BUON NATALE A TUTTI QUANTI!!!
Ho deciso di trasportare sul blog tutte le meditazioni di Sant’Alfonso che aveva scritto in preparazione al Santo Natale. Sono tante, ma vale la pena di leggerle con attenzione.
Sant’ Alfonso Maria de Liguori “Novena del Santo Natale, colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento, sino all’Ottava dell’Epifania” anno 1758
Quest’opera, pubblicata nel 1758, fluì quasi spontanea dall’anima serafica di S. Alfonso, e la intitolò “Novena del Santo Natale colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento sino all’ottava della Epifania “. Già l’insigne Autore rilevava: “Molti cristiani sogliono per lungo tempo avanti preparare nelle loro case il presepe per rappresentare la nascita di Gesù Cristo; ma pochi sono quelli che pensano a preparare i loro cuori, affinché possa nascere in essi e riposarsi Gesù Cristo. Tra questi pochi però vogliamo essere ancora noi, acciocché siamo fatti degni di restare accesi di questo felice fuoco, che rende le anime contente in questa terra e beate nel cielo “.
A questo concetto morale ispirò il dettato, proponendosi di aiutare le anime a vivere il Natale con genuino sentimento cristiano.
INIZIO DELLE MEDITAZIONI DI SANT’ALFONSO, DOTTORE DELLA CHIESA:
DISCORSO I – Il Verbo Eterno da Dio s’è fatt’uomo.
Ignem veni mittere in terram, et quid volo nisi ut accendatur? (Luc. XII, 49).
Solennizzavano gli ebrei un giorno chiamato da essi dies ignis, giorno del fuoco, in memoria del fuoco col quale Neemia consumò il sagrificio, allorché ritornò co’ suoi nazionali dalla schiavitù di Babilonia.Così ancora, anzi con maggior ragione dovrebbe chiamarsi il giorno di Natale, giorno di fuoco, in cui viene un Dio da bambino a metter fuoco d’amore ne’ cuori degli uomini. Ignem veni mittere in terram, così disse Gesù Cristo, e in verità così fu. Prima della venuta del Messia, chi amava Dio sulla terra? Appena era egli conosciuto in un cantone del mondo, cioè nella Giudea; ed ivi pure quanti pochi erano quelli che l’amavano nel tempo che venne. Nel resto poi della terra chi adorava il sole, chi le bestie, chi le pietre, e chi altre creature più vili. Ma dopo ch’è venuto Gesù Cristo, il nome di Dio per tutto è stato conosciuto, e da molti amato. Fu più amato Dio dopo la venuta del Redentore tra pochi anni dagli uomini, accesi già da questo santo fuoco, che non era stato amato prima per quattro mila anni, da che gli uomini erano stati creati.
Molti Cristiani sogliono per lungo tempo avanti preparare nelle loro case il presepio, per rappresentare la nascita di Gesù Cristo; ma pochi son quelli che pensano a preparare i loro cuori, affinché possa nascervi in essi e riposarvi Gesù bambino. Ma tra questi pochi vogliamo essere ancora noi, acciocché ancora noi siam fatti degni di restare accesi da questo felice fuoco, che rende l’anime contente in questa terra e beate nel cielo.- Consideriamo in questo primo giorno che il Verbo Eterno appunto a questo fine da Dio si fece uomo, per infiammarci del suo divino amore. Cerchiamo lume a Gesù Cristo ed alla sua santissima Madre, e cominciamo.
Pecca Adamo il nostro primo padre; ingrato a tanti benefici ricevuti, si ribella da Dio, disubbedendo al precetto di non cibarsi del pomo vietato. Dio perciò è obbligato a cacciarlo qui in terra dal paradiso terrestre, ed a privare in futuro così Adamo, come tutti i discendenti di questo ribelle, del paradiso celeste ed eterno, che loro avea preparato dopo questa vita temporale. Ecco dunque gli uomini tutti condannati ad una vita di pene e di miserie, e per sempre esclusi dal cielo. Ma ecco Dio, come ci avvisa Isaia (Cap. LII), che a nostro modo d’intendere par che afflitto si lamenti, e pianga dicendo: Et nunc quid mihi est hic, dicit Dominus, quoniam ablatus est populus meus gratis? (Is. LII, 5). Ed ora, dice Dio, che mi è restato di delizia in paradiso, ora che ho perduto gli uomini ch’erano la mia delizia? Deliciae meae esse cum filiis hominum (Prov. 8, 31). Ma come, Signore, voi tenete in cielo tanti serafini, tanti angeli, e tanto vi accora l’aver perduti gli uomini? Ma che bisogno avete voi e degli angeli e degli uomini per compimento della vostra beatitudine? Voi sempre siete stato e siete in voi stesso felicissimo; che cosa mai può mancare alla vostra felicità ch’è infinita? Tutto è vero, dice Dio, ma perdendo l’uomo – gli fa dire Ugon cardinale sul citato testo d’Isaia – Non reputo aliquid me habere; io stimo di aver perduto tutto, mentre la delizia mia era di stare cogli uomini, ed ora questi uomini io gli ho perduti, ed essi i miseri son condannati a vivere per sempre lontani da me. Ma come può dire il Signore che gli uomini sono la sua delizia? Sì, scrive S. Tommaso, Dio ama tanto l’uomo, come se l’uomo fosse suo Dio, e come se egli senza l’uomo non potesse esser felice: Quasi homo Dei deus esset, et sine ipso beatus esse non posset (Opusc. LXIII, cap. 7). Soggiunge S. Gregorio Nazianzeno, e dice che Dio per l’amore che porta agli uomini par che sia uscito di se: Audemus dicere quod Deus prae magnitudine amoris extra se sit (Epist. VIII). Correndo già il proverbio che l’amore trae l’amante fuori di sé: Amor extra se rapit.
Ma no, disse poi Dio, io non voglio perdere l’uomo; via si trovi un Redentore che per l’uomo soddisfi la mia giustizia, e così lo riscatti dalle mani de’ suoi nemici, e dalla morte eterna a lui dovuta. Ma qui contempla S. Bernardo (Serm. I, in Annunc.), e si figura di vedere in contesa la giustizia e la misericordia divina. La giustizia dice: Io son perduta, se Adamo non è punito: Perii, si Adam non moriatur. La misericordia all’incontro dice: Io son perduta, se l’uomo non è perdonato: Perii, nisi misericordiam consequatur. In tal contesa decide il Signore che per salvare l’uomo reo di morte muoia un innocente: Moriatur qui nihil debeat morti. In terra non vi era chi fosse innocente. Dunque, disse l’Eterno Padre, giacché tra gli uomini non v’è chi possa soddisfare la mia giustizia, via su, chi vuole andare a redimere l’uomo? Gli angeli, i cherubini, i serafini, tutti tacciono, niuno risponde; solo risponde il Verbo Eterno, e dice: Ecce ego, mitte me. Padre, gli dice l’unigenito Figlio, la vostra maestà, essendo ella infinita, ed essendo stata offesa dall’uomo, non può esser ben soddisfatta da un angelo ch’è pura creatura; e benché voi vi contentaste della soddisfazione di un angelo, pensate che dall’uomo sinora con tanti benefici a lui fatti, con tante promesse e con tante minacce, pure non abbiam potuto ancora ottenere il suo amore, perché non ha conosciuto sinora l’amore che gli portiamo; se vogliamo obbligarlo senza meno ad amarci, che più bella occasione di questa possiamo trovare, che per redimerlo vada io vostro Figlio in terra, ivi io prenda carne umana, ed io pagando colla mia morte la pena da lui dovuta, così contenti appieno la vostra giustizia, e resti all’incontro l’uomo ben persuaso del nostro amore?
Ma pensa, o Figlio, gli rispose il Padre, pensa che addossandoti il peso di pagare per l’uomo, avrai da fare una vita tutta di pene. Non importa, disse il Figlio: Ecce ego, mitte me. Pensa che avrai da nascere in una grotta, che sarà stalla di bestie; di là dovrai fanciullo andare fuggiasco in Egitto, per fuggire dalle mani degli stessi uomini, che sin da fanciullo cercheranno di toglierti la vita. Non importa: Ecce ego, mitte me. Pensa che ritornato poi nella Palestina, ivi dovrai fare una vita troppo dura e disprezzata, vivendo da semplice garzone d’un povero artigiano. Non importa: Ecce ego, mitte me. Pensa che quando poi uscirai a predicare ed a manifestare chi sei, avrai sì bene alcuni, ma pochi, che ti seguiranno, ma la maggior parte ti disprezzeranno, chiamandoti impostore, mago, pazzo, samaritano; e finalmente ti perseguiteranno a tal segno che ti faran morire svergognato su d’un legno infame a forza di tormenti. Non importa: Ecce ego, mitte me.
Fatto dunque il decreto che ‘l divin Figlio si faccia uomo, ed egli sia il Redentore degli uomini, s’invia l’arcangelo Gabriele a Maria; Maria l’accetta per figlio: Et Verbum caro factum est. Ed ecco Gesù nell’utero di Maria, ch’entrato già nel mondo, tutto umile e ubbidiente dice: Giacché, Padre mio, non possono gli uomini soddisfare la vostra giustizia da loro offesa, colle loro opere e sagrifici, ecco me tuo Figlio, vestito già di carne umana, a soddisfarla colle mie pene e colla mia morte in vece degli uomini. Ideo ingrediens mundum, dicit: Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi… tunc dixi: Ecce venio… ut faciam, Deus, voluntatem tuam (Hebr. V, 12).
Dunque per noi miseri vermi, e per cattivarsi il nostro amore, ha voluto un Dio farsi uomo? Sì, è di fede, come c’insegna la santa Chiesa: Propter nos homines, et propter nostram salutem descendit de caelis,… et homo factus est. Sì questo ha fatto un Dio per farsi da noi amare. Alessandro il grande, dopo che vinse Dario e s’impadronì della Persia, egli per tirarsi l’affetto di quei popoli si fé vedere vestito alla persiana. Così appunto par che volle ancor fare il nostro Dio; per tirarsi l’affetto degli uomini, si vesti tutto alla foggia umana, e comparve fatt’uomo: Habitu inventus ut homo (Philip. II, 7). E così volle far vedere dove giungeva l’amore che portava all’uomo: Apparuit… gratia… Salvatoris nostri omnibus hominibus (Tit. II, 11). L’uomo non mi ama, par che dicesse il Signore, perché non mi vede; voglio farmi da lui vedere, e con lui conversare, e cosi farmi amare: In terris visus est, et cum hominibus conversatus est (Baruch, III, 38). L’amor divino verso l’uomo era troppo grande, e tal’era sempre stato ab eterno: In caritate perpetua dilexi te, ideo attraxi te miserans tui (Ier. XXXI, 3). Ma quest’amore non era ancora apparso quanto fosse grande ed incomprensibile. Allora veramente apparve, quando il Figlio di Dio si fé vedere da pargoletto in una stalla su della paglia: Benignitas et humanitas apparuit Salvatoris nostri Dei (Tit. III, 4). Legge il testo greco: Singularis Dei erga homines apparuit amor. Dice S. Bernardo che prima era già apparsa nel mondo la potenza di Dio nella creazione, e la sapienza nel governo del mondo; ma solamente poi nell’Incarnazione del Verbo apparve quanto fosse grande la sua misericordia: Apparuerat ante potentia in rerum creatione, apparebat sapientia in earum gubernatione, sed benignitas misericordiae maxime apparuit in humanitate (S. Bern. Serm. I, de Nat.). Prima che Dio apparisse in terra fatt’uomo, non poteano giungere gli uomini a conoscere quanta fosse la bontà divina; perciò egli prese carne umana, acciocché apparendo da uomo si manifestasse agli uomini la grandezza della sua benignità: Priusquam appareret humanitas, latebat benignitas. Sed unde tanta agnosci poterat? Venit in carne ut, apparente humanitate, agnosceretur benignitas (S. Bern., Serm. I, in Epiph.). E in qual modo poteva meglio il Signore dimostrare all’uomo ingrato la sua bontà e l’amor che gli porta? L’uomo disprezzando Dio, dice S. Fulgenzio, s’era da Dio separato per sempre; ma non potendo più l’uomo ritornare a Dio, venne Dio a trovarlo in terra: Homo Deum contemnens, a Deo discessit, Deus hominem diligens, ad homines venit (S. Fulg., Serm. sup. Nat. Christi). E prima lo disse S. Agostino: Quia ad mediatorem venire non poteramus, ipse ad nos venire dignatus est. In funiculis Adam traham eos, in vinculis caritatis (Osee XI, 4). Gli uomini si fan tirare dall’amore; i segni d’affetto che taluno loro dimostra son certe catene che gli ligano e gli obbligano quasi per forza ad amare chi l’ama. A questo fine il Verbo Eterno volle farsi uomo per tirarsi con tal segno d’affetto – che maggiore non potea ritrovare – l’amore degli uomini: Deus factus est homo, ut familiarius ab homine diligeretur Deus (UGO de S. Vict., in Lib. Sent.). Ciò appunto par che volesse dare ad intendere il nostro Salvadore ad un divoto religioso francescano, chiamato il P. Francesco di S. Giacomo, come si narra nel Diario francescano a’ 15 di dicembre. Gli si diede a vedere più volte Gesù da vago fanciullo, ma volendolo seco ritenere il divoto frate, il fanciullo sempre fuggiva; onde di tali fughe amorosamente si lagnava il Servo di Dio. Un giorno di nuovo gli apparve il S. Bambino, ma come? Gli si fé vedere con ceppi d’oro in mano, per dargli così ad intendere ch’era allora venuto ad imprigionare lui, e ad essere da lui imprigionato, per più da esso non separarsi. Fatto con ciò ardito Francesco, pose i ceppi al piede del Bambino, e se lo strinse al cuore; ed in fatti di là avanti gli parve di vedersi come nel carcere del suo cuore, fatto suo perpetuo prigioniero, l’amato Bambino. Ciò che fece questa volta Gesù con questo suo servo, ben lo fé con tutti gli uomini allorché si fece uomo; volle già con tal prodigio d’amore esser come da noi incatenato, ed incatenare insieme i nostri cuori, obbligandoli ad amarlo, secondo quel che già aveva predetto per Osea: In funiculis Adam traham eos, in vinculis caritatis.
In diversi modi, dice S. Leone, aveva già Dio beneficato l’uomo; ma in niun modo meglio palesò l’eccesso della sua bontà, che inviandogli il Redentore ad insegnargli la via della salute ed a procurargli la vita della grazia: Diversis modis humano generi bonitas divina munera impertiit, sed abundantiam solitae benignitatis excessit, quando in Christo ipsa ad peccatores misericordia, ad errantes veritas, ad mortuos vita descendit (S. Leo, Serm. 4, de Nativ.). Dimanda S. Tommaso, perché l’Incarnazione del Verbo dicasi opera della Spirito Santo: Et incarnatus est de Spiritu Sancto. È certo che tutte le opere di Dio, chiamate da’ Teologi opera ad extra, sono opere di tutte e tre le divine persone; e perché poi l’Incarnazione si attribuisce alla sola persona dello Spirito Santo? La ragion principale che ne assegna l’Angelico è perché tutte l’opere del divin amore si attribuiscono allo Spirito Santo, ch’è l’amore sostanziale del Padre e del Figlio; e l’opera dell’Incarnazione fu tutta effetto dell’immenso amore che Dio porta all’uomo: Hoc autem ex maximo Dei amore provenit, ut Filius Dei carnem sibi assumeret in utero Virginis (S. Thom., III p., q. 32, a. 1). E ciò volle significare il profeta dicendo: Deus ab austro veniet (Habac. III [3]). A magna caritate Dei in nos effulsit, commenta Ruperto abbate. A tal fine scrive ancora S. Agostino (Cap. 4, de Catech.) venne in terra il Verbo Eterno per far conoscere all’uomo quanto Dio l’amasse: Maxime propterea Christus advenit, ut cognosceret homo quantum eum diligat Deus. E S. Lorenzo Giustiniani (De casto connub., c. 23): In nullo sic amabilem suam hominibus patefecit caritatem, sicut cum Deus homo factus est.
Ma quel che più fa conoscere l’amore divino verso il genere umano, è che venne il Figlio di Dio a cercarlo quando l’uomo lo fuggiva; ciò significò l’Apostolo dicendo: Nusquam… angelos…, sed semen Abrahae apprehendit (Hebr. II , [16]). Commenta S. Grisostomo: Non dixit suscepit, sed apprehendit, ex metaphora insequentium eos qui aversi sunt, ut fugientes apprehendere valeant (Hom. V, in Epist. ad Hebr.). Venne Dio dal cielo quasi ad arrestare l’uomo ingrato che da lui fuggiva, come se gli dicesse: Uomo, vedi che per tuo amore io son venuto a posta in terra a cercarti; perché mi fuggi? Ferma, amami: non fuggire più da me che tanto t’amo.- Venne dunque Dio a cercare l’uomo perduto, ed acciocché l’uomo conoscesse meglio l’amore che questo Dio gli portava, e si rendesse ad amare chi tanto l’amava, volle nella prima volta che l’avesse avuto a mirare visibile, apparirgli da tenero bambino, posto sulle paglie. O paglie beate, più vaghe delle rose e de’ gigli, esclama S. Grisologo, e qual terra fortunata v’ha prodotte! E qual fortuna è mai la vostra in aver la sorte di servire di letto al Re del cielo! Ah! che voi – siegue a dire il santo – siete pur fredde per Gesù, mentre non sapete riscaldarlo in questa umida grotta, dov’egli ora se ne sta tremando di freddo; ma siete fuoco e fiamme per noi, giacché ci somministrate un incendio d’amore che non vagliono a smorzarlo tutte l’acque de’ fiumi: O felices paleas, rosis et liliis pulchriores, quae vos genuit tellus? Non palearum momentaneum, sed perpetuum vos suppeditatis incendium, quod nulla flumina exstinguent, (S. Petr. Chrys., serm. 38).
Non bastò, dice S. Agostino, al divino Amore l’averci fatti ad immagine sua nel creare il primo uomo Adamo, se non si fosse fatto egli poi ad immagine nostra nel redimerci: In homine fecit nos Deus ad imaginem suam; in hac die factus est ad imaginem nostram. Adamo si cibò del pomo vietato, ingannato dal serpente che aveva detto ad Eva che chi avesse assaggiato quel frutto, sarebbe diventato simile a Dio, acquistando la scienza del male e del bene. E perciò disse allora il Signore: Ecce Adam factus est quasi unus ex nobis (Gen., cap. 3). Ciò disse Dio per ironia e per rimproverare l’audacia di Adamo; ma noi dopo l’Incarnazione del Verbo con verità possiam dire: Ecco Dio diventato come uno di noi: Nunc vere dicimus, ecce Deus factus est quasi unus ex nobis (Riccar. de S. Vict.). Guarda dunque, o uomo, parla S. Agostino: Deus tuus factus est frater tuus: il tuo Dio si è fatto come te, figlio di Adamo come sei tu, s’è vestito della stessa tua carne, s’è fatto passibile e soggetto a patire e morire come te. Poteva egli assumer la natura d’angelo; ma no, volle prendere la stessa tua carne, acciocché soddisfacesse a Dio colla stessa carne – benché senza peccato – di Adamo peccatore. E di ciò egli se ne gloriava, chiamandosi spesso figliuolo dell’uomo; onde ben possiamo chiamarlo nostro vero fratello. È stato infinitamente maggior abbassamento, un Dio farsi uomo, che se tutti i principi della terra, tutti gli angeli e santi del cielo colla divina Madre si fossero abbassati a diventare un filo d’erba o un pugno di letame; si perché l’erba, il letame, ed i principi, gli angeli e santi son creature e creature, ma tra la creatura e Dio vi è una differenza infinita.
Ah che quanto più un Dio s’è umiliato per noi a farsi uomo, tanto maggiormente, dice S. Bernardo, ci ha fatto conoscere la sua bontà: Quanto minorem se fecit in humilitate, tanto maiorem se fecit in bonitate. Ma l’amore che ci porta Gesù Cristo, esclama l’Apostolo, troppo ci obbliga e ci stringe ad amarlo: Caritas… Christi urget nos (II Cor. V, 14). Oh Dio, che se la fede non ce ne assicurasse, chi mai potrebbe credere che un Dio per l’amore d’un verme, qual è l’uomo, siasi fatto verme come l’uomo! Se mai accadesse, dice un divoto autore, che voi camminando per una strada, a caso col piede schiacciaste un verme di terra, e l’uccideste; e poi avendone voi compassione, taluno vi dicesse: Or via, se volete voi restituire la vita a questo morto verme, bisogna prima che voi diventiate verme com’esso, e poi vi sveniate; e facendo un bagno dì tutto il vostro sangue, in quello dovrà immergersi il verme e riceverà la vita. Che rispondereste voi? E che m’importa, certamente direste, che ‘l verme risorga o resti morto, ch’io abbia da procurar la sua vita colla morte mia? E tanto più ciò direste, se quello non fosse un verme innocente, ma un aspide ingrato, che dopo averlo voi beneficato, avesse tentato di torvi la vita. Ma se mai l’amor vostro verso quest’aspide ingrato giugnesse a tanto che vi facesse già soffrire la morte per rendere ad esso la vita, che ne direbbero gli uomini? E’ che non farebbe per voi quel serpe, salvato colla vostra morte, se fosse capace di ragione? Ma questo ha fatto Gesù Cristo per voi verme vilissimo; e voi ingrato, se Gesù avesse potuto di nuovo morire, co’ vostri peccati avete già attentato più volte di torgli la vita. Quanto siete più vile voi a riguardo di Dio, che non è un verme a riguardo di voi? Che importava a Dio che voi rimaneste morto e dannato nel vostro peccato, come già meritavate? E pure questo Dio ha avuto tanto amore per voi, che per liberarvi dalla morte eterna, prima si e fatto verme come voi, e poi per salvarvi ha voluto spargere tutto il suo sangue, ed ha voluto patire la morte da voi meritata.
