altro non sapessero desiderare e cercare, che d’esser disprezzati e calpestati per amor di Gesù Cristo. Alla venuta del Verbo in terra ben si avverò quel che predisse Isaia (Cap. XXXV, [7]):30 In cubilibus ubi prius dracones habitabunt, orietur viror calami; che dove abitavano i demoni, spiriti della superbia, ivi dovea nascere, al vedersi l’umiltà di Gesù Cristo, lo spirito d’umiltà: Viror calami, id est humilitatis, commenta Ugone, quia humilis est vacuus in oculis suis;31 gli umili non sono pieni di sé, come sono i superbi, ma vuoti, stimando quello ch’è in verità, che tutto ciò che hanno è dono di Dio. Da ciò ben possiamo intendere, che quanto è cara a Dio un’anima umile, altrettanto si fa odioso un cuore superbo. Ma è possibile, dice S. Bernardo, che si trovino superbi, dopo che abbiam veduta la vita di Gesù Cristo? Ubi se exinanivit maiestas, vermis intumescit!32 È possibile che un verme lordo di peccati, vedendo un Dio d’infinita maestà e purità, che tanto si umilia per insegnare a noi l’essere umili, sia superbo! Ma sappiasi che i superbi non fan bene con Dio. Avverte S. Agostino: Erigis te, Deus fugit a te; humilias te, Deus venit ad te.33 Il Signore sen fugge da’ superbi; ma all’incontro un cuore che s’umilia, ancorché peccatore, Dio non sa disprezzarlo: Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies.34 Dio ha promesso di esaudire ognuno che lo prega: Petite et dabitur vobis… omnis enim qui petit accipit (Matth. VII, 7, [8] ). Ma si è protestato che non può esaudire i superbi, come ci avvisa S. Giacomo: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Epist. IV, 6). Alle orazioni de’ superbi resiste, e non le ascolta; ma agli umili non sa negare qualunque grazia che gli domandano. Diceva in fatti S. Teresa che le maggiori grazie ella aveale ricevute da Dio, allora che più si umiliava avanti la sua presenza.35 L’orazione di chi si umilia entra da sé nel cielo, senza bisogno di chi l’introduca; e non si parte senza ottenere da Dio ciò che desidera: Oratio humiliantis se nubes penetrabit… et non discedet, donec Altissimus aspiciat (Eccli. XXXV, 21).

Colloquio.

O Gesù mio disprezzato, voi col vostro esempio avete renduti troppo cari ed amabili i disprezzi a’ vostri amanti. Ma come va ch’io poi, in vece d’abbracciarli, come l’avete abbracciati voi, in ricevere alcun disprezzo dagli uomini, mi son portato con tanta superbia, che per causa loro ho ancora offeso voi, maestà infinita? Peccatore e superbo! Ah Signore. ben intendo; io non ho saputo prendere gli affronti con pazienza, perché non ho saputo amarvi. S’io vi amava, quelli ben mi sarebbero stati dolci e grati. Ma giacché voi promettete il perdono a chi si pente, io mi pento con tutta l’anima di tutta la vita mia disordinata, e tutta dissimile alla vita vostra. Ma voglio emendarmi, e perciò vi prometto di voler soffrire con pace da oggi avanti tutti i disprezzi che mi saran fatti, per amor vostro, o Gesù mio, che per mio amore siete stato così disprezzato. Intendo, che le umiliazioni sono le miniere preziose colle quali voi fate ricche l’anime de’ tesori eterni. Altre umiliazioni ed altri disprezzi merito io che ho disprezzata la grazia vostra; merito di esser calpestato da’ demoni. Ma i meriti vostri sono la speranza mia.

Io voglio mutar vita, non vi voglio più disgustare; e da oggi innanzi non voglio cercar altro che ‘l vostro gusto. Io ho meritato più volte d’esser mandato ad ardere nel fuoco dell’inferno; voi che sinora mi avete aspettato ed anche perdonato, come spero, fate che in vece di ardere di quel fuoco infelice, arda del fuoco beato del vostro santo amore.

No che non voglio vivere più, o amor mio, senza amarvi. Aiutatemi voi, non mi fate più vivere a voi ingrato, come ho fatto per lo passato. Per l’avvenire voi solo voglio amare; voglio che di voi solo sia il mio cuore. Deh prendetene il possesso, e questo possesso sia eterno; sicché io sia sempre vostro e voi siate sempre mio: io sempre v’ami e voi sempre mi amiate. Sì, così spero, o mio Dio amabilissimo, ch’io sempre v’amerò e voi sempre mi amerete. Credo in voi, bontà infinita: spero in voi, bontà infinita: amo voi, bontà infinita: v’amo, e sempre vi dirò, io v’amo, io v’amo, io v’amo, e perché v’amo voglio far quanto posso per compiacervi. Disponete voi di me come vi piace. Basta che mi diate la grazia d’amarvi, e fate di me quel che volete. L’amor vostro è e sarà sempre l’unico mio tesoro, l’unico desiderio, l’unico mio bene, l’unico mio amore.

Maria, speranza mia, madre del bell’amore, aiutatemi voi ad amare assai e sempre il mio amabilissimo Dio.

DISCORSO X – Dalla nascita di Gesù, per la notte del Santo Natale.

Evangelizo vobis gaudium magnum…

quia natus est vobis hodie Salvator.

(Luc. II, [10], 11).

Evangelizo vobis gaudium magnum. Così disse l’angelo a’ pastori, e così dico a voi in questa notte, anime divote. Vi porto una nuova di grande allegrezza. E qual nuova di maggior allegrezza può darsi ad un popolo di poveri esiliati dalla patria e condannati alla morte, che quella d’esser già venuto il lor Salvatore non solo a liberarli dalla morte, ma ancora ad ottenere loro il ritorno alla patria? E ciò è quello appunto che stanotte io vi annunzio: Natus est vobis… Salvator. È nato Gesù Cristo, ed è nato per voi, per liberarvi dalla morte eterna e per aprirvi il paradiso, ch’è la patria nostra, dalla quale avevamo avuto il bando in pena de’ nostri peccati. Ma acciocché siate grati in amare d’oggi in poi questo vostro nato Redentore, lasciate ch’io vi metta avanti gli occhi, dove è nato, e com’è nato, e dove questa notte si ritrova, affinché possiate andare a trovarlo e a ringraziarlo di tanto beneficio e tanto amore. Cerchiamo lume a Gesù ed a Maria.

Lasciate dunque ch’io vi rappresenti in breve l’istoria della nascita di questo Re del mondo ch’è sceso dal cielo per la vostra salute. Volendo Ottaviano Augusto imperator di Roma sapere le forze del suo imperio, volle che si facesse una general numerazione di tutti i suoi sudditi; e perciò ordinò a tutti i presidi delle provincie, e tra gli altri a Cirino preside della Giudea, che facessero venire ciascuno a scriversi, con pagare insieme un certo tributo in segno del comun vassallaggio: Factum est… edictum…, ut describeretur universus orbis (Luc. II, [1]). Pubblicato che fu quest’ordine, ecco Giuseppe che subito ubbidisce, né aspetta che prima partorisca la sua santa sposa, che stava già vicina al parto. Subito, dico, ubbidisce, e si mette in cammino con Maria pregna del Verbo Incarnato, per andare a scriversi nella città di Betlemme, ut profiteretur cum Maria… uxore praegnante.1 Il viaggio fu lungo, mentre come portano gli autori, fu di 90 leghe, viene a dire di quattro giornate;2 lungo e strapazzoso, dovendosi andare per montagne e per vie aspre, e con venti, pioggie e freddo.

Quando entra la prima volta il re in una città del suo regno, quali onori non se gli apprestano? quanti apparati, quanti archi trionfali! Preparati dunque, o felice Betlemme, a ricever con onore il tuo Re, mentre ti avvisa il profeta, che già viene a visitarti il tuo Signore, ch’è Signore non solo di tutta la Giudea, ma di tutto il mondo. E sappi, dice il profeta, che fra tutte le città della terra tu sei la fortunata, che s’ha eletta per nascere in terra il Re del cielo, affin di regnare poi non già nella Giudea, ma ne’ cuori degli uomini, che vivono nella Giudea ed in tutta la terra: Et tu, Bethleem Ephrata, parvulus es in millibus Iuda; ex te mihi egredietur qui sit dominator in Israel (Mich. V, 2). Ma ecco già entrano in Betlemme questi due gran pellegrini, Giuseppe e Maria che porta seco nell’utero il Salvator del mondo. Entrano nella città, vanno alla casa del ministro imperiale a pagare il tributo, ed a scriversi nel libro de’ sudditi di Cesare, dove si scrive anche la prole di Maria, cioè Gesù Cristo, ch’era il Signore di Cesare e di tutti i principi della terra. Ma chi li riconosce? Chi va loro ad incontro per onorarli? Chi li saluta, chi l’ accoglie? In propria venit, et sui eum non receperunt (Io. I, [11]). Vanno essi da poveri, e come poveri son disprezzati, anzi peggio che gli altri poveri son trattati e discacciati. Sì, perché stando ivi, factum est autem, cum essent ibi, impleti sunt dies, ut pareret (Luc. II, [6] ). Intese Maria ch’era già arrivato il tempo del parto, e che ‘l Verbo Incarnato voleva in quel luogo e in quella notte nascere e farsi vedere al mondo. Ond’ella ne avviso Giuseppe, e Giuseppe con fretta si diede a procurar qualche alloggio tra le case di quei cittadini, per non portare la sposa a partorire nell’osteria, che non era luogo decente per una donzella che partoriva; tanto più che in quel tempo stava quella piena di gente. Ma non trovò chi li desse udienza, e verisimilmente da alcuno fu anche rimproverato come sciocco, in condurre la sposa vicina al parto in quel tempo di notte e di tanto concorso. Sicché fu costretto finalmente, per non restare in quella notte in mezzo alla via, di portarla alla pubblica osteria, dove v’erano già anche molti poveri alloggiati in quella notte. Vi andò; ma che? anche di là furono discacciati; e fu risposto loro che non ci era luogo per essi: Non erat eis locus in diversorio (Luc. II, 7). Vi era luogo per tutti, anche per li plebei, ma non per Gesù Cristo.- Quell’osteria fu figura di quei cuori ingrati dove molti dan luogo a tante creature miserabili, e non a Dio. Quanti amano i parenti, amano gli amici, amano anche le bestie, ma non amano Gesù Cristo, e niente fan conto, né della sua grazia, né del suo amore. Ma disse Maria SS. ad un’anima divota: Fu disposizione di Dio, che mancasse a me ed a mio Figlio alloggio tra gli uomini, acciocché l’anime innamorate di Gesù gli offerissero se stesse per alloggio, e con amore l’invitassero a venire nei loro cuori (Vedi il P. Patrign.).3

Ma seguitiamo l’istoria. Vedendosi dunque discacciati da ogni parte questi poveri pellegrini, escono dalla città per ritrovare almeno fuori di essa qualche ricovero. Camminano all’oscuro, girano, spiano; finalmente vedono una grotta che stava cavata in un sasso del monte sotto la città. Scrive il Barrada, Beda e Brocardo, che il luogo dove nacque Gesù Cristo, era una rupe scavata sotto il muro di Betlemme, separata dalla città, a guisa d’una spelonca, che serviva d’alloggio agli animali.4 Allora disse Maria: Giuseppe mio, non occorre passare più avanti, entriamo in questa grotta e qui fermiamoci.

Ma come? rispose allora Giuseppe; sposa mia, non vedi che questa è grotta tutta svadata, fredda, umida, che da ogni parte scorre acqua? non vedi che questa non è stanza d’uomini, ma è stalla di bestie? Come vuoi stare qui in tutta questa notte, e qui partorire? Eppur è vero, allora disse Maria, che questa stalla, questa è la reggia, il palagio regale in cui vuol nascere in terra il Figlio eterno di Dio.

Oh che avran detto gli angeli in vedere entrar la divina Madre a Partorire in quella grotta! I figli de’ principi nascono nelle stanze addobbate d’oro, si apparecchiano loro culle ricche di gemme, panni preziosi, col corteggio de’ primi signori del regno. E poi al re del cielo si apparecchia per nascervi una stalla fredda e senza fuoco? poveri pannicelli per coprirlo, un poco di paglia per letto, ed una vil mangiatoia per riporvelo? Ubi aula?, dimanda san Bernardo, ubi thronus? Dov’è la corte, dov’è il soglio regale, dice il santo, per questo Re del cielo, s’io non vedo altro che due animali che stan per fargli compagnia, e che un presepio di bestie, dove ha da esser collocato?5 – O grotta fortunata che avesti sorte di vedere in te nato il Verbo divino! O presepe fortunato che avesti l’onore di accogliere in te il Signor del cielo! O fortunate paglie che serviste di letto a colui che siede sulle spalle de’ serafini! Ah che in considerare la nascita di Gesù Cristo e ‘l modo come nacque, dovressimo tutti ardere d’amore; e in sentir nominare grotta, mangiatoia, paglia, latte, vagiti, tali nomi – pensando alla nascita del Redentore – dovrebbero essere per noi tutte fiamme d’amore, e saette che ci ferissero i cuori. Sì, voi foste fortunati, o grotta, o presepe, o paglie; ma son più fortunati quei cuori che amano con fervore e tenerezza questo amabilissimo Signore, ed infiammati d’amore l’accolgono poi nella santa comunione. Oh con qual desiderio e contento va Gesù Cristo a riposare in un cuore che l’ama!

Entrata che fu Maria nella spelonca, subito si pose in orazione, e venuta già l’ora del parto, si scioglie i capelli, in segno di riverenza, spargendoli sulle spalle; ed ecco che vede una gran luce, sente nel cuore un gaudio celeste, bassa gli occhi, e oh Dio che mira? mira già sulla terra un bambino, così bello ed amabile, che innamora, ma che trema, che piange, e collo stender delle mani dà segno di voler esser preso tra le di lei braccia: Extendebat membra quaerens Matris favorem, secondo la rivelazione fatta a S. Brigida.6 Maria chiama Giuseppe. Vieni, Giuseppe, disse, vieni a vedere ch’è già nato il figlio di Dio. Viene Giuseppe, e in vedere Gesù già nato, L’adora in mezzo a un fiume di dolci lagrime: Intravit senex, et prosternens se plorabat prae gaudio (Revel., ibid.).7 Indi la S. Vergine con riverenza prende l’amato Figlio, e se lo pone in seno. Cerca di riscaldarlo col calore delle sue guance e del suo petto: Maxilla et pectore calefaciebat eum cum laetitia et tenera compassione materna.8 – Considerate la divozione, la tenerezza, l’amore che allora provò Maria in vedersi tra le braccia e in seno il Signore del mondo, il Figlio dell’Eterno Padre, che si era degnato di farsi anche figlio di lei, scegliendola per sua Madre tra le donne.- Avendolo poi già in seno Maria, l’adora come Dio, gli bacia i piedi come a suo Re, e poi la faccia come a suo Figlio. Indi cerca subito di covrirlo, e fasciarlo co’ panni. Ma, oh Dio, che i panni sono aspri e rozzi perché son panni di poveri; e son freddi, sono umidi, e in quella grotta non v’è fuoco da riscaldarli!

Venite, monarchi, venite imperatori, venite tutti, o principi della terra, venite sù ad adorare il vostro sommo Re, che per amor vostro nasce e nasce così povero in questa spelonca. Ma chi comparisce? niuno. In propria venit, et mundus eum non cognovit (Io. I).9 Ah che il Figlio di Dio è venuto nel mondo, ma il mondo non vuol conoscerlo. Ma se non vengono gli uomini, ben vengono gli angeli ad adorare il lor Signore. Così comanda l’eterno Padre per onor di questo suo Figlio: Et adorent eum omnes angeli eius (Hebr. I, 6). Vengono in gran numero, lodando il loro Dio cantano con giubilo: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis (Luc. II, 14). Gloria alla divina misericordia che in vece di castigare gli uomini ribelli, fa che lo stesso loro Dio prenda sopra di sé il castigo, e così li salvi. Gloria alla divina sapienza che ha trovato il modo di soddisfare insieme la giustizia e di liberare l’uomo dalla morte da esso meritata. Gloria alla divina potenza, in abbattere le forze dell’inferno in maniera così ammirabile, col venire il Verbo divino da povero a patire dolori, disprezzi e morte, e così tirarsi i cuori degli uomini ad amarlo, ed a lasciar tutto per suo amore, onori, beni e vita: come han fatto poi tante donzelle, tanti giovani, anche nobili, e principi, per esser grati all’amore di questo Dio. Gloria finalmente al divino amore, mentre ha ridotto un Dio a farsi bambino, povero, umile, a vivere una vita penosa, ed a fare una morte spietata. per dimostrare all’uomo l’affetto che gli porta, e per guadagnarsi il di lui amore. Agnoscimus in stabulo potentiam exinanitam, sapientiam prae amoris nimietate infatuatam.10 Vediamo in questa stalla, dice San Lorenzo Giustiniani, la potenza di un Dio quasi annichilata; vediamo un Dio ch’è la stessa sapienza, per lo troppo amore che porta agli uomini, quasi impazzito.

Orsù, Maria invita tutti, nobili e plebei, ricchi e poveri, santi e peccatori, ad entrare nella grotta di Betlemme, per adorare e baciare i piedi al suo Figlio già nato. Entrate dunque, anime divote, entrate a vedere sul fieno il Creatore del cielo e della terra in forma d’un piccolo bambino, ma così bello, e così luminoso che manda per tutto raggi di luce. Ora ch’è nato e sta su quella paglia, la grotta non è più orrida, ma è divenuta un paradiso. Entriamo su e non abbiamo timore. È nato Gesù, ed è nato per tutti, per ognun che lo vuole. Ego flos campi – egli ci fa sapere ne’ sagri Cantici – et lilium convallium (Cant. II, 1). Si chiama giglio delle valli, per darci ad intendere che siccome egli nasce sì umile, così solamente gli umili lo trovano; perciò l’angelo non andò ad annunziar la nascita di Gesù Cristo a Cesare o ad Erode; ma a poveri ed umili pastori. Del resto egli si chiama fiore de’ campi, perché sta esposto per farsi trovare da tutti: Ego flos campi, commenta Ugon cardinale, quia omnibus me exhibeo inveniendum.11 I fiori de’ giardini stan chiusi e son riserbati tra le mura, non è permesso a tutti di trovarli e di prenderli; all’incontro i fiori de’ campi sono esposti a tutti; chi li vuole, li prende; e tale vuol essere Gesù Cristo, esposto ad ognun che lo vuole. Entriamo su, la porta è aperta: non est satelles, dice S. Pier Grisologo, qui dicat non est hora.12 I monarchi stan chiusi nelle lor reggie, e le reggie stan circondate da’ soldati: non è facile aver udienza da’ principi: chi vuol parlarci, molto ci ha da stentare; più volte dovrà essere licenziato, con sentirsi dire: Ritornate in altro tempo, ora non è tempo di udienza. Non va così con Gesù Cristo. Egli se ne sta in quella grotta, e vi sta da bambino, per allettare ognun che viene a cercarlo; e la grotta è svadata, senza guardie e senza porte, sicché ciascuno può entrarvi a suo piacere quando vuole, per trovare e parlare, ed anche abbracciare questo picciolo Re, se l’ama e desidera.

Entrate dunque sù, anime. Ecco là, guardate in quella mangiatoia, su quella povera paglia quel tenero pargoletto che piange. Vedete come è bello; mirate la luce che manda, l’amore che spira quegli occhi inviano saette a’ cuori che lo desiderano; quei vagiti son fiamme a chi l’ama; la medesima stalla, le stesse paglie gridano, dice S. Bernardo: Clamat stabulum, clamant paleae,13 e vi dicono che amiate chi vi ama: amiate un Dio ch’è degno d’infinito amore, e ch’è sceso dalle stelle, e si è fatto bambino, si è fatto povero per farvi intendere l’amor che vi porta, e per guadagnarsi colle sue pene il vostro amore. Dimandategli sù: Ahi vago bambinello, dimmi, a chi sei figlio? Risponde: La madre mia è questa bella e pura verginella, che mi sta accanto. E ‘l Padre tuo chi è? Il Padre mio, dice, è Dio. E come! tu sei figlio di Dio, e stai così povero? così umile? in questo stato chi mai ti riconoscerà? chi ti rispetterà? No, risponde Gesù, la santa fede mi farà conoscere per quel che sono, e mi farà amare dall’anime ch’io son venuto a redimere e ad infiammare del mio amore. Io non son venuto. dice, a farmi temere, ma a farmi amare; e perciò ho voluto comparire a voi la prima volta che mi vedete, da bambino cosi povero ed umile, acciocché così più mi amiate, vedendo a che mi ha ridotto l’amore ch’io vi porto. Ma dimmi, Bambino mio, perché giri gli occhi d’intorno? che vai guardando? Ti sento sospirare, dimmi, perché sospiri? Oh Dio ti sento piangere; dimmi, perché piangi? Sì, risponde Gesù, io giro gli occhi d’intorno, perché vo cercando qualche anima che mi desidera. Sospiro per desiderio di vedermi a canto qualche cuore che arda per me, come ardo io per lui d’amore. Ma piango, e per questo piango, perché non vedo, o vedo troppo poche anime e cuori che mi cercano e mi vogliono amare.

Colloquio per lo bacio de’ piedi del santo Bambino che suol praticarsi in alcune chiese.

Or via, Gesù v’invita, o anime divote, di venire a baciargli i piedi in questa notte. I pastori che vennero allora a visitarlo nella stalla di Betlemme, portarono i loro presenti; bisogna che ancora voi portiate i presenti vostri. Che gli porterete? Sentite, il presente più caro che gli potete portare, è un cuore pentito ed amante. Ciascuno dunque prima di venire gli dica così: Signore, io non avrei ardire di accostarmi a voi, vedendomi così sozzo di peccati; ma giacché voi, Gesù mio, con tanta cortesia m’invitate e con amore mi chiamate, non voglio ricusare. Non voglio usarvi già quest’altra rozzezza, che dopo avervi tante volte voltate le spalle, ora per diffidenza avessi a rifiutare questo dolce invito che mi fate. Ma sappiate, digli, ch’io son povero di tutto, non ho che offerirvi. Non ho altro che questo cuore, questo vengo a portarvi. È vero che questo mio cuore un tempo vi ha offeso, ma ora è pentito, e pentito ve lo porto. Sì, Bambino mio, mi pento d’avervi disgustato. Confesso, io sono stato il barbaro, il traditore, l’ingrato, che vi ho fatto tanto patire, e vi ho fatto spargere tante lagrime nella stalla di Betlemme; ma le lagrime vostre sono la speranza mia. Son peccatore è vero, non merito perdono; ma vengo a voi ch’essendo Dio vi siete fatto bambino per perdonarmi.

Eterno Padre, s’io merito l’inferno, mirate le lagrime di questo innocente vostro Figlio, che vi cercano perdono per me. Voi niente negate alle preghiere di Gesù Cristo. Esauditelo dunque, mentr’egli vi domanda che mi perdoniate in questa notte, ch’è notte di allegrezza, notte di salute, notte di perdono.

Ah Bambino mio Gesù, da voi spero il perdono, ma il solo perdono de’ peccati miei non mi basta. In questa notte voi dispensate all’anime grazie grandi; anch’io voglio una gran grazia che mi avete da fare, ed è la grazia d’amarvi. Ora che vengo a’ piedi vostri, infiammatemi tutto del vostro santo amore, e ligatemi con voi; ma ligatemi talmente che io non abbia a separarmi più da voi.

Io v’amo, o mio Dio, fatto bambino per me, ma v’amo poco; voglio amarvi assai, e voi l’avete da fare. Io vengo già a baciare i piedi, e vi porto il mio cuore; a voi lo lascio, io non lo voglio più; voi mutatelo e voi conservatevelo per sempre; non me lo tornate più, perché se lo tornate in mano mia, io temo che di nuovo egli vi tradirà.

Maria santissima, voi che siete la Madre di questo gran Figlio, ma siete ancora la Madre mia, a voi consegno questo povero mio cuore; voi presentatelo a Gesù; presentato per mano vostra, egli non lo rifiuterà. Presentatelo dunque voi, e voi pregatelo che l’accetti.

DISCORSO XI – Del nome di Gesù.

Vocatum est nomen eius Iesus. (Luc. II, 21).

Questo gran nome di Gesù non fu ritrovato già dagli uomini, ma da Dio medesimo. Nomen Iesus, dice S. Bernardo, primo fuit a Patre praenominatum.1 Egli fu un nome nuovo: Nomen novum, quod os Domini nominabit (Is. LXII, [2]). Nome nuovo, che solo Dio poteva darlo a chi destinava per Salvatore del mondo. Nome nuovo ed eterno; perché siccome ab eterno fu fatto il decreto della Redenzione, così ab eterno fu dato anche il nome al Redentore. Nulladimeno in questa terra tal nome fu imposto a Gesù Cristo nel giorno della sua circoncisione: Et postquam consummati sunt dies octo, ut circumcideretur puer, vocatum est nomen eius Iesus.2 Volle allora l’Eterno Padre rimunerare l’umiltà del suo Figlio, con dargli un nome di tanto onore. Sì, mentre Gesù si umilia, soggettandosi colla circoncisione a soffrire la marca di peccatore, con ragione il Padre l’onora con dargli un nome che supera la dignità e l’altezza d’ogni altro nome. Dedit illi nomen quod est super omne nomen (Philip. II, 9).3 E comanda che questo nome sia adorato dagli angeli, dagli uomini e da’ demoni: Ut in nomine Iesu omne genuflectatur caelestium, terrestrium, et infernorum (Ibid., [10]). Se dunque tutte le creature adorano questo gran nome, tanto più dobbiamo adorarlo noi peccatori, mentre a nostro riguardo gli è imposto questo nome di Gesù, che significa Salvatore; ed a questo fine ancora, per salvare i peccatori, egli e sceso dal cielo: Propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et homo factus est. Dobbiamo adorarlo, e nello stesso tempo ringraziare Iddio che gli ha dato questo nome per nostro bene; poiché questo nome ci consola, ci difende, e c’infiamma. Tre punti del nostro discorso. Vediamolo: ma prima cerchiamo luce a Gesù e a Maria.

Per prima, il nome di Gesù ci consola; mentre invocando Gesù noi possiamo trovare il sollievo in tutte le nostre afflizioni. Ricorrendo a Gesù, egli vuol consolarci, perché ci ama; e può consolarci, poiché esso non solamente è uomo, ma ancora è Dio onnipotente; altrimenti non potrebbe avere propriamente questo gran nome di Salvatore. Il nome di Gesù importa l’esser nome d’una potenza infinita, e insieme d’una sapienza e di un amore infinito; imperocché, se in Gesù Cristo non concorrevano tutte queste perfezioni, egli non avrebbe potuto salvarci. Neque enim, dice S. Bernardo, posse te aut vocari Salvatorem, si quidpiam horum defuisset (Serm. 2, de Circumcis.).4 Onde dice il santo, parlando della circoncisione: Circumciditur tamquam filius Abrahae, Iesus vocatur tamquam Filius Dei (Serm. 1, de Circumc.).5 Egli è ferito come uomo col segno di peccatore, mentre si ha addossato il peso di soddisfare per li peccatori, e già sin da bambino vuol cominciare a soddisfare i loro delitti, con patire e sparger sangue; ma si chiama poi Gesù, si chiama Salvatore, come Figlio di Dio, perché solamente a Dio compete il salvare.

Il nome di Gesù è chiamato dallo Spirito Santo olio diffuso: Oleum effusum nomen tuum (Cant. I, 2). E con ragione, dice S. Bernardo, perché siccome l’olio serve per luce, per cibo e per medicina, così primieramente il nome di Gesù egli è luce: Lucet praedicatum.6 E d’onde mai, dice il santo, così subito risplendé nella terra la luce della fede, sicché tra poco tempo tanti gentili conobbero il vero Dio, e si fecero suoi seguaci, se non col sentir predicare il nome di Gesù? Unde putas in toto orbe tanta, et tam subita fidei lux, nisi praedicato nomine Iesu? (Serm. 15).7 In questo nome noi fortunati siamo stati fatti figli della vera luce, cioè figli della S. Chiesa; poiché abbiamo avuta la sorte di nascere in grembo alla Chiesa Romana, in regni cristiani e cattolici: grazia e sorte non concessa alla maggior parte degli uomini, che nascono tra gl’idolatri, maomettani o eretici.- Inoltre il nome di Gesù è cibo che pasce l’anime nostre. Pascit recogitatum.8 Questo nome da forza a’ fedeli di trovar pace e consolazione anche in mezzo alle miserie ed alle persecuzioni in questa terra. I santi apostoli maltrattati e vilipesi giubilavano, essendo confortati dal nome di Gesù. Ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati (Act. V, 41).- È luce, è cibo ed è ancora medicina a chi l’invoca. Invocatum lenit et ungit.9 Dice il santo Abbate: Ad exortum nominis lumen, nubilum diffugit, redit serenum.10 Se l’anima sta afflitta e turbata, fate che nomini Gesù, che subito da lei fuggirà la tempesta e tornerà la pace. Labitur quis in crimen? currit ad laqueum mortis desperando? non ne, si invocet nomen vitae, confestim respirabit ad vitam?11 Se mai alcun miserabile è caduto in peccato, e sente diffidenza del perdono, invochi questo nome di vita, che subito sentirà rincorarsi a sperare il perdono: nominando Gesù, che dal Padre a tal fine è stato destinato per nostro Salvatore, per ottenere a’ peccatori il perdono. Dice Eutimio che se Giuda quando fu tentato a disperarsi, avesse invocato il nome di Gesù, non si sarebbe disperato: Si illud nomen invocasset, non periisset (Eutim., in c. 27 Matth.). Onde poi soggiunge che non mai giungerà all’ultima ruina di disperarsi qualunque peccatore, perduto che sia, il quale invocherà questo santo nome, ch’è nome di speranza e di salute: Longe est desperatio, ubi est huius nominis invocatio.12

Ma i peccatori lasciano d’invocare questo nome di salute, perché non vogliono guarire dalle loro infermità. Gesù Cristo è pronto a sanare tutte le nostre piaghe; ma se taluno ama le sue piaghe e non vuol essere sanato, come può guarirlo Gesù Cristo? La Ven. Suor Maria Crocifissa Siciliana vide una volta il Salvatore che stava come dentro uno spedale, e che andava in giro colle medicine in mano per guarire quegl’infermi che ivi stavano; ma quei disgraziati in vece di ringraziarlo e di chiamarlo, lo discacciavano da loro.13 Così fanno molti peccatori dopo che si sono volontariamente avvelenati col peccato, ricusano la salute, cioè la grazia che Gesù Cristo loro offerisce, e così restano miseramente perduti nelle loro infermità. Ma all’incontro che timore può avere quel peccatore che ricorre a Gesù, poiché Gesù medesimo si offerisce ad ottenerci dal suo Padre il perdono, avendo egli già colla sua morte pagata la pena a noi dovuta? Qui offensus fuerat, dice S. Lorenzo Giustiniani, ipse se intercessorem destinavit; quod illi debebatur exsolvit (Serm. in Nat.)14 Onde poi, soggiunge il santo: Si configeris aegritudine, si doloribus fatigaris, si concuteris formidine, Iesu nomen edito.15 Povero infermo, se ti ritrovi aggravato da infermita, o da’ dolori e da’ timori, chiama Gesù, ed egli ti consolerà. Basterà che in suo nome preghiamo l’Eterno Padre, e ci sarà dato quanto chiederemo. È promessa questa di Gesù medesimo, replicata più volte, non può fallire: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XVI, [23]). Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam (Io. XV, 16).16

In secondo luogo abbiam detto che il nome di Gesù ci difende. Sì, egli ci difende da tutte l’insidie ed assalti de’ nemici. Il Messia appunto perciò fu chiamato il Dio forte, Deus fortis;17 e dal Savio fu chiamato il suo nome una fortissima torre, Turris fortissima nomen tuum (Prov. XVIII, 10);18 acciocché noi intendiamo che non avrà timore di tutti gl’insulti dell’inferno, chi si avvale dello scudo di questo potentissimo nome. Christus, scrive S. Paolo (Philip. II, [8]), humiliavit semet ipsum, factus obediens usque ad mortem; mortem autem crucis. Gesù Cristo in sua vita si umiliò ubbidendo al Padre sino a morir crocifisso; viene a dire, dice S. Anselmo, si umiliò tanto che più non poté umiliarsi; e perciò il suo divin Padre, per lo merito di questa umiltà e ubbidienza del Figlio, lo sublimò tanto che non poté più sublimarlo: Ipse se tantum humiliavit, ut ultra non posset; propter quod Deus tantum exaltavit ut ultra non posset.19 Quindi il Padre gli ha dato un nome superiore ad ogni nome: Propterea dedit illi nomen super omne nomen, ut omne genuflectatur caelestium, terrestrium et infernorum.20 Gli ha dato un nome sì grande e sì potente, ch’è venerato dal cielo, dalla terra e dall’inferno. Nome potente in cielo, perch’egli può ottenerci tutte le grazie: potente in terra, perché può salvare tutti coloro che divotamente l’invocano; potente nell’inferno, perché tal nome atterrisce tutti i demoni. Tremano quegli angeli ribelli al suono di questo nome sacrosanto, poiché si ricordano che Gesù Cristo è stato quel forte che ha distrutto il dominio e le forze ch’essi prima aveano sopra degli uomini. Tremano, dice S. Pier Grisologo, perché in questo nome debbono adorare tutta la maestà d’un Dio: In hoc nomine deitatis adoratur tota maiestas (Serm. 114).21 Disse il medesimo nostro Salvatore, che in questo suo potente nome avrebbero i suoi discepoli discacciati i demoni: In nomine meo daemonia eiicient (Marc. XVI, 17). Ed in fatti la S. Chiesa negli esorcismi, di questo nome sempre si avvale, per discacciare gli spiriti infernali dagli ossessi. Ed i sacerdoti che assistono a’ moribondi, del nome di Gesù si avvalgono per liberare i loro infermi dagli assalti più terribili che l’inferno dà in quel punto estremo della morte.

Leggasi la Vita di S. Bernardino da Siena, e veggansi quanti peccatori convertì questo santo, quanti abusi distrusse, e quante città santificò coll’insinuar predicando a’ popoli l’invocare il nome di Gesù.22 Disse S. Pietro che non vi è altro nome a noi dato, in cui bisogna trovar la salute, che questo nome sacrosanto di Gesù: Nec enim aliud nomen est sub caelo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV,12). Gesù è quello che non solamente ci ha salvati una volta, ma continuamente ci salva per li suoi meriti dal pericolo del peccato, ogni volta che con confidenza l’invocheremo: Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam (Io. XIV, 13). Onde S. Paolo ci anima, dicendo che chiunque l’invoca, certamente sarà salvo: Quicumque invocaverit nomen Domini, salvus erit (Rom. X, [13]). Nelle tentazioni dunque, replico con S. Lorenzo Giustiniani: Si tentaris a diabolo, si ab hominibus opprimeris, Iesu nomen edito.23 Se i demoni o gli uomini t’infestano e ti spingono al peccato, chiama Gesù, e sarai salvo; e se le tentazioni sieguono a perseguitarti, siegui tu ad invocare Gesù, che non mai cadrai. Quei che praticano questa gran divozione, si prova coll’esperienza che si mantengono saldi e sempre vincono. Aggiungiamoci ancora sempre il nome di Maria, il quale anche spaventa l’inferno, e saremo sempre sicuri. Haec brevis oratio, dice Tommaso da Kempis, Iesus et Maria, facilis ad tenendum, fortis ad protegendum:24 Questa orazione così breve e così facile a tenerla in memoria, ella è potente a liberarci da ogn’insulto de’ nemici.