Sì, tutto è di fede. Et Verbum caro factum est (Luca I).Dilexit nos et lavit nos… in sanguine suo (Apoc. I, 5). La santa Chiesa in considerare l’opera della Redenzione si dichiara atterrita: Consideravi opera tua, et expavi (Resp. III, in 2. noct. Circumc.). Prima lo disse il profeta: Consideravi opera tua et expavi. Egressus es in salutem populi tui, in salutem cum Christo tuo (Habach III).Onde con ragione S. Tommaso chiamò il mistero dell’Incarnazione, Miraculum miraculorum. Miracolo incomprensibile, dove Dio dimostrò la potenza del suo amore verso gli uomini, che da Dio lo rendeva uomo, da Creatore creatura: Creator oritur ex creatura, dice S. Pier Damiani (Serm. I, de Nat.); da Signore lo rende a servo, da impassibile soggetto alle pene ed alla morte: Fecit potentiam in brachio suo (Luc. II).S. Pietro d’Alcantara in udire un giorno cantar l’Evangelio che si dice nella terza Messa di Natale, In principio erat Verbum, etc., in considerare questo gran mistero, talmente restò infiammato d’amore verso Dio, che in estasi fu portato per lungo tratto in aria a’ piedi del SS. Sacramento (Vita, I. 3, c. 1). E S. Agostino diceva che non si saziava di sempre considerare l’altezza della divina bontà nell’opera della Redenzione umana: Non satiabar considerare altitudinem consilii tui super salutem generis humani (Confess., cap. 6). E perciò il Signore mandò questo santo, per esser egli stato tanto divoto di questo mistero, a scriver sul cuore di S. Maria Maddalena de’ Pazzi le parole: Et Verbum caro factum est.
Chi ama, non ama ad altro fine che per essere amato; avendoci dunque Dio tanto amati, altro da noi non vuole, dice S. Bernardo, che ‘l nostro amore: Cum amat Deus, non aliud vult quam amari (Serm. 83, in Cant.). Onde poi ciascuna di noi esorta: Notam fecit dilectionem suam, ut experiatur et tuam. Uomo chiunque sei, hai veduto l’amore che ti ha portato un Dio in farsi uomo e patire e morire per te; quando sarà che Dio vedrà coll’esperienza e co’ fatti l’amore che tu gli porti? Ah che al vedere ogni uomo un Dio vestito di carne, che ha voluto fare per lui una vita così penosa, ed una morte cosi spietata, dovrebbe continuamente ardere d’amore verso questo Dio cosi amante. Utinam dirumperes coelos et descenderes; a facie tua montes defluerent…, aquae arderent igni (Is. LXIV, 1, [2]). Oh se ti degnassi, mio Dio – diceva il profeta, allorché non era ancora venuto in terra il divin Verbo – di lasciare i cieli e scendere qui tra noi a farti uomo! Ah che allora al vederti gli uomini fatto come uno di loro, montes defluerent, si spianerebbero tutti gli ostacoli e tutte le difficoltà, che ora gli uomini incontrano nell’osservare le vostre leggi ed i vostri consigli. Aquae arderent igni, ah, che a questa fiamma che voi accendereste ne’ cuori umani, l’anime più gelate arderebbero del vostro amore. Ed in fatti dopo l’Incarnazione del Figlio di Dio, che bell’incendio d’amore divino s’è veduto risplendere in tante anime amanti! È certo che solo dagli uomini è stato più amato Dio in un solo secolo, dopo che Gesù Cristo è stato con noi, che in tutti gli altri quaranta secoli antecedenti alla sua venuta. Quanti giovani, quanti nobili, e quanti ancora monarchi hanno lasciate le loro ricchezze, gli onori, ed anche i regni, per ritirarsi o in un deserto o in un chiostro, poveri e disprezzati, per meglio amare questo lor Salvatore! Quanti martiri sono andati giubilando e ridendo a’ tormenti ed alla morte! Quante verginelle han rifiutate le nozze de’ grandi per andare a morire per Gesù Cristo, e così rendere qualche contraccambio d’affetto ad un Dio che s’è degnato d’incarnarsi e di morire per loro amore!
Sì, tutto è vero, ma – veniamo ora alle lagrime – è succeduto lo stesso in tutti gli uomini? Han tutti cercato di corrispondere a questo grande amore di Gesù Cristo? Oh Dio che la maggior parte poi l’han pagato e lo pagano d’ingratitudine! E tu, fratello mio, dimmi, come hai riconosciuto l’amore che ti ha portato il tuo Dio? L’hai ringraziato sempre? Hai considerato che cosa viene a dire un Dio farsi uomo per te, e per te morire?- Un cert’uomo assistendo alla Messa senza divozione, come fanno tanti, a quelle parole che in fine si dicono, Et Verbum caro factum est, non fé alcun segno di riverenza; allora un demonio gli diede un forte schiaffo, dicendo: Ingrato, senti che un Dio s’è fatt’uomo per te, e tu neppure ti degni d’inchinarti? Ah che se Iddio, disse, avesse fatto ciò per me, io in eterno starei per sempre ringraziandolo. – Dimmi, cristiano, che avea da fare più Gesù Cristo per farsi amare da te? Se il Figlio di Dio avesse avuto a salvar dalla morte il suo medesimo Padre, che più poteva fare che abbassarsi sino a prender carne umana, e sacrificarsi alla morte per la di lui salute? Dico più: se Gesù Cristo fosse stato un semplice uomo, e non già una persona divina, e avesse voluto con qualche segno d’affetto acquistarsi l’amore del suo Dio, che avrebbe potuto fare più di quello che ha fatto per te? Se un servo tuo per tuo amore avesse dato tutto il sangue e la vita, non ti avrebbe già incatenato il cuore, ed obbligato almeno per gratitudine ad amarlo? E perché Gesù Cristo poi, giungendo a dare sino la vita per te, non ha potuto sinora giungere ad acquistarsi il tuo amore?
Ohimè che gli uomini disprezzano il divino amore, perché non intendono, diciam meglio, perché non vogliono intendere qual tesoro sia il godere la divina grazia, la quale, come disse il Savio, è un tesoro infinito: Infinitus est thesaurus, quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). Si stima la grazia d’un principe, d’un prelato, d’un nobile, d’un letterato, d’una carogna; e la grazia di Dio non si stima niente da taluni, mentre la rinunziano per un fumo, per un gusto bestiale, per un poco di terra, per un capriccio, per niente. Che dici, caro mio fratello, vuoi tu ancora annoverarti tra questi ingrati? Vedi, se non vuoi Dio, dice S. Agostino, se puoi ritrovare altra cosa migliore di Dio: Aliud desidera, si melius invenire potes.Va, ti trova un principe più cortese, un padrone, un fratello, un amico più amabile, e che t’ha amato più di Dio. Va, ti trova uno che possa meglio di Dio renderti felice in questa e nell’altra vita. Chi ama Dio non ha che temere di male, mentre Dio non sa non amare chi l’ama. Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17). E chi è amato da Dio, qual timore può mai avere? Dominus illuminatio mea, et salus mea, quem timebo? (Ps. II, 26). Così dicea Davide, e così diceano le sorelle di Lazzaro al Signore: Quem amas infirmatur (Io. XI, 3). Bastava lor sapere che Gesù Cristo amava il lor fratello, per credere che gli desse tutto l’aiuto per guarirlo. Ma come all’incontro può Dio, amare chi disprezza il suo amore? -Deh via risolviamoci una volta di rendere amore ad un Dio che tanto ci ha amato. E preghiamolo sempre, che ci conceda il gran dono del suo santo amore. Dicea S. Francesco di Sales che questa grazia di amare Dio è la grazia che dobbiamo desiderare e chiedere sopra ogni grazia, perché col divino amore ad un’anima viene ogni bene. Venerunt… omnia bona pariter cum illa (Sap VII, 11). Perciò diceva S. Agostino: Ama, et fac quod vis. Chi ama una persona sfugge quanto può di disgustarla, e va cercando sempre più di compiacerla. E così, chi veramente ama Dio non sa far cosa avvedutamente che gli dispiaccia, ma si studia quanto più può di dargli gusto.
E per ottenere più presto e più sicuramente questo dono del divino amore, ricorriamo alla prima amante di Dio; dico a Maria sua Madre, che fu così infiammata d’amor divino, che i demoni – come dice S. Bonaventura – non aveano ardire di accostarsi a tentarla: A sua inflammata caritate pellebantur, ut non ausi sint illi appropinquare. E soggiunge Riccardo che anche i serafini poteano scendere dal cielo ad imparare dal cuor di Maria il modo d’amare Dio: Seraphin e caelo descendere poterant, ut amorem discerent in corde Virginis. E perché il cuor di Maria fu già tutto fuoco d’amore divino, perciò, ripiglia S. Bonaventura, tutti coloro che amano questa divina madre, ed a lei si accostano, tutti ella gli accende dello stesso amore, e simili a lei li rende: Quia tota ardens fuit, omnes se amantes, eamque tangentes accendit, et sibi assimilat.
Se taluno ne’ discorsi volesse addurre qualche esempio di Gesù bambino, potrà avvalersi degli esempi posti dopo le Meditazioni.
Colloquio.
O ignis qui semper ardes, diciam con S. Agostino, accende me. O Verbo Incarnato, voi vi siete fatt’uomo per accendere ne’ nostri cuori il divino amore, e come avete potuto poi incontrare tanta sconoscenza ne’ cuori degli uomini? Voi per farvi da essi amare non avete risparmiato niente, vi siete indotto sino a dare il sangue e la vita; e come poi gli uomini vi sono cosi ingrati? Forse non lo sanno? Si lo sanno, e lo credono, che per essi voi siete venuto dal cielo a vestirvi di carne umana ed a caricarvi delle nostre miserie; sanno che per loro amore avete menata una vita di pene, ed abbracciata una morte ignominiosa; e poi come vivono cosi scordati di voi? Amano i parenti, amano gli amici, amano anche le bestie; se da quelle ricevono qualche segno d’affetto, cercano di rimunerarcelo e poi solo con voi sono così disamorati e sconoscenti? Ma oimè ch’io accusando quest’ingrati, accuso me stesso che peggio degli altri v’ho trattato! Ma mi dà animo la vostra bontà, la quale so che mi ha sopportato tanto, affin di perdonarmi e di accendermi del vostro amore, purch’io voglia pentirmi e voglia amarvi.
Sì, mio Dio, ch’io voglio pentirmi e mi pento con tutta l’anima d’avervi offeso; e voglio amarvi con tutto il cuore. Vedo già, mio Redentore, che ‘l mio cuore non meriterebbe più d’essere da voi accettato, poiché ha lasciato voi per amore delle creature; ma vedo che voi ciò non ostante pur lo volete; ed io con tutta la mia volontà ve lo consagro e dono. Infiammatelo dunque voi tutto del vostro santo amore, e fate che da oggi avanti non ami altro che voi, bontà infinita, degna d’un infinito amore. V’amo, Gesù mio, v’amo, sommo bene, v’amo, unico amore dell’anima mia.
O Maria madre mia, voi che siete la madre del bell’amore, Mater pulchrae dilectionis, voi impetratemi questa grazia di amare il mio Dio; da voi la spero.
DISCORSO II – Il Verbo Eterno da grande s’è fatto piccolo.
Parvulus natus est nobis, filius datus est nobis. (Is. XI, 6).
Dicea Platone che l’amore è la calamita dell’amore: Magnes amoris amor. Ond’è comune il proverbio riferito da S. Giovan Grisostomo: Si vis amari, ama; poiché non vi e mezzo più forte per tirarsi l’affetto di una persona, che amarla e farle conoscere ch’è amata.- Ma, Gesù mio, questa regola, questo proverbio, corre per gli altri, vale per tutti, ma non per voi. Con tutti sono grati gli uomini, fuorché con voi. Voi non sapete più che fare per dimostrare agli uomini l’amore che loro portate; voi non avete più che fare, per farvi amare dagli uomini; ma degli uomini quanti sono quelli che v’amano? Oh Dio, che la maggior parte, diciamo meglio, quasi tutti non v’amano né desiderano d’amarvi; anzi vi offendono e vi disprezzano. – Ma vogliamo ancor noi esser nel numero di questi ingrati? No, che non se lo merita questo Dio così buono e così amante di noi ch’essendo grande e d’infinita grandezza, ha voluto farsi piccolo per essere da noi amato. Cerchiamo luce a Gesù e Maria.
Per intendere quanto sia stato l’amore divino verso gli uomini in farsi uomo, e picciolo bambino per nostro amore, bisognerebbe intendere quanta sia la grandezza di Dio. Ma qual mente umana o angelica può comprendere la grandezza di Dio mentr’ella è infinita? Dice S. Ambrogio, che ‘l dire esser Dio più grande de’ cieli, di tutti i re, di tutti i santi, di tutti gli angeli, è un fare ingiuria a Dio, come sarebbe ingiuria ad un principe il dire ch’egli è più grande di un filo d’erba o d’un moschino. Dio è la grandezza medesima, ed ogni grandezza non è che una minima particella della grandezza di Dio. Considerando Davide la divina grandezza, e vedendo ch’egli non potea né mai avrebbe potuto giungere a comprenderla, altro non sapea dire che, Deus, quis similis tibi? (Ps. XXXIV, 10). Signore, e qual grandezza mai può trovarsi simile alla vostra? Ma come mai potea comprenderla Davide, se la sua mente era finita, e la grandezza di Dio è infinita? Magnus Dominus et laudabilis nimis; et magnitudinis eius non est finis (Ps. 144, 3). Caelum et terram ego impleo (Ier. XXIII, 24), dice Dio; sicché tutti noi, a nostro modo d’intendere, non siamo che tanti miseri pesciolini che viviamo dentro questo mare immenso dell’essenza di Dio: In ipso… vivimus, [et] movemur, et sumus (Act. XVII, 28).
Che siamo noi dunque a rispetto di Dio? e che sono tutti gli uomini, tutti i monarchi della terra, ed anche tutti i santi e tutti gli angeli del cielo, a fronte dell’infinita grandezza di Dio? Siam tutti come, anzi meno che non è un acino d’arena a rispetto di tutta la terra: Ecce gentes quasi stilla situlae…: quasi pulvis exigua (Is. XL, 15). Omnes gentes quasi non sint, sic sunt coram eo (Is. XL, 17).
Or questo Dio così grande, s’è fatto picciolo bambino; e per chi? Parvulus natus est nobis, per noi. E perché? risponde S. Ambrogio: Ille parvulus, ut vir possis esse perfectus; ille involutus pannis, ut tu a mortis laqueis absolutus sis; ille in terris, ut tu in caelis (In Luca, lib. 2, cap. 2). S’è fatto piccolo, dice il santo, per fare noi grandi: ha voluto esser ligato tra le fasce, per liberare noi dalle catene della morte: è disceso in terra, acciocché noi possiamo salire in cielo. Ecco dunque l’Immenso fatto bambino! Quello che non capiscono i cieli, eccolo ristretto tra poveri pannicelli, e posto in una picciola e vil mangiatoia d’animali, sopra poca paglia che gli serve di letto e di guanciale. Videas potentiam regi, dice S. Bernardo, sapientiam instrui, virtutem sustentari, Deum lactentem et vagientem, sed miseros consolantem. Guarda un Dio che tutto può, chiuso fra fasce, talmente che non può moversi! un Dio che tutto sa, fatto muto che non parla! un Dio che regge il cielo e la terra, aver bisogno d’esser portato in braccio! Un Dio che pasce di cibi tutti gli uomini e gli animali, aver bisogno d’un poco di latte per sostentarsi! Un Dio che consola gli afflitti ed è il gaudio del paradiso, che vagisce, che piange, che cerca chi lo consoli!
In somma, dice S. Paolo, che il Figlio di Dio, venendo in terra, Semet ipsum exinanivit (Philip. 2, 7), per così dire, si annichilò. E perché? Per salvare l’uomo, e per essere amato dall’uomo: Ubi te exinanivisti – S. Bernardo – ibi pietas, ibi caritas magis effulsit. Sì, caro mio Redentore, che quanto fu più grande il tuo abbassamento nel farti uomo e col nascere bambino, tanto maggiore fu la tua misericordia e l’amore che ci dimostrasti, affin di guadagnarti i nostri cuori.- Gli Ebrei, benché avessero la cognizione così certa del vero Dio con tanti segni loro dati, non erano però contenti, voleano mirarlo da faccia a faccia. Dio trovò il modo di contentare anche questo desiderio degli uomini; si fece uomo per farsi loro visibile: Sciens Deus visendi se desiderio cruciari mortales, unde se visibilem faceret, hoc elegit (S. Petr. Chrys., serm. 47). E per farsi a noi più caro, volle farsi vedere la prima volta da bambino, perché in questa guisa riuscisse a noi la sua vista più grata ed amabile. Se parvulum exhibuit, ut se ipsum faceret gratum (Id. Chrys.). Si umiliò a farsi vedere picciolo infante, per rendersi con tale abbassamento più gradevole a’ nostri affetti. Exinanitio facta ad usum nostrum (S. Cyr. Alex.), mentre questo era già il modo più atto a farsi da noi amare. – Ebbe ragione dunque il profeta Ezechiele di dire che ‘l tempo della vostra venuta in terra, o Verbo Incarnato, doveva essere il tempo degli amanti: Ecce tempus tuum, tempus amantium (Ezech. XVI, 8). E per che altro mai Dio ci ha amati tanto, e ci ha palesati tanti segni del suo amore, se non per esser da noi amato? Ad nihil amat Deus, nisi ut ametur, dice S. Bernardo. E lo disse prima lo stesso Dio: Et nunc, Israel, quid Dominus Deus tuus petit a te, nisi ut timeas… et diligas eum ? (Deuter. X, 12).
Egli per obbligarci ad amarlo non ha voluto mandare altri, ma ha voluto esso stesso con farsi uomo venire a redimerci. Fa una bella riflessione S. Giovan Grisostomo su quelle parole dell’Apostolo: Non enim angelos apprehendit, sed semen Abrahae (Hebr, cap. II).
Dimanda il santo (Hom. in loc cit.): Quare non dixit, suscepit, sed apprehendit? Perché non disse S. Paolo semplicemente, Dio prese carne umana, ma disse che la pigliò come per forza, secondo significa più propriamente la parola apprehendit? E risponde che disse così, ex metaphora insequentium eos qui versi sunt; per ispiegare che Dio desiderava già d’essere amato dall’uomo, ma l’uomo gli voltava le spalle, e non volea neppure conoscere il di lui amore; onde Dio venne dal cielo e prese carne umana, per farsi così conoscere e farsi amare quasi per forza dall’uomo ingrato che lo fuggiva.
Per ciò dunque il Verbo Eterno si fece uomo, e per ciò ancora si fece bambino. Poteva egli venire a comparir sulla terra uomo perfetto, come comparve il primo uomo Adamo. No, il Figlio di Dio volle comparire all’uomo in forma di grazioso pargoletto, affin di tirarsi più presto e con più forza il di lui amore. I bambini per se stessi si fanno amare e si tiran l’amore di ciascun che gli guarda. A questo fine, dice S. Francesco di Sales, il Verbo divino fé vedersi bambino, per conciliarsi così l’amore di tutti gli uomini. E S. Pier Grisologo scrive: Et qualiter venire debuit qui voluit pellere timorem, quaerere caritatem? Infantia haec quam barbariem non solvit, quid non amoris expostulat? Sic ergo nasci voluit qui amari voluit, non timeri (Serm. 138). Se il nostro Salvatore – vuol dire il santo – avesse preteso colla sua venuta di farsi temere e rispettare dagli uomini, più presto avrebbe presa la forma d’uomo già perfetto e di dignità regale; ma perché egli veniva per guadagnarsi il nostro amore, volle venire e farsi vedere da bambino, e tra’ bambini il più povero ed umile, nato in una fredda grotta, in mezzo a due animali, collocato in una mangiatoia e steso sulla paglia senza panni bastanti e senza fuoco. Sic nasci voluit qui amari voluit, non timeri.– Ah mio Signore, chi mai dal trono del cielo vi ha tirato a nascere in una stalla? È stato l’amore che portate agli uomini. Chi dalla destra del Padre dove sedete, vi ha messo a stare in una mangiatoia? Chi dal regnare sulle stelle vi ha posto a giacere sulla paglia? Chi da mezzo agli angeli vi ha collocato a stare in mezzo a due animali? È stato l’amore. Voi infiammate i Serafini, ed ora tremate di freddo? Voi sostenete i cieli, ed ora avete bisogno d’esser portato al braccio? Voi provvedete di cibo gli uomini e le bestie, ed ora avete bisogno d’un poco di latte per sostentarvi la vita? Voi rendete beati i santi, ed ora vagite e piangete? Chi mai vi ha ridotto a tanta miseria? È stato l’amore. Sic nasci voluit qui amari voluit, non timeri.