In terzo luogo il nome di Gesù non solo consola e difende da ogni male, ma ancora infiamma di santo amore tutti coloro che con divozione lo nominano. Il nome di Gesù, cioè di Salvatore, è nome che in sé esprime amore, mentre ci ricorda quanto ha fatto, quanto ha patito Gesù Cristo per salvarci: Nomen Iesus signum est repraesentans tibi omnia quaecumque Deus fecit propter salutem humanae naturae, dice S. Bernardo (Serm. 48).25 Onde con tenerezza un autor divoto gli diceva: O Gesù mio, troppo ti è costato l’essere Gesù, cioè mio Salvatore: O Iesu, quanti tibi constitit esse Iesum, Salvatorem meum!26

Scrive S. Matteo, parlando della crocifissione di Gesù Cristo: Et imposuerunt super caput eius causam ipsius scriptam: Hic est Iesus Rex Iudaeorum (XXVII, 37). Dispose dunque l’Eterno Padre che sulla croce dove morì il nostro Redentore, si leggesse scritto Questo è Gesù, il Salvatore del mondo. Così scrisse Pilato, non già perché l’avesse giudicato reo, a cagion di aversi Gesù Cristo assunto il nome di re, siccome l’accusavano i Giudei; poiché Pilato non fé conto di quest’accusa, e nello stesso tempo che lo condannò ben lo dichiarò innocente, protestandosi di non aver parte nella di lui morte: Innocens sum a sanguine iusti huius.27 Ma perché gli diede il titolo di re? Lo scrisse per volontà di Dio, il quale volle con ciò dire a noi: Uomini, sapete perché muore questo mio Figlio innocente? muore, perch’è vostro Salvatore; muore questo pastore divino su questo legno infame, per salvare voi sue pecorelle. Perciò fu detto ne’ sagri Cantici: Oleum effusum nomen eius.28 Spiega S. Bernardo: Nempe effusio divinitatis.29 Nella Redenzione Dio stesso per l’amore che ci portava, tutto a noi si diede e si comunicò: Dilexit nos et tradidit semet ipsum pro nobis (Ephes. V, 2). E per potersi a noi comunicare, egli si assunse il peso di pagare le pene a noi dovute: Languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII).30 Con quel titolo, dice S. Cirillo Alessandrino (Lib. XII, in Io.), volle scancellare il decreto prima già fatto di condanna contro noi poveri peccatori: Hoc titulo adversus genus nostrum chirographum in cruce confixo delevit;31 secondo quel che già scrisse l’Apostolo: Delens quod adversus nos erat chirographum decreti (Coloss. II, 14). Egli, l’amante nostro Redentore, volle liberarci dalla maledizione da noi meritata, facendosi esso l’oggetto delle maledizioni divine con caricarsi di tutti i nostri peccati: Christus redemit nos de maledicto, factus pro nobis maledictum (Galat. III, 13).32

Ond’è che un’anima fedele, nominando Gesù e ricordandosi col nominarlo di quel che ha fatto Gesù Cristo per salvarla, non è possibile che non si accenda ad amare chi tanto l’ha amata. Cum nomino Iesum, diceva S. Bernardo, hominem mihi propono mitem, humilem, benignum, misericordem, omni sanctitate conspicuum, eumdemque Deum omnipotentem qui me sanet et roboret.33 Nominando Gesù, dobbiamo immaginarci di vedere un uomo tutto mansueto, affabile, pietoso e pieno d’ogni virtù; e poi dobbiam pensare che egli è il nostro Dio, che per guarire le nostre piaghe ha voluto esser disprezzato ed impiagato, sino a morire di puro dolore su d’una croce. Siati dunque caro, o cristiano, ti esorta S. Anselmo, il bel nome di Gesù; egli sia sempre nel tuo cuore, ed egli sia l’unico tuo cibo, l’unica consolazione: Sit tibi Iesus semper in corde; hic sit cibus, dulcedo et consolatio tua.34 Ah che solamente chi lo prova, dicea S. Bernardo, può intendere quale dolcezza sia, qual paradiso anche in questa valle di lagrime l’amare con tenerezza Gesù: Expertus potest credere quid sit Iesum diligere.35 Ben lo seppero per esperienza una santa Rosa di Lima, che in ricevere la comunione mandava dalla bocca tal fiamma d’amor divino, che bruciava la mano di chi le dava a bere dell’acqua, come si suole, dopo la comunione.36 Una S. Maria Maddalena de’ Pazzi, che con un Crocifisso alla mano andava tutta infiammata gridando: O Dio d’amore, o Dio d’amore! anzi pazzo d’amore (Vita, c. 11).37 Un S. Filippo Neri, a cui bisognò slargarsi le coste, per dar luogo al cuore che ardendo d’amor divino cercava più luogo da palpitare.38 Un S. Stanislao Kostka, a cui fu necessario talvolta bagnargli il petto con acqua fredda, per mitigare il grande ardore dal quale sentivasi consumare per Gesù.39 Un S. Francesco Saverio, che per la stessa bella cagione si slacciava il petto e diceva: Signore, basta, non più; dichiarandosi con ciò inabile a soffrire la gran fiamma che gli bruciava il cuore.40

Procuriamo dunque ancora noi, per quanto possiamo, di tenere sempre Gesù nel cuore con amarlo, e di tenerlo ancora nella bocca con sempre nominarlo. Dice S. Paolo che non può nominarsi Gesù- s’intende con divozione- se non per mezzo dello Spirito Santo: Nemo potest dicere, Dominus Iesus, nisi in Spiritu Sancto (I Cor. XII, 3). Sicché a tutti coloro che divotamente pronunziano il nome di Gesù, si comunica lo Spirito Santo. Ad alcuni il nome di Gesù è nome strano, e perché? perché non amano Gesù. I santi sempre hanno avuto in bocca questo nome di salute e d’amore. Nell’Epistole di S. Paolo non vi è pagina dove il santo non nomina più volte Gesù. S. Giovanni anche spesso lo nomina. Il B. Errico Susone un giorno per maggiormente accendersi nell’amore di questo santo nome, con un ferro tagliente si scolpì nel petto sul cuore a caratteri di ferite il nome di Gesù; e stando poi tutto bagnato di sangue: Signore, disse, io vorrei scrivervi più dentro nel mio proprio cuore, ma non posso; voi che potete il tutto, imprimete nel mio cuore il vostro caro nome, sì che non si possa più cancellare in esso né il vostro nome né il vostro amore.41 La B. Giovanna di Sciantal giunse ad imprimersi sul cuore il nome di Gesù con una piastra infocata.42 Non pretende tanto da noi Gesù Cristo; si contenta che lo tenghiamo nel nostro cuore coll’amore, e spesso con amore l’invochiamo. E siccome egli, quanto operò e quanto disse nella sua vita, tutto lo fece per nostro amore; così noi quanto facciamo, è giusto che lo facciamo in nome e per amore di Gesù Cristo, come ci esorta S. Paolo: Omnia quaecumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Iesu Christi facite (Coloss. 13).43 E se Gesù Cristo è morto per noi, dobbiam noi star pronti a morir volentieri per il nome di Gesù Cristo, come stava pronto a far lo stesso Apostolo dicendo: Ego autem non solum alligari, sed etiam mori paratus sum propter nomen Domini mei Iesu Christi.44

Concludiamo il sermone. Se dunque stiamo afflitti, invochiamo Gesù, ed egli ci consolerà. Se siam tentati, invochiamo Gesù, ed egli ci darà forza di resistere a tutti i nostri nemici. Se finalmente stiamo aridi e freddi nell’amor divino, invochiamo Gesù, ed egli c’infiammerà. Felici quell’anime che sempre avranno in bocca questo santo ed amabilissimo nome! Nome di pace, nome di speranza, nome di salute, nome d’amore. Ed oh beati noi, se poi in morte avremo la sorte di morire, e terminare la vita nominando Gesù! Ma se desideriamo di spirar l’ultimo fiato con questo dolce nome in bocca, bisogna che ci avvezziamo in vita a spesso nominarlo, nominandolo sempre con amore e confidenza. Uniamoci ancora sempre il bel nome di Maria, che ancora è nome dato dal cielo, e nome potente che fa tremare l’inferno; è nome ben anche dolce, mentre ci ricorda il nome di quella Regina, che siccome è Madre di Dio, è ancora madre nostra, madre di misericordia, madre d’amore.

Colloquio.

Giacché dunque, o Gesù mio, voi siete il mio Salvatore, che per salvarmi avete dato il sangue e la vita, scrivete, vi prego, sul mio povero cuore il vostro adorato nome; affinché avendolo io sempre impresso nel cuore coll’amore, l’abbia ancor sempre nella bocca, con invocarla in tutti i miei bisogni. Se il demonio mi tenterà, il vostro nome mi darà forza a resistere. Se mi verrà la sconfidenza, il vostro nome mi animerà a sperare. Se sarò afflitto, il vostro nome mi conforterà, ricordandomi quanto più voi siete stato afflitto per me. Se mi vedrò freddo nel vostro amore, il vostro nome m’infiammerà, ricordandomi l’amore che voi m’avete dimostrato. Per lo passato io son caduto in tanti peccati, perché non vi ho invocato; da oggi avanti il vostro nome avrà da essere la mia difesa, il mio rifugio, la mia speranza, l’unica mia consolazione, l’unico mio amore. Così spero di vivere, e così spero di morire, sempre col vostro nome in bocca.

Vergine SS. ottenetemi voi questa grazia d’invocare sempre ne’ miei bisogni il nome del vostro Figlio Gesù, e di voi, madre mia Maria; ma ch’io l’invochi sempre con confidenza e amore; sicché possa io ancora dirvi come vi diceva il divoto Alfonso Rodriguez: Iesus et Maria, pro vobis patiar, pro vobis moriar; sim totus vester, sim nihil meus.45

O Gesù mio diletto, o amata signora mia Maria, datemi la grazia di patire e morire per vostro amore; io non voglio essere più mio, voglio esser vostro e tutto vostro: vostro in vita, e vostro in morte, in cui spero col vostro aiuto di spirare, dicendo: Gesù e Maria, aiutatemi: Gesù e Maria, a voi mi raccomando: Gesù e Maria, io v’amo e a voi consegno e dono tutta l’anima mia.

(Sant’ Alfonso Maria de Liguori “Novena del Santo Natale, colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento, sino all’Ottava dell’Epifania” anno 1758)

 

Sant’ Alfonso Maria de Liguori: “Affetti Divoti a Gesù Cristo d’un Anima che Vuol Esser Tutta Sua” “Sento in me un grande odio al peccato: mi sento disposto a soffrir ogni morte prima che perdere la vostra grazia”

Sant’ Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa:

“Affetti Divoti a Gesù Cristo d’un Anima che Vuol Esser Tutta Sua”

 

I. Affetti di viva fede.

O atei che non credete Dio, o pazzi che siete! Se voi non credete che vi è Dio, ditemi, chi vi ha creati? Come potete mai figurarvi che vi sieno creature senza principio che l’abbia create? Questo mondo che ammirate, regolato con ordine così bello e così costante, ha potuto mai farlo il caso che non ha né ordine né mente? Miseri! Voi studiate per persuadervi che l’anima muore come muore il corpo; ma oh Dio, che direte quando giunti all’eternità vedrete che l’anime vostre sono eterne, ed in eterno più non potrete rimediare alla vostra ruina?

Ma se credete che vi è Dio, avete da credere che vi sia ancora la vera religione. – Ma se non credete che la religione nostra della Chiesa cattolica romana sia la vera, ditemi, qual’è la vera? Forse quella de’ Gentili che ammette tanti Dei, e così li distrugge e nega tutti? Forse quella de’ Maomettani, ch’è un miscuglio di favole, d’inezie e contraddizioni? Religione inventata da un infame impostore, fatta più per le bestie che per gli uomini? Forse quella de’ Giudei i quali per altro ebbero un tempo la vera fede, ma perché poi han riprovato il loro aspettato Redentore che ha insegnata la nuova legge della grazia, han perduta la fede, la patria e tutto? Forse quella degli eretici che, separandosi dalla nostra Chiesa ch’è stata la prima fondata da Gesù Cristo ed a cui fu fatta da lui stesso la promessa che non sarebbe mai mancata, han confusi talmente tutt’i dogmi rivelati, che ciascuno di loro nel credere è contrario all’altro? Ah che troppo è chiaro che la fede nostra è l’unica vera. O vi è fede, e non può esservi altra religione vera che la nostra: o non vi è fede, e tutte le religioni son false. Ma ciò non può essere; perché se vi è Dio, vi ha da essere la vera fede e la vera religione.

Ma quanto poi sono più pazzi quei cristiani che tengono la vera fede, e poi vivono come non ci credessero! Credono che vi è Dio giusto giudice, che vi è il paradiso e l’inferno eterno; e poi voglion vivere come non ci fosse né giudizio né paradiso né inferno né eternità né Dio.

Oh Dio, come possono i cristiani credere a Gesù Cristo, credere un Dio nato in una stalla, un Dio nascosto in una bottega per trent’anni a faticare e vivere alla giornata, come un semplice garzone; un Dio finalmente inchiodato ad una croce e morto consumato da’ dolori, e non amarlo, e disprezzarlo co’ peccati!

O santa fede, illuminate tanti poveri ciechi che vanno a perdersi per una eternità. – Ma già questa luce risplende ed illumina tutti gli uomini fedeli ed infedeli: Lux vera quae illuminat omnem hominem (Io. I, 9). E come poi tanti si perdono! O peccato maledetto, tu acciechi le menti di tante povere anime, le quali entrate all’eternità apriranno poi gli occhi, ma allora non vi sarà più rimedio all’errore.

Come va, Gesù mio, che tanti vostri servi si son confinati nelle grotte e ne’ deserti per attendere a salvarsi; tanti nobili ed anche principi sono andati a chiudersi nei chiostri a vivere poveramente e sconosciuti dal mondo per accertar la loro eterna salute; tanti martiri han lasciato tutto, tante verginelle han rinunziate le nozze de’ primi grandi della terra ed hanno abbracciato gli eculei, le mannaie, le piastre, le graticole infocate e le morti più crudeli per non perdere la vostra grazia; e tanti altri poi vivono da voi lontani in peccato i mesi e gli anni?

Vi ringrazio, Gesù mio, della luce che mi date, con cui mi fate conoscere che tutt’i beni di questa terra son fumo, loto, vanità ed inganno; e che voi solo siete il vero e l’unico bene.

Dio mio, vi ringrazio che mi avete data questa santa fede, e che l’avete renduta a noi così chiara coll’avveramento delle profezie, colla verità de’ miracoli, colla costanza de’ martiri, colla santità della dottrina e colla prodigiosa propagazione della medesima per tutto il mondo; che se non fosse vera, bisognerebbe dire che voi ci avete ingannati in farcela credere con tanti contrassegni che ce ne avete dati.

Io credo tutto quel che la Chiesa m’insegna a credere, perché tutto voi ce l’avete rivelato. Né pretendo comprendere colla mia mente quei misteri che son superiori alla mia mente; basta che voi l’avete detto. Vi prego ad accrescere in me la fede: Adauge nobis fidem (Luc. XVII, 5).

 

II. Affetti di confidenza.

Gesù mio, mi spaventa la vista de’ miei peccati, ma più mi anima e consola la vista di voi crocifisso. Voi non mi negherete il perdono, giacché non mi avete negato il sangue e la vita. Piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia.

Caro mio Redentore, nella morte mia, in quegli ultimi e più forti assalti che mi darà l’inferno, voi avete da essere il mio conforto. Spero che per la morte amara che voi avete sofferta per me, mi farete morire in grazia vostra e ardendo del vostro amore. E per quelle tre ore di agonia che patiste in croce, datemi la grazia di soffrir con rassegnazione e per amor vostro tutte le pene della mia agonia.

E voi, Maria, per quel dolore che aveste quando spirò Gesù vostro figlio, ottenetemi la grazia che l’anima mia spiri facendo un atto d’amore a Dio, per venirlo ad amare insieme con voi eternamente in paradiso.

Gesù mio, per li meriti vostri spero da voi il perdono di tutte le ingiurie che vi ho fatte. Ma come poss’io, amor mio crocifisso, temere del perdono, se voi siete morto per perdonarmi? Come temere della vostra misericordia, se questa vi ha fatto scendere dal cielo per venire a cercar l’anima mia? Come temere che mi negherete la grazia d’amarvi, se voi avete tanto patito per acquistarvi il mio amore? Come temere che i peccati commessi, de’ quali mi pento con tutto il cuore, abbiano a privarmi della vostra grazia, se voi perciò avete sparso tutto il vostro sangue per lavare i peccati miei e così farmi ricuperare la vostra amicizia? Vedo che voi mi date abborrimento alle offese che vi ho fatte, mi date luce di conoscere la vanità delle cose del mondo, mi fate conoscere l’amore che mi avete portato, mi date desiderio di esser tutto vostro: tutti questi son segni che mi volete salvo: ed io voglio salvarmi per venir in cielo a lodare eternamente le vostre misericordie: Misericordias Domini in aeternum cantabo (Ps. LXXXVIII, 2). Stia sempre nel mio cuore fisso il tormento di avervi offeso, e fisso il desiderio di amarvi con tutto il mio cuore.

Amato mio Redentore e giudice mio, quando nel punto di mia morte sarò alla vostra presenza, deh, non mi discacciate dalla vostra faccia: Cum veneris iudicare, noli me condemnare. Non mi mandate all’inferno, perché all’inferno non vi posso amare. Deh, non fate che quelle piaghe che portate impresse, segni dell’amore che mi avete portato, abbiano ad essermi di tormento per sempre. Perdonatemi dunque prima che venga l’ora di giudicarmi. Fate che la prima volta ch’io vi vedrò, vi veda colla faccia tranquilla, non adirata: dichiaratemi allora per vostra pecorella eletta e non per capretto riprovato: Redemisti crucem passus, tantus labor non sit cassus. Non fate che il vostro sangue sia perduto per me.

Son peccatore, è vero; ma voi avete detto che non volete la morte del peccatore: Nolo mortem impii, sed Ut convertatur… et vivat (Ezech. XXXIII, 11). Io lascio tutto, rinunzio a tutti i beni di questa terra, diletti, ricchezze, dignità, onori: vedo che tutti son fango, bugie e veleno; e mi converto a voi, mio Dio. Gesù mio crocifisso, voi solo voglio e niente più.

Oh Dio, voi per darmi il paradiso, caro mio Redentore, avete data la vita; ed io per li gusti miei maledetti ho perduto il paradiso e voi, bene infinito! Io non merito di venire in quel regno di santi, ma il vostro sangue e la vostra morte mi danno animo a sperarlo. Sì che lo spero, e voglio il paradiso: lo voglio, Gesù mio, non per più godere, ma per più amarvi e per assicurarmi di amarvi per sempre.

Quando sarà, amor mio e mio tutto, che mi vedrò abbracciato a’ piedi vostri, e bacerò quelle piaghe che sono state il pegno del vostro amore e la causa della mia salute?

Leggo, Gesù mio, nella mia coscienza la sentenza di morte che merito per le offese che vi ho fatte; ma leggo poi sulla vostra croce la sentenza di grazia che voi mi avete ottenuta colla vostra morte: In te, Domine, speravi; non confundar in aeternum (Ps. XXX, 2).

Caro mio Salvatore, spero che del passato mi abbiate perdonato. Io, ricordandomi dei tradimenti che vi ho fatti, temo dell’avvenire; ma questo medesimo timore mi accresce la confidenza, mentre, conoscendo la mia debolezza, vedo che non posso fidarmi più di me e de’ miei propositi fatti; e però spero solamente da voi che mi darete la forza di esservi fedele.

Mi spaventa ancora il non sapere se sarò salvo o dannato; ma vedendovi, Gesù mio diletto, spirato sulla croce per ottenermi la salute, una dolce speranza mi conforta e mi dice ch’io vi amerò e non lascerò di amarvi né in questa vita né nell’altra: mi dice che un giorno mi troverò nel regno dell’amore, dove tutto e sempre arderò per voi senza timore di perdervi più.

Al presente neppure so se son degno del vostro amore o dell’odio vostro; ma sento in me un grande odio al peccato: mi sento disposto a soffrir ogni morte prima che perdere la vostra grazia: mi sento di più un gran desiderio d’amarvi e di essere tutto vostro: questi son tutti vostri doni, e segni che voi mi amate. Se dunque ho ragion di temere per causa de’ miei peccati, ho molta più ragione di confidare nella vostra bontà per le misericordie che mi usate. Mi abbandono dunque nelle vostre mani, mani trafitte da’ chiodi sulla croce, per redimermi dall’inferno: In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis (Ps. XXX, 6).

Dice l’Apostolo: Qui etiam proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum: quomodo non etiam cum illo omnia nobis donavit? (Rom. VIII, 32). Se dunque, o Gesù mio, il vostro Padre vi ha donato a noi e vi ha mandato a morire per noi, come possiamo temere che abbia a negarci il perdono, la sua grazia, la perseveranza, il suo amore e ‘l paradiso? Cum illo omnia, omnia, omnia nobis donavit. Sì, mio Redentore, io spero tutto al sangue che avete sparso per me: Tuis famulis subveni, quos pretioso sanguine redemisti.

O Regina del cielo, o Madre di Dio, o speranza nostra, o rifugio de’ peccatori, abbiate di noi pietà. Spes nostra, salve. Refugium peccatorum, ora pro nobis.

 

III. Affetti di pentimento.

Gesù mio, per quell’abborrimento che aveste de’ miei peccati nell’orto di Getsemani, datemi un vero dolore di tutte le offese che vi ho fatte.

Peccati miei maledetti, io v’odio e vi detesto; voi mi avete fatta perdere la grazia del mio Signore.

Mi pento, Gesù mio, d’avervi voltate le spalle. Avessi patito ogni male, e non vi avessi mai offeso.

Ah mio dolce Redentore, nel ricordarmi de’ disgusti che vi ho dati, non tanto mi fa piangere l’inferno da me meritato, quanto l’amore che voi mi avete portato: sì, perché non è così grande il fuoco dell’inferno che mi ho meritato, com’è l’amore immenso che mi avete dimostrato nella vostra Passione. E come, oh Dio! sapendo che voi, mio Signore, vi avete fatto legare per me, flagellare per me, sputare in faccia per me, appendere ad una croce e morire per me, ho potuto tante volte disprezzare la vostra grazia e voltarvi le spalle? Vorrei morirne di dolore, me ne pento e dispiace più d’ogni male.

Conosco il male che ho fatto in separarmi da voi, sommo mio bene. Io doveva patire ogni pena, ogni male, ogni morte, e non offendervi; e quale maggior male poteva io commettere, che perdere volontariamente la grazia vostra? Ah Gesù mio, io non ho pena che più mi affligga di questa, di aver disprezzato voi, bontà infinita.

Vi ringrazio, Signor mio, della dolce promessa del perdono che avete fatta a’ peccatori, di scordarvi de’ peccati di chi si pente d’avervi offeso: Omnium iniquitatum… non recordabor (Ezech. XVIII, 22). Tutto è frutto della vostra Passione. O dolce Passione! O dolce misericordia! O dolce amore di Gesù Cristo! Voi siete la mia speranza. Povero me, Gesù mio, se voi non foste morto e non aveste pagato per me!

Oh Dio, io pensava ad offendervi e voi pensavate ad usarmi misericordia! Dopo il peccato io non pensava a pentirmi, ma voi pensavate a chiamarmi! In somma io ho fatto quanto ho potuto per dannarmi, e voi, per così dire, avete fatto quanto avete potuto per non vedermi dannato!

Dunque voi siete un infinito bene, ed io vi ho disprezzato!

Voi siete il mio Signore, ed io vi ho perduto il rispetto!

Voi siete una bontà infinita, ed io v’ho voltate le spalle!

Voi siete degno d’infinito amore e mi avete tanto amato, ed io vi ho negato il mio amore e vi ho dati tanti disgusti!

Ma voi avete detto che non sapete disprezzare un cuore che si umilia e si pente; ecco mi abbraccio pentito alla vostra croce, e mi pento con tutto il cuore di avervi disprezzato; ricevetemi nella vostra grazia per quel sangue che avete sparso per me.

O speranza de’ peccatori Maria, ottenetemi voi il perdono, la perseveranza e l’amore a Gesù Cristo.

 

IV. Affetti di proposito.

Gesù mio, io v’amo, e fermamente risolvo di voler perdere tutto, prima che la grazia vostra. Io son debole, ma voi siete forte; la vostra fortezza mi ha da render forte contra tutti i miei nemici. Così spero dalla vostra Passione: Dominus illuminatio mea et salus mea, quem timebo? (Ps. XXVI, 1).

Io non temo, Salvator mio crocifisso, di perder le mie robe, i miei parenti, ed anche la mia vita; temo solo di perdere l’amicizia vostra e ‘l vostro amore. Temo di aver a darvi disgusto e vedermi privo della vostra grazia. Ma voi siete la mia speranza. Vi prego a conservarmi questo mio santo amore, datemi l’aiuto a vincer tutto per compiacervi in tutto.

Iesu dulcissime, ne permittas me separari a te. Io son fattura delle vostre mani, son redento col vostro sangue, deh per questo sangue non mi abbandonate alla disgrazia di perdere il vostro amore e separarmi da voi. Assistetemi sempre in tutti i pericoli che mi occorreranno, e fate che in quelli io sempre ricorra a voi. Io mi sento un gran desiderio d’esservi fedele e di viver solo a voi in questa vita che mi resta; voi avete da darmi la forza; io così spero.

Gesù mio, accrescetemi il timore di darvi disgusto. Mi spaventano i tradimenti che vi ho fatti per lo passato, ma mi confortano i vostri meriti e le tante grazie che mi avete fatte. Queste mi fanno sperare che non mi abbandonerete ora che v’amo, giacché mi avete usate tante misericordie quando io non pensava ad amarvi. Io già non confido nelle mie forze, ben ho la sperienza quanto poco elle vagliono; confido tutto nella vostra bontà, e spero fermamente che non mi vedrò mai più disunito da voi.

Oh chi mi assicurasse, Gesù mio, ch’io non mai più vi perderò, e che sempre vi amerò! Ma mi rassegno al vostro divino volere il quale dispone, e lo dispone per mio bene, ch’io viva sempre con questa incertezza sino alla morte, affinché io non lasci di sempre più stringermi con voi e di pregarvi sempre: Ne permittas me separari a te. Sì, Gesù mio, ve lo replico, e datemi la grazia di replicarvelo sempre: Ne permittas me separari a te: ne permittas me separari a te.

Mio Redentore, io non voglio partirmi più da voi. Se avvenisse che tutti gli uomini vi lasciassero, non voglio lasciarvi io, ancorché avessi a perdervi la vita. Io mi protesto che quantunque non vi fosse né paradiso né inferno, io non voglio lasciarvi d’amare, perché voi, amor mio, ancorché non vi fosse premio per chi v’ama né pena per chi non v’ama, pure siete degno d’esser infinitamente amato.

Oh se tornassero gli anni della mia vita scorsa, vorrei spenderli tutti nel vostro amore! Ma quelli non tornano. Vi ringrazio di avermi aspettato, e di non avermi mandato all’inferno come io meritava; e giacché mi avete aspettato, la vita che mi resta io tutta a voi la consagro. Tutti i miei pensieri, desideri ed affetti non voglio che siano d’altro che di darvi gusto e di eseguire la vostra santa volontà.

Gesù mio diletto, non voglio aspettare ad abbracciarvi quando mi sarete dato in punto di morte; ora vi abbraccio e mi stringo a’ vostri piedi inchiodati. Amor mio crocifisso, voi per ottenere a me una buona morte, avete voluto fare una morte così dolorosa e desolata; in quell’ora, quando tutti della terra mi avranno abbandonato, non mi abbandonate voi, mio Redentore; non permettete ch’io vi perda e mi separi da voi. Accoglietemi nelle vostre sante piaghe, ed ivi fate che spiri l’anima mia amandovi, per venire dove state voi ad amarvi per sempre.

 

V. Affetti d’amore.

O pastore amantissimo delle vostre pecorelle, mentre per esse avete spese non tutte le vostre ricchezze, ma tutto il vostro sangue! O bontà, o amore, o tenerezza di un Dio verso dell’anime! Oh potessi ancor io, Gesù mio, dare il mio sangue e la vita su d’una croce o sotto una mannaia per amore di voi che avete data la vita su della croce per me! Lodino eternamente tutti gli angeli e tutte le creature la vostra carità infinita verso degli uomini. Oh potessi colla mia morte fare che tutti vi amassero! Gradite, Signor mio questo mio desiderio; e datemi la grazia di patire per voi qualche cosa prima di mia morte.

Ah che poco han fatto i martiri, o Salvator del mondo, in soffrire i tormenti, gli eculei, le unghie di ferro, gli elmi infocati, ed in abbracciare le morti più acerbe per amore di voi che siete il loro Dio e siete morto per loro amore. Voi siete morto anche per me, ed io sinora che ho fatto per vostro amore in tutta la mia vita? Gesù mio, non mi fate morire così. Io v’amo e mi offerisco a patire per voi quanto volete. Accettate questa mia offerta e datemi forza di eseguirla.

Gesù mio crocifisso, voi dalla croce prevedeste già l’offese che io avea da farvi, e mi preparaste il perdono. Prevedeste la mia ruina, e mi preparaste il rimedio. Prevedeste le mie ingratitudini, e mi preparaste i rimorsi, gli spaventi, i lumi di salute, le chiamate a penitenza, le consolazioni spirituali, le tenerezze e le tante finezze della vostra carità. Faceste dunque a gara con me a vedere chi la vinceva: io ad offendervi, voi ad accrescermi le grazie! io a provocarvi a castigarmi, voi a tirarmi al vostro amore! Quando sarà, mio Dio, ch’io vinca tutto per dar gusto a voi che avete data la vita per me? Quando sarà, che distaccato da tutto io mi veda unito a voi ed alla vostra volontà? Io lo desidero e voglio eseguirlo, ma voi l’avete da fare. Non è forza la mia di metterlo in effetto. Voi avete promesso di esaudir chi vi prega, io ve ne prego con tutto il cuore, non voglio morire né vivere più ingrato a tanta bontà.

O Verbo incarnato, o uomo de’ dolori, nato per vivere una vita tutta colma di dolori! O primo ed ultimo degli uomini! Primo, perché siete Dio, signore del tutto: ultimo, perché in questa terra vi siete contentato di esser maltrattato come il più vile di tutti gli uomini, sino a soffrire schiaffi, sputi, derisioni e maledizioni dalla feccia delle genti. O Agnello divino, o amore infinito, degno d’infinito amore. che per me avete dato il sangue e la vita, io v’amo e vi offerisco il sangue e la vita mia. Ma che ha da fare il sangue d’un verme col sangue di un Dio? La vita d’un peccatore colla vita d’una Maestà infinita?

Amato Gesù mio, che spinto dalle viscere della vostra misericordia siete venuto in terra a cercare noi pecorelle perdute, deh non lasciate di cercare me miserabile, finché non mi abbiate ritrovato. Ricordatevi che anche per me avete sparso il sangue.

O Gesù mio, che per mio amore voleste essere sagrificato sulla croce morendo in quella consumato da’ dolori, io v’amo e desidero di sagrificarmi tutto al vostro amore. Stendete voi una delle vostre mani trafitte e sollevatemi dal fango de’ miei peccati; sanate le tante piaghe dell’anima mia; bruciate, distruggete in me tutti gli affetti che non sono per voi. Voi lo potete fare, fatelo per la vostra Passione, io così spero.

Voi perché mi amate non mi avete negato il sangue e la vita; io perché vi amo non voglio negarvi niente di quanto da me volete. Voi senza riserba vi siete dato tutto a me nella Passione e nel Sagramento dell’Altare; io senza riserba mi do tutto a voi. Ditemi che volete da me, che coll’aiuto vostro io tutto voglio eseguirlo.

O dannati, parlate; e dite da questa carcere ove state, chi più vi tormenta nell’inferno, il fuoco che vi brucia, o l’amore che vi ha portato Gesù Cristo? Ah sì che questo è l’inferno del vostro inferno, il vedere che un Dio è sceso dal cielo in terra per salvarvi, e voi, chiudendo gli occhi alla luce, avete voluto spontaneamente perdervi e perdere questo bene infinito, il vostro Dio, che non sarà mai più vostro ne potrete mai più ricuperarlo.

Ah Gesù mio, mio tesoro, mia vita, mia consolazione, mio amore, mio tutto, vi ringrazio della luce che mi date. Io v’amo, e d’altro non temo che di perdere voi e di vedermi privo di potervi amare. Fate ch’io v’ami, e poi fate di me quel che vi piace.

Gesù mio crocifisso, deh spezzate le catene de’ miei affetti disordinati che m’impediscono di unirmi tutto a voi, e legatemi coi lacci d’oro del vostro amore, ma legatemi sì stretto che io non possa più sciogliermi da voi. Le finezze che mi avete usate troppo erano bastanti a legarmi; ma io non mi vedo unito con voi come vorrei. Fatelo voi che solo potete farlo.

O amore del mio Gesù, tu sei l’amor mio e la speranza mia.

Gesù mio, desidero il vostro puro amore, libero da ogni mio interesse, e non mi curo di restar privo d’ogni mia propria soddisfazione. Fate ch’io v’ami, e ciò solo mi basta.

Intendo, Signor mio, che voi volete il mio amore e perciò non mi avete mandato all’inferno, e da tanti anni mi venite appresso, facendomi sempre sentire: Amami, amami con tutto il tuo cuore. Ditemi, che ho da fare per compiacervi appieno? Eccomi, io vi dono la mia volontà, la mia libertà, tutto me stesso; non so più che donarvi. Io non desidero in questo mondo né contenti né onori; l’unico contento ed onore che bramo è di essere tutto vostro. Accettatemi voi, soccorretemi colla vostra grazia, e non mi abbandonate mai: Adiutor meus esto: ne derelinquas me, neque despicias me Deus, Salvator meus (Ps. XXVI, 9). Amor mio e mio Salvatore, non mi disprezzate come io meriterei; ricordatevi quanto vi costa l’anima mia, e salvatemi: la salute mia è l’amar voi e non amare altro che voi.

Gesù mio, io non voglio da voi altro che voi. Voi avete detto che amate chi v’ama, Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); io vi amo, amatemi ancora voi. Misero, un tempo mi son veduto odiato da voi per li peccati miei; ma ora li detesto più d’ogni male, e v’amo sovra ogni cosa: amatemi ancora voi e non mi odiate più; io temo più l’odio vostro che tutte le pene dell’inferno.

Amato mio Redentore, vi dirò con S. Teresa: «Giacché si ha da vivere, vivasi solo per voi; finiscansi ormai gl’interessi nostri; e qual cosa maggiore può guadagnarsi, che il dar gusto a voi?»

 

VI. Affetti di uniformità alla volontà di Dio.

Gesù mio, ogni volta che dico: Sia benedetto Dio, o pure, Sia fatta la divina volontà, intendo di accettare tutto ciò che avete disposto sopra di me nel tempo e nell’eternità.

Io non voglio altr’ufficio, altr’abitazione, altre vesti, altro cibo, altra sanità, se non quella che piace a voi.

Non voglio altro impiego, altro talento, altra fortuna se non quella che voi mi avete destinata. Se volete che non mi riescano i miei negozi, che vadano falliti i miei disegni, che si perdano le mie liti, che mi sia tolto quanto possiedo: così voglio ancor io.

Se volete ch’io sia disprezzato, malvoluto, posposto agli altri, infamato e maltrattato anche da’ miei più cari: così voglio ancor io.

Se volete ch’io diventi povero d’ogni cosa, sbandito dalla patria, carcerato in una fossa e viva in continui stenti ed angustie: così voglio ancor io.

Se volete ch’io stia sempre infermo, impiagato, stroppio dentro di un letto e abbandonato da tutti: così voglio ancor io come a voi piace e per quanto tempo a voi piace. La stessa mia vita la pongo nelle vostre mani, ed accetto quella morte che voi mi destinate; e così anche accetto la morte de’ miei parenti e de’ miei amici, e tutto quel che volete voi.

Voglio ancora tutto quel che voi volete circa il mio profitto spirituale. Io desidero di amarvi in questa vita con tutte le mie forze, e di venire in paradiso ad amarvi come v’amano i serafini, ma mi contento di quel che volete voi. Se volete darmi un solo grado di amore, di grazia e di gloria, io più non ne voglio, perché così volete voi. Stimo più l’adempimento della vostra volontà che qualunque mio guadagno.

In somma, mio Dio, disponete di me e delle cose mie come a voi piace; e non badate alla mia volontà, mentre io non voglio altro se non quel che volete voi. Qualunque vostro trattamento, amaro o dolce, di mio gusto o di mio disgusto, l’accetto e l’abbraccio; perché l’uno o l’altro mi viene dalle vostre mani.

Accetto poi, Gesù mio, con modo speciale, la mia morte e tutte le pene che l’accompagneranno, come voi volete, in quel luogo che volete ed in quel tempo quando volete. Le unisco, mio Salvatore, colla vostra santa morte e ve l’offerisco in segno dell’amore che vi porto. Voglio morire per darvi gusto e per adempire il vostro santo volere.

 

VII. Affetti diversi.

O stato infelice di un’anima in peccato, che ha perduto Dio! Vive la misera, ma vive senza Dio. Iddio la guarda, ma più non l’ama, l’odia e l’abborrisce. Dunque, anima mia, vi è stato tempo in cui tu stavi senza Dio! La vista di te non più rallegrava Gesù Cristo come quando eri in grazia, ma gli dava orrore. La Beata Vergine ti mirava con compassione, ma abborriva la tua bruttezza. Andavi a sentir la Messa, e nell’ostia consacrata miravi Gesù Cristo fatto tuo nemico. – Ah mio Dio disprezzato da me e da me perduto, perdonatemi e fatevi da me trovare. Io vi ho voluto perdere, ma voi non avete voluto abbandonarmi. E se non siete ancora in me ritornato, vi prego a ritornare in questo punto in cui mi pento con tutto il cuore di avervi offeso. Deh, fatemi sentire il vostro ritorno col farmi sentire un gran dolore de’ miei peccati e un grande amore verso di voi.

Amato mio Signore, prima che vedermi separato da voi e privo della vostra grazia io mi contento di patire ogni pena. Eterno Padre, per amore di Gesù Cristo vi prego a darmi la grazia di non offendervi più sino alla morte; fatemi morire prima che avessi di nuovo a voltarvi le spalle.

Deh Gesù mio crocifisso, guardatemi con quell’amore con cui mi guardaste un giorno stando in croce morendo per me; guardatemi ed abbiate di me pietà; datemi un general perdono di tutti i disgusti che vi ho dati; datemi la santa perseveranza; datemi il vostro santo amore; datemi una perfetta uniformità a’ vostri voleri; datemi il paradiso, acciocché ivi possa amarvi per sempre. Io non merito niente, ma le vostre piaghe mi danno coraggio a sperare ogni bene da voi. Deh Gesù dell’anima mia, per quell’amore che vi fe’ morire per me, datemi l’amor vostro. Toglietemi l’affetto alle creature, datemi rassegnazione nelle tribulazioni, e fatevi l’oggetto di tutti gli amori miei, acciocché da oggi innanzi io non ami altro che voi.

Voi mi avete creato, mi avete redento, mi avete fatto cristiano, mi avete conservato stando io in peccato, mi avete perdonato tante volte, in somma voi in vece di castighi mi avete accresciuti i favori; s’io non vi amo chi vi ha da amare? Via su, trionfi sovra di me la vostra misericordia, fate che quanto doveva esser grande il fuoco che avea da bruciarmi nell’inferno, tanto sia grande il fuoco d’amore che mi faccia ardere per voi, Gesù mio, mio amore, mio tesoro, mio paradiso, mio tutto.