Amate dunque, amate, o anime, esclama S. Bernardo, amate pure questo bambino ch’è troppo amabile: Magnus Dominus et laudabilis nimis. Parvulus Dominus et amabilis nimis (Ser. 17, in Cant.). Sì, questo Dio, dice il santo, era già prima ab eterno, com’è anche al presente, degno d’ogni lode e rispetto per la sua grandezza, come già cantò Davide: Magnus Dominus et laudabilis nimis. Ma ora che lo vediamo fatto picciolo bambinello, bisognoso di latte, e che non può muoversi, che trema di freddo, che vagisce, che piange, che cerca chi lo prenda, chi lo riscaldi, chi lo consoli: ah che ora egli si è fatto troppo amabile a’ nostri cuori! Parvulus Dominus et amabilis nimis. Dobbiamo adorarlo come Dio, ma a pari della riverenza deve in noi regnare l’amore verso un Dio così amabile e così amante. –Puer cum pueris – ci avverte S. Bonaventura – cum floribus, cum brachiis libenter esse solet. Se vogliamo compiacere questo Fanciullo, vuol dire il santo, bisogna che ci facciamo fanciulli anche noi, semplici ed umili; portiamogli fiori di virtù, di mansuetudine, di mortificazione, di carità; stringiamolo tra le nostre braccia coll’amore. E che aspetti più di vedere- soggiunge S. Bernardo – o uomo, per darti tutto al tuo Dio? Vedi con quanta fatica, con quale ardente amore è venuto dal cielo il tuo Gesù a cercarti: Oh quanto labore, et quam ferventi amore quaesivit animam tuam amorosus Iesus! Senti, siegue a dire, com’egli appena nato a guisa de’ bambini co’ suoi vagiti ti chiama, come dicesse: Anima mia, te cerco; per te e per acquistarmi il tuo amore son venuto dal cielo in terra: Virginis uterum vix egressus dilectam animam tuam more infantium vocat, a, a, Anima mea, anima mea, te quaero, pro te hanc peregrinationem assumo.
Oh Dio, che anche le bestie, se noi loro facciamo qualche beneficio, qualche piccolo dono, ci sono così grate, ci vengono appresso, ci ubbidiscono al loro modo come sanno, danno segni d’allegrezza quando ci vedono. E noi perché poi siamo così ingrati con Dio, che ci ha donato se stesso, ch’è sceso dal cielo in terra, e s’è fatto bambino per salvarci e per essere amato da noi? Or via amiamo il Fanciullo di Betlemme, Amemus Puerum de Bethlehem, esclamava l’innamorato S. Francesco; amiamo Gesù Cristo, che con tanti stenti ha cercato di guadagnarsi i nostri cuori.
E per amor di Gesù Cristo dobbiamo amare i nostri prossimi; anche coloro che ci hanno offesi. Il Messia fu chiamato da Isaia Pater futuri saeculi; ora per essere figli di questo Padre, Gesù stesso ci ammonì che dobbiamo amare i nostri nemici, e far bene a chi ci fa male: Diligite inimicos vestros, benefacite his qui oderunt vos… ut sitis filii Patris vestri (Matth. V, [44], 45). E di ciò egli medesimo ce ne diede l’esempio sulla croce, pregando l’Eterno Padre a perdonare coloro che lo crocifiggevano. Chi perdona il nemico, dice S. Giovan Crisostomo, non può restare non perdonato da Dio: Non est possibile quod homo qui dimiserit proximo non recipiant remissionem a Domino. E n’abbiamo la promessa anche divina: Dimittite et dimittemini (Luc. IV, 37.): Perdonate e sarete perdonati. Un certo religioso, il quale per altro non aveva fatta una vita molto esemplare, in morte piangeva i suoi peccati, ma con molta confidenza ed allegrezza, poiché, diceva, Numquam iniurias vindicavi. Volendo dire: È vero ch’io ho offeso il Signore, ma egli ha promesso il perdono a chi perdona i suoi nemici; io ho perdonato chi m’ha offeso, dunque debbo star sicuro che Dio perdoni anche me.
Ma generalmente poi parlando per tutti, come mai possiamo noi peccatori diffidare del perdono, pensando a Gesù Cristo? Il Verbo Eterno a questo fine s’è umiliato a prender carne umana, per ottenerci il perdono da Dio: Non… veni vocare iustos, sed peccatores (Matth. IX, [13]). Onde replichiamogli con S. Bernardo: Ubi te exinanivisti, ibi pietas, ibi caritas magis effulsit. E ben ci fa animo S. Tommaso da Villanova, dicendo: Quid times, peccator? quomodo damnabit poenitentem, qui moritur ne damneris? quomodo abiiciet redeuntem, qui de caelo venit, quaerens te? Che timore hai, diceva il santo, misero peccatore? Se tu ti penti de’ tuoi peccati, come ti condannerà quel Signore che muore per non condannarti? E se tu vuoi ritornare alla sua amicizia, come ti caccerà quegli ch’è venuto dal cielo a cercarti?
Non tema dunque il peccatore che non vuol essere più peccatore, ma vuole amare Gesù Cristo; non si spaventi, ma confidi: se odia il peccato e cerca Dio, non sia afflitto, ma lieto: Laetetur cor quaerentium Dominum (Ps. CIII, 15). Il Signore si è protestato che vuole scordarsi dell’ingiurie ricevute, se ‘l peccatore se ne duole: Si… impius egerit poenitentiam…, omnium iniquitatum eius… non recordabor (Ezech. XVIII, 21 [22]). – E ‘l nostro Salvatore affin di darci maggior confidenza, s’è fatto bambino. Ad parvulum quis accedere formidat? siegue a dire lo stesso S. Tommaso da Villanova. Chi mai si atterrisce di accostarsi ad un bambino? I bambini non ispirano già spavento e sdegno, ma dolcezza ed amore: Puer nescit irasci; et si irascitur, facile placatur, dice S. Pier Grisologo. I fanciulli par che non sanno sdegnarsi; e se mai qualche volta si adirano, è facile placarli; basta donar loro un frutto, un fiore, basta far loro una carezza, dir loro una parola d’affetto, che subito perdonano, e si scordano d’ogni offesa loro fatta. Basta una lagrima di dolore, basta un pentimento di cuore per placare Gesù bambino. Parvulorum mores agnoscitis, siegue a parlare S. Tommaso da Villanova: una lacrymula placatur offensus, iniuriam non recordatur. Accedite ergo ad eum dum parvulus est, dum maiestatis videtur oblitus. Egli ha deposta la sua maestà divina, e si fa veder da bambino per darci più animo di accostarci a’ suoi piedi. Nascitur parvulus, ut non formides potentiam, non iustitiam, dice S. Bonaventura. Egli per liberarci dalla diffidenza che potrebbe causarci il pensiero della sua potenza e della sua giustizia, ci si presenta da bambino, tutto pieno di dolcezza e di misericordia. Celasti, Deus, dice il Gersone, sapientiam in infantuli aetate, ne accuset; oh Dio di misericordia, voi avete nascosta la vostra divina sapienza nello stato d’un fanciullino, acciocché quella non ci accusi de’ nostri delitti. Iustitiam in humilitate, ne condemnet, avete nascosta la vostra giustizia nell’abbassamento, acciocché quella non ci condanni. Potentiam in infirmitate, ne cruciet, avete nascosta la vostra potenza, nella debolezza, acciocché quella non ci castighi.
Adamo, riflette S. Bernardo, dopo il suo peccato in sentir la voce di Dio che lo chiamava, Adam, ubi es? Tutto si riempì di spavento, vocem tuam audivi, et timui. Ma il Verbo Incarnato, dice il santo, Homo natus terrorem deposuit, comparendo da uomo in terra, ha lasciate tutte le sembianze di spavento. Perciò soggiunge il santo, discaccia ora il timore, or che viene il tuo Dio non a castigarti, ma a salvarti. Ecce infans est et sine voce; nam infantis vox magis est miseranda, quam timenda; tenera membra virgo mater pannis alligat, et adhuc trepidas? (Serm. 1, in Nat.). Quel Dio che dovea punirti si è fatto bambino, e non ha più voce che ti spaventi, poiché la voce d’un infante, essendo voce di pianto, muove più presto a pietà che a terrore; non puoi temere che Gesù Cristo stenda le mani per castigarti, mentre la madre gli stringe le mani tra le fasce acciocché non ti castighi. Allegramente dunque, o peccatori, dice S. Leone: Natalis Domini, natalis est pacis, la nascita di Gesù è nascita di allegrezza e di pace. Princeps pacis fu chiamato da Isaia; principe è Gesù Cristo, non di vendetta contro i peccatori, ma di misericordia e di pace, facendosi mediatore di pace tra i peccatori e Dio.
Si peccata nostra superant nos, dice S. Agostino, sanguinem suum non contemnit Deus: Se noi non possiamo soddisfare a’ debiti che abbiamo colla divina giustizia, l’Eterno Padre non sa disprezzare il sangue di Gesù Cristo che paga per noi. Un certo cavaliere, chiamato D. Alfonso Alburgherche, viaggiando per mare, ed essendo naufragata la nave tra scogli, si stimò già morto; ma avendosi veduto casualmente un bambino accanto che piangeva, che fece? Se lo prese in braccio, e poi alzandolo verso il cielo: Signore, disse, se non merito io d’esser esaudito, esaudite almeno il pianto di questo bambino innocente, e salvateci. Dopo ciò, si calmò la tempesta e restò salvo. Facciamo così ancora noi miseri peccatori; noi abbiamo offeso Dio, già siamo stati condannati alla morte eterna; la divina giustizia cerca d’esser soddisfatta, ed ha ragione; che abbiam da fare? disperarci? no, offeriamo a Dio questo bambino che gli è Figlio, e diciamogli con confidenza: Signore, se noi non possiamo soddisfarvi per l’offese che vi abbiam fatte, ecco che questo bambino che vagisce, che piange, che trema di freddo sulla paglia in questa spelonca, vi sta soddisfacendo per noi, e vi cerca pietà. Se non meritiamo noi perdono, lo meritano i patimenti e le lagrime di questo vostro Figlio innocente, che vi prega a perdonarci. Questo è quello che ci avverte a fare S. Anselmo; dice il santo che Gesù stesso per il desiderio che tiene di non vederci perduti, a chi di noi si trova reo con Dio, gli fa animo dicendo: Peccatore, non diffidare, se tu per li tuoi peccati già sei fatto schiavo dell’inferno, e non hai modo di liberartene, fa così: piglia me, offeriscimi per te al Padre mio, e così scamperai la morte e sarai salvo: Quid misericordius intelligi valet, quod Filius dicat: Tolle me et redime te? E ciò ancora insegnò la divina Madre a Suor Francesca Farnese; le diede in braccio Gesù bambino, e poi le disse: Eccoti questo mio Figlio, sappiatene prevalere con offerirlo spesso a Dio.
E se vogliamo più assicurarci del perdono, interponiamoci l’intercessione di questa medesima divina Madre, la quale è onnipotente appresso il Figlio per ottenere il perdono a’ peccatori, come disse S. Giovanni Damasceno; sì, perché le preghiere di Maria, come dice S. Antonino, appresso il Figlio che tanto l’ama e tanto cerca di vederla onorata, han ragione di comando: Oratio Deiparae habet rationem imperii. Onde scrisse S. Pier Damiani che quando Maria va a pregar Gesù Cristo a favore di qualche suo divoto, Accedit – in certo modo imperans, non rogans: Domina, non ancilla; nam Filius nihil negans honorat {Serm. 1, de Nat. B. V.). E perciò soggiunge S. Germano che la SS. Vergine per l’autorità di madre che tiene, o per meglio dire, che tenne un tempo col Figlio in terra, può impetrare il perdono ad ogni più perduto peccatore: Tu autem materna auctoritate pollens, etiam iis qui enormiter peccant eximiam remissionis gratiam concilias (In encom. B. V.).
Colloquio.
O dolce, o amabile, e santo mio Bambino, voi per farvi amare dagli uomini non avete saputo più che fare. Basta dire che da Figlio di Dio vi siete fatto figlio dell’uomo; e tra gli uomini avete voluto nascere come tutti gli altri bambini, ma più povero e più avvilito degli altri, eleggendovi una stalla per casa, una mangiatoia per culla, e un poco di paglia per letto. Avete voluto comparire a noi la prima volta in questa sembianza di povero pargoletto, per cominciare così a tirarvi i nostri cuori sin dalla vostra nascita; seguendo poi per tutta la vostra vita a dimostrarci sempre maggiori segni del vostro amore, sino a voler morire svenato e svergognato sopra di un legno infame. E come avete potuto poi trovare tanta sconoscenza appresso la maggior parte degli uomini, mentre vedo che pochi vi conoscono, e più pochi sono quelli che v’amano? Ah Gesù mio, tra questi pochi voglio essere anch’io. Per lo passato io pure v’ho sconosciuto, e scordato del vostro amore non ho atteso che a soddisfarmi, senza far conto di voi e della vostra amicizia. Ma ora conosco il male che ho fatto: me ne dolgo, me ne dispiace con tutto il cuore. Bambino mio, e Dio mio, perdonatemi per li meriti della vostra santa infanzia.
Io v’amo, e v’amo tanto, o Gesù mio, che se sapessi che tutti gli uomini avessero a ribellarsi da voi e abbandonarvi, io vi prometto di non lasciarvi, ancorché avessi a perdervi mille volte la vita. So già che questa luce e questa buona volontà che ora ho, voi me la date; ve ne ringrazio, amor mio, e vi prego a conservarmela colla grazia vostra. Ma voi sapete la mia debolezza, sapete i tradimenti che vi ho fatti, per pietà non mi abbandonate; altrimenti io tornerò ad essere peggiore di prima. Accettate ad amarvi il mio povero cuore che un tempo v’ha disprezzato, ma ora s’è innamorato della vostra bontà, o infante divino.
O Maria, o gran Madre del Verbo Incarnato, non mi abbandonate neppure voi che siete la madre della perseveranza e la dispensiera delle divine grazie. Aiutatemi e aiutatemi sempre; col vostro aiuto, o speranza mia, confido d’esser fedele a Dio sino alla morte.
DISCORSO III – Il Verbo Eterno da signore si è fatto servo.
Humiliavit semet ipsum formam servi accipiens. (Philip. II, 8).
Considerando S. Zaccaria la gran misericordia del nostro Dio nell’opera della Redenzione umana, ebbe ragione di esclamare: Benedictus Dominus Deus Israel, quia visitavit et fecit redemptionem plebis suae ,(Luc. I, 68): Sia benedetto sempre Iddio, che si è degnato di scendere in terra e farsi uomo per redimere gli uomini. Ut sine timore de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus illi: Acciocché sciolti dalle catene del peccato e della morte, con cui ci tenean legati e schiavi i nostri nemici, senza timore, ed acquistando la libertà de’ figli di Dio, possiamo in questa vita servirlo ed amarlo, per poi andare a possederlo e a goderlo da faccia a faccia nel regno de’ beati, che prima a noi era chiuso, ma ora ci viene aperto dal nostro Salvatore. Dunque tutti noi eravamo già schiavi dell’inferno; ma il Verbo Eterno, il nostro supremo Signore, per liberarci da tale servitù, che ha fatto? da signore si è fatto servo. Consideriamo qual misericordia e qual amore immenso è stato questo; ma prima cerchiamo luce a Gesù e a Maria.
Iddio è il Signore del tutto che vi è e vi può essere nel mondo: In ditione tua cuncta sunt posita; tu enim creasti omnia. Chi mai può negare a Dio il dominio supremo sopra tutte le cose, se egli è il creatore ed il conservatore del tutto? Et [habet] in vestimento et in femore suo scriptum: Rex regum, et Dominus dominantium (Apoc. XIX, 16). Spiega quell’in femore il Maldonato, e dice, suapte natura; e vuol dire, che a’ monarchi della terra sta la maestà annessa al di fuori, per dono e favore del supremo Re ch’è Dio: ma Dio è Re per natura; sicché non può non essere egli il Re e Signore del tutto. Ma questo supremo Re dominava nel cielo sugli angeli, dominava sopra tutte le creature, ma non dominava sopra i cuori degli uomini; gli uomini miseramente gemevano sotto la schiavitù del demonio. Sì, questo tiranno, prima della venuta di Gesù Cristo, era il signore che dagli uomini si faceva adorare anche per Dio con incensi e con sacrifici, non solo di animali, ma anche de’ propri figli e delle proprie vite; ed egli, il nemico, il tiranno, che cosa loro rendeva? come li trattava? Con somma barbarie tormentava i loro corpi, accecava le loro menti, e per una via di pene miseramente li conduceva alla pena eterna. Questo tiranno venne il Verbo divino ad abbattere, ed a liberare gli uomini dalla di lui troppo infelice servitù, affinché i miseri liberati dalle tenebre di morte, sciolti dalle catene di questo barbaro regnante, ed illuminati a conoscere qual fosse la vera via della loro salute, servissero al lor vero e legittimo Signore, che l’amava da padre, e da servi di Lucifero volea renderli suoi diletti figli: Ut sine timore de manu inimicorum nostrorum liberati serviamus illi. Predisse già il profeta Isaia che ‘l nostro Redentore dovea distruggere l’imperio che tenea il demonio sopra degli uomini: Sceptrum exactoris eius superasti. E perché il profeta chiamò il demonio esattore? perché, dice S. Cirillo, questo barbaro padrone da’ poveri peccatori suoi schiavi suole esigere gravissimi tributi di passioni, di rancori e di affetti malvagi, co’ quali a sé più gl’incatena, e nello stesso tempo li flagella. Venne dunque il nostro Salvatore a liberarci dalla servitù di questo nemico, ma come? in qual modo egli ci liberò? Sentite che fece, dice S. Paolo: Cum in forma Dei esset, non rapinam arbitratus est esse se aequalem Deo; sed semet ipsum exinanivit, formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus. Era già egli, dice l’Apostolo, il Figlio unigenito di Dio, eguale al suo Padre, eterno come il Padre, onnipotente come il Padre, immenso, sapientissimo, e supremo Signore del cielo e della terra, degli angeli e degli uomini come il Padre; ma per amore dell’uomo si abbassò a prender la forma di servo, con vestirsi di carne umana e farsi simile agli uomini; e perché questi per cagion de’ loro peccati eran divenuti servi del demonio, venne in forma di uomo a redimerli, con soddisfare colle sue pene e colla sua morte alla divina giustizia la pena da loro meritata. Ah se la santa fede di ciò non ci assicurasse, chi mai avrebbe potuto crederlo? chi mai sperarlo? chi mai neppure immaginarlo? Ma la fede ci fa sapere e ce ne fa certi, che questo sommo, supremo Signore exinanivit semet ipsum, formam servi accipiens.
E sin da bambino volle il Redentore, facendosi servo, cominciare a spogliar il demonio del dominio che avea sopra dell’uomo, siccome predisse Isaia: Voca nomen eius: Accelera spolia detrahere: Festina praedari. Hoc est, spiega S. Girolamo, ne ultra patiatur regnare diabolum. Ecco Gesù, che appena nato, dice Beda, per ottenere a noi la liberazione dalla schiavitù dell’inferno, comincia a far la figura e l’officio di servo, facendosi descrivere per suddito di Cesare colla paga del censo: Mox natus censu Caesaris adscribitur, et ob nostri liberationem ipse servitio adscribitur. Eccolo come in segno della sua servitù per cominciare a pagare colle sue pene i nostri debiti, qual servo si lascia da bambino ligare dalle fasce – simbolo delle funi, colle quali dovea poi un giorno farsi ligare da’ carnefici per esser condotto alla morte-. Patitur Deus, dice un autore, se pannis alligari, eo quod venerat mundi debita soluturus. Eccolo poi per tutta la sua vita ubbidire qual suddito ad una vergine, ad un uomo: Erat subditus illis. Eccolo qual servo in quella povera casa di Nazaret applicato da Maria e da Giuseppe ora a dirozzare i legni atti al lavoro dell’arte di Giuseppe, ora a raccogliere i frammenti di quei legni per fuoco, ora a scopar la casa, a prender l’acqua, ad aprire e serrar la bottega; in somma, dice S. Basilio ch’essendo Maria e Giuseppe poveri, e dovendo vivere colle proprie fatiche, Gesù Cristo per esercitare l’ubbidienza e per dimostrare loro la riverenza, che come a superiori loro portava, cercava di far esso tutte le fatiche che umanamente poteva adempire: In prima aetate (Iesus) subditum parentibus omnem laborem corporalem obedienter sustinuit. Cum enim illi essent pauperes, merito laboribus dediti erant. Iesus autem his subditus, omnium etiam simul perferendo labores, obedientiam declarabat (Instit. monach., cap. 4). Un Dio che serve! un Dio che scopa la casa! un Dio che fatica! Ah che un pensiero di questi dovrebbe infiammarci tutti e incenerirci d’amore.