O Incarnazione, o Redenzione, o Passione di Gesù Cristo: o Calvario, o flagelli, o spine, o chiodi, o croce che tormentaste il mio Signore: o nomi dolci che mi ricordate l’amore col quale mi ha amato un Dio, deh non vi partite mai dalla mia mente e dal mio cuore! Voi ricordatemi sempre le pene che Gesù mio Redentore volle per me patire. O piaghe sacrosante, voi siate il perpetuo nido dell’anima mia; voi le fornaci beate ov’ella arda sempre di divino amore.

Amato mio Gesù, io mi ho meritato l’inferno, e di esser per sempre separato da voi; io non ricuso il fuoco né l’altre pene dell’inferno, se volete colà mandarmi per giusto mio castigo; ma quella io non posso accettare, di non potervi più amare: fate ch’io vi ami e poi mandatemi dove volete. È giusto che io patisca per li miei peccati; ma troppo è ingiusto ch’io abbia ad odiare e maledire chi mi ha creato, mi ha redento e mi ha tanto amato; è giustizia ch’io vi ami e vi benedica per sempre. Vi benedico dunque e vi amo, Gesù, amor mio, e spero di amarvi e benedirvi in eterno.

Dolce mio Redentore, già vedo che voi mi volete tutto vostro. Deh, non permettete da oggi avanti che le creature si prendano parte di quell’amore che tutto spetta a voi. Voi solo meritate tutti gli affetti miei; voi solo siete infinitamente amabile; voi solo mi avete amato da vero; voi solo dunque io voglio amare, e voglio far quanto posso per darvi gusto. Rinunzio a tutto, a diletti, a ricchezze, ad onori ed a tutte le creature della terra; voi solo, mio Gesù, mi bastate: voi solo voglio e niente più.

Lungi da me, affetti di terra. Un tempo vi diedi luogo nel mio cuore, ma allora io era cieco; ora che Dio per sua misericordia mi ha illuminato e mi ha fatto conoscere la vanità di questo mondo e l’amore che mi ha portato e che vuole da me tutto il mio amore, a lui solo io voglio consagrarlo. – Sì, Gesù mio, prendete possesso di tutto il mio cuore, e se io non so darvelo intieramente come voi desiderate, prendetevelo voi e fatelo tutto vostro. V’amo, mio Dio, con tutto il cuore, v’amo più di me stesso. Trahe me post  te: traetemi, Signor mio, tutto a voi, e fatemi perdere l’amore ad ogni cosa creata.

O paradiso, o patria delle anime amanti, o regia dell’amore, o porto sicuro in cui in eterno si ama Iddio e più non si teme di perderlo, quando sarà ch’io entri nelle tue soglie e mi veda sciolto da questo mio corpo infelice, e libero da tanti nemici che continuamente m’insidiano per privarmi della divina grazia? Deh Gesù mio crocifisso, fatemi conoscere i gran beni che voi avete apparecchiati all’anime che vi amano! Datemi un gran desiderio del paradiso, affinché scordato di questa terra ivi io faccia la mia continua dimora: e mentre vivo altro non sospiri che di uscire da questo esilio per venire a vedervi ed amarvi da faccia a faccia nel vostro regno. Io non lo merito, e so che un tempo sono stato scritto nel libro de’ condannati all’inferno; ma ora che sto in grazia vostra, come spero, vi prego, deh per quel sangue che avete sparso per me sulla croce, scrivetemi nel libro della vita. Voi siete morto per acquistarmi il paradiso; io lo voglio, lo sospiro e lo spero per li meriti vostri, per venire colà ad esser consumato dal vostro amore con amarvi con tutte le mie forze. Ivi scordato di me stesso e di ogni altra cosa non penserò ad altro che ad amarvi, non bramerò altro che amarvi, non farò altro che amarvi. Oh Gesù mio, quando sarà?

Oh madre di Dio Maria, le vostre preghiere mi han da portare in paradiso. Eia ergo, advocata nostra… Iesum benedictum fructum ventris tui… post hoc exilium ostende.

(Sant’ Alfonso Maria de Liguori, dottore della Chiesa, “Affetti Divoti a Gesù Cristo d’un Anima che Vuol Esser Tutta Sua”)

 

Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori: “MORTE DEL PECCATORE MORTE DEL GIUSTO” “INFERNO, PURGATORIO, PARADISO” “SALVEZZA ETERNA DANNAZIONE ETERNA”

 “La vita presente è una continua guerra coll’inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l’anima e Dio”

(Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, Dottore della Chiesa)

 

“MORTE DEL PECCATORE”

PUNTO I

Al presente i peccatori discacciano la memoria e ‘l pensiero della morte, e così cercano di trovar pace (benché non la trovino mai) nel vivere che fanno in peccato; ma quando si troveranno nell’angustie della morte, prossimi ad entrare nell’eternità: «Angustia superveniente, pacem requirent, et non erit»; allora non possono sfuggire il tormento della loro mala coscienza; cercheranno la pace, ma che pace può trovare un’anima, ritrovandosi aggravata di colpe, che come tante vipere la mordono? che pace, pensando di dover comparire tra pochi momenti avanti di Gesu-Cristo giudice, del quale sino ad allora ha disprezzata la legge e l’amicizia? «Conturbatio super conturbationem veniet». La nuova già ricevuta della morte, il pensiero di doversi licenziare da tutte le cose del mondo, i rimorsi della coscienza, il tempo perduto, il tempo che manca, il rigore del divino giudizio, l’eternità infelice che si aspetta a’ peccatori: tutte queste cose componeranno una tempesta orrenda, che confonderà la mente ed accrescerà la diffidenza; e così confuso e sconfidato il moribondo passerà all’altra vita. Abramo con gran merito sperò in Dio contro la speranza umana, credendo alla divina promessa: «Contra spem in spem credidit»  (Rom.4. 18).

Ma i peccatori con gran demerito e falsamente per loro ruina sperano, non solo contro la speranza, ma ancora contro la fede, mentre disprezzano anche le minacce, che Dio fa agli ostinati. Temono essi la mala morte, ma non temono di fare una mala vita. Ma chi gli assicura di non morire di subito con un fulmine, con una goccia, con un butto di sangue? ed ancorché avessero tempo in morte da convertirsi, chi gli assicura che da vero si convertiranno? S. Agostino ebbe da combattere dodici anni per superare i suoi mali abiti; come potrà un moribondo, che sempre è stato colla coscienza imbrattata, in mezzo a i dolori, agli stordimenti della testa e nella confusione della morte fare facilmente una vera conversione? Dico «vera», perché allora non basta il dire e promettere; ma bisogna dire e promettere col cuore.

Oh Dio, e da quale spavento resterà preso e confuso allora il misero infermo, ch’è stato di coscienza trascurata, in vedersi oppresso da’ peccati e da’ timori del giudizio, dell’inferno e dell’eternità! In quale confusione lo metteranno questi pensieri, quando si troverà svanito di testa, oscurato di mente e assalito da’ dolori della morte già vicina! Si confesserà, prometterà, piangerà, cercherà pietà a Dio, ma senza sapere quel che si faccia; ed in questa tempesta di agitazioni, di rimorsi, d’affanni e di spaventi passerà all’altra vita. «Turbabuntur populi, et pertransibunt» (Iob. 34. 20). Ben dice un autoreche le preghiere, i pianti e le promesse del peccator moribondo sono appunto come i pianti e le promesse di taluno, che si vede assalito dal suo nemico, il quale gli tiene posto il pugnale alla gola per torgli allora la vita. Misero, chi si mette a letto in disgrazia di Dio, e di là se ne passa all’eternità!

Affetti e preghiere

O piaghe di Gesù, voi siete la speranza mia. Io dispererei del perdonode’ miei peccati e della mia salute eterna, se non rimirassi voi fonti di pietà e di grazia, per mezzo di cui un Dio ha sparso tutto il suo sangue, per lavare l’anima mia da tante colpe commesse. Vi adoro dunque, o sante piaghe, ed in voi confido. Detesto mille volte e maledico quei piaceri indegni, per li quali ho disgustato il mio Redentore, e miseramente ho perduta la sua amicizia. Guardando dunque voi, sollevo le mie speranze, e verso voi rivolgo gli affetti miei. Caro mio Gesù, Voi meritate che tutti gli uomini v’amino, e v’amino con tutto il loro cuore; ma io vi ho tanto offeso ed ho disprezzato il vostro amore, e Voi ciò non ostante mi avete così sopportato, e con tanta pietà mi avete invitato al perdono. Ah mio Salvatore, non permettete ch’io più vi offenda, e mi danni. Oh Dio! che pena mi sarebbe nell’inferno la vista del vostro sangue e di tante misericordie che mi avete usate! Io v’amo e voglio sempre amarvi. Datemi Voi la santa perseveranza. Staccate il mio cuore da ogni amore che non è per Voi, e stabilite in me un vero desiderio e risoluzione di amare da oggi avanti solamente Voi, mio sommo bene. O Maria Madre mia, tiratemi a Dio, e fatemi essere tutto suo, prima ch’io muoia.

PUNTO II

Non una, ma più e molte saranno le angustie del povero peccator moribondo. Da una parte lo tormenteranno i demoni. In morte questi orrendi nemici mettono tutta la forza per far perdere quell’anima, che sta per uscire diquesta vita, intendendoche poco tempo lor resta da guadagnarla, e che se la perdono allora, l’avran perduta per sempre. «Descendit diabolus ad vos habens iram magnam, sciens quod modicum tempus habet» (Apoc. 12. 12). E non uno sarà il demonio, che allora tenterà, ma innumerabili che assisteranno al moribondo per farlo perdere. «Replebuntur domus eorum draconibus» (Is. 13. 21). Uno gli dirà: Non temere che sanerai. Un altro dirà: E come? tu per tanti anni sei stato sordo alle voci di Dio, ed ora esso vorrà usarti pietà? Un altro: Come ora puoi rimediare a quelli danni fatti? a quelle fame tolte? Un altro: Non vedi che le tue confessioni sono state tutte nulle, senza vero dolore, senza proposito? come puoi ora più rifarle?

Dall’altra parte si vedrà il moribondo circondato da’ suoi peccati. «Virum iniustum mala capient in interitu» (Ps. 139. 12). Questi peccati come tanti satelliti, dice S. Bernardo,lo terranno afferrato e gli diranno: «Opera tua sumus, non te deseremus». Noi siamo tuoi parti, non vogliamo lasciarti; ti accompagneremo all’altra vita, e teco ci presenteremo all’eterno giudice. Vorrà allora il moribondo sbrigarsi da tali nemici, ma per isbrigarsene bisognerebbe odiarli, bisognerebbe convertirsi di cuore a Dio; ma la mente è ottenebrata, e ‘l cuore è indurito. «Cor durum habebit male in novissimo: et qui amat periculum, peribit in illo» (Eccli. 3. 27).

Dice S. Bernardoche il cuore, ch’è stato ostinato nel male in vita, farà i suoi sforzi per uscire dallo stato di dannazione, ma non giungerà a liberarsene, ed oppresso dalla sua malizia nel medesimo stato finirà la vita. Egli avendo sino ad allora amato il peccato, ha insieme amato il pericolo della sua dannazione; giustamente perciò permetterà il Signore che allora perisca in quel pericolo, nel quale ha voluto vivere sino alla morte. Dice S. Agostino che chi è lasciato dal peccato, prima ch’egli lo lasci, in morte difficilmente lo detesterà come deve; perché allora quel che farà, lo farà a forza: «Qui prius a peccato relinquitur, quam ipse relinquat, non libere, sed quasi ex necessitate condemnat».

Misero dunque quel peccatore ch’è duro, e resiste alle divine chiamate! «Cor eius indurabitur quasi lapis, et stringetur quasi malleatoris incus» (Iob. 41. 15). Egli l’ingrato in vece di rendersi ed ammollirsi alle voci di Dio, si è indurito come più s’indurisce l’incudine a’ colpi del martello. In pena di ciò talancora si ritroverà in morte, benché si ritrovi in punto di passare all’eternità. «Cor durum habebit male in novissimo». I peccatori, dice il Signore, mi han voltate le spalle per amore delle creature: «Verterunt ad me tergum, et non faciem, et in tempore afflictionis suae dicent: Surge, et libera nos. Ubi sunt dii tui, quos fecisti tibi? surgant, et liberent te» (Ier. 2. 27). I miseri in morte ricorreranno a Dio, e Dio loro dirà: Ora a me ricorrete? chiamate le creature che vi aiutino; giacché quelle sono state i vostri dei. Dirà così il Signore, perché essi ricorreranno, ma senz’animo vero di convertirsi. Dice S. Girolamo tener egli quasi per certo ed averlo appreso coll’esperienza che non farà mai buon fine, chi ha fatta mala vita sino alla fine: «Hoc teneo, hoc multiplici experientia didici, quod ei non bonus est finis, cui mala semper vita fuit» (In epist. Eusebii ad Dam.).

Affetti e preghiere

Caro mio Salvatore, aiutatemi, non mi abbandonate, io vedo l’anima mia tutta impiagata da’ peccati; le passioni mi fanno violenza, i mali abitimi opprimono; mi butto a’ piedi vostri; abbiate pietà di me e liberatemi da tanti mali.«In te, Domine, speravi, non confundar in aeternum».Non permettete che si perda un’anima, che confida in Voi. «Ne tradas bestiis animam confitentem tibi». Io mi pento d’avervi offeso, o bontà infinita; ho fatto male, lo confesso: voglio emendarmi ad ogni costo; ma se Voi non mi soccorrete colla vostra grazia, io son perduto. Ricevete, o Gesù mio, questo ribelle, che vi ha tanto oltraggiato. Pensate che vi ho costato il sangue e la vita. Per li meriti dunque della vostra passione e morte ricevetemi tra le vostre braccia, e datemi la santa perseveranza. Io era già perduto, Voi mi avete chiamato; ecco io non voglio più resistere, a Voi mi consagro; legatemi al vostro amore, e non permettete ch’io vi perda più, con perdere di nuovo la vostra grazia; Gesù mio, non lo permettete.

Regina Mia Maria, non lo permettete; impetratemi prima la morte e mille morti ch’io abbiada perdere di nuovo la grazia del vostro Figlio.

PUNTO III

Gran cosa! Dio non fa altro che minacciare una mala morte a’ peccatori: «Tunc invocabunt me, et non exaudiam» (Prov. 1. 18). «Nunquid Deus exaudiet clamorem eius, cum venerit super eum angustia» (Iob. 27. 9). «In interitu vestro ridebo, et subsannabo» (Prov. 1. 26). («Ridere Dei est nolle misereri», S. Gregor.). «Mea est ultio, et ego retribuam eis in tempore, ut labatur pes eorum» (Deuter. 32. 35). Ed in tanti altri luoghi minaccia lo stesso; ed i peccatori vivono in pace, sicuri come Dio avesse certamente promesso loro in morte il perdono e il paradiso. È vero che in qualunque ora si converte il peccatore, Dio ha promesso di perdonarlo; ma non ha detto che il peccatore in morte si convertirà; anzi più volte si è protestato che chi vive in peccato, in peccato morirà: «In peccato vestro moriemini» (Io. 8. 21). «Moriemini in peccatis vestris» (ibid. 24). Ha detto che chi lo cercherà in morte, non lo troverà: «Quaeretis me, et non invenietis (Io. 7. 34). Dunque bisogna cercare Dio, quando si può trovare: «Quaerite Dominum, dum inveniri potest» (Is. 55. 6). Sì, perché vi sarà un tempo che non potrà piùtrovarsi. Poveri peccatori! poveri ciechi, che si riducono a convertirsi all’ora della morte, in cui non sarà più tempo di convertirsi! Dice l’Oleastro: «Impii nusquam didicerunt benefacere, nisi cum non est tempus benefaciendi». Dio vuol salvi tutti, ma castiga gli ostinati.

Se mai alcun miserabile ritrovandosi in peccato, fosse colto dalla goccia, e stesse destituto di sensi, qual compassione farebbe a tutti il vederlo morire senza sagramentie senza segno di penitenza? qual contento poi avrebbe ognuno, se costui ritornasse in sé e cercasse l’assoluzione, e facesse atti di pentimento? Ma non è pazzo poi chi avendo tempo di far ciò, siegue a stare in peccato? o pure torna a peccare e si mette in pericolo che lo colga la morte, nel tempo della quale forse lo farà, e forse no? Spaventa il veder morire alcuno all’improvviso, e poi tanti volontariamente si mettono al pericolo di morire così, e morire in peccato!

«Pondus et statera iudicia Domini sunt» (Prov. 16. 21). Noi non teniamo conto delle grazie, che ci fa il Signore; ma ben ne tiene conto il Signore e le misura; e quando le vede disprezzate sino a certi termini, lascia il peccatore nel suo peccato, e così lo fa morire. Misero chi si riduce a far penitenza in morte. «Poenitentia, quae ab infirmo petitur, infirma est», dice S. Agostino (Serm. 57. de Temp. ). S. Geronimo dice che di centomila peccatori che si riducono sino alla morte a stare in peccato, appena uno in morte si salverà: «Vix de centum millibus, quorum mala vita fuit, meretur in morte a Deo indulgentiam unus» (S. Hier. in Epist. Euseb. de morte eiusd.). Dice S. Vincenzo Ferrerio (Serm. I. de Nativ. Virg.) che sarebbe più miracolo che uno di questi tali si salvasse, che far risorgere un morto. «Maius miraculum est, quod male viventes faciant bonum finem, quam suscitare mortuos». Che dolore, che pentimento vuol concepirsi in morte da chi sino ad allora ha amato il peccato?

Narra il Bellarminoch’essendo egli andato ad assistere ad un certo moribondo ed avendolo esortato a fare un atto di contrizione, quegli rispose che non sapea ciò che si fosse contrizione. Bellarmino procurò di spiegarcelo, ma l’infermo disse: «Padre, io non v’intendo, io non son capace di queste cose». E così se ne morì. «Signa damnationis suae satis aperte relinquens», come il Bellarmino lasciò scritto. Giusto castigo, dice S. Agostino, sarà del peccatore, che si dimentichi di sé in morte, chi in vita si è scordato di Dio: «Aequissime percutitur peccator, ut moriens obliviscatur sui qui vivens oblitus est Dei «(Serm. 10. de Sanct.).

«Nolite errare (intanto ci avverte l’Apostolo), Deus non irridetur: quae enim seminaverit homo, haec et metet; qui seminat in carne sua, de carne et metet corruptionem» (Galat. 6.7) Sarebbe un burlare Dio vivere disprezzando le sue leggi, e poi raccoglierne premio e gloria eterna; ma «Deus non irridetur». Quel che si semina in questa vita, si raccoglie nell’altra. A chi semina piaceri vietati di carne, altro non tocca che corruzione, miseria e morte eterna.