Quindi uscendo a predicare il nostro Salvatore, si fece servo di tutti, dichiarando ch’egli non era venuto ad essere servito, ma a servire tutti: Filius hominis non venit ministrari, sed ministrare (Matth. XX, 28). Come se dicesse, secondo commenta Cornelio a Lapide: Ita me gessi et gero, ut velim omnibus ministrare, quasi omnium servus. Indi Gesù Cristo in fine di sua vita, dice S. Bernardo che si contentò, non solo di prender la forma di semplice servo, per soggettarsi agli altri, ma anche di servo malvagio, per esser in tal forma castigato, e così pagare la pena che toccava a noi come servi dell’inferno in castigo de’ nostri peccati: Non solum formam servi accipiens, ut subesset, sed etiam mali servi, ut vapularet et servi peccati ut poenam solveret. Eccolo finalmente, dice S. Gregorio Nisseno, che ‘l Signore di tutti qual suddito ubbidiente si sottomette alla sentenza benché ingiusta di Pilato, ed alle mani de’ carnefici, che barbaramente lo tormentano e lo crocifiggono: Omnium Dominus iudicis sententiae subiicitur, omnium rex carnificum manum experiri non gravatur (Tom. II, cap. 7). E lo disse già prima S. Pietro: Tradebat autem iudicanti se iniuste (I Petr. II, 23). E qual servo che volontariamente si sottomette al castigo, come se giustamente lo meritasse, cum malediceretur non maledicebat, cum pateretur non comminabatur. Sicché questo Dio ci amò a tal segno, che per nostro amore volle ubbidire da servo sino a morire, e morire con una morte amara ed ignominiosa, qual’è la morte di croce: Factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Ubbidì non già come Dio, ma come uomo, come servo che si fece: Formam servi accipiens, in similitudinem hominum factus. Fece ammirare il mondo quel grande atto di carità che fé S. Paolino allorché si rendé schiavo per riscattare il figlio ad una povera vedova. Ma che ha che fare questa carità con quella del nostro Redentore, che essendo Dio, per riscattar noi dalla schiavitù del demonio e dalla morte a noi dovuta, si fé servo, si fé ligare con funi, si fé inchiodar sulla croce, dove lasciar volle finalmente la vita in un mare di disprezzi e di dolori? Acciocché il servo diventasse padrone, dice S. Agostino, volle Dio farsi servo: Ut servus in dominum verteretur, formam servi Dominus accepit.
O mira circa nos tuae pietatis dignatio! O inaestimabilis dilectio caritatis! esclama la S. Chiesa (In sab. s., Exult.). O ammirabile opera di misericordia, o imprezzabile degnazione dell’amore divino: Ut servum redimeres Filium tradidisti. Voi dunque, o Dio d’infinita maestà, siete stato cosi preso d’amore verso gli uomini, che per redimere questi servi ribelli, avete voluto condannare alla morte il vostro unico Figlio? Ma, Signore, gli dice all’incontro Giobbe: Quid est homo, quia magnificas eum? aut quid apponis erga eum cor tuum? (Iob VII, 17). Che cosa è l’uomo, il quale è cosi vile, e vi è stato cosi ingrato, che voi lo rendete si grande, onorandolo ed amandolo tanto? Ditemi, siegue a dire, ché tanto v’importa la salute e la felicità dell’uomo? Ditemi perché tanto l’amate, che par che il vostro cuore non attenda ad altro che ad amare e a render beato quest’uomo?
Allegramente dunque, o anime, che amate Dio e sperate in Dio, allegramente; se il peccato di Adamo, e più i peccati propri ci han recato gran danno, intendiamo che bene assai maggior del danno ci ha apportato la Redenzione di Gesù Cristo. Ubi… abundavit delictum, superabundavit gratia, ci fa sapere l’Apostolo (Rom. V, 20). Maggiore è stato l’acquisto dice anche S. Leone – che noi abbiamo fatto per la grazia del Redentore, che non è stata la perdita che abbiam patita per opera del demonio: Ampliora adepti sumus per Christi gratiam, quam per diaboli amiseramus invidiam (Serm. 1, de Ascens.). E ‘l predisse già Isaia che l’uomo per mezzo di Gesù Cristo dovea ricever da Dio maggiori grazie, che non eran le pene che meritavano i suoi peccati: Suscepit de manu Domini duplicia pro omnibus peccatis suis (Is. XL, 2). Così appunto spiega questo testo l’interprete Adamo appresso Cornelio a Lapide: Deus ita dimisit Ecclesiae iniquitates per Christum, ut duplicia – id est multiplicia bona – susceperit pro poenis peccatorum, quas merebatur. Disse il Signore: Ego veni, ut vitam abeant, et abundantius habeant (Io. X,10). Io son venuto a dar la vita all’uomo, ed una vita più abbondante di quella che avea perduta col peccato: Non sicut delictum, ita et donum (Rom. V, 15). È stato grande il peccato dell’uomo, ma più grande è stato, dice l’Apostolo, il dono della Redenzione, la quale non solo è stata sufficiente al rimedio, ma sovrabbondante: Et copiosa apud eum redemptio (Ps. CXXIX, [7]). Dice S. Anselmo che il sacrificio della vita di Gesù Cristo superò ogni debito de’ peccatori: Vita hominis illius superat omne debitum quod debent peccatores (De Red. hom., c. 5). Onde la S. Chiesa chiama felice la colpa di Adamo: O felix culpa, quae tantum meruit habere Redemptorem! È vero che ‘l peccato ci ha ottenebrata la mente nella cognizione delle verità eterne, e ci ha intromessa nell’anima la concupiscenza verso i beni sensibili e vietati dalla divina legge; sì, ma quanti aiuti e mezzi ci ha ottenuti Gesù Cristo co’ suoi meriti, per acquistare la luce e la forza di vincere tutti i nostri nemici, e d’avanzarci nelle virtù! I santi sacramenti, il sacrificio della Messa, la preghiera a Dio per li meriti di Gesù Cristo, ah che queste son armi e mezzi valevoli non solo ad ottener la vittoria contro ogni tentazione e concupiscenza, ma anche di correre e volare nella via della perfezione. È certo che con questi mezzi stessi che son dati a noi, si son fatti santi tutti i santi della nuova legge. La colpa e nostra dunque, se non ce ne vogliamo avvalere. Oh quanto dobbiamo più noi ringraziare Dio, che ci ha fatti nascere dopo la venuta del Messia! Quanti maggiori beni abbiam ricevuto noi dopo la Redenzione fatta da Gesù Cristo! Quanto desiderò Abramo, quanto desiderarono i profeti, i patriarchi dell’antico testamento di veder nato il Redentore! ma non lo videro. Assordarono per così dire i cieli coi loro sospiri e colle loro preghiere. Rorate caeli desuper, esclamavano, et nubes pluant iustum (Is. XLV, 8). Piovete, o cieli, ed inviate a noi il giusto a placare Dio sdegnato, che non può esser placato da noi, poiché tutti siam peccatori. Emitte agnum… dominatorem terrae (Is. XVI, 1). Mandate, o Signore, l’agnello, che sagrificando se stesso soddisferà per noi la vostra giustizia, e cosi regnerà ne’ cuori degli uomini, che in questa terra vivono miseramente schiavi del demonio... Ostende nobis… misericordiam tuam, et salutare tuum da nobis (Ps. LXXXIV, 8). Dimostrate su presto a noi, o Dio delle misericordie, la più gran misericordia che voi ci avete già promessa, cioè il nostro Salvatore. Cosi dunque esclamavano e sospiravano i santi; ma con tutto ciò, per lo spazio di quattromila anni non ebbero già la sorte di veder nato il Messia. Noi si abbiamo avuta questa fortuna. Ma che facciamo? come ce ne sappiamo avvalere? Sappiamo amare quest’amabil Redentore che già è venuto, che già ci ha riscattato dalle mani de’ nostri nemici, ci ha liberati colla sua morte dalla morte eterna da noi meritata, ci ha aperto il paradiso, ci ha provveduti di tanti sagramenti e di tanti aiuti per servirlo ed amarlo con pace in questa vita, e per andare poi a goderlo nell’altra? Fuit ille, dice S. Ambrogio, pannis involutus, ut tu laqueis absolutus sis; illius paupertas meum patrimonium est; infirmitas Domini mea est virtus: lacrimae illae mea delicta laverunt. Troppo saresti ingrata al tuo Dio, o anima, se non l’amassi, dopo che ha voluto essere ligato dalle fasce, acciocché tu fossi liberata da’ lacci dell’inferno; dopo che si è fatto povero, per far te partecipe delle sue ricchezze, dopo che si è fatto debole, per dare a te la fortezza contro de’ tuoi nemici; dopo che ha voluto patire e piangere acciocché le lagrime sue lavassero i tuoi peccati.
Ma oh Dio e quanti pochi sono stati quelli poi che grati a tanto amore sono stati fedeli ad amare questo lor Redentore! Oimè che la maggior parte degli uomini dopo un tanto beneficio, dopo tante misericordie e tanto amore, dicono a Dio: Signore, non ti vogliamo servire; siamo più contenti d’essere schiavi del demonio e condannati all’inferno, che servi tuoi. Sento che così rinfaccia Iddio a tanti ingrati: Rupisti vincula mea, [et] dixisti: Non serviam (Ier. II, 20). Che dici, fratello mio, sei stato ancor tu uno di questi? Ma dimmi, col vivere lontano da Dio e schiavo del demonio, dimmi sei vivuto contento? Hai avuto pace? Ah che non possono venir meno le parole divine: Eo quod non servieris Domino Deo tuo in gaudio…, servies inimico tuo… in fame et siti et nuditate et omni penuria (Deuter. XXVIII, 47, [48]). Giacché tu non hai voluto servire al tuo Dio, ma al tuo nemico, vedi come questo tiranno ti ha trattato. Ti ha fatto gemere quale schiavo tra le catene, povero, amitto e privo d’ogni consolazione interna. Ma via su, ti parla Dio, ora che stai in istato di poter esser liberato da queste catene di morte da cui ti trovi avvinto, Solve vincula colli tui, captiva filia Sion (Is. LII, 2). Presto, or che vi è tempo, sciogliti, povera anima, che volontariamente ti sei fatta schiava d’inferno, sciogliti da questi infelici lacci che ti tengon destinata per l’inferno; e fatti su ligare dalle mie catene d’oro, catene d’amore, catene di pace, catene di salute: Vincula eius alligatura salutaris (Eccli. VI, 31).
Ma in qual modo l’anime si ligano con Dio ? Coll’amore. Caritatem habete, quod est vinculum perfectionis (Coloss. III, 14). Un’anima, sempre che cammina per la sola via del timore de’ castighi, e per questo solo timore si astiene dal peccare, sta sempre in gran pericolo di tornare presto a cadere. Ma chi si liga a Dio coll’amore sta certo di non perderlo, sino che l’ama. E perciò bisogna che sempre cerchiamo a Dio il dono del suo santo amore, pregando sempre e dicendo: Signore, tenetemi legato con voi, non permettete ch’io m’abbia a separare da voi e dal vostro amore. Il timore che dobbiamo più desiderare e chiedere a Dio, è il timor filiale, il timor di disgustare questo nostro buono Signore e padre. Ricorriamo ancora sempre alla nostra madre, preghiamo Maria SS. che ci ottenga la grazia di non amare altro che Dio, e ch’ella ci leghi talmente coll’amore al suo Figlio, che non abbiamo a vedercene più divisi col peccato.
Colloquio.
O Gesù mio, voi per mio amore e per liberarmi dalle catene dell’inferno avete voluto farvi servo; e non solo del vostro Padre, ma anche degli uomini e de’ carnefici, sino a perdervi la vita; ed io tante volte per qualche misero e avvelenato piacere mi sono licenziato dalla vostra servitù e mi son fatto schiavo del demonio. Maledico mille volte quei momenti in cui abusandomi così male della mia libertà, ho disprezzata la vostra grazia, o Maestà infinita. Deh perdonatemi e ligatemi a voi con quelle amabili catene d’amore con cui tenete a voi strette l’anime vostre dilette.
V’amo, o Verbo incarnato; v’amo, mio sommo bene. Altro ora non desidero che amarvi, e d’altro non temo che di vedermi privo del vostro amore. Deh non permettete ch’io abbia a separarmi più da voi. Vi prego, o Gesù mio, per tutte le pene della vostra vita e della vostra morte, non permettete che io abbia più a lasciarvi: Ne permittas me separari a te, ne permittas me separari a te. Ah mio Dio s’io dopo tante grazie che mi avete fatte, dopo che tante volte mi avete perdonato, e dopo che ora con tanta luce m’illuminate, e con tanto affetto m’invitate ad amarvi, io infelice ritornassi a voltarvi le spalle, come potrei sperare da voi più perdono? e non temere che giustamente in quello stesso punto voi non mi subissaste all’inferno? Ah non lo permettete, torno a replicarvi: Ne permittas me separari a te.
O Maria, rifugio mio, voi sinora siete stata la mezzana felice per me, che mi avete fatto aspettare da Dio e perdonare con tanta misericordia; aiutatemi ora, impetratemi la morte e mille morti prima ch’io avessi a perdere di nuovo la grazia di Dio.
DISCORSO IV – Il Verbo Eterno da innocente si è fatto reo.
Consolamini, consolamini, popule meus, dicit Deus vester. (Is. XL, 1).
Prima della venuta del Redentore, tutti gli uomini afflitti miseramente gemevano su questa terra; erano tutti figli d’ira, né vi era chi potesse placare Iddio giustamente sdegnato per li loro peccati. Ciò facea piangere il profeta Isaia, dicendo Ecce tu iratus es, et peccavimus… non est… qui consurgat et teneat te (Is. LXIV, [5, 7]). Sì, perché Dio era stato quello che dall’uomo era stato offeso: l’uomo, non essendo che una misera creatura, non potea con qualunque sua pena soddisfare l’offesa fatta ad una maestà infinita: vi bisognava un altro Dio che soddisfacesse alla divina giustizia, ma questo Dio non v’era, né potea trovarsi altro che un solo Dio: Dio all’incontro ch’era l’offeso, non poteva egli soddisfare a se stesso: sicché per noi era disperato il caso. Ma consolatevi, consolatevi, o uomini, disse loro il Signore per Isaia: Consolamini, consolamini, popule meus, dicit Deus vester, …quoniam completa est malitia (Is. XL, [2] ). Poiché Dio medesimo ha trovato il modo di salvare l’uomo, contentando insieme la sua giustizia e la sua misericordia: iustitia et pax osculatae sunt (Ps. LXXXIV, 11). E come si è fatto? Il medesimo Figlio di Dio si è fatto uomo, ha presa la forma di peccatore, ed egli addossandosi il peso di soddisfare per gli uomini, colle pene della sua vita e colla sua morte ha soddisfatta appieno la divina giustizia per la pena dagli uomini meritata; e così son restate appagate la giustizia e la misericordia. Dunque per liberare gli uomini dalla morte eterna, Gesù Cristo da innocente si è fatto reo: cioè ha voluto comparir peccatore. Sì, a questo l’ha ridotto l’amore ch’esso porta agli uomini. Consideriamolo, ma cerchiamo prima luce a Gesù e a Maria per cavarne profitto.
Qual era Gesù Cristo? Era, ci risponde S. Paolo: Sanctus, innocens, impollutus (Hebr. VII, 26). Era santo, innocente, immacolato; era, diciam meglio, la stessa santità, la stessa innocenza, la stessa purità, mentre egli era vero Figlio di Dio, vero Dio come è il Padre, e tanto caro al Padre, che ‘l Padre si dichiarò colà sull’acque del Giordano, che in questo Figliuolo avea trovate tutte le sue compiacenze. Ma volendo questo Figlio diletto liberare gli uomini da’ loro peccati e dalla morte a’ peccati dovuta, che fece? Apparuit, ut peccata nostra tolleret (I Io. III, 5). Egli si presentò al suo divin Padre e si offerì a pagare per gli uomini; e ‘l Padre allora, come dice l’Apostolo, lo mandò in terra a vestirsi di carne umana, con prendere la sembianza d’uomo peccatore, tutto fatto simile agli uomini peccatori: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati (Rom. VIII, 3). E poi soggiunge S. Paolo: Et de peccato damnavit peccatum in carne. E volle dire, come spiegano S. Giovan Grisostomo e Teodoreto, che ‘l Padre condannò il peccato ad esser privato del regno che avea sopra degli uomini, condannando alla morte il suo divin Figliuolo, il quale benché sembrasse di vestire carne infetta dal peccato, nulladimeno era santo ed innocente.
Dunque Dio per salvare gli uomini e per vedere insieme soddisfatta la sua giustizia, ha voluto condannare il proprio Figlio ad una vita penosa e ad una morte spietata? È stato ciò mai vero? Egli è di fede, e ce ne assicura S. Paolo: Proprio Filio suo non pepercit, sed pro nobis omnibus tradidit illum (Rom. VIII, 32). Ce n’assicura Gesù medesimo: Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16). Narra Celio Rodigino, che un certo chiamato Deiotaro, avendo egli più figli, perché uno tra essi era da lui più amato, il barbaro uccise tutti gli altri per lasciare intiera la sua eredità a quel figlio più diletto. Ma Dio ha fatto tutto l’opposto; ha ucciso il suo Figlio più diletto, e l’unico Figlio che aveva, per dare la salute a noi vermi vili ed ingrati. Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret. Consideriamo queste parole: Sic Deus dilexit mundum. Come? un Dio si degna d’amare gli uomini, vermi miserabili che gli sono stati ribelli ed ingrati, ed amarli a tal segno – verbum sic significat vehementiam amoris, dice S. Giovan Grisostomo – ut Filium suum unigenitum daret? che abbia voluto loro dare il suo medesimo Figlio, e Figlio unigenito che ama quanto se stesso! Non servum, non angelum, non archangelum dedit, sed Filium suum, soggiunge lo stesso santo dottore. Daret, e come l’ha voluto dare? l’ha dato umiliato, povero, disprezzato, in mano de’ servi a trattarlo come un ribaldo, sino a farlo morire svergognato su d’un patibolo infame. Oh grazia, oh forza dell’amore d’un Dio! qui esclama S. Bernardo: Oh gratiam! oh amoris vim! (Serm. 64, in Cant.). Oh Dio, chi non s’intenerirebbe in sentire questo caso, che un monarca per liberare il suo schiavo sia stato costretto a dar la morte al suo unico figlio, ch’era l’amor del padre, e l’amava quanto se stesso. Se Dio ciò non l’avesse fatto, chi mai, dice S. Giovan Grisostomo, avrebbe potuto pensarlo o sperarlo? Quae numquam humanus animus haud cogitare, haud sperare potuit, haec nobis largitus est.
Ma, Signore, questa sembra un’ingiustizia, condannare alla morte un figlio innocente per salvare lo schiavo che v’ha offeso. Secondo la ragione umana, dice Salviano, si stimerebbe certamente troppo ingiusto un uomo, se volesse uccidere il figlio innocente per liberare i servi dalla morte loro dovuta: Quantum ad rationem humanam, iniustam rem quilibet homo faceret, si pro pessimis servis filium bonum occidisset (De Prov., lib. 4). Ma no, che non è stata ingiustizia appresso Dio; poiché il Figlio esso medesimo si è offerto al Padre di voler soddisfare per gli uomini: Oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, 7). Ecco dunque Gesù che volontariamente qual vittima d’amore si sagrifica per noi. Eccolo che qual muto agnello si mette in mano di chi lo tosa, e benché innocente viene a soffrire dagli uomini tanti disprezzi e tormenti, senza neppure aprire la bocca: Et quasi agnus coram tondente se obmutescet, nec aperiet os suum (Is. LIII, 7). Ecco in somma il nostro amante Redentore, che per salvare noi vuol egli patire la morte e le pene da noi meritate. Vere languores nostros ipse tulit, et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII, 4). Dice S. Gregorio Nazianzeno: Tamquam impius pati non recusabat, modo homines salutem consequantur (Orat. pr. apolog.).
Chi mai ha fatto ciò? dimanda S. Bernardo. Quale mai è stata la cagione di questo immenso prodigio? Un Dio morire per le sue creature! Quis fecit? Fecit caritas: L’ha fatto l’amore che questo Dio porta agli uomini. Il santo va contemplando quando il nostro amabil Salvatore fu preso da’ soldati nell’orto di Getsemani, secondo riferisce S. Giovanni: Et ligaverunt eum (XVIII, 12): E poi si fa a dimandargli: Quid tibi et vinculis? Mio Signore, gli dice, io vi rimiro legato qual reo da questa canaglia, che vuol condurvi alla morte ingiustamente; ma oh Dio che han che fare con voi le funi e le catene? queste toccano a’ malfattori, ma non a voi che siete innocente, siete figlio di Dio, la stessa innocenza, la stessa santità. Risponde S. Lorenzo Giustiniani che i legami co’ quali Gesù Cristo fu condotto alla morte, non furon già le funi con cui l’avvinsero i soldati; ma fu l’amore verso degli uomini, e quindi esclama: Oh caritas, quam magnum est vinculum tuum, quo Deus ligari potuit! Indi lo stesso S. Bernardo si fa a contemplare l’ingiusta sentenza di Pilato che condanna Gesù alla croce, dopo averlo egli stesso dichiarato più volte innocente; e poi rivolto il santo a Gesù gli dice piangendo: Quid fecisti, o innocentissime Salvator, quod sic iudicareris? Ah mio Signore, sento che questo iniquo giudice vi condanna a morir crocifisso; e che male avete voi fatto? qual delitto avete mai commesso per meritare una morte sì penosa ed infame? morte che tocca a’ rei più scellerati? Ma poi ripiglia e dice: Ah che intendo, o mio Gesù, qual è il delitto che voi avete commesso, è il troppo amore che avete portato agli uomini: Amor tuus, peccatum tuum. Sì, che quest’amore, più che Pilato, vi condanna alla morte; mentre voi per pagare la pena dovuta agli uomini, avete voluto morire. – Approssimandosi il tempo della Passione del nostro Redentore, egli pregava il Padre che presto lo glorificasse, con ammetterlo a sacrificargli la vita: Clarifica me tu, Pater (Io. XVII, [5]). Ma stupito l’interroga S. Giovan Grisostomo: Quid dicis? Haec gloriam appellas? Una passione ed una morte accompagnata da tanti dolori e disprezzi, questo voi chiamate la vostra gloria? E ‘l santo poi si fa a rispondere in vece di Gesù Cristo: Ita pro dilectis haec gloriam existimo. Sì, è tanto l’amore ch’io porto agli uomini, che egli mi fa stimare mia gloria il patire e ‘l morire per essi.
Dicite, pusillanimes confortamini, et nolite timere: ecce Deus vester ultionem adducet retributionis, Deus ipse veniet et salvabit vos (Is. XXXV). Non temete dunque, dice il profeta, non diffidate più, poveri peccatori. Che timore avete di non essere perdonati, mentre viene il Figlio di Dio dal cielo a salvarvi? ed egli stesso rende a Dio col sacrificio della sua vita il compenso della giusta vendetta che meritavano i vostri peccati? Se voi colle vostre opere non potete placare Dio offeso, ecco chi lo placa, questo bambino che ora vedete giacere sulla paglia, che trema di freddo, che piange, egli colle lagrime sue lo placa. Non avete ragione di stare più mesti, dice S. Leone, per la sentenza di morte contro voi fulminata or che nasce per voi la vita: Neque fas est locum esse tristitiae, ubi natalis est vitae. E S. Agostino: Dulcis dies poenitentibus, hodie peccatum tollitur, et peccator desperat? Se voi non potete rendere alla divina giustizia la dovuta soddisfazione, ecco Gesù che per voi fa la penitenza; già ha cominciato a farla in questa grotta, la proseguirà in tutta la sua vita e finalmente la compirà sulla croce, alla quale, secondo dice S. Paolo, affiggerà il decreto della vostra condanna, cancellandolo col suo sangue: Delens quod adversus nos erat chirographum decreti, quod erat contrarium nobis, et ipsum tulit de medio, affigens illud cruci (Coloss. II, 14). Dice lo stesso Apostolo che morendo per noi Gesù Cristo, si è fatto la nostra giustizia: Factus est nobis sapientia… [et] iustitia, [et] sanctificatio et redemptio (I Cor. I, [30] ). Iustitia, commenta S. Bernardo, in ablutione peccatorum. Sì, perché accettando Dio per noi le pene e la morte di Gesù Cristo, atteso il patto, è obbligato per giustizia a perdonarci: Qui non noverat peccatum, pro nobis peccatum fecit, ut nos efficeremur iustitia Dei in ipso (II Cor. V, [21]). L’innocente si fé vittima de’ nostri peccati, acciocché poi per giustizia spettasse a noi il perdono per li meriti suoi. Che perciò Davide pregava Dio a salvarlo, non solo per la sua misericordia, ma anche per la sua giustizia: In iustitia tua libera me (Ps. XXX, [2]).
Sommo fu sempre il desiderio di Dio di salvare i peccatori. Questo desiderio lo faceva andare appresso di loro gridando: Redite praevaricatores ad cor (Is. XLVI, 8). Peccatori, ritornate al vostro cuore, pensate a’ benefici da me ricevuti, all’amore che vi ho portato, e non mi offendete più. Convertimini ad me… et ego convertar ad vos (Zac. I, 3). Rivolgetevi a me ed io v’abbraccerò. Quare moriemini, domus Israel?… revertimini et vivite (Ezech. XXI, 31). Figli miei, perché volete perdervi, e condannarvi da voi stessi ad una morte eterna? Tornate a me e vivete. In somma la sua infinita misericordia lo fé scendere dal cielo in terra per venire a liberarci dalla morte: Per viscera misericordiae Dei nostri, in quibus visitavit nos oriens ex alto (Luc. I, 78). Ma qui bisogna riflettere quel che dice S, Paolo: prima che Dio si facesse uomo, conservava per noi la misericordia, ma non poteva già sentire compassione delle nostre miserie, perché la compassione importa pena, e Dio non è capace di pena. Or dice l’Apostolo che il Verbo Eterno, affin di avere ancor compassione di noi, volle farsi uomo, capace di patire e simile agli uomini che sono afflitti dalla compassione, acciocché così potesse non solo salvarci, ma anche compatirci: Non enim habemus pontificem qui non possit compati infirmitatibus nostris, tentatum autem per omnia pro similitudine, absque peccato (Hebr. IV, 15). Ed in altro luogo: Debuit per omnia fratribus similari, ut misericors fieret (Hebr. II, 17).
Oh la gran compassione che ha Gesù Cristo de’ poveri peccatori! Questa gli fé dire ch’egli è quel pastore che va cercando la pecorella perduta, e quando la ritrova fa festa dicendo: Congratulamini mihi, quia inveni ovem meam quae perierat (Luc. XV, [6]). E se la mette sulle spalle: Imponit in humeros suos gaudens (Ibid. [5]), e così la stringe a sé per timore di non tornarla a perdere.- Questa gli fé dire ch’egli è quel padre amoroso, che quando torna a’ suoi piedi un qualche figlio prodigo che l’ha lasciato, egli non lo discaccia, ma l’abbraccia, lo bacia, e quasi vien meno per la consolazione e tenerezza che sente in vederlo pentito: Accurrens cecidit super collum eius, et osculatus est eum (Luc. ib., [20]).
Questa gli fa dire: Sto ad ostium et pulso (Apoc. III, 20). Cioè ch’egli, benché discacciato dall’anima col peccato, non l’abbandona, ma si mette fuori della porta del cuore, e bussa colle sue chiamate per rientrarvi.- Questa gli fé dire ai discepoli, che con zelo indiscreto desideravano vendetta contro coloro che gli avevano discacciati: Nescitis cuius spiritus estis (Luc. VI, 53). Voi vedete ch’io ho tanta compassione de’ peccatori, e voi desiderate vendette? Andate, andate via, perché voi non siete dello spirito mio.- Questa compassione finalmente gli fece dire: Venite ad me, omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. XI, [28]): Venite a me tutti che state afflitti e tormentati dal peso dei vostri peccati, ed io vi solleverò. Ed in fatti con qual tenerezza quest’amabil Redentore perdonò a Maddalena, subito ch’ella si ravvide, e la convertì in santa! Con qual tenerezza perdonò al paralitico, ed insieme gli donò la sanità del corpo! Con qual tenerezza specialmente si portò colla donna adultera! Gli presentarono i sacerdoti questa peccatrice, acciocché l’avesse condannata; ma Gesù a lei rivolto le disse: Nemo te condemnavit?… nec ego te condemnabo (Io. VIII). Come avesse voluto dirle: niun di costoro che ti hanno qui condotta ti ha condannata, e come voglio condannarti io che son venuto per salvare i peccatori ? Va in pace, e non peccar più. Vade, et iam amplius noli peccare.
Deh non temiamo di Gesù Cristo, temiamo solo della nostra ostinazione, se dopo averlo offeso, non vogliamo ubbidire alla sua voce che ci chiama al perdono. Quis est qui condemnet? dice l’Apostolo. Christus Iesus qui mortuus est;… qui etiam interpellat pro nobis (Rom. VIII, [34]). Se vogliamo restare ostinati, Gesù Cristo sarà costretto a condannarci. Ma se ci pentiamo del mal fatto, che timore abbiamo da avere di Gesù Cristo? Chi ti ha da condannare? pensa, dice san Paolo, che ha da condannarti quello stesso Redentore ch’è morto per non condannarti: quegli stesso, che per perdonare a te, non ha voluto perdonare a se medesimo. Ut servum redimeret sibi ipsi non pepercit, S. Bernardo.
Va dunque, peccatore, va alla stalla di Betlemme, e ringrazia Gesù bambino, che trema di freddo per te in quella grotta, vagisce e piange per te su quelle paglie; ringrazia questo tuo Redentore, ch’è venuto dal cielo a chiamarti ed a salvarti. Se desideri il perdono, egli ti sta aspettando in quella mangiatoia per perdonarti. Va presto dunque, fatti perdonare.
E poi non ti scordare dell’amore che ti ha portato Gesù Cristo. Gratiam fideiussoris ne obliviscaris (Eccli. XXIX, 20). Non ti scordare, dice il profeta, di questa somma grazia che ti ha fatta, in farsi egli mallevadore de’ tuoi debiti appresso Dio, con prender sopra di sé il castigo da te meritato: non te ne scordare, ed amalo. E sappi che se tu l’amerai, non t’impediranno i tuoi peccati di ricever da Dio le grazie più grandi e più speciali ch’egli suol donare all’anime più dilette: Omnia cooperantur in bonum (Rom. VIII, 8] . Etiam peccata, soggiunge la Glossa. Sì anche la memoria de’ peccati fatti giova al profitto d’un peccatore che li piange e li detesta; poiché quella concorrerà a farlo più umile e più grato a Dio, vedendo che Dio l’ha accolto con tanto amore. Gaudium erit in caelo super uno peccatore poenitentiam agente, quam super nonagintanovem iustis (Luc. XV, 7). Ma di qual peccatore ciò s’intende, che dà più gaudio al cielo, che molti giusti insieme? S’intende di quel peccatore che grato alla divina bontà si dedica tutto con fervore all’amor divino; come appunto fecero un S. Paolo, una S. Maddalena, una S. Maria Egiziaca, un S. Agostino, una S. Margherita da Cortona. A questa santa specialmente, la quale prima era stata per molti anni peccatrice, Dio fece vedere il suo luogo apparecchiato in cielo tra’ Serafini; e frattanto in vita le facea mille favori; ond’ella vedendosi così favorita un giorno gli disse: Signore, come tante grazie a me ? vi siete scordato delle offese che vi ho fatte? E Dio le rispose: E non sai, come io ho già detto, che quando un’anima si pente delle sue colpe, io mi scordo di tutti gli oltraggi che mi ha fatti? Secondo già si protestò per Ezechiele: Si… quis egerit poenitentiam… omnium iniquitatum eius non recordabor (Ezech. XVIII, 22).
Concludiamo. Dunque i peccati fatti non c’impediscono di farci santi. Dio ci offerisce pronto tutto l’aiuto, se lo desideriamo e lo domandiamo. Che resta? Resta che noi ci diamo tutti a Dio, e gli consagriamo almeno i giorni che ci rimangono di vita. Presto su, che facciamo? Se manca, manca per noi, non per Dio. Non facciamo che queste misericordie e queste amorose chiamate che ci fa Dio ci abbiano da essere di rimorso e di disperazione in punto di morte, allora che non sarà più tempo di fare più niente; allora si farà notte: Venit nox in qua nemo potest operari (Io. IX, 4). -Raccomandiamoci a Maria SS. che si gloria, come dice S. Germano, di render santi i peccatori più perduti, con ottener loro una grazia non solo ordinaria, ma esimia di conversione; e ben ella può farlo, perché quando dimanda a Gesù Cristo, lo dimanda da madre: Tu autem materna in Deum auctoritate pollens, etiam iis qui enormiter peccant, eximiam remissionis gratiam concilias (S. Germ., In encom. Deip.). Ed ella stessa ci fa animo, come la fa parlare la S. Chiesa, dicendo: Mecum sunt divitiae… ut ditem diligentes me (Prov. VIII, [18, 21]). E in altro luogo: In me gratia omnis viae et veritatis, in me omnis spes vitae et virtutis (Eccli. XXIV, [25]). Venite, dice, a me tutti, perché troverete tutta la speranza di salvarvi, e salvarvi da santi.
Affetti e preghiere.
O mio Redentore e Dio, e chi son io che tanto mi avete amato e tanto seguite ad amarmi? Che cosa avete mai ricevuto da me, che a tanto amore vi ho obbligato, se non disprezzi e disgusti, che v’obbligano ad abbandonarmi e discacciarmi per sempre dalla vostra faccia? Ma, Signore, io accetto ogni castigo, ma non questo. Se voi mi abbandonate e mi private della vostra grazia, io non vi posso più amare. Io non pretendo di sfuggire la pena; ma voglio amarvi e voglio amarvi assai. Voglio amarvi, com’è tenuto ad amarvi un peccatore che dopo tanti favori speciali, e tanti segni d’amore da voi ricevuti, ingrato tante volte vi ha voltato le spalle; e per gusti miseri, momentanei e avvelenati ha rinunziato alla vostra grazia e al vostro amore.
Perdonatemi, amato mio Bambino, mentr’io mi pento con tutto il cuore di quanti disgusti vi ho dati. Ma sappiate che non mi contento del semplice perdono; io voglio ancora la grazia d’amarvi assai, voglio compensar quanto posso coll’amor mio l’ingratitudine che vi ho usata per lo passato. Un’anima innocente v’ama da innocente, con ringraziarvi d’averla preservata dalla morte del peccato. Io debbo amarvi da peccatore, cioè da ribelle che vi sono stato, da condannato all’inferno per tante volte, per quante me l’ho meritato; e poi tante volte aggraziato da voi e rimesso in istato di salute, e di più arricchito di lumi, d’aiuti, e d’inviti a farmi santo.
O Redentore dell’anima mia, l’anima mia già si è innamorata di voi, e v’ama. Troppo voi mi avete amato, onde vinto dal vostro amore non ho potuto più resistere a tante finezze, finalmente già mi son renduto a collocare in voi tutto l’amor mio. V’amo dunque, o bontà infinita, v’amo, o amabilissimo Dio. Accrescete voi sempre più fiamme e più saette al mio cuore. Per vostra gloria fatevi amare assai da chi assai v’ha offeso.
DISCORSO V – Il Verbo Eterno da forte si è fatto debole.
Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos. (Is XXXV).1
Parlando Isaia della venuta del Redentore, predisse: Laetabitur deserta, et invia, et exsultabit solitudo; et florebit quasi lilium (Is. XXXV, 1). Parlava già il profeta de’ Pagani – tra’ quali erano già allora i nostri miseri antenati – i quali viveano nella gentilità, come in una terra deserta, abbandonata da uomini che conoscessero e adorassero il vero Dio, ma piena solamente di schiavi del demonio: terra deserta e senza via, poiché ivi era a questi miserabili ignota la via della salute. E predisse che poi questa terra sì infelice, alla venuta del Messia dovea rallegrarsi, in vedersi piena di seguaci del vero Dio, renduti forti dalla sua grazia contro tutti i nemici della loro salute; e dovea fiorire come giglio in purità di costumi e in odore di sante virtù. Quindi siegue a dire Isaia: Dicite: Pusillanimes confortamini et nolite timere; Deus ipse veniet et salvabit vos. Questo che predisse Isaia, già è succeduto; onde lasciate ch’io esclami ora con giubilo e dica: Allegramente, o figli d’Adamo, allegramente, non siate più pusillanimi; se vi conoscete deboli e non atti a resistere a tanti vostri nemici: Nolite timere, Deus ipse veniet et salvabit vos. È venuto Dio stesso in terra, e vi ha salvati, con comunicarvi forza bastante a combattere e vincere ogni nemico della vostra salute. E come il nostro Redentore vi ha procurata questa fortezza? Egli da forte e da onnipotente si e fatto debole. Ha presa sopra di sé la nostra debolezza, e così ci ha comunicata la sua fortezza. Vediamolo. Ma cerchiamo luce a Gesù Cristo ed a Maria.
Dio è quel forte che solamente può chiamarsi forte, poich’è la stessa fortezza; e tutti i forti da esso ricevono la loro forza: Mea est fortitudo, egli dice, per me reges regnant (Prov. VIII, 14, [15]). Dio è quel gran potente che può quanto vuole, e lo può facilmente, basta che voglia: Ecce tu fecisti caelum et terram in fortitudine tua, …et non erit[tibi] difficile omne verbum (Ier. XXII, 17). Egli con un cenno ha creato dal niente il cielo e la terra: Ipse dixit et facta sunt (Ps. CXLVIII, 5). E se volesse, con un altro cenno potrebbe distruggere tutta la gran macchina del mondo: Potest… universum mundum uno nutu delere (II Macch. VIII, 18). Sappiamo già che con un diluvio di fuoco, quando volle, in un momento bruciò cinque intiere città. Sappiamo che in altro tempo prima di ciò con un diluvio d’acque inondò tutta la terra colla morte di tutti gli uomini, alla riserva di sole otto persone. In somma dice Isaia: Signore, chi mai può resistere alla forza del vostro braccio? Virtuti brachii tui quis resistet? (Is. XL, 10).
Da ciò si vede poi quanto sia grande la temerità del peccatore che se la piglia con Dio, e giunge a tanta audacia, che non lascia di stender la mano contro l’Onnipotente: Tetendit adversus Dominum manum suam; contra Omnipotentem roboratus est (Iob XV, 21). Se mirassimo una formica che se la prendesse con un soldato, qual temerità si stimerebbe! Ma quanto è più temerario un uomo che se la prende col medesimo Creatore, che disprezza i suoi precetti, disprezza le sue minacce, disprezza la sua grazia, e se gli dichiara nemico!
Ma quest’uomini temerari ed ingrati, questi e venuto a salvare il Figlio di Dio, facendosi uomo, e caricandosi de’ castighi da loro meritati, per ottenere ad essi il perdono. E vedendo poi che per le ferite ricevute dal peccato era restato l’uomo molto debole ed impotente a resistere alle forze de’ nemici, che fece? da forte e da onnipotente ch’egli era, si fece debole ed assunse sopra di sé le corporali debolezze dell’uomo, per ottenere all’uomo co’ suoi meriti la fortezza dello spirito, necessaria a superare gl’insulti della carne e dell’inferno. Ed eccolo fatto bambino, bisognoso di latte per sostentarsi la vita; e così debole che da sé non può cibarsi, da sé non può muoversi. Il Verbo Eterno nel venire a farsi uomo volle nascondere la sua fortezza: Deus ab austro veniet;… ibi abscondita est fortitudo eius (Habac., cap. 3, [3, 4] ). Noi troviamo Gesù, dice S. Agostino, forte ed infermo: forte, mentr’egli ha creato il tutto: infermo, mentre lo vediamo fatt’uomo come noi: Invenimus Iesum fortem et infirmum; fortem, per quem sine labore facta sunt omnia; infirmum vis nosse? Verbum caro factum est (Tract. XV, in Io.). Or questo forte ha voluto farsi debole, dice il santo, per riparare colla sua debolezza la nostra infermità e così ottenerci la salute. Condidit nos fortitudine sua, quaesivit nos infirmitate sua.4 E perciò soggiunge che egli si nominò simile alla gallina, parlando con Gerusalemme: Quoties volui congregare filios tuos, quemadmodum gallina congregat pullos suos sub alas, et noluisti? (Matth. XXIII, 37). La gallina, riflette S. Agostino, per allevare i suoi pulcini s’inferma, e con tal segno si fa conoscere per madre; così fece il nostro amoroso Redentore, coll’infermarsi e farsi debole si fé conoscere per padre e per madre di noi poveri infermi.