Cristiano mio, quel che si dice per gli altri, si dice anche per voi. Ditemi se vi trovaste già in punto di morte, disperato da’ medici, destituto di sentimenti e ridotto già in agonia, quanto preghereste Dio che vi concedesse un altro mese, un’altra settimana di tempo allora, per aggiustare i conti della vostra coscienza? E Dio già vi dà questo tempo. Ringraziatelo e presto rimediate al mal fatto, e prendete tutti i mezzi per ritrovarvi in istato di grazia, quando verrà la morte, perché allora non sarà più tempo di rimediare.

Affetti e preghiere

Ah mio Dio, e chi avrebbe avuta tanta pazienza con me, quanta ne avete avuta Voi? Se la vostra bontà non fosse infinita, io diffiderei del perdono. Ma tratto con un Dio, ch’è morto per perdonarmi e per salvarmi. Voi mi comandate ch’io speri, ed io voglio sperare. Se i peccati miei mi spaventano e mi condannano, mi danno animo i vostri meriti e le vostre promesse. Voi avete promessa la vita della vostra grazia a chi ritorna a Voi: «Revertimini, et vivite (Ezech. 18. 32)». Avete promesso di abbracciare chi a Voi si volta: «Convertimini ad me, et convertar ad vos» (Zach.1. 3). Avete detto che non sapete disprezzare chi s’umilia e si pente: «Cor contritum, et humiliatum, Deus, non despicies» (Ps. 50).

Eccomi, Signore, io a Voi ritorno, a Voi mi volgo, mi confesso degno di mille inferni e mi pento d’avervi offeso: io vi prometto fermamente di non volervi più offendere e di volervi sempre amare. Deh non permettete che ioviva più ingrato a tanta bontà.

Eterno Padre, per li meriti dell’ubbidienza di Gesu-Cristo, che morì per ubbidirvi, fate ch’io ubbidisca a’ vostri voleri sino alla morte. V’amo, o sommo bene, e per l’amore che vi porto, voglio ubbidirvi in tutto. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore e niente più Vi domando.

 

 “MORTE DEL GIUSTO”

PUNTO I

La morte mirata secondo il senso spaventa, e si fa temere; ma secondo la fede consola, e si fa desiderare. Ella comparisce terribile a’ peccatori, ma si dimostra amabile e preziosa a’ Santi: «Pretiosa, dice S. Bernardo, tanquam finis laborum, victoriae consummatio, vitae ianua» (Trans. Malach.). «Finis laborum», sì, la morte è termine delle fatiche e de’ travagli. «Homo natus de muliere, brevi vivens tempore, repletur multis miseriis» (Iob. 14. 1). Ecco qual’è la nostra vita, è breve ed è tutta piena di miserie, d’infermità, di timori e di passioni. I mondani che desiderano lunga vita, che altro cercano (dice Seneca) che un più lungo tormento? «Tanquam vita petitur supplicii mora» (Ep. 101).

Che cosa è il seguitare a vivere, se non il seguitare a patire? dice S. Agostino:«Quid est diu vivere, nisi diu torqueri?» (Serm. 17. de Verbo Dom.). Sì, perché (secondo ci avverte S. Ambrogio) la vita presente non ci è data per riposare, ma per faticare e colle fatiche meritarci la vita eterna: «Haec vita homini non ad quietem data est, sed ad laborem» (Ser. 43). Onde ben dice Tertulliano che quando Dio ad alcuno gli abbrevia la vita, gli abbrevia il tormento: «Longum Deus adimit tormentum, cum vitam concedit brevem». Quindi è che sebbene la morte è data all’uomo in pena del peccato, non però son tante le miserie di questa vita, che la morte (come dice S. Ambrogio) par che ci sia data per sollievo, non per castigo: «Ut mors remedium videatur esse, non poena». Dio chiama beati quei che muoiono nella sua grazia, perché finiscono le fatiche e vanno al riposo. «Beati mortui qui in Domino moriuntur… Amodo iam dicit Spiritus, ut requiescant a laboribus suis» (Apoc. 14. 13).

I tormenti che in morte affliggono i peccatori, non affliggono i Santi. «Iustorum animae in manu Dei sunt, non tanget illos tormentum mortis» (Sap. 3. 1). I Santi, questi non già si accorano con quel «Proficiscere», che tanto spaventa i mondani. I Santi non si affliggono in dover lasciare i beni di questa terra, poiché ne han tenuto staccato il cuore. «Deus cordis mei» (sempre essi così sono andati dicendo), «et pars mea, Deus, in aeternum». Beati voi, scrisse l’Apostolo a’ suoi discepoli, ch’erano stati per Gesu-Cristo spogliati de’ loro beni: «Rapinam bonorum vestrorum cum gaudio suscepistis, cognoscentes vos meliorem et manentem substantiam» (Hebr. cap. 10). Non si affliggono in lasciare gli onori, poiché più presto gli hanno abbominati e tenuti (quali sono) per fumo e vanità; solo hanno stimato l’onore di amare e d’essere amati da Dio. Non si affliggono in lasciare i parenti, perché costoro solo in Dio l’hanno amati; morendo gli lasciano raccomandati a quel Padre Celeste, che l’ama più di loro; e sperando di salvarsi, pensano che meglio dal paradiso, che da questa terra potranno aiutargli. In somma quel che sempre han detto in vita: «Deus meus, et omnia», con maggior consolazione e tenerezza lo van replicando in morte.

Chi muore poiamando Dio, non s’inquieta già per li dolori che porta seco la morte; ma più presto si compiace di loro, pensando che già finisce la vita, e non gli resta più tempo di patire per Dio e di offrirgli altri segni del suo amore, onde con affetto e pace gli offerisce quelle ultime reliquie della sua vita; e si consola in unire il sacrificio della sua morte col sacrificio, che Gesu-Cristo offrì per lui un giorno sulla croce all’Eterno suo Padre. E così felicemente muore dicendo: «In pace in idipsum dormiam, et requiescam». Oh che pace è il morire abbandonato, e riposando nelle braccia di Gesu-Cristo, che ci ha amati sino alla morte, ed ha voluto far egli una morte amara, per ottenere a noi una morte dolce e consolata!

Affetti e preghiere

O amato mio Gesù, che per ottenere a me una morte soave, avete voluto fare una morte sì acerba sul Calvario, quando sarà ch’io vi vedrò? La prima volta che mi toccherà a vedervi, io vi vedrò da mio giudice in quello stesso luogo dove spirerò. Che vi dirò io allora? Che mi direte Voi? Io non voglio aspettare a pensarvi allora, voglio ora premeditarlo. Io vi dirò così: Caro mio Redentore, Voi dunque siete quegli,che siete morto per me? Io un tempo v’ho offeso e vi sono stato ingrato, e non meritava perdono; ma poi aiutato dalla vostra grazia mi sono ravveduto, e nel resto della vita mia ho pianti i miei peccati, e Voi mi avete perdonato; perdonatemi di nuovo, ora che sto a’ piedi vostri, e datemi Voi stesso un’assoluzione generale delle mie colpe. Io non meritava d’amarvi più, per aver disprezzato il vostro amore; ma Voi per vostra misericordia vi avete tirato il mio cuore, che se non v’ha amato secondo il vostro merito, almeno v’ha amato sopra ogni cosa, lasciando tutto per dar gusto a Voi. Ora che mi dite? Vedo che ‘l paradiso e ‘l possedervi nel vostro regno è un bene troppo grande per me; ma io non mi fido di viver lontano da Voi, maggiormente ora che m’avete fatta conoscere la vostra amabile e bella faccia. Vi cerco dunque il paradiso, non per più godere, ma per meglio amarvi. Mandatemi al purgatorio per quanto vi piace. No, neppure iovoglio venire in quella patria di purità e vedermi tra quell’anime pure così sordido di macchie, come sono al presente. Mandatemi a purgarmi, ma non mi discacciate per sempre dalla vostra faccia; basta che un giorno poi, quando vi piace, mi chiamate al paradiso a cantare in eterno le vostre misericordie. Per ora via su, amato mio giudice, alzate la mano e beneditemi; e ditemi ch’io son vostro, e che Voi siete e sarete sempre mio. Io sempre vi amerò, Voi sempre mi amerete. Ecco ora vado lontano da Voi, vado al fuoco; ma vado contento, perché vo ad amarvi, mio Redentore, mio Dio, mio tutto. Vo contento sì, ma sappiate che in questo tempo, in cui starò lungi da Voi, sappiate che questa sarà la maggiore delle mie pene, lo star da Voi lontano. Vo, Signore, a contare i momenti della vostra chiamata. Abbiate pietà di un’anima, che v’ama con tutta se stessa, e sospira di vedervi per meglio amarvi.

Così spero, Gesù mio, di dirvi allora. Pertanto vi prego di darmi la grazia di vivere in modo, che possa dirvi allora quel che ora ho pensato. Datemi la santa perseveranza, datemi il vostro amore.

E soccorretemi Voi, o Madre di Dio, Maria, pregate Gesù per me.

PUNTO II

«Absterget Deus omnem lacrimam ab oculis eorum, et mors ultra non erit» (Apoc. 21. 4). Asciugherà dunque in morte il Signore dagli occhi de’ suoi servi le lagrime, che hanno sparse in questa vita, vivendo in pene, in timori, pericoli e combattimenti coll’inferno. Ciò sarà quel che più consolerà un’anima, che ha amato Dio, in udir la nuova della morte, il pensare che presto sarà liberata da tanti pericoli, che vi sono in questa vita di offender Dio, da tante angustie di coscienza e da tante tentazioni del demonio. La vita presente è una continua guerra coll’inferno, nella quale siamo in continuo rischio di perdere l’anima e Dio. Dice S. Ambrogio che in questa terra «inter laqueos ambulamus»: camminiamo sempre tra’ lacci de’ nemici, che c’insidiano la vita della grazia. Questo pericolo era quello, che facea dire a S. Pietro d’Alcantara, mentre stava morendo: Fratello, scostati (era quello un Religioso, che in aiutarlo lo toccava); scostati, perché ancora sto in vita, e sono in rischio di dannarmi. Questo pericolo ancora facea consolare S. Teresa,ogni volta che sentiva sonar l’orologio, rallegrandosi che fosse passata un’altr’ora di combattimento; poiché diceva: In ogni momento di vita io posso peccare, e perdere Dio. Ond’è che i Santi alla nuova della morte tutti si consolano, pensando che presto finiscono le battaglie e i pericoli, e stan vicini ad assicurarsi della felice sorte di non poter più perdere Dio.

Si narra nelle vite de’ Padri che un Padre vecchio, morendo nella Scizia, mentre gli altri piangevano, esso rideva; domandato, perché ridesse? rispose: E voi perché piangete, vedendo ch’io vado al riposo? «Ex labore ad requiem vado, et vos ploratis?» Parimente S. Caterina da Siena morendo disse: Consolatevi meco, che lascio questa terra di pene, e vado al luogo della pace. Se taluno abitasse (dice S. Cipriano) in una casa, dove le mura son cadenti, e ‘l pavimento e i tetti tremano, sicché tutto minaccia ruina, quanto dovrebbe costui desiderare di poterne uscire? In questa vita tutto minaccia rovina all’anima, il mondo, l’inferno, le passioni, i sensi ribelli: tutti ci tirano al peccato ed alla morte eterna. «Quis me liberabit (esclamava l’Apostolo) de corpore mortis huius?» (Rom. 7. 24). Oh che allegrezza sentirà l’anima nel sentirsi dire: «Veni de Libano, sponsa mea, veni de cubilibus leonum» (Cant. 4. 8). Vieni, sposa, esci dal luogo de’ pianti, e da’ covili de’ leoni, che cercano di divorarti, e farti perdere la divina grazia. Onde S. Paolo, desiderando la morte, dicea che Gesu-Cristo era l’unica sua vita; e perciò stimava egli il suo morire il maggior guadagno che potesse fare, in acquistar colla morte quella vita, che non ha più fine: «Mihi vivere Christus est, et mori lucrum» (Philipp. 1. 21).

È un gran favore che Dio fa ad un’anima, quand’ella sta in grazia, il torla dalla terra, dove può mutarsi e perdere la di lui amicizia: «Raptus est, ne malitia mutaret intellectum eius» (Sap. 4. 11). Felice in questa vita è chi vive unito con Dio; ma siccome il navigante non può chiamarsi sicuro, se non quando è già arrivato al porto ed è uscito dalla tempesta: così non può chiamarsi appieno felice un’anima, se non quando esce di vita in grazia di Dio. «Lauda navigantis felicitatem, sed cum pervenit ad portum», dice S. Ambrogio. Or se ha allegrezza il navigante, allorché dopo tanti pericoli sta prossimo ad afferrare il porto; quando più si rallegrerà colui, che sta vicino ad assicurarsi della salute eterna?

In oltre, in questa vita non si può vivere senza colpe almeno leggiere. «Septies enim cadet iustus» (Prov. 24. 16). Chi esce di vita finisce di dar disgusto a Dio. «Quid est mors (dicea S. Ambrogio ) nisi sepultura vitiorum?» (De Bono mort. cap. 4). Ciò ancora è quel che fa molto desiderar la morte agli amanti di Dio. Con ciò tutto si consolava morendo il Ven. P. Vincenzo Caraffa, mentre diceva: Terminando la vita, io termino d’offendere Dio. E ‘l nominato S. Ambrogiodicea: «Quid vitam istam desideramus, in qua quanto diutius quis fuerit, tanto maiore oneratur sarcina peccatorum?» Chi muore in grazia di Dio, si mette in istato di non potere, né saper più offenderlo. «Mortuus nescit peccare», dicea lo stesso Santo. Perciò il Signore loda più i morti, che qualunque uomo, che vive, ancorché santo: «Laudavi magis mortuos, quam viventes» (Eccl. 4. 2). Un certo uomoda bene ordinò che nella sua morte chi gliene avesse portato l’avviso, gli avesse detto: Consolati, perché giunto è il tempo che non offenderai più Dio.

Affetti e preghiere

«In manus tuas commendo spiritum meum; redemisti me, Domine Deus veritatis».Ah mio dolce Redentore, che sarebbe di me, se mi aveste fatto morire, quando io stava lontano da Voi? Starei già nell’inferno, dove non vi potrei più amare. Vi ringrazio di non avermi abbandonato e di avermi fatte tante grazie, per guadagnarvi il mio cuore. Mi pento di avervi offeso. V’amo sopra ogni cosa. Deh vi prego, fatemi sempre più conoscere il male che ho fatto in disprezzarvi, e l’amore che merita la vostra bontà infinita. V’amo, e desidero presto di morire (se a Voi così piace) per liberarmi dal pericolo di tornare a perdere la vostra grazia, e per assicurarmi di amarvi in eterno. Deh per questi anni che mi restano di vita, amato mio Gesù, datemi forza di fare qualche cosa per Voi, prima che venga la morte. Datemi fortezza contro le tentazioni e le passioni, specialmente contro la passione che per lo passato più mi ha tirato a disgustarvi. Datemi pazienza nelle infermità e nell’ingiurie che riceverò dagli uomini. Io ora per amor vostro perdono ognuno che mi ha fatto qualche disprezzo, e vi prego a fargli quelle grazie che desidera. Datemi forza di esser più diligente ad evitare anche le colpe veniali, circa le quali conosco d’esser trascurato. Mio Salvatore, aiutatemi, io spero tutto ne’ meriti vostri; e tutto confido nella vostra intercessione, o Madre e speranza mia Maria.

PUNTO III

La morte non solo è fine de’ travagli, ma ancora è porta della vita. «Finis laborum, vitae ianua», come dice S. Bernardo.Necessariamente dee passare per questa porta, chi vuol entrare a veder Dio. «Ecce porta Domini, iusti intrabunt in eam» (Ps. 117. 20). S. Girolamopregava la morte, e le diceva: «Aperi mihi, soror mea». Morte, sorella mia, se tu non mi apri la porta, io non posso andare a godere il mio Signore. S. Carlo Borromeo, vedendo un quadro in sua casa, dove stava dipinto uno scheletro di morto colla falce in mano; chiamò il pittore e gli ordinò che cancellasse quella falce e vi dipingesse una chiave d’oro, volendo con ciò sempre più accendersi al desiderio della morte, perché la morte è quella che ci ha d’aprireil paradiso a vedere Dio.

Dice S. Gio. Grisostomo se ‘l re avesse apparecchiata ad alcuno l’abitazione nella sua reggia, ma al presente lo tenesse ad abitare in una mandra, quanto dovrebbe colui desiderar di uscir dalla mandra, per passare alla reggia? In questa vita l’anima stando nel corpo, sta come in un carcere, per di là uscire ed andare alla reggia del cielo; perciò pregava Davide: «Educ de custodia animam meam» (Ps. 141. 8). E ‘l santo vecchio Simeone, quando ebbe tra le braccia Gesù Bambino, non seppe altra grazia cercargli che la morte, per esser liberato dal carcere della presente vita: «Nunc dimittis servum tuum, Domine». Dice S. Ambrogio: «Quasi necessitate teneretur, dimitti petit». La stessa grazia desiderò l’Apostolo, quando disse: «Cupio dissolvi, et esse cum Christo» (Philip. 1).

Quale allegrezza ebbe il coppiere di Faraone, quando intese da Giuseppe che tra breve doveva uscire dalla prigione e ritornare al suo posto! Ed un’anima che ama Dio, non si rallegrerà in sentire che tra breve deve essere scarcerata da questa terra, ed andare a godere Dio? «Dum sumus in corpore, peregrinamur a Domino» (2. Cor. 5. 6). Mentre siamo uniti col corpo, siamo lontani dalla vista di Dio, come in terra aliena, e fuori della nostra patria; e perciò dice S. Brunoneche la nostra morte non dee chiamarsi morte ma vita: «Mors dicenda non est, sed vitae principium». Quindi la morte de’ Santi si nomina il lor natale; sì perché nella loro morte nascono a quella vita beata, che non avrà più fine. «Non est iustis mors, sed translatio», S. Attanagio.A’ giusti la morte non è altro, che un passaggio alla vita eterna. O morte amabile, dicea S. Agostino,e chi sarà colui che non ti desidera, giacché tu sei il termine de’ travagli, il fine della fatica e ‘l principio del riposo eterno? «O mors desiderabilis, malorum finis, laboris clausula, quietis principium!» Pertanto con ansia pregava il Santo:«Eia moriar, Domine, ut Te videam».