Ecco quegli che regge i cieli – dice S. Cirillo – involto tra’ panni, che non può neppure stender le braccia: Qui caelum regit fasciis involvitur.6 Eccolo nel viaggio che dee fare all’Egitto per ordine del suo Eterno Padre; egli vuole già ubbidire, ma non può camminare; bisogna che Maria e Giuseppe a vicenda lo portino sulle loro braccia. E al ritorno dall’Egitto, come contempla S. Bonaventura, bisogna che per la via spesso si fermi a riposare, poiché il divino fanciullo è fatto così grande di corpo, che non può più esser portato in braccio; ma all’incontro è così picciolo e debole, che non può far lungo cammino: Sic magnus est, ut portari non valeat; et sic parvus est, quod per se ire non possit.7
Eccolo poi nella bottega di Nazaret fatto già grandicello, che tutto s’affatica e suda in aiutare Giuseppe nel mestiere che quegli esercita di legnaiuolo. Oh chi mai si facesse attentamente a contemplare Gesù, quel bel giovinetto che fatica e stenta su d’un rozzo legno, e gli dicesse: Ma voi, amabile garzoncello, voi non siete quel Dio che con un cenno dal niente avete creato il mondo? e come ora da un giorno avete stentato, siete tutto sudato per dirozzare questo legno, e neppure l’avete finito ancora? Chi vi ha renduto così debole! Oh santa fede! Oh amore divino! Oh Dio, oh Dio, che un pensiero di questi ben penetrato dovrebbe, non solo infiammarci, ma, per così dire, incenerirci d’amore. A questo segno dunque è arrivato un Dio? e perché? per farsi amare dagli uomini! Eccolo finalmente nel termine di sua vita ligato da funi nell’orto, da cui non si può sciogliere; ligato nel pretorio alla colonna ad esser flagellato: eccolo colla croce in ispalla, ma che non ha forza di portarla, e perciò va spesso cadendo per la via: eccolo affisso alla croce da chiodi da’ quali non può liberarsi: eccolo in fine che per debolezza già agonizza, vien meno e spira.
E perché Gesù Cristo si fece così debole? Si fé debole, per comunicare così, come sopra si disse, a noi la sua fortezza, e per così vincere ed abbattere le forze dell’inferno, Vicit leo de tribu Iuda (Apoc. V, 5). Dice Davide ch’è proprio di Dio ed insita nella sua natura divina la volontà di salvarci e liberarci dalla morte: Deus noster, Deus salvos faciendi; et Domini Domini exitus mortis (Ps. LXVII, 21). Così appunto commenta il Bellarmino: Hoc est illi proprium, haec est eius natura: Deus noster est Deus salvans; et Dei nostri sunt exitus mortis, id est liberatio a morte. Se siamo deboli, confidiamo in Gesù Cristo e potremo tutto: Omnia possum in eo qui me confortat, dicea l’Apostolo (Philip. IV, 13). Io posso tutto, non colle forze mie, ma colla fortezza che mi ha ottenuta il mio Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum (Io. XVI, 33). Fate animo, figli miei, ci dice Gesù Cristo; se Redentore coi meriti suoi. Confidite, filii, ego vici mundum sappiate ch’io l’ho vinto per voi; la vittoria mia è stata per vostro bene. Avvaletevi ora voi dell’armi ch’io vi lascio per difendervi, che certamente vincerete.
Quali sono quest’armi che ci ha lasciate Gesù Cristo? Sono due, l’uso de’ sacramenti e la preghiera.
Già si sa che per mezzo de’ sacramenti, specialmente della penitenza e dell’Eucaristia, si comunicano a noi le grazie che il Salvatore ci ha meritate. E si vede colla sperienza tutto giorno che chi frequenta i sacramenti ben si mantiene in grazia di Dio. Singolarmente chi spesso si comunica oh che forza riceve per resistere alle tentazioni! La Santa Eucaristia si chiama pane, Pane celeste, acciocché intendiamo che come il pane terreno conserva la vita del corpo, così la comunione conserva la vita dell’anima, ch’è la divina grazia. Perciò il Concilio di Trento chiamò la comunione, rimedio col quale veniam liberati dalle colpe veniali e preservati dalle gravi: Antidotum quo liberemur a culpis quotidianis et a peccatis mortalibus praeservemur (Sess. 13, cap. 2). Dice S. Tommaso, parlando dell’Eucaristia, che la piaga rimastaci dal peccato sarebbe incurabile, se non ci fosse dato questo rimedio divino: Esset incurabilis, nisi subveniret medicina Dei (Opusc. de sacram.). Ed Innocenzo III (De myster. Missae) disse che la Passione di Gesù Cristo ci libera dalle catene del peccato, e la santa comunione ci libera dalla volontà di peccare! Mysterium crucis eripit nos a potestate peccati, mysterium eucharistiae eripit nos a voluntate peccandi.
L’altro gran mezzo per superar le tentazioni è la preghiera fatta a Dio per li meriti di Gesù Cristo. Amen amen dico vobis– disse il Redentore- si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XIV, 14). Quanto dunque chiederemo a Dio in nome di Gesù Cristo, cioè per li di lui meriti, tanto otterremo. E ciò anche si vede continuamente avvenire; coloro che sono tentati, e ricorrono a Dio e lo pregano per Gesù Cristo, tutti restano vincitori; e coloro all’incontro che nelle tentazioni – specialmente d’impurità – non si raccomandano a Dio, cadono miseramente e si perdono. E poi si scusano con dire che son di carne e che son deboli. Ma come può lor valere la scusa della loro debolezza, se potendo rendersi forti con ricorrere a Gesù Cristo- bastando per ciò solamente l’invocare con confidenza il suo santissimo nome- non vogliono farlo? Quale scusa, dico, avrebbe colui che si lagnasse d’essere stato vinto dal nemico, se essendogli state presentate l’armi da difendersi, l’avesse disprezzate e rifiutate? Se costui volesse allegar la sua debolezza, non lo condannerebbe ognuno, dicendogli: E tu, giacché sapevi la tua debolezza, perché non hai voluto avvalerti dell’armi che ti sono state offerte? – Dice S. Agostino che il demonio e stato posto in catena da Gesù Cristo; può egli latrare, ma non mordere, se non chi vuole esser morso. Troppo stolto, soggiunge, e colui che si fa mordere dal cane messo in catena: Venit Christus, et alligavit diabolum. Alligatus est tamquam innexus canis catenis. Stultus est homo, quem canis in catena positus mordet. Ille latrare potest, sollicitare potest, mordere non potest. nisi volentem: non enim extorquet a nobis consensum, sed petit (Serm. 197). Ed in altro luogo dice che il Redentore ci ha dati tutti i rimedi per guarirci; chi non vuol osservare la legge e muore, muore perché egli medesimo vuole uccidersi: Quantum in medico est, sanare venit aegrotum. Ipse se interimit qui praecepta observare non vult.
Chi si avvale di Gesù Cristo non è debole no, ma si rende forte colla fortezza di Gesù Cristo. Egli è quello, come dice S. Agostino, che non solo ci esorta a combattere, ma ci dà l’aiuto; se veniamo meno, esso ci solleva; e poi per sua bontà esso medesimo ci corona: Hortatur ut pugnes, et adiuvat ut vincas, et deficientem sublevat, et vincentem coronat (S. August., in Psal 32).14 Predisse Isaia (Cap. XXXV) tunc saliet sicut cervus claudus; cioè che per li meriti del Redentore chi era inabile a dare neppure un passo, avrebbe saliti anche i monti come cervo veloce. Et quae erat arida, erit in stagnum, et sitiens in fontem aquarum; predisse che le terre più aride sarebbero divenute feconde di virtù. In cubilibus, in quibus prius dracones habitabant, orietur viror calami et iunci; e che in quell’anime, dove prima abitavano i demoni, sarebbe nato il vigor della canna, cioè dell’umiltà, quia humilis, commenta Cornelio a Lapide, est vacuus in oculis suis; e del giunco, cioè della carità, poiché i giunchi – come commenta lo stesso autore – in certe parti si mettono come lucignoli ad ardere nelle lampade. In somma noi troviamo in Gesù Cristo ogni grazia, ogni fortezza, ogni aiuto, quando a lui ricorriamo: In omnibus divites facti estis…, ita ut nihil vobis desit in ulla gratia (I Cor. I, [5,7]). Egli a questo fine si è fatt’uomo e si è esinanito Exinanivit semet ipsum (Philip. II, 7). Quasi, dice un autore, ad nihilum se redegit; se evacuavit maiestate, gloria et robore. Quasi si è ridotto a niente, si è spogliato della sua maestà, della sua gloria e della sua fortezza, ed ha presi sopra di sé i disprezzi e le debolezze, per comunicare a noi i suoi pregi e la sua virtù; e per essere la nostra luce, la nostra giustizia, la nostra santificazione e ‘l nostro riscatto. Factus est nobis sapientia a Deo, [et] iustitia, [et] sanctificatio, et redemptio (I Cor. I, [30]). Ed egli sta sempre pronto per dare aiuto e forza a chiunque ce la domanda.
Vidi… praecinctum ad mamillas zona aurea (Apoc. I, [12], 13). S. Giovanni vide il Signore col petto ripieno di latte, cioè ripieno di grazie, e cinto da una fascia d’oro; viene a dire che Gesù Cristo è quasi circondato e costretto dall’amore che porta agli uomini; e siccome una madre che avendo il petto ripieno di latte va cercando bambini che succhino e la sgravino da quel peso, così egli anela che noi andiamo a cercargli grazie ed aiuti per vincere i nostri nemici, che ci contrastano la sua amicizia e l’eterna salute. Oh come è buono e liberale Dio con un’anima che veramente e risolutamente lo cerca! Bonus est Dominus… animae quaerenti illum (Thren. III, 25). Dunque se non ci facciamo santi, manca solamente per noi, perché non ci risolviamo a voler solo Dio. Vult et non vult piger (Prov. XIII, [4]). I tepidi vogliono e non vogliono, e perciò restano vinti perché non hanno volontà risoluta di piacere solo a Dio. Volontà risoluta vince tutto, perché quando un’anima si risolve da vero di darsi tutta a Dio, Dio subito le dà la mano e la forza da superar tutte le difficoltà che incontra nella via della perfezione. Questa fu la bella promessa che ci significò Isaia, dicendo: Utinam dirumperes caelos et descenderes, a facie tua montes defluerent! (LXIV, 1). Erunt prava in directa et aspera in vias planas (XL, 4). Alla venuta del Redentore, colla forza ch’egli donerà all’anime di buona volontà, troveranno elle spianati i monti di tutti gli appetiti carnali; e troveranno le vie torte divenute diritte, e le aspre fatte dolci, cioè i disprezzi e i travagli che prima agli uomini erano difficili ed aspri, per mezzo poi della grazia data da Gesù Cristo, e dell’amore divino ch’egli accenderà ne’ loro cuori, si renderanno facili e dolci. Così un S. Giovanni di Dio giubilava in vedersi bastonato da pazzo in uno spedale; così una S. Lidovina godea, trovandosi per tanti anni impiagata e inchiodata in un letto; così un S. Lorenzo esultava e burlava il tiranno, stando sulla graticola bruciando, e dando la vita per Gesù Cristo. E così ancora tante anime innamorate di Dio trovano pace e contento, non già ne’ piaceri e onori del mondo, ma ne’ dolori e nelle ignominie.
Ah preghiamo noi Gesù Cristo che ci doni quel fuoco ch’egli è venuto ad accendere in terra, che così ancora noi non troveremo più difficoltà a disprezzare i beni di fango, e ad imprendere cose grandi per Dio. Qui amat non laborat, dice S. Agostino.22 Non è fatica, né pena il patire, l’orare, il mortificarsi, l’umiliarsi, e ‘l distaccarsi dai diletti della terra, ad un’anima che non ama altro che Dio. Quanto più ella opera o patisce, tanto più desidera di fare e patire. Dura sicut infernus aemulatio; lampades eius lampades ignis atque flammarum (Cant. VIII 6): Le fiamme dell’amor divino sono come le fiamme dell’inferno, che non dicono mai basta. Qualunque cosa non basta ad un’anima che ama Dio.
Siccome all’inferno
Niun fuoco è bastante,
Neppure all’amante
Mai basta il suo ardor.
Preghiamone Maria Santissima, per mezzo di cui – come fu rivelato a S. Maria Maddalena de’ Pazzi23 – Si dispensa all’anime l’amor divino, ch’ella ci ottenga questo gran dono. Ella è il tesoro di Dio, la tesoriera di tutte le grazie, e specialmente del divino amore, come disse l’Idiota: Thesaurus et thesauraria gratiarum.
Maria madre mia, voi siete la speranza, il rifugio de’ peccatori, aiutate un peccatore che vuol esser grato al suo Dio; aiutatemi ad amarlo e ad amarlo assai.
Colloquio
Mio sommo Dio e Redentore, io era perduto, voi col vostro sangue mi avete riscattato dall’inferno; ma io misero poi più volte mi son perduto di nuovo, e voi mi avete ricuperato dalla morte eterna. Tuus sum ego, salvum me fac. Giacché ora son vostro, come spero, non permettete ch’io abbia da ritornare a perdermi con ribellarmi da voi. Io son risoluto di soffrire la morte e mille morti, prima che vedermi di nuovo vostro nemico e schiavo del demonio. Ma voi sapete la mia debolezza, sapete i miei tradimenti, voi avete da darmi la forza a resistere agli assalti che mi darà l’inferno. Io so che nelle tentazioni sarò da voi soccorso, sempreché a voi ricorrerò, mentre vi è la vostra promessa: Petite et accipietis. Omnis qui petit accipit. Ma questo è il mio timore, temo che ne’ miei bisogni io trascuri di raccomandarmi a voi, e cosi miseramente resterò vinto. Questa è la grazia dunque che maggiormente vi domando: datemi luce e forza di ricorrere sempre a voi, e d’invocarvi ogni volta che sarò tentato; e di più vi domando l’aiuto per sempre domandarvi questa grazia. Concedetemela per li meriti del vostro sangue.
E voi Maria, ottenetemela per l’amore che portate a Gesù Cristo.
DISCORSO VI – Il Verbo Eterno da suo si è fatto nostro.
Parvulus… natus est nobis, [et] Filius datus est nobis. (ISAIA IX, 6).
Dimmi, barbaro Erode, perché mandi ad uccidere e sagrificare alla tua ambizion di regnare tanti bambini innocenti? Dimmi di che ti disturbi? che timore hai? temi forse che il Messia già nato abbia da spogliarti del tuo regno? Quid est, parla S. Fulgenzio, quod sic turbaris, Herodes? Rex iste qui natus est non venit reges pugnando superare, sed moriendo subiugare (Serm. 5, de Epiph.). Questo Re di cui temi, dice il santo, non è venuto a vincere i potenti della terra combattendo coll’armi, ma è venuto a regnare ne’ cuori degli uomini col patire e morire per loro amore: Venit ergo, conclude S. Fulgenzio, non ut pugnet vivus, sed ut triumphet occisus. È venuto l’amabile nostro Redentore non a far guerra in sua vita, ma a trionfare dell’amore degli uomini, per quando avrà lasciata la vita sul patibolo di una croce, com’egli stesso disse: Cum exaltatus fuero, omnia traham ad me ipsum (Io. XII, 32). Ma lasciamo Erode da parte, o anime divote, e veniamo a noi. Dunque il Figlio di Dio perché è venuto in terra? per darsi a noi? Sì, ce ne assicura Isaia: Parvulus… natus est nobis [et] filius datus est nobis. A ciò l’ha condotto l’amore che ci porta questo amante Signore, e ‘l desiderio che ha d’essere amato da noi. Da suo si è fatto nostro. Vediamolo; ma prima cerchiamo luce al SS. Sacramento, e alla divina Madre.
Il maggior pregio di Dio, anzi il tutto di Dio, è l’essere suo, cioè l’essere da sé, e non dipendere da niuno. Tutte le creature, per grandi ed eccellenti che sieno, in fatti sono niente, perché quanto hanno tutto l’hanno da Dio che l’ha create e le conserva; in modo tale che se Dio lasciasse per un momento di conservarle, subito perderebbero il loro essere e ritornerebbero al niente. Dio all’incontro, perch’è da sé, non può mancare, né può esservi chi lo distrugga, o diminuisca la sua grandezza, la sua potenza, o la sua felicità. Ma S. Paolo dice che l’Eterno Padre ha dato il Figlio per noi: Pro nobis omnibus tradidit illum (Rom. VIII, 32). E che ‘l Figlio medesimo si è dato per noi: Dilexit nos, et tradidit semet ipsum pro nobis (Ephes. V, 2) – Dunque Dio dandosi per noi, egli si è fatto nostro? Sì, dice S. Bernardo: Natus est nobis, qui sibi erat; quegli ch’era tutto a se stesso, ha voluto nascere a noi e farsi nostro. Triumphat de Deo amor Questo Dio che da niuno può esser dominato, l’amore, per dir così, l’ha vinto e ne ha trionfato, sì che da suo l’ha fatto nostro. Sic… Deus dilexit mundum, ut Filium suum unigenitum daret (Io. III, 16): Sino a questo segno, disse Gesù Cristo, Dio ha amati gli uomini, che loro ha donato il suo medesimo Figlio. E ‘l Figlio stesso anche per amore ha voluto donarsi agli uomini, per essere da loro amato.
In più modi avea già procurato Iddio di cattivarsi i cuori degli uomini, ora con benefici, ora con minacce, ora con promesse; ma non era giunto a conseguire l’intento. Il suo infinito amore, dice S. Agostino, trovò il modo di farlo dare per mezzo dell’incarnazione del Verbo tutto a noi, per obbligarci così ad amarlo con tutto il nostro cuore: Modum tunc, ut se proderet, invenit amor (Serm. 206, de temp.). Poteva egli mandare un angelo, un Serafino a redimere l’uomo; ma vedendo che l’uomo, se fosse stato redento da un Serafino, avrebbe avuto a dividere il suo cuore, amando con parte di quello il Creatore, e con parte il suo Redentore; Dio, che voleva tutto il cuore e tutto l’amore dell’uomo, voluit esse nobis, dice un divoto autore, Creator et Redemptor; siccome egli era il nostro Creatore, volle farsi ancora nostro Redentore.
Ed eccolo già venuto dal cielo in una stalla, da bambino nato per noi e dato tutto a noi: Parvulus… natus est nobis [et] Filius datus est nobis. E ciò appunto volle significare l’Angelo quando disse a’ pastori: Natus est vobis hodie Salvator (Luc. II, 11). Come dicesse: uomini, andate alla grotta di Betlemme, adorate ivi quel bambino che vi troverete, steso sulla paglia, dentro una mangiatoia, che trema di freddo e piange; sappiate che quegli è il vostro Dio, che non ha voluto mandare altri a salvarvi, ma ha voluto venire egli stesso, per così acquistarsi tutto il vostro amore. Sì, perciò è venuto in terra il Verbo Eterno a conversare cogli uomini per farsi amare. Cum hominibus conversatus est (Baruch III, 38). Un re, se dice una parola di confidenza ad un vassallo, se gli fa un sorriso, se gli dona un fiore, oh quanto quel vassallo si stima onorato e fortunato! Quanto più poi se il re lo cercasse per amico! se lo tenesse con sé ogni giorno a mensa; se volesse che abitasse nel suo medesimo palagio, e che gli stasse sempre vicino! – Ah mio sommo re, mio caro Gesù, voi non potendo portare l’uomo prima della Redenzione in cielo, che gli era chiuso per cagion del peccato, siete venuto voi in terra a conversar con l’uomo qual loro fratello, e a darvi tutto all’uomo per l’amore che gli portate.- Dilexit nos et tradidit semet ipsum pro nobis. Sì, dice S Agostino, questo amorosissimo e pietosissimo Dio, per l’amore che porta all’uomo, non solo ha voluto donargli i suoi beni, ma anche se stesso: Deus piissimus prae amore hominis, non solum sua, verum se ipsum impendit.
Dunque tanto è l’affetto che questo sommo Signore conserva per noi vermi miserabili, che si contenta di darsi tutto a noi, nascendo per noi, vivendo per noi, sino a dare per noi la vita e tutto il suo sangue, per apparecchiarci un bagno di salute e lavarci da tutti i nostri peccati: Dilexit nos, et lavit nos… in sanguine suo (Apoc. I, 5). Ma, Signore, dice Guerrico abbate, questa par che sia una soverchia prodigalità che fate di voi stesso, per questa grand’ansia che avete di essere amato dall’uomo: Oh Deum, si fas est dicere, prodigum sui prae desiderio hominis! E come no, soggiunge, come non ha da dirsi prodigo di se stesso questo Dio, che per acquistare l’uomo perduto non solo dà le sue cose, ma anche se medesimo? An non prodigum sui, qui non solum sua, sed se ipsum impendit, ut hominem recuperaret?
Dice S. Agostino che Dio per cattivarsi l’amore degli uomini, ha scoccate diverse saette d’amore ai loro cuori: Novit Deus sagittare ad amorem; sagittat, ut faciat amantem (In psal. 119). Quali sono queste saette? Son tutte queste creature che vediamo, poiché tutte l’ha create Dio per l’uomo, acciocché l’uomo l’amasse; onde dice lo stesso santo: Caelum et terra, et omnia mihi dicunt ut amem te. Pareva al santo che il sole. la luna, le stelle, i monti, le campagne, i mari, i fiumi gli parlassero e dicessero: Agostino, ama Dio, perché Dio ha creati noi per te, acciocché tu l’amassi. – S. Maria Maddalena de’ Pazzi, quando teneva in mano un bel pomo o un bel fiore, diceva che quel pomo, quel fiore l’era come una saetta al cuore, che la feriva d’amore verso Dio; pensando che Dio da un’eternità aveva pensato a creare quel fiore, acciocch’ella scorgesse il di lui affetto, e l’amasse. S. Teresa ancora dicea che tutte queste belle creature che noi vediamo, le marine, i ruscelli, i fiori, i frutti, gli uccelli, tutti ci rinfacciano la nostra ingratitudine a Dio, poiché tutti sono segni dell’amore che Dio ci porta. Narrasi ancora di un certo divoto romito, che andando per la campagna, e trovando l’erbette e i fiori, gli sembrava che quelli gli rimproverassero la sua sconoscenza, e perciò l’andava percuotendo col suo bastoncello, loro dicendo: Tacete, tacete, v’ho inteso, non più; voi mi rimproverate la mia ingratitudine, mentre Dio v’ha creati così belli per me, acciocché io l’amassi, ed io non l’amo; tacete, v’ho inteso, non più non più. E così andava sfogando l’affetto che sentiva accendersi nel cuore verso Dio da quelle belle creature.
Erano dunque saette d’amore tutte queste creature al cuor dell’uomo, ma Dio di queste saette non fu contento; elle non erano già bastate a guadagnarsi l’amore degli uomini. Posuit me sicut sagittam electam, in pharetra sua abscondit me (Is. IL, [2] ). Dice Ugon cardinale su questo passo, che siccome il cacciatore tien riserbata la saetta migliore per l’ultimo colpo a fermare la fiera; così Dio fra tutti i suoi doni tenne riserbato Gesù, sino che venne la pienezza de’ tempi, ed allora inviollo come per ultimo colpo a ferire d’amore i cuori degli uomini: Sagitta electa reservatur; ita Christus reservatus est in sinu Patris, donec veniret plenitudo temporis, et tunc missus est ad vulneranda corda fidelium. Gesù dunque fu la saetta eletta e riserbata, al colpo della quale predisse già Davide che doveano cader vinti popoli intieri: Sagittae tuae acutae, populi sub te cadent (Ps. XLIV, [6]). Oh quanti cuori feriti io vedo ardere d’amore avanti la mangiatoia di Betlemme! Quanti a’ piedi della croce nel Calvario! Quanti alla presenza del SS. Sacramento su gli altari!
Dice S. Pier Grisologo che ‘l Redentore per farsi amare dall’uomo volle prendere diverse forme: Propter nos alias monstratur in formas, qui manet unica suae maiestatis in forma (Serm. 23). Quel Dio ch’è immutabile volle farsi vedere or da bambino in una stalla, or da garzone in una bottega, or da reo su d’un patibolo, or da pane su d’un altare. Volle Gesù dimostrarsi a noi in queste varie sembianze, ma in tutte queste comparse fé sempre la comparsa d’amante. Ah mio Signore, ditemi, v’è più che inventare per farvi amare? Notas facite (gridava Isaia) …adinventiones eius (Is. XII, 4). Andate, o anime redente, dicea il profeta, andate da per tutto pubblicando le invenzioni amorose di questo Dio amante, ch’egli ha pensate ed eseguite per farsi amare dagli uomini, mentre dopo che ha dati loro tanti suoi doni, ha voluto dare se stesso, e darsi loro in tanti modi. Si vulneris curam desideras, dice S. Ambrogio (Lib. 3, de Virg.), medicus est: se sei infermo e vuoi guarire, ecco Gesù che col suo sangue ti sana. Si febribus aestuaris, fons est: se sei tormentato da fiamme impure di affetti mondani, ecco il fonte che colle sue consolazioni ti conforta. Si mortem times, vita est; si caelum desideras, via est: in somma, se non vuoi morire, egli è la vita: se vuoi il cielo, egli è la via.
E non solo Gesù Cristo si è dato a tutti gli uomini in generale, ma ha voluto darsi ancora a ciascuno in particolare. Ciò era quel che facea dire a S. Paolo: Dilexit me et tradidit semet ipsum pro me (Galat. II, 20). Dice S. Giov. Grisostomo, che Dio così ama ciascuno di noi, come ama tutti gli uomini: Adeo singulum quemquam hominem diligit, quo diligit orbem universum (Hom. 24, in Ep. ad Gal.). Sicché se nel mondo, fratello mio, non vi fosse stato altri che voi, per voi solo sarebbe venuto il Redentore, ed avrebbe dato il sangue e la vita. E chi mai potrà spiegare o capire, dice S. Lorenzo Giustiniani, l’amore che questo Dio innamorato porta ad ogni uomo? Neque valet explicari quo circa unumquemque Deus moveatur affectu. Ciò faceva dire anche a S. Bernardo, parlando di Gesù Cristo: Totus mihi datus, totus in meos usus expensus (Serm. 3, de Circumcis.). Ciò facea dire anche a S. Giovan. Grisostomo: Totum nobis dedit, nihil sibi reliquit. Ci ha dato il suo sangue, la sua vita, se stesso nel Sacramento; non gli è restato più che darci. In somma, dice S. Tommaso, dopo che Dio ci ha dato se stesso, che più può restargli da darci? Deus ultra quo se extenderet non habet (Serm. 3, de Circumcis.). Dopo l’opera dunque della Redenzione, Dio non ha più che darci né ha più che fare per amore dell’uomo.
Sicché ogni uomo dovrebbe dire quel che dicea S. Bernardo: Me pro me debeo, quid retribuam Domino pro se? Io sono di Dio, e a Dio debbo rendermi per avermi egli creato e dato l’essere; ma io dopo avergli dato me, che renderò a Dio per avermi egli dato se stesso? Ma non occorre andarci più confondendo; basta che diamo a Dio il nostro amore, e Dio è contento. I re della terra si gloriano nel dominio de’ regni e delle ricchezze: Gesù Cristo è contento del regno de’ nostri cuori; questo reputa il suo principato; e questo principato egli volle acquistarselo morendo in croce. Et factus est principatus super humerum eius (Is. IX, 6). Per queste parole, principatus super humerum eius, più interpreti con S. Basilio, S. Cirillo, S. Agostino ed altri, intendono la croce che ‘l nostro Redentore portò sulle spalle. Questo Re celeste, dice Cornelio a Lapide, è un signore molto diverso dal demonio; il demonio carica di pesi le spalle dei suoi sudditi, Gesù all’incontro si addossa egli i pesi del suo principato, abbracciandosi la croce, sulla quale vuol morire per acquistarsi il dominio de’ nostri cuori: Diabolus onera imponit humeris subditorum, Christus suis humeris sustinebit onus sui principatus, quia Christus sceptrum imperii sui, puta crucem, humeris suis baiulabit, et regnabit a ligno (A Lap., in loc. cit. Isaiae). Tertulliano disse che dove i monarchi terreni portano lo scettro e la corona per insegne del loro dominio, Gesù Cristo portò la croce, che fu il trono dove salì a regnare del nostro amore: Quis regum insigne potestatis suae humero praefert, et in capite diadema, aut in manu sceptrum? Solus Rex Christus Iesus potestatem suam in humero extulit, crucem scilicet, ut exinde regnaret.
Quindi parla Origene e dice: Se Gesù Cristo ha dato se stesso ad ogni uomo, che gran cosa farà l’uomo se si dà tutto a Gesù Cristo? Christus semet ipsum dedit; quid ergo magnum faciet homo, si semet ipsum offerat Deo, cui ipse se prior obtulit Deus? (Hom. 24, in Nat.). Doniamo dunque di buona voglia il nostro cuore e ‘l nostro amore a questo Dio, che per acquistarselo ha dovuto dare il sangue, la vita, e tutto sé.- Oh si scires donum Dei, et quis est qui dicit tibi: Mulier, da mihi bibere! (Io. IV, 7). Oh se intendessi, disse Gesù alla Samaritana, la grazia che ricevi da Dio, e chi è quello che ti cerca da bere! Oh se intendesse l’anima, che grazia è quella, quando Dio le domanda che l’ami, dicendole: Diliges Dominum Deum tuum!30 Se un suddito sentisse dirsi dal suo principe che l’amasse, questa sola richiesta basterebbe ad incatenarlo. E non c’incatena un Dio, chiedendoci il nostro cuore, dicendo: Praebe, fili mi, cor tuum mihi? (Prov. XXIII, 26).
Ma questo cuore non lo vuol dimezzato, lo vuole tutto ed intiero; vuole che noi con tutt’il cuore l’amiamo: Diliges Dominum tuum ex toto corde tuo. Se no, non è contento. A questo fine egli ci ha dato tutto il suo sangue, tutta la sua vita, tutto se stesso, acciocché gli diamo tutti noi stessi, e siamo tutti suoi. Ed intendiamo che allora noi daremo tutt’il nostro cuore a Dio, quando gli daremo tutta la nostra volontà; non volendo da qui avanti se non quello che vuole Dio, il quale certamente non vuole che ‘l nostro bene e la nostra felicità: In hoc Christus, dice l’Apostolo, mortuus est, ut mortuorum et vivorum dominetur. Sive ergo morimur, sive vivimus, Domini sumus (Rom. XIV, 8).31 Gesù ha voluto morire per noi; più non avea che fare per guadagnarsi tutto il nostro amore, e per essere unico signore del nostro cuore; onde da oggi innanzi dobbiamo far sapere al cielo ed alla terra, in vita ed in morte, che non siamo più nostri, ma siamo solamente e tutti del nostro Dio.
Oh quanto desidera Dio di vedere, e quanto gli è caro un cuore ch’è tutto suo! Oh le finezze amorose che fa Dio, i beni, le delizie, la gloria che apparecchia Dio nel paradiso ad un cuore ch’è tutto suo! Il Ven. P. Gian Leonardo di Lettera domenicano vide un giorno Gesù Cristo che in sembianza di cacciatore andava per la foresta di questa terra con un dardo in mano; gli domandò il servo di Dio, che andasse così facendo! Gesù rispose che andava a caccia de’ cuori.32 Chi sa, dico io, se in questa novena riuscirà al Redentore bambino di ferire e di far preda di qualche cuore, del quale prima è andato molto tempo a caccia, e non gli è riuscito mai di ferirlo e guadagnarlo. Anime divote, se Gesù farà acquisto di noi, noi faremo acquisto di Gesù. Il cambio è assai più vantaggioso per noi. Teresa – disse un giorno il Signore a questa santa – sinora non sei stata tutta mia; or che tu sei tutta mia, sappi ch’io sono tutto tuo.33 S. Agostino chiama l’amore Vittam copulantem amantem cum amato,34 una fascia che stringe l’amante coll’amato. Dio ha tutto il desiderio di stringersi e d’unirsi con noi; ma bisogna che noi ancora procuriamo di unirci con Dio. Se vogliamo che Dio diasi tutto a noi, bisogna che ancora noi ci diamo tutti a Dio.
Affetti e preghiere.
Oh me felice, se da oggi avanti potrò sempre dire colla sagra Sposa: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). Il mio Dio, l’amato mio s’è dato tutto a me; è ragione ch’io mi dia tutto al mio Dio, e dica sempre: Quid… mihi est in caelo, et a te quid volui super terram?… Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXII, 11).35 O diletto mio Bambino, caro mio Redentore, giacché voi siete sceso dal cielo per donarvi tutto a me, che altro voglio andar cercando io nella terra e nel cielo fuori di voi, che siete il sommo bene, l’unico tesoro, il paradiso dell’anime? Voi siate dunque l’unico Signore del mio cuore, voi possedetelo tutto. Solo a voi il mio cuore ubbidisca e cerchi di piacere. Solo voi ami l’anima mia, e voi solo siate la mia parte. Si procurino gli altri, e si godano – se mai può trovarsi vero godimento fuori di voi – i beni e le fortune di questo mondo; voi solo voglio che siate la mia fortuna, la mia ricchezza, la mia pace, e la mia speranza in questa vita e nell’eternità.
Eccovi dunque il cuore, tutto ve lo dono; egli non è più mio, è vostro. Siccome voi in entrare nel mondo offeriste all’Eterno Padre e gli donaste tutta la vostra volontà, secondo ci fate sapere per Davide: In capite libri scriptum est de me, ut facerem voluntatem tuam; Deus meus, volui (Ps. XXXIX, [8, 9]); così oggi io offerisco a voi, mio Salvatore, tutta la mia volontà. Ella un tempo vi è stata ribelle, e con quella io v’ho offeso; ma di tutti i miei malvagi consensi, coi quali ho perduta miseramente la vostra amicizia, ora me ne dolgo con tutto il cuore, e questa mia volontà a voi tutta la consagro. Domine, quid me vis facere?36 Ditemi quel che volete da me, che tutto voglio farlo. Disponete di me e delle mie cose come vi piace, ch’io tutto accetto ed in tutto mi rassegno. So che voi volete il meglio per me, onde tutta abbandono nelle vostre mani l’anima mia. In manus tuas commendo spiritum meum.37 Aiutatela per pietà e conservatela voi, e fate che sia sempre vostra e tutta vostra, giacché l’avete redenta con tutto il vostro sangue. Redemisti me, Domine, Deus veritatis.38
O beata voi, SS. Vergine Maria! Voi foste tutta e sempre tutta di Dio; tutta bella, tutta pura e senza macchia: Tota pulchra es,… et macula non est in te.39 Voi foste quell’una chiamata fra tutte l’anime dal vostro Sposo la sua colomba, la sua perfetta: Una est columba mea, perfecta mea.40 Voi l’orto chiuso41 ad ogni difetto e colpa, e tutto colmo di fiori e frutti di virtù. Ah regina e madre mia, voi che siete così bella agli occhi del vostro Dio, abbiate pietà dell’anima mia ch’è divenuta così deforme per li suoi peccati!
Ma se per lo passato io non sono stato di Dio, ora voglio esser suo e tutto suo. La vita che mi resta voglio spenderla solo in amare il mio Redentore che mi ha tanto amato: basta dire che si è dato tutto a me. Impetratemi voi, speranza mia, forza d’essergli grato e fedele sino alla morte. Amen, così spero.
DISCORSO VII – Il Verbo Eterno da beato si fé tribolato.1
Et erunt oculi tui videntes praeceptorem tuum. (Is. XXX, 20).
Dice S. Giovanni: Omne quod est in mundo, concupiscentia carnis est, [et] concupiscentia oculorum, et superbia vitae (I Io. II, 16). Ecco i tre malvagi amori da cui venne ad esser dominato l’uomo dopo il peccato di Adamo: amor de’ piaceri, amor delle ricchezze, amor degli onori, da’ quali poi nasce la superbia umana. Il Verbo divino per insegnare a noi col suo esempio la mortificazione de’ sensi, che vince l’amor de’ piaceri, da beato si fé tribolato. Per insegnarci il distacco dai beni di questa terra, da ricco si fé povero. E finalmente per insegnarci l’umiltà che vince l’amor degli onori, da sublime si fece umile. Di questi tre punti parleremo in questi tre ultimi giorni della Novena. Parliamo oggi del primo.
Venne dunque il nostro Redentore ad insegnarci più coll’esempio della sua vita, che colle dottrine che predicò, l’amore alla mortificazione de’ sensi; e perciò da beato ch’egli è ed e stato sempre ab eterno, si fece tribolato. Vediamolo; e cerchiamo luce a Gesù ed a Maria. L’Apostolo, parlando della divina beatitudine, chiama Dio l’unico beato e potente: Beatus et solus potens (I Tim. VI, 15). E con ragione, perché ogni felicità che può godersi da noi sue creature, altro non è che una minima partecipazione della felicità infinita di Dio. I beati del cielo in quella trovano la loro beatitudine, cioè in entrare nel mare immenso della beatitudine di Dio: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Questo è il paradiso che il Signore dona all’anima, allorché ella entra al possesso del regno eterno.
Dio a principio creando l’uomo, non lo pose in terra a patire, ma posuit… in paradiso voluptatis (Gen. II 15). Lo pose in un luogo di delizie, acciocché di là poi passasse al cielo, dove godesse in eterno la gloria de’ beati. Ma l’uomo infelice col peccato si rendé indegno del paradiso terrestre, e si chiuse le porte del celeste, condannandosi volontariamente alla morte ed alle miserie eterne. Ma il Figlio di Dio, per liberare l’uomo da tanta ruina, che fece? Di beato e felicissimo ch’egli era, volle diventare afflitto e tribolato. Potea già il nostro Redentore riscattarci dalle mani de’ nostri nemici senza patire. Potea venire in terra e godersi la sua felicità, facendo una vita beata anche quaggiù, con quell’onore che a lui era dovuto, come Re e Signore del tutto. Bastava in quanto alla Redenzione, che avesse offerto a Dio una sola goccia di sangue, una lagrima sola, per redimere il mondo, ed infiniti mondi: Quaelibet passio Christi, dice l’Angelico, suffecisset ad Redemptionem propter infinitam dignitatem personae (Quodlib. II, a. 2).2 Ma no: Proposito sibi gaudio, sustinuit crucem (Hebr. XII, 2). Egli volle rinunziare a tutti gli onori e piaceri, e si elesse in questa terra una vita tutta piena di travagli e d’ignominie.
Bastava sì, dice S. Giovan Grisostomo, alla Redenzione dell’uomo qualunque opera del Verbo Incarnato; ma non bastava all’amore ch’egli portava all’uomo: Quod sufficiebat Redemptioni non sufficiebat amori.3 E poiché chi ama vuol vedersi amato, Gesù Cristo per vedersi amato dall’uomo, volle patire assai, e scegliersi una vita tutta di pene, per obbligare l’uomo ad amarlo assai. Rivelò il Signore a S. Margherita da Cortona, che in sua vita non provò mai una minima consolazione sensibile.4 Magna… velut mare contritio tua (Thren. II, 13). La vita di Gesù Cristo fu amara come il mare, ch’è tutto amaro e salso, e non ha goccia che sia dolce. E perciò con ragione Isaia chiamò Gesù Cristo Virum dolorum (Cap. LIII, [3]): l’uomo de’ dolori, come se d’altro non avesse ad esser capace in questa terra, che di stenti e di dolori. Dice S. Tommaso che il Redentore non si caricò di semplici dolori, ma assumpsit dolorem in summo;5 viene a dire che voll’essere l’uomo più addolorato che mai fosse vivuto o avesse a vivere sulla terra.
Sì, perché quest’uomo nacque a posta per patire. Perciò assunse un corpo tutto atto al patire. Egli in entrare nell’utero di Maria, come ci avvisa l’Apostolo, disse al suo Eterno Padre: Ingrediens mundum dicit: Hostiam et oblationem noluisti, corpus autem aptasti mihi (Hebr. X, 5). Padre mio, voi avete rifiutati i sacrifici degli uomini, perché quelli non erano bastanti a soddisfare la vostra divina giustizia per le offese che vi han fatte: avete dato a me un corpo, com’io già ve l’ho richiesto, delicato, sensitivo, e tutto adattato al patire: questo corpo io volentieri l’accetto e ve l’offerisco, poiché con questo, soffrendo tutti i dolori che mi accompagneranno nella mia vita, e finalmente mi daranno la morte sulla croce, così intendo placarvi verso il genere umano e così acquistarmi l’amore degli uomini.
Ed eccolo che appena entrato nel mondo dà principio al suo sacrificio e comincia a patire; ma d’altro modo che non patiscono gli uomini. Gli altri bambini, stando nell’utero delle loro madri, non patiscono, poiché stanno nel loro sito naturale; e se qualche poco patiscono, almeno non conoscono quel che patiscono, mentre son privi d’intendimento; ma Gesù bambino patisce per nove mesi l’oscurità di quella carcere, patisce la pena di non potersi muovere, e ben conosce quel che patisce. Perciò disse Geremia: Femina circumdabit virum (XXXI, 22). Predisse che una donna, quale fu Maria, dovea tenere involto tra le sue viscere, non già un bambino, ma un uomo: bambino si, in quanto all’età; ma uomo perfetto in quanto all’uso della ragione, poiché Gesù Cristo sin dal primo momento di sua vita fu ripieno di tutta la sapienza: In quo sunt omnes thesauri sapientiae et scientiae absconditi (Coloss. III, 3). Onde disse S. Bernardo: Vir erat Iesus necdum etiam natus, sed sapientia, non aetate (Hom. 2, sup. miss.).6 E S. Agostino: Erat ineffabiliter sapiens, sapienter infans (Serm. 27, de temp.).7
Esce poi dalla carcere dell’utero materno, ma a che? forse esce a godere? Esce a più patire, mentre si elegge di nascere nel cuore dell’inverno in una spelonca, la quale è stalla d’animali, di mezza notte; e nasce con tanta povertà, che non ha fuoco che lo riscaldi né panni bastanti che lo riparino dal freddo. Magna cathedra praesepium illud, dice S. Tommaso da Villanova.8 Oh come bene c’insegnò Gesù Cristo l’amore al patire nella grotta di Betlemme! In praesepe, soggiunge il P. Salmerone, omnia sunt vilia visui, ingrata auditui, olfactui molesta, tactui dura et aspera.9 Nel presepio tutto dà pena: tutto dà pena alla vista, perché non si vede che pietre rozze e oscure: tutto dà pena all’udito, perché altro non si sente che voci d’animali quadrupedi: tutto dà pena all’odorato, per la puzza che vi è di letame: e tutto dà pena al tatto, perché la culla non è altro che una piccola mangiatoia, ed il letto non è composto che di sola paglia. Ecco questo Dio bambino come sta tra le fasce stretto, sì che non può muoversi: Patitur Deus, disse S. Zenone, pannis alligari, quod mundi venerat debita soluturus.10 E qui soggiunge S. Agostino: O felices panni, quibus peccatorum sordes extersimus (Serm. 9, de temp.).11 Eccolo come trema per lo freddo; come piange, per darci ad intendere che patisce, e presenta al Padre quelle prime sue lagrime per liberarci dal pianto eterno da noi meritato: Felices lacrimae, quibus nostrae obliterantur impietates, dice S. Tommaso da Villanova;12 o lagrime per noi beate, che ci ottengono il perdono de’ nostri peccati!