Ben deve temere la morte, dice S. Cipriano,il peccatore, che dalla sua morte temporale ha da passare alla morte eterna: «Mori timeat, qui ad secundam mortem de hac morte transibit». Ma non già chi stando in grazia di Dio, dalla morte spera di passare alla vita. Nella Vita di S. Giovanni Limosinario si narra che un cert’uomo ricco raccomandò al Santo l’unico figlio che aveva, e gli diè molte limosine, affinché gli ottenesse da Dio lunga vita; ma il figlio poco tempo dopo se ne morì. Lagnandosi poi il padre della morte del figlio, Dio gli mandò un Angelo che gli disse: Tu hai cercata lunga vita al tuo figlio, sappi che questa eternamente egli già gode in cielo. Questa è la grazia, che ci ottenne Gesu-Cristo, come ci fu promesso per Osea: «Ero mors tua, o mors» (Os. 13. 41). Gesù morendo per noi fe’ che la nostra morte diventasse vita. S. Pionio Martire, mentr’era portato al patibolo, fu dimandato da coloro che lo conducevano, come potesse andare così allegroalla morte? Rispose il Santo: «Erratis, non ad mortem, sed ad vitam contendo» (Ap. Euseb. l. 4. c. 14). Così ancora fu rincorato il giovinetto S. Sinforiano dalla sua madre, mentre stava prossimo al martirio: «Nate, tibi vita non eripitur, sed mutatur in melius».

Affetti e preghiere

Oh Dio dell’anima mia, io vi ho disonorato per lo passato, voltandovi le spalle; ma vi ha onorato il vostro Figlio, sagrificandovi la vita sulla croce; per l’onore dunque che vi ha dato il vostro diletto Figlio, perdonatemi il disonore che v’ho fatt’io. Mi pento, o sommo bene, d’avervi offeso, e vi prometto da oggi avanti di non amare altro che Voi. La mia salvezza da Voi la spero. Quanto al presente ho di bene, tutto è grazia vostra, tutto da Voi lo riconosco. «Gratia Dei sum id quod sum». Se per lo passato v’ho disonorato, spero d’onorarvi in eterno con benedire la vostra misericordia. Io mi sento un gran desiderio di amarvi; questo Voi me lo date, ve ne ringrazio, amor mio. Seguite, seguite ad aiutarmi, come avete cominciato, ch’io spero da ogg’innanzi d’esser vostro e tutto vostro. Rinunzio a tutt’i piaceri del mondo. E che maggior piacere posso aver io, che dar gusto a Voi, mio Signore così amabile, e che mi avete tanto amato? Amore solamente vi cerco, o mio Dio, amore, amore; e spero di cercarvi sempre amore, amore; finchémorendo nel vostro amore, io giunga al regno dell’amore, dove senza più domandarlo sarò pieno d’amore, senza mai cessare un momento di amarvi ivi in eterno, e con tutte le mie forze.

Maria Madre mia, Voi che tanto amate il vostro Dio, e tanto desiderate di vederlo amato, fate che iol’ami assai in questa vita, acciocché io l’ami assai nell’altra per sempre.

(SANT’ ALFONSO MARIA DE’ LIGUORI da “APPARECCHIO ALLA MORTE”)

Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori: “Dell’amore divino e dei mezzi per acquistarlo” “In un cuore ch’è pieno di terra non vi trova luogo l’amore di Dio; e quanto vi è più di terra tanto meno vi regna il divino amore. Perciò chi desidera di avere il cuore pieno di amor divino deve attendere a toglierne tutta la terra”

Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori, Dottore della Chiesa

Dell’amore divino e dei mezzi per acquistarlo

 

Oh bel tesoro è il tesoro del divino amore, felice chi lo possiede: ponga tutta la cura e prenda tutti i mezzi necessari per conservarlo ed accrescerlo; e chi non ancor lo possedesse, deve adoperar tutti i mezzi per acquistarlo.

Vediamo ora quali sono i mezzi più necessari ed atti ad acquistarlo e conservarlo.

1. Il primo mezzo è distaccarsi dagli affetti terreni.

In un cuore ch’è pieno di terra non vi trova luogo l’amore di Dio; e quanto vi è più di terra tanto meno vi regna il divino amore. Perciò chi desidera di avere il cuore pieno di amor divino deve attendere a toglierne tutta la terra. Per farci santi bisogna imitare S. Paolo che, per guadagnarsi l’amore di Gesù Cristo, disprezzava come sterco tutti i beni di questo mondo: Arbitror omnia ut stercora, ut Christum lucrifaciam (Philip. III, 8). Eh, preghiamo lo Spirito Santo che c’infiammi del suo santo amore, perché allora anche noi disprezzeremo e terremo per vanità, per fumo e fango, tutte le ricchezze, diletti, onori e dignità di questa terra, per cui la maggior parte degli uomini miseramente si perde.

9. Eh, che quando in un cuore entra il santo amore, non si fa più conto di tutto ciò che il mondo stima: Si dederit homo omnem substantiam domus suae pro dilectione, quasi nihil despiciet eam (Cant. VIII, 7). Dice S. Francesco di Sales che quando la casa va a fuoco si gittano tutte le robe per la finestra; e volea dire che quando in un cuore arde l’amore divino, l’uomo, senza prediche e senza esortazioni del padre spirituale, da sé cerca spogliarsi de’ beni mondani, degli onori, delle ricchezze e di tutte le cose di terra, per non amare altro che Dio. S. Caterina da Genova dicea che non amava Dio per li suoi doni, ma amava i doni di Dio per più amare Dio.

10. Scrive Giliberto che ad un cuore amante di Dio è cosa dura ed insoffribile dividere il suo amore fra Dio e le creature del mondo, amando nello stesso tempo Dio e le creature: Oh quam durum est amanti animum dimidiare cum Cristo et mundo! (Gilib. Serm. 11. in Cant.) Dice all ‘incontro S. Bernardo che l’amore divino è insolente: Amor insolens est: s’intende insolente, perché Dio non soffre in un cuore che ama di aver compagni nell ‘amore, mentre lo vuole tutto per sé. – Forse Dio pretende troppo volendo che un’anima non ami altri che lui? Summa diligibilitas, avverte S. Bonaventura, unice amari debet. Un’amabilità, una bontà infinita che merita un infinito amore, qual è Dio, giustamente pretende di esser solo ad essere amato da un cuore da lui creato a posta acciocché l’ami; mentre a tal fine, di essere unicamente amato, è giunto a spendersi tutto per quel cuore, come dicea S. Bernardo di sé, parlando dell’amore che gli avea portato Gesù Cristo: Totus in meos usus expensus. Il che può dire e ben dee dire ciascuno di noi pensando a Gesù Cristo, che per ciascuno di noi ha sagrificata tutta la sua vita e tutto il suo sangue morendo su d’una croce consumato da’ dolori; e che dopo la sua morte ci ha lasciato il suo corpo, il suo sangue, la sua anima e tutto se stesso nel Sagramento dell’altare, acciocché siano cibo e bevanda delle anime nostre, e così ognuno di noi fosse tutto unito a lui stesso.

11. Felice quell’anima, scrive S. Gregorio, che giunge a tale stato che se le rende insoffribile ogni cosa che non è Dio unicamente da lei amato: Intolerabile est quidquid non sonat Deum, quem intus amat (S. Greg. Lib. 2 Mor. cap. 2). Perciò bisogna che ci guardiamo di mettere affetto alle creature, acciocché non ci rubino parte dell’amore che Dio vuole tutto per sé. Ed ancorché questi affetti sieno onesti, come son quelli che si portano a’ parenti o amici, bisogna avvertire quel che dice S. Filippo Neri, che quanto di amore noi mettiamo alle creature tanto ne togliamo a Dio.

12. Dobbiamo pertanto renderci orti chiusi, siccome fu chiamata dal Signore la sagra sposa dei Cantici: Hortus conclusus soror mea sponsa. (Cant. IV, 12). Orto chiuso chiamasi quell’anima che tiene chiusa la porta a tutti gli affetti verso le cose terrene. Quando dunque alcuna creatura vuol entrare a prendersi parte del nostro cuore, bisogna negarle affatto l’entrata, ed allora dobbiamo voltarci a Gesù Cristo e dirgli: Gesù mio, voi solo mi bastate; io non voglio amare altro che voi; Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 26). Mio Dio, voi avete da essere l’unico Signore del mio cuore, l’unico mio amore. E perciò non cessiamo di chiedere sempre a Dio che ci doni la grazia del suo puro amore, poiché, scrive S. Francesco di Sales: “Il puro amore di Dio consuma tutto ciò che non è Dio, per convertire ogni cosa in sé”.

2. Il secondo mezzo per acquistare l’amor divino è meditare la Passione di nostro Signore Gesù Cristo.

Circa questo punto il mio lettore può leggere il mio libro da poco tempo stampato, intitolato Riflessioni sulla Passione di Gesù Cristo, dove troverà a lungo esaminate le pene che nella sua Passione patì il nostro Salvatore.

Del resto è certo che l’essere nel mondo così poco amato Gesù Cristo nasce dalla trascuraggine e dalla ingratitudine degli uomini, di non voler considerare, almeno da quando in quando, quanto ha patito Gesù Cristo per noi e l’amore col quale per noi ha patito. Stultum visum est hominibus, scrisse S. Gregorio, Deum pro nobis mori; Sembra, dice S. Gregorio, una pazzia aver voluto un Dio morire per salvare noi miserabili servi; ma pure è di fede che Dio l’ha fatto: Dilexit nos et tradidit semetipsum pro nobis (Eph. V, 2); ed ha voluto spargere tutto il suo sangue per lavare con quello i nostri peccati: Dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo (Apoc. I, 5).

14. Dice S. Bonaventura: Mio Dio, voi tanto mi avete amato, che pare che per amor mio siete giunto a odiare voi stesso: In tantum me diligis, Deus meus, ut te odisse videaris (S. Bonav. in Stim. amor.). E di se stesso egli ha voluto poi che noi ci fossimo cibati nella santa comunione. E qui ripiglia S. Tommaso l’Angelico e dice, parlando di questo SS. Sagramento, che Dio si è umiliato con noi quasi fosse nostro servo, e come ognuno di noi fosse suo Dio: Quasi esset servus eorum, et quilibet eorum esset Dei Deus (S. Thom. op. de sacr. Euch.).

15. Quindi l’Apostolo prende a dire: Caritas enim Christi urget nos (II Cor. V, 14). Dice S. Paolo che l’amore che ci ha portato Gesù Cristo ci stringe, ci sforza in certo modo ad amarlo. Oh Dio, che non fanno gli uomini per amore di qualche creatura quando le pongono affetto? Ed un Dio poi d’infinita bontà, d’infinita bellezza, e ch’è giunto a morire per ciascuno di noi su d’una croce, tanto poco si ama? Deh imitiamo tutti l’Apostolo che diceva: Mihi autem absit gloriari, nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi (Gal. VI, 14). Diceva il S. Apostolo: E qual maggior gloria io posso sperare nel mondo, che avere avuto un Dio che per amor mio ha dato il sangue e la vita? E ciò deve dirlo ogni uomo che ha fede; e se ha fede, come potrà amare altro che Dio? Oh Dio, com’è possibile che un’anima, contemplando Gesù crocifisso che appeso a tre chiodi pende dalle sue medesime piaghe delle mani e dei piedi, e muore di puro dolore per nostro amore, non si veda tirato e quasi costretto ad amarlo con tutte le forze?

3. Il terzo mezzo per giungere al perfetto amor di Dio è l’uniformarsi in tutto alla divina volontà.

Dice S. Bernardo che il perfetto amante di Dio non potest velle nisi quod Deus vult (S. Bernard. Sermo ad Fratr.). Molti dicono con la bocca di star rassegnati a quel che vuole Dio; ma quando poi loro avviene qualche cosa contraria, qualche infermità molesta, non si possono dar pace. Non fanno così l’anime veramente uniformate; elle dicono: Così piace o Così è piaciuto all’amato, e subito si quietano. Amori sancto omnia dulcia sunt, dice S. Bonaventura.Sanno quest’anime che quanto nel mondo avviene tutto avviene o comandato o permesso da Dio, e perciò per quanto succede abbassano la testa umilmente e vivon contente di quanto il Signore dispone. E quantunque spesso Iddio non vuole che gli altri ci perseguitino e facciano danno, vuole non però, per giusti fini, che noi soffriamo pazientemente quella persecuzione, quel danno, che ci dispiace.

17. Diceva S. Caterina da Genova: “Se Dio mi avesse posta nel fondo dell’inferno, pure direi: Bonum est nos hic esse. Direi: mi basta che qui mi trovo per volontà dell’amato, il quale mi ama più di tutti, e sa quello ch’è meglio per me.”

Bel riposare è riposare in mano della divina volontà.

18. Dice S. Teresa: “Tutto quel che dee procurare chi si esercita nell’orazione è di conformar la sua volontà colla divina, nel che consiste la più alta perfezione.”Perciò bisogna replicar sempre a Dio la preghiera di Davide: Doce me facere voluntatem tuam (Ps. CXLII, 10): Signore, giacché mi vuoi salvo, insegnami a far sempre la tua volontà. – L’atto più perfetto d’amore che può fare un’anima verso Dio è quello che fece S. Paolo quando si convertì e disse: Domine, quid me vis facere? (Act. IX, 6.) Signore, ditemi quel che volete da me, ch’io son pronto a farlo; vale più quest’atto che mille digiuni e mille discipline. Questa dev’essere la mira di tutte le nostre opere, desideri e preghiere, il far la divina volontà. In ciò dobbiam pregare la nostra divina Madre, i santi avvocati, i nostri angeli custodi, che ci ottengano la grazia di adempire il volere di Dio. E quando ci occorrono cose contrarie al nostro amor proprio, allora con un atto di rassegnazione si guadagnano tesori di meriti: avvezziamoci allora a replicare quei detti che Gesù stesso ci ha insegnati col suo esempio. Calicem, quem dedit mihi Pater, non bibam illum? (Io. XVIII, 11.) O pure: Ita Pater, quoniam sic fuit placitum ante te (Math. XI, 26): Signore, così è piaciuto a voi, così piace anche a me. O pure col divoto Giobbe diciamo: Sicut Domino placuit, ita factum est; sit nomen Domini benedictum (Iob. I, 21). Diceva il Ven. Maestro d’Avila che “vale più nelle cose avverse un Benedetto sia Dio, che mille ringraziamenti nelle cose prospere”E qui bisogna ripetere come sovra: bel riposare è riposare in mano della volontà di Dio, poiché allora si avvera il detto dello Spirito Santo: Non contristabit iustum, quidquid ei acciderit (Prov. XII, 21).

4. Il quarto mezzo per innamorarci di Dio è l’orazione mentale.

Le verità eterne non si vedono cogli occhi di carne, come si mirano le cose visibili di questa terra, ma si vedono solamente col pensiero, colla considerazione; onde se non ci fermiamo per qualche parte di tempo a considerare l’eterne verità, e specialmente l’obbligo di amare il nostro Dio per quanto lo merita e per tanti benefici che ci ha fatti e per l’amore che ci ha portato, difficilmente un’anima si scioglie dall’affetto delle creature e ripone tutto il suo amore in Dio. Nell’orazione il Signore fa conoscere la viltà delle cose terrene e ‘l pregio de’ beni celesti; ed ivi infiamma del suo amore quei cuori che non resistono alle sue chiamate.

Molte anime poi si lamentano che vanno all’orazione e non vi trovano Dio; non vi trovano Dio, perché vi vanno col cuore pieno di terra. “Distacca il cuore dalle creature, dice S. Teresa, e cerca Dio, che lo troverai.” Il Signore è tutto bontà con chi lo cerca: Bonus est Dominus… animae quaerenti illum (Thren. III, 25). Per trovare dunque Dio nell’orazione, bisogna che si spogli l’anima dell’affetto alle cose della terra, ed allora Iddio le parlerà: Ducam eam in solitudinem, et loquar ad cor eius (Os. II, 14). Ma per trovare Dio, avverte S. Gregorio che non basta aver la solitudine del corpo, ma vi bisogna anche quella del cuore. Disse un giorno il Signore a S. Teresa: “Volentieri io parlerei a molte anime, ma il mondo fa tanto strepito nel loro cuore, che la mia voce non può sentirsi.” Ah che quando si mette nell’orazione un’anima distaccata, Dio ben le parla e le fa conoscere l’amore che le porta; e l’anima allora, dice un autore, ardendo di santo amore, non parla, ma in quel silenzio, oh quanto dice: “Il silenzio della carità, scrive questo autore, dice più a Dio, che tutta l’eloquenza umana; ogni sospiro scuopre tutto il suo interno.” Allora non si sazia di replicare: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16).

5. Il quinto mezzo per giungere ad un grado eminente di amor divino è la preghiera.

Noi siamo poveri di tutto, ma se preghiamo siamo ricchi di tutto, poiché Dio ha promesso di esaudire ognun che lo prega. Egli dice: Petite et dabitur vobis (Matth. VII, 7). Qual maggiore affetto può dimostrare un amico ad un altro, che dirgli: Domandami quel che vuoi e te lo darò? Questo dice il Signore ad ognuno di noi. Iddio è il Signore del tutto; promette di dare quanto gli si domanda; se dunque siamo poveri, è colpa nostra, perché non gli domandiamo le grazie che ci bisognano. E perciò l’orazione mentale è moralmente necessaria a tutti, perché fuori dell’orazione, quando stiamo intricati nelle cure del mondo, poco pensiamo all’anima; ma quando ci mettiamo all’orazione, noi vediamo i bisogni dell’anima nostra, ed allora domandiamo le grazie e l’otteniamo.

21. Tutta la vita de’ santi è stata vita di orazione e di preghiere, e tutte le grazie con cui si son fatti santi, colle preghiere le han ricevute. Se vogliamo dunque salvarci e farci santi, dobbiamo sempre stare alle porte della divina misericordia a pregare e chiedere per limosina tutto quel che ci bisogna. Ci bisogna l’umiltà, domandiamola e saremo umili; ci bisogna la pazienza nelle tribulazioni, domandiamola e saremo pazienti; desideriamo l’amore divino, domandiamolo e l’otterremo. Petite et dabitur vobis, è promessa di Dio che non può mancare. E Gesù Cristo per darci maggior confidenza nel pregare, ci ha promesso che quante grazie noi chiederemo al Padre in nome di lui o per li meriti di lui, tutte il Padre ce le darà: Amen, amen dico vobis: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XVI, 23). Ed in altro luogo disse: Quel che cercherete a me stesso in nome mio, per li meriti miei, io lo farò: Si quid petieritis me in nomine meo, hoc faciam (Io. XIV, 14). Sì, perché è di fede che quanto può Iddio, tanto può Gesù Cristo che è suo figlio.

22. Siasi un’anima fredda nel divino amore quanto si voglia, se questa ha fede, io non so come possa non vedersi spinta ad amar Gesù Cristo, considerando anche alla sfuggita quel che dicono le sacre Scritture dell’amore che ci ha portato Gesù Cristo nella sua Passione e nel SS. Sagramento dell’altare. – In quanto alla Passione scrive Isaia: Vere languores nostros ipse tulit, et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII, 4). E nel seguente verso scrisse: Ipse autem vulneratus est propter iniquitates nostras, attritus est propter scelera nostra. Sicché è di fede che Gesù Cristo ha voluto soffrire sovra di sé le pene e i dolori per liberarne noi a cui erano dovute. E ciò perché l’ha fatto, se non per l’amore che ci ha portato? Christus dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis, così dice S. Paolo (Ephes. V, 2). E S. Giovanni dice: Qui dilexit nos, et lavit nos a peccatis nostris in sanguine suo (Apoc. I, 5). – In quanto poi al Sagramento eucaristico, disse Gesù medesimo a tutti noi quando l’istituì: Accipite et manducate: hoc est corpus meum (I Cor. XI, 24). E in altro luogo: Qui manducat meam carnem, et bibit meum sanguinem, in me manet et ego in illo (Io. VI, 57). Un uomo che ha fede come ciò può leggere e non sentirsi quasi forzato ad amar questo Redentore che dopo aver sagrificato il sangue e la vita per di lui amore, gli ha lasciato il suo corpo nel Sagramento dell’altare, affinché sia cibo della di lui anima, e seco tutto si unisca nella santa comunione?

23. Si soggiunge un’altra breve riflessione sulla Passione di Gesù Cristo. Egli si fa vedere su d’una croce trafitto da tre chiodi, che da per tutto manda sangue, ed agonizza tra i dolori della morte. Dimando: Perché si fa Gesù mirar da noi in tale stato così compassionevole? Solo forse acciocché noi lo compatiamo? No, che non tanto per esser da noi compatito, quanto per esser da noi amato egli si è ridotto a tal miserevole stato. Doveva a ciascuno di noi esser motivo più che bastante di amarlo, l’averci fatto sapere ch’egli ci ama sin dall’eternità: In caritate perpetua dilexi te (Ier. XXXI, 3). Ma vedendo il Signore che ciò non bastava alla nostra tepidezza per muoverci ad amarlo come desiderava, ha voluto dimostrarci praticamente così coi fatti l’amore che ci portava, con farsi vedere pieno di piaghe morir di dolore per nostro amore, per farc’intendere co’ suoi patimenti l’amore immenso e tenero che per noi conserva. Ciò ben lo spiegò S. Paolo con quelle parole: Dilexit nos, et tradidit semetipsum pro nobis (Ephes. V, 2).

(Sant’ Alfonso Maria de’ Liguori – Dell’amore divino e dei mezzi per acquistarlo)

Pio XII «Il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». -Effetti del peccato impuro sull’anima, prima che sopraggiunga la morte-

 

Insegna Pio XII, «il più grande peccato di oggi è che gli uomini hanno perduto il senso del peccato». Perduto o laicizzato: essi possono avere ancora il senso della colpa, un complesso di colpevolezza, ma non più il vero senso del peccato. Perciò bisogna ritrovare il vero senso di Dio e dell’uomo, della creatura davanti al suo Creatore; il peccato non è una semplice mancanza, una contravvenzione, un mancamento: è una ribellione a Dio stesso, è porre i beni transitori prima o al posto del Bene ultimo, che è Dio; anche la contrizione è ben altra dal semplice dispetto di aver compiuto qualcosa di irregolare. Bisogna tornare a concepire il peccato nel suo senso teologico di offesa a Dio, il che suppone una retta conoscenza della psicologia del peccatore e della sua vera responsabilità. 

Effetti del peccato impuro sull’anima, prima che sopraggiunga la morte

Colui che pecca con piena consapevolezza e deliberato consenso contro la purezza, assecondando lo spirito di lussuria compie un atto gravemente disordinato di disaffezione nei confronti di Dio. Trattandosi di peccato mortale, l’anima subisce una netta separazione da Dio. L’affezione al peccato anestetizza, ammutolisce la voce della coscienza, la “voce di Dio” che costantemente richiama l’uomo sulla retta via e pertanto conduce verso un progressivo abbrutimento dell’anima, che si manifesta con la comparsa di comportamenti istintuali e peccaminosi. “Il peccato genera peccato”(cf Mc 4,25).

A proposito di questa “anestesia della coscienza” si legga quanto afferma S. Alfonso Maria de Liguori:

CONSIDERAZIONE XXII – DEL MAL’ABITO

Uno de’ maggiori danni, che a noi cagionò il peccato di Adamo, fu la mala inclinazione al peccare. Ciò facea piangere l’Apostolo, in vedersi spinto dalla concupiscenza verso quegli stessi mali, ch’egli abborriva: «Video aliam legem in membris meis… captivantem me in lege peccati» (Rom. 7. 23). E quindi riesce a noi, infettati da questa concupiscenza, e con tanti nemici che ci spingono al male, sì difficile il giungere senza colpa alla patria beata. Or posta una tal fragilità che abbiamo, io dimando: Che direste voi d’un viandante, che dovesse passare il mare in una gran tempesta, con una barca mezza rotta, ed egli poi volesse caricarla di tal peso, che senza tempesta, e quantunque la barca fosse forte, anche basterebbe ad affondare? Che prognostico fareste della vita di costui? Or dite lo stesso d’un mal abituato che dovendo passare il mare di questa vita (mare in tempesta, dove tanti si perdono) con una barca debole e ruinata, qual’è la nostra carne, a cui stiamo uniti, questi volesse poi aggravarla di peccati abituati. Costui è molto difficile che si salvi, perché il mal’abito accieca la mente, indurisce il cuore, e con ciò facilmente lo rende ostinato sino alla morte.

Per prima il mal’abito «accieca». E perché mai i santi sempre cercano lume a Dio, e tremano di diventare i peggiori peccatori del mondo? perché sanno che se in un punto perdon la luce, possono commettere qualunque scelleragine. Come mai tanti cristiani ostinatamente han voluto vivere in peccato, sino che finalmente si son dannati? «Excaecavit eos malitia eorum» (Sap. 2. 21). Il peccato ha tolto loro la vista, e così si son perduti. Ogni peccato porta seco la cecità; accrescendosi i peccati, si accresce l’accecazione. Dio è la nostra luce; quanto più dunque l’anima si allontana da Dio, tanto resta più cieca. «Ossa eius implebuntur vitiis» (Iob. 20. 11). Siccome in un vaso, ch’è pieno di terra, non può entrarvi la luce del sole, così in un cuore pieno di vizi non può entrarvi la luce divina.

GLI EFFETTI DEL PECCATO IMPURO SULL’ANIMA

Come dice San Tommaso d’Aquino della Summa Theologica “ Niente impedisce che l’effetto di un peccato sia causa di un altro. Infatti dal momento che l’anima viene disordinata da un peccato, più facilmente è inclinata a peccare”. 

Quando un’anima commette un peccato si dice che questa viene macchiata. Cos’è questa macchia?

Dice San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 86: 

[…]In senso proprio si parla di macchia per le cose materiali, quando un corpo nitido, p. es., l’oro, l’argento, o una veste, perde la sua lucentezza a contatto con altri corpi. Perciò nelle cose spirituali se ne deve parlare per analogia a codesta macchia. Ora, l’anima umana può avere due tipi di lucentezza: l’una dovuta allo splendore della luce naturale della ragione, che la dirige nei suoi atti; l’altra dovuta allo splendore della luce divina, cioè della sapienza e della grazia, che porta l’uomo a compiere il bene dovuto. Ma quando l’anima aderisce con l’amore a una cosa, si ha come un contatto di essa. E quando pecca aderisce a qualche cosa che è contraria alla luce della ragione e della legge divina, com’è evidente da quanto sopra abbiamo detto. Ebbene, codesta perdita di luminosità metaforicamente è chiamata macchia dell’anima.

SOLUZIONE DELLE DIFFICOLTÀ:

1. L’anima non viene macchiata dalle cose inferiori per la virtù di esse, come se queste agissero su di essa: al contrario è l’anima che col suo agire si sporca, aderendo ad esse disordinatamente, contro la luce della ragione e della legge divina.

2. L’atto intellettivo si compie con la presenza delle cose intelligibili nell’intelletto; perciò l’intelletto non può esserne macchiato, ma piuttosto ne riceve un perfezionamento. Invece l’atto della volontà consiste in un moto verso le cose, cosicché l’amore unisce l’anima alla cosa amata. Per questo l’anima si macchia quando vi aderisce disordinatamente, secondo il detto di Osea: “Diventarono abominevoli come le cose che amarono”.

3. La macchia non è qualche cosa di positivo nell’anima, e non indica una semplice privazione: indica invece una privazione della lucentezza dell’anima in rapporto alla sua causa, cioè al peccato. Perciò peccati diversi arrecano macchie diverse. Avviene qualche cosa di simile con l’ombra, privazione della luce dovuta all’interposizione di un corpo: secondo la diversità dei corpi le ombre cambiano. […]

La macchia rimane nell’anima anche dopo l’attaccamento 

[…] RISPONDO: La macchia del peccato resta nell’anima anche dopo l’atto peccaminoso. E la ragione si è che la macchia importa, come si è visto, un difetto di luminosità dovuto a un rifiuto di fronte alla luce della ragione, o della legge divina. Perciò finché uno rimane estraneo a codesta luce, resta in lui la macchia del peccato: questa scompare soltanto col ritorno della luce di Dio e della ragione, mediante la grazia. Infatti, pur cessando l’atto del peccato, col quale si era allontanato dalla luce della ragione e della legge divina, l’uomo non torna immediatamente al punto in cui era; ma si richiede un moto della volontà contrario al precedente. Se uno, p. es., si allontana da una persona con una camminata, non si ritrova subito vicino a lei appena smette di camminare, ma deve riavvicinarsi tornando con un moto contrario.[…]

Il peccato è una terribile forza disgregatrice, che provoca lentamente ed inesorabilmente la rovina dell’anima. E’ più che evidente la differenza tra una persona che ha costruito la propria anima, attraverso decisioni e azioni, nella propria libertà, seguendo un percorso tracciato nel bene, e un’altra persona che con decisioni e azioni malvage, si è costruita nel male, acconsentendo al male, piuttosto che combatterlo. In sintesi: tra bontà e perversione la differenza è abissale! Il potere del peccato abbrutisce l’umanità, degradandola attraverso una via discendente, che ci avvicina all’animalità, privando per gradi dell’autentica dignità originaria: lo spirito si asservisce alla carne, che prende il sopravvento senza alcun controllo. La via discendente, la via del piacere, la via della carne, è quella che conduce a Satana. Questo è il percorso nel quale la coscienza individuale perde la sua sensibilità, dove è sempre più difficile distinguere tra il bene e il male: progressivamente l’anima muore, nel senso che cade totalmente immersa nelle tenebre del nulla; si vive solo per soddisfare l’istinto e l’egoismo. In questo processo, ha la sua genesi il peccato mortale: totale separazione da Dio, anticipazione della sofferenza eterna. 

Se non interviene la Grazia di Dio, se l’anima non ritorna a Dio(=confessione del peccato), convertendo il proprio cuore cambiando radicalmente strada, da un cammino discendente verso un cammino ascendente, l’anima in stato di peccato mortale continuerà a vivere nella separazione da Dio per tutta l’eternità! 

Effetti del peccato impuro sull’anima, in seguito alla morte

Come abbiamo precedentemente accennato, l’anima che fino alla fine della propria vita terrena rimane tenacemente legata alla propria situazione di peccato mortale, morendo impenitente sarà necessariamente destinata all’inferno. 

Qualcuno, evidentemente poco addentrato nella s. teologia potrà ritenere eccessive queste parole sui castighi che Dio infligge.
Per queste persone aggiungo il seguente testo di Paolo VI , Papa, tratto dalla “Indulgentiarum doctrina”al n. 2 

“ È dottrina divinamente rivelata che i peccati comportino pene inflitte dalla santità e giustizia di Dio, da scontarsi sia in questa terra, con i dolori, le miserie e le calamità di questa vita e soprattutto con la morte, sia nell’aldilà anche con il fuoco e i tormenti o con le pene purificatrici. Perciò i fedeli furono sempre persuasi che la via del male offre a chi la intraprende molti ostacoli, amarezze e danni. Le quali pene sono imposte secondo giustizia e misericordia da Dio per la purificazione delle anime, per la difesa della santità dell’ordine morale e per ristabilire la gloria di Dio nella sua piena maestà. Ogni peccato, infatti, causa una perturbazione nell’ordine universale, che Dio ha disposto nella sua ineffabile sapienza ed infinita carità, e la distruzione di beni immensi sia nei confronti dello stesso peccatore che nei confronti della comunità umana. Il peccato, poi, è apparso sempre alla coscienza di ogni cristiano non soltanto come trasgressione della legge divina, ma anche, sebbene non sempre in maniera diretta ed aperta, come disprezzo e misconoscenza dell’amicizia personale tra Dio e l’uomo. Così come è pure apparso vera ed inestimabile offesa di Dio, anzi ingrata ripulsa dell’amore di Dio offerto agli uomini in Cristo, che ha chiamato amici e non servi i suoi discepoli.”

Come dice la Scrittura: non c’è pace per gli empi!! Chi pecca non avrà mai la vera pace, perché la pace viene dalla carità, è dono di Dio e non si potrà mai trovare in chi è contro Dio! 

Dunque siamo nell’alveo della vera teologia cattolica si noti la distinzione che il Papa fa tra le pene del fuoco e i tormenti che dicono la pena, e dunque la punizione, che è propria dell’inferno, ed è eterna, e le pene purificatrici, che sono proprie del Purgatorio, e che sono limitate nel tempo.
Questa falsa cultura di cui dicevo tende precisamente a nascondere la reale gravità morale della lussuria e la pena terribile che ad essa segue, presentando il peccato che è un grave male come un grande bene. Di questi tali, paladini dell’inganno e del male, Dio, per bocca del profeta Isaia, afferma “Guai a coloro che chiamano bene il male e male il bene, che cambiano le tenebre in luce e la luce in tenebre, che cambiano l’amaro in dolce e il dolce in amaro.” (Isaia 5:20)

Circa il merito di una pena eterna per chi muore in condizione di peccato mortale, afferma San Tommaso d’Aquino nella Summa Theologica, Questione 87: 

[…]un peccato merita una punizione in quanto sconvolge un dato ordine. E finché rimane la causa, rimane anche l’effetto. Quindi finché dura il sovvertimento dell’ordine, deve rimanere l’obbligazione alla pena. Ora, uno può sconvolgere l’ordine in modo riparabile, o in modo irreparabile. Ebbene, irreparabile è la mancanza che ne elimina il principio stesso: invece se ne salva il principio, in virtù di esso le deficenze si possono riparare. Se si corrompe, p. es., il principio visivo, la vista non è più ricuperabile, se non per virtù divina: se invece la vista soffre delle difficoltà, ma ne è salvo il principio, è ancora riparabile per la natura o per l’arte. Ma ogni ordine ha un principio in rapporto al quale le altre cose ne divengono partecipi. Se quindi il peccato distrugge il principio dell’ordine, col quale la volontà umana è sottomessa a Dio, si avrà un disordine di per sé irreparabile, sebbene possa essere riparato dalla virtù di Dio. Ora, il principio di quest’ordine è il fine ultimo, al quale l’uomo aderisce con la carità. Perciò tutti i peccati che ci distaccano da Dio, col distruggere la carità, di per sé importano un’obbligazione alla pena eterna.
[…]
come insegna S. Gregorio, è giusto che sia punito nell’eternità di Dio, chi osò peccare contro Dio nell’eternità del proprio essere. E si dice che uno ha peccato nell’eternità del proprio essere, non solo per la continuità dell’atto peccaminoso durante tutta la sua vita: ma perché costituendo il proprio fine nel peccato, mostra la volontà di voler peccare eternamente. Perciò S. Gregorio afferma, che “gli iniqui avrebbero voluto vivere senza fine, per poter rimanere senza fine nel peccato”.  

I Santi ci dicono di non tralasciare mai la meditazione

 

NECESSITÀ DELLA MEDITAZIONE

 

La pratica quotidiana della meditazione rende l’anima raccolta profondamente in Dio, mentre il tralasciarla la rende dissipata .

(S. Francesco di Sales)

Un cristiano che non ama la meditazione è moralmente impossibile che viva fervoroso, ma vivrà tiepido e rilassato. A maggior ragione un sacerdote o un religioso.

(S. Alfonso de Liguori)

La persona che non medita, conoscera poco i suoi bisogni spirituali, poco i pericoli per la sua salvezza, poco i mezzi che deve usare per vincere le tentazioni, poco la necessità di pregare e certamente si perderà.

(S. Alfonso dei Liguori)

La tentazione di lasciare la meditazione fu la maggiore che io ebbi ed avendola lasciata per un anno e mezzo mi ero già messa da me nell’ inferno senza bisogno di demoni che mi facessero andare . Il demonio sa bene che un’ anima fedele alla meditazione è perduta per Lui.

(S. Teresa d’ Avila)

La meditazione è il principio per acquistare tutte le virtù e tutti i cristiani devono praticarla . Nessuno, se Dio l’ispira a questo santo esercizio, oserà lasciala .

(S. Teresa d’Avila)

Quando noi pensiamo alle cose divine non per apprenderle, ma per innamorarci di esse, allora possiamo dire di fare meditazione, nella quale il nostro spirito come un’ape sacra, vola qua e là sopra i misteri della fede per estrarne il miele del divino amore.

(S. Francesco di Sales)

Se un giorno non potete meditare, riparate questa perdita con brevi preghiere e atti d’amore, con la lettura di qualche pagina di buon libro o con qualche penitenza che impedisca la continuazione di questo difetto, rinnovando una ferma risoluzione, di non lasciarla il giorno dopo.

(S. Francesco di Sales)

Iniziate sia l’orazione mentale che quella vocale col menervi alla presenza di Dio, mantenete questa regola senza alcuna eccezione e in poco tempo ne sperimenterete il profitto .

(S. Francesco di Sales)


DIFFICOLTÀ CHE INCONTRIAMO NEL MEDITARE


Voi mi dite che nella meditazione vi rimanete come un fantasma o una statua. Sappiate che il rimanervi così non è poco, perchè è grande felicità per noi stare alla presenza di Dio. Accontentatevi di cid. Anche questo stare produce il suo frutto.

(S. Francesco di Sales)

Perseverare nella meditazione senza ricavarne frutto non è tempo perduto, ma molto fruttuoso, perchè si lavora senza interesse per la sola gloria di Dio.

(S. Teresa d’Avila)

Nella meditazione, dobbiamo sopportare con pazienza, quella folla di pensieri, di immaginazioni importune o di movimenti naturali e impetuosi, che provengono sia dall’anima per la sua aridità e dissipazione; sia dal corpo perchè non troppo sottomesso allo spirito. Ma non scorgeremo tutte queste imperfezioni se non quando Dio ci aprirà gli occhi dell’anima come usa fare con chi medita.

(S. Teresa d’Avila)

L’uomo spirituale, quando medita, stia con attenzione amorosa in Dio e con tranquillità d’intelletto, quando non può meditare, pur sembrandogli di non far nulla. Se per questo avesse scrupoli rifletta che non sta facendo poco tenendo l’anima in pace senza bramosia o desideri.

(S. Giovanni della Croce)

Se avviene che non avete gusto o consolazione nella meditazione, vi prego di non turbarvi. Se non restate consolato per la vostra grande aridità non preoccupatevi. Continuate a stare davanti a Dio con contegno devoto e tranquillo. Egli. certamente gradirà la vostra pazienza .

(S.  Francesco di Sales)