E così sempre afflitta e tribolata seguitò ad esser la vita di Gesù Cristo. Tra poco, appena nato, è costretto a fuggire esule e ramingo in Egitto, per liberarsi dalle mani di Erode. Ivi in quel paese barbaro visse molti anni nella sua fanciullezza povero e sconosciuto. E poco dissimile fu poi la vita che fece ritornato dall’Egitto, abitando in Nazarette, sino finalmente a ricevere la morte per man di carnefici su d’una croce in un mare di dolori e di obbrobri. Ma inoltre bisogna qui intendere che i dolori che Gesù Cristo soffrì nella sua Passione, la flagellazione, la coronazione di spine, la crocifissione, l’agonia, la morte, e tutte l’altre pene ed ingiurie che patì nel fine, tutte le patì dal principio della sua vita; perché fin dal principio gli fu sempre avanti gli occhi rappresentata la scena funesta di tutti i tormenti che dovea soffrire nel partirsi da questa terra, com’egli predisse per bocca di Davide: Dolor meus in conspectu meo semper (Ps. XXXVII, 18). Ai poveri infermi si nasconde il ferro o il fuoco con cui bisogna tormentarli per conseguire la loro sanità; ma Gesù non volle che gli si nascondessero gli strumenti della sua Passione, co’ quali dovea finir la vita per ottenere a noi la vita eterna; ma volle tener sempre avanti gli occhi i flagelli, le spine, i chiodi, la croce, che doveano spremergli tutto il sangue delle vene, sino a farlo spirare abbandonato da ogni conforto per puro dolore. A Suor Maddalena Orsini che da molto tempo pativa una grave tribolazione, apparve un giorno Gesù in forma di Crocifisso, per così confortarla colla memoria della sua Passione, e l’animò a soffrir con pazienza quella croce. La serva di Dio gli disse: Ma Signore, voi solamente per tre ore foste sulla croce; ma io già son più anni che patisco questa pena. Ah ignorante, allora le rispose il Crocifisso, io sin dal primo punto che stetti nell’utero di Maria soffersi tutto quel che poi ebbi a patire nella mia morte.13 – Christus, dice il Novarino, crucem etiam in ventre matris menti impressam habuit, adeo ut vix natus principatum eius super humerum eius habere dicitur.14 Dunque, mio Redentore, io non ti troverò per tutta la tua vita in altro luogo, se non sulla croce: Domine, nusquam te inveniam, nisi in cruce, disse Drogone Ostiense.15 Sì, perché la croce dove morì Gesù Cristo sempre gli fu innanzi alla sua mente a tormentarlo. Anche dormendo, dice il Bellarmino, il Cuore di Gesù era assistito dalla vista della croce: Crucem suam Christus semper ante oculos habuit. Quando dormiebat cor vigilabat, nec ab intuitu crucis vacuum erat.16
Ma quello che più rendé tribolata ed amara la vita del nostro Redentore, non furono tanto i dolori della sua Passione, quanto il vedersi innanzi i peccati, che dopo la sua morte avevano da commettere gli uomini. Questi furono quei crudeli carnefici che lo fecero vivere in una continua agonia, oppresso sempre da una sì terribil mestizia, che sarebbe bastata colla sua pena a farlo morire in ogni momento di puro dolore. Scrive il P. Lessio che la sola vista dell’ingratitudine degli uomini avrebbe bastato a far morire mille volte di dolore Gesù Cristo.17 I flagelli, la croce, la morte non furono già a lui oggetti odiosi, ma cari, e da lui stesso voluti e desiderati. Egli medesimo spontaneamente s’era offerto a soffrirli: Oblatus est quia ipse voluit (Is. LIII, [7]). Egli non diè la sua vita contro sua voglia, ma per propria elezione, come ci fé intendere per S. Giovanni: Animam meam pono pro ovibus meis (Io. X, 15). Anzi questo fu il suo maggior desiderio in tutta la sua vita, che presto giungesse il tempo della sua Passione, per vedere compita la Redenzione degli uomini; che perciò disse nella notte precedente alla sua morte: Desiderio desideravi hoc pascha manducare vobiscum (Luc. XXII, 15). E prima di giungere questo tempo par che si andasse consolando con dire: Baptismo… habeo baptizari, et quomodo coarctor usquedum perficiatur (Luc. XII, 50). Io debbo già esser battezzato col battesimo del mio medesimo sangue, non già per lavare l’anima mia, ma le mie pecorelle dalle macchie de’ loro peccati; e quanto mi sento struggere per lo desiderio che giunga presto l’ora di vedermi esangue e morto sulla croce! Dice S. Ambrogio che il Redentore non era amitto già dal timore della sua morte, ma dalla dimora del nostro riscatto: Non ex metu mortis suae, sed ex mora redemptionis nostrae.18
Contempla S. Zenone in un sermone che fa della Passione, che Gesù Cristo si elesse il mestiere di legnaiuolo in questa terra, come già per tale fu conosciuto e chiamato: Nonne hic est faber et filius fabri? (Marc. VI, 3);19 perché i legnaiuoli tengono sempre fra le mani legni e chiodi; e Gesù esercitando quest’arte, par che si dilettasse di tali cose, perché meglio gli rappresentavano i chiodi e la croce, in cui voleva morire: Dei filius illis delectabatur operibus, quibus lignorum segmentis et clavis sibi saepe futurae crucis imago praeformabatur (S. Zeno, Serm. de laud. Pass.).20 Sicché ripigliamo il punto non fu tanto la memoria di sua Passione che afflisse il cuore del nostro Redentore, quanto l’ingratitudine con cui gli uomini doveano pagare il suo amore. Questa ingratitudine lo fé piangere nella stalla di Betlemme: questa gli fé sudar vivo sangue con agonia di morte nell’orto di Getsemani: questa gli recò tanta mestizia che giunse a dire ch’ella sola bastava a dargli morte: Tristis est anima mea usque ad mortem:21 e questa ingratitudine finalmente fu quella che lo fece morire desolato e abbandonato da ogni consolazione sulla croce; poiché dice il P. Suarez che Gesù Cristo più principalmente volle soddisfare per la pena del danno dovuta all’uomo, che per la pena del senso: Principalius Christus satisfecit pro poena damni, quam sensus.22 E perciò furono assai più grandi le pene interne dell’anima del Signore, che tutte l’altre dei corpo.
Dunque ancora noi coi nostri peccati ebbimo23 parte a rendere così amara e tribolata tutta la vita del nostro Salvatore. Ma ringraziamo la sua bontà che ci dà tempo di rimediare al male fatto.- Come abbiam da rimediare? Con soffrire con pazienza le pene e le croci ch’egli ora ci manda per nostro bene. E per soffrire con pazienza queste pene, esso medesimo ci dà il modo: Pone me ut signaculum super cor tuum (Cant. VIII, 6). Metti sopra il tuo cuore l’immagine di me crocifisso; viene a dire, considera il mio esempio, i miei dolori che ho sofferti per te, e così soffrirai tutte le croci con pace.- Dice S. Agostino che questo medico celeste volle esso infermarsi per sanare noi infermi colla sua infermità: Mirabile genus medicinae. Medicus voluit aegrotare, et aegrotos sua infirmitate sanare (Serm. 19, de Sanct.).24 Secondo quel che già disse Isaia (Cap. LIII, [5]): Livore eius sanati sumus. All’anime nostre inferme per causa del peccato, era unicamente necessaria questa medicina del patire; e Gesù Cristo prima la volle esso bere, acciocché non ripugnassimo di prenderla noi che siamo i veri infermi: Prior bibit medicus, ut bibere non dubitaret aegrotus (S. Aug., serm. 18., de Verb. Dom.).25 Posto ciò, dice S. Epifanio che noi per farci conoscere veri seguaci di Gesù Cristo dobbiamo ringraziarlo quando ci manda croci: Christianorum propria virtus est, etiam in adversis referre gratias.26 E con ragione, perché trattandoci così, egli ci fa simili a lui. Soggiunge S. Giovan Grisostomo una cosa di gran consolazione: dice che quando noi ringraziamo Dio de’ benefici, allora gli rendiamo ciò che gli dobbiamo, ma quando sopportiamo qualche pena per amor suo con pazienza, allora in certo modo Dio resta a noi debitore: In bonis gratias agens, reddidisti debitum; in malis, Deum reddidisti debitorem.27 – Se vuoi rendere amore a Gesù Cristo, impara da lui, dice S. Bernardo, come dei amarlo: Disce a Christo, quemadmodum diligas Christum (Serm. 20, in Cant.).28 Contentati di patire qualche cosa per quel Dio che tanto ha patito per te. Il desiderio di dar gusto a Gesù Cristo e di fargli conoscere l’amore che gli si porta era quello che rendeva avidi e sitibondi i santi, non di onori o piaceri, ma di pene e disprezzi. Ciò faceva dire all’Apostolo: Mihi… absit gloriari, nisi in cruce Domini nostri Iesu Christi (Gal. VI, 14). Fatto egli felice compagno del suo Dio crocifisso, non ambiva altra gloria che di vedersi in croce. Ciò facea dire anche a S. Teresa: O morire, o patire;29 come dicesse: Sposo mio, se vuoi tirarmi a te colla morte, eccomi, son pronta a venire, e te ne ringrazio; ma se vuoi lasciarmi per altro tempo in questa terra, io non mi fido30 di starvi senza patire: O morire, o patire. Ciò faceva avanzarsi a dire S. Maria Maddalena de’ Pazzi: Patire e non morire;31 come dicesse: Gesù mio, desidero il paradiso per meglio amarti, ma più desidero il patire, per compensare in parte l’amore che voi mi avete dimostrato in patire tanto per me.32 E la Ven. Suor Maria Crocifissa di Sicilia era sì innamorata del patire, che giungeva a dire: È bello sì il paradiso, ma vi manca una cosa, perché vi manca il patire.33 Ciò indusse ancora S. Giovanni della Croce, allorché gli apparve Gesù colla croce in ispalla e gli disse: “ Giovanni, cercami quel che vuoi-”; l’indusse, dico, a non cercare altro che patimenti e disprezzi: Domine, pati et contemni pro te.34
Noi, se non abbiamo lo spirito di desiderare e cercare il patire, almeno procuriamo di accettar con pazienza quelle tribolazioni che Dio ci manda per nostro bene: Ubi patientia, ibi Deus, dice Tertulliano.35 Dove sta Dio? Datemi un’anima che patisca con rassegnazione, ed in questa certamente vi è Dio: Iuxta est Dominus iis qui tribulato sunt corde (Ps. XXXIII, 19). Si compiace il Signore di starsene vicino a’ tribolati. Ma a quali tribolati? S’intende a coloro che patiscono con pace, rassegnati nella divina volontà. A costoro fa provare Dio la vera pace, la quale tutta consiste, come dice S. Leone, in unire la nostra volontà a quella di Dio: Christiana vera pax est a Dei voluntate non dividi.36 La divina volontà, ci avvisa S. Bonaventura, è come il mele che rende dolci ed amabili anche le cose amare.37 La ragione si è, perché chi ottiene tutto quel che vuole, non ha altro che desiderare: Beatus est qui habet omnia quae vult, dice S. Agostino.38 E perciò chi non vuol altro se non ciò che vuole Dio, sempre sta contento; giacché, avvenendo sempre quel che vuole Dio, l’anima sempre ottiene quel che vuole.
E quando Dio ci manda croci, non solo rassegniamoci, ma ringraziamolo, mentre è segno che ci vuol perdonare i peccati e salvarci dall’inferno meritato. Chi ha offeso Dio dev’esser castigato; e perciò dobbiamo sempre pregarlo che ci castighi in questa, e non già nell’altra vita. Povero quel peccatore che in questa vita non si vede punito, ma prosperato! Dio ci guardi da quella misericordia della quale parla Isaia: Misereamur impio (XXVI, 10).39 Misericordiam hanc nolo, dice S. Bernardo, super omnem iram miseratio ista.40 Signore, pregava il santo, io non voglio questa misericordia, la quale è più terribile d’ogni castigo. Quando Dio non punisce il peccatore in questa vita, è segno che aspetta a punirlo nell’eternità, dove il castigo non avrà più fine. Dice S. Lorenzo Giustiniani: De pretio erogato Redemptoris tui agnosce munus, tuaeque praevaricationis pondus (De triumph. carit., cap. 10).41 Vedendo un Dio morto in croce, dobbiamo considerare il gran dono che ci ha fatto del suo sangue, per redimerci dall’inferno; e riconoscere insieme la malizia del peccato che ha ridotto un Dio a morire per ottenerci il perdono. Nihil ita me deterret, sicut videre Filium tuum propter peccatum crudelissima morte mulctatum, dicea Drogone (De Passione):42 O Dio eterno, niente più mi spaventa, che vedere il tuo Figlio punito con una morte così spietata per causa del peccato.
Consoliamoci dunque, allorché dopo i peccati ci vediamo afflitti da Dio in questo mondo, perché è segno allora che vuol usarci misericordia nell’altro. Il solo pensiero di aver disgustato un Dio così buono, se l’amiamo, deve più consolarci nel vederci afflitti e castigati, che se ci vedessimo prosperati e colmi di consolazioni in questa vita. Dice S. Giovan Grisostomo: Maior consolatio erit ei qui punitur si amet Dominum, postquam exacerbavit tam misericordem, quam qui non punitur. A chi ama, siegue a dire il santo, dà più pena il pensare d’aver data amarezza all’amato, che lo stesso castigo del suo delitto.43 Consoliamoci dunque nel patire; e se questi pensieri non bastano a consolarci, andiamo a Gesù Cristo, ch’egli ci consolerà, come ha promesso a tutti: Venite ad me, omnes qui laboratis et onerati estis, et ego reficiam vos (Matth. XI, 28). Quando ricorriamo al Signore, o egli ci libererà da quella tribolazione, o ci darà forza di sopportarla con pazienza. E questa è grazia maggior della prima; poiché le tribolazioni sofferte con rassegnazione, oltre di farci soddisfare in questa vita i nostri debiti, di più ci fan meritare gloria maggiore ed eterna in paradiso.- Andiamo ancora, quando ci troviamo afflitti e desolati, a trovar Maria che si chiama la Madre della misericordia, la causa della nostra allegrezza, e la consolatrice degli afflitti. Andiamo a questa buona Signora, la quale come dice Lanspergio non permette che alcuno si parta mesto da’ piedi suoi, e non consolato: Omnibus pietatis sinum apertum tenet, neminem a se tristem redire sinit.44 Dice S. Bonaventura, ch’ella ha per officio di compatire gli afflitti: Tibi officium miserendi commissum.45 Onde soggiunge Riccardo di S. Lorenzo che chi l’invoca, sempre la troverà apparecchiata ad aiutarlo: Inveniet semper paratam auxiliari.46 E chi mai ha cercato il suo aiuto ed è restato abbandonato? Quis umquam, o beata, tuam rogavit opem et fuit derelictus (B. Eutich., in Vita S. Theoph.).
Affetti e preghiere.
S. Maria Maddalena de’ Pazzi (P. I, cap. 25) prescrisse a due religiose sue suddite, che nel tempo di Natale se ne fossero restate ai piedi del santo Bambino a far l’officio che facevano gli animali nel presepio, cioè che fossero state a riscaldare Gesù che tremava di freddo, colle loro lodi amorose, ringraziamenti e sospiri d’amore che uscissero da cuori ardenti.48
-Oh potessi, caro mio Redentore, fare io ancora quest’officio! Sì, ti lodo Gesù mio, lodo la tua misericordia infinita, lodo la tua carità infinita che ti rende gloria nel cielo e nella terra, ed unisco la mia voce con quella degli angeli: Gloria in altissimis Deo.49
Ti ringrazio da parte di tutti gli uomini; ma specialmente ti ringrazio io misero peccatore. Che ne sarebbe di me, che speranza potrei avere di perdono e di salute, se voi, Salvator mio, non foste venuto dal cielo a salvarmi? Vi lodo dunque, vi ringrazio e v’amo.
V’amo più d’ogni cosa, v’amo più di me stesso, v’amo con tutta l’anima mia, e tutto a voi mi dono. Ricevete, o santo Bambino, questi atti d’amore; e se son freddi, perché escono da un cuore gelato, riscaldate voi questo povero mio cuore: cuore, che v’ha offeso, ma cuore pentito.
Sì, mio Signore, mi pento sopra ogni male di aver disprezzato voi, che mi avete tanto amato. Ora non desidero altro che amarvi, e questo solo vi cerco: datemi il vostro amore e fatene di me quel che vi piace. Sono stato un tempo misero schiavo dell’inferno; ma ora che son libero da quelle infelici catene, tutto a voi mi consagro; vi consagro il mio corpo, i miei beni, la mia vita, l’anima mia, la mia volontà, e tutta la mia libertà. Io non voglio esser più mio, ma solo di voi unico mio bene. Deh ligate a’ piedi vostri questo povero mio cuore, acciocché non si parta più da voi.
O Maria SS., impetratemi voi questa grazia, che io viva sempre ligato dalle beate catene d’amore verso il vostro Figlio. Ditegli che mi accetti per ischiavo del suo amore. Egli fa quanto voi gli domandate. Pregatelo, pregatelo. Così spero.
DISCORSO VIII – Il Verbo Eterno da ricco si fece povero.
Excutere de pulvere, consurge, sede, Ierusalem
(Isaia, LII, 2).
Via su, anima cristiana, ti dice il profeta, scuotiti dalla polvere degli affetti terreni: Excutere de pulvere, consurge; via su alzati dal fango, dove stai miseramente a giacere; e siedi, sede, Ierusalem, siedi regina a dominare sopra le passioni che t’insidiano la gloria eterna, e ti espongono al pericolo d’un’eterna ruina. Ma che avrà da fare quest’anima per giungere a ciò? Guardare e considerare la vita di Gesù Cristo, il quale essendo quel ricco che possiede tutte le ricchezze del cielo e della terra, si è fatto povero, disprezzando tutti i beni della terra. Chi considera Gesù fatto povero per suo amore, non è possibile che non si muova a disprezzar tutto per amor di Gesù. Consideriamolo noi, e perciò cerchiamo lume a Gesù ed a Maria.
Quanto v’è nel cielo e nella terra, tutto è di Dio: Meus est… orbis terrae, dice il Signore, et plenitudo eius (Ps. XLIX, 12). Ma questo è poco, il cielo e la terra non è il tutto, ma è una minima parte delle ricchezze di Dio. Dio è quel ricco, la di cui ricchezza è infinita, e non può mancare; perché la sua ricchezza non dipende da altri, ma la possiede in se stesso ch’è bene infinito. Perciò dicea Davide: Deus meus es tu, quoniam bonorum meorum non eges (Ps. XV, 2). Or questo Dio sì ricco si fé povero col farsi uomo, affin di far diventare ricchi noi poveri peccatori: Egenus factus est, cum esset dives, ut illius inopia vos divites essetis (II Cor. VIII, 9). Come? un Dio venire a farsi povero! E perché? Intendiamo il perché. I beni di questa terra non possono essere che terra e fango, ma fango che acceca talmente gli uomini, ch’essi non vedono più quali siano i veri beni. Prima della venuta di Gesù Cristo, era il mondo pieno di tenebra, perché pieno di peccati. Omnis… caro corruperat viam suam (Gen. VI, 12): Ogni uomo avea corrotta la legge e la ragione, sì che vivendo come bruti, intenti solo ad acquistarsi beni e piaceri di questa terra, niente più curavano de’ beni eterni. Ma la divina misericordia fé che venisse lo stesso Figlio di Dio ad illuminare questi uomini accecati: Habitantibus in regione umbrae mortis, lux orta est eis (Isaia, IX, 2).
Gesù fu chiamato la luce delle genti: Lumen ad revelationem gentium:1 lux in tenebris lucet.2 Già il Signore prima ci avea promesso di farsi egli medesimo il nostro maestro, e maestro visibile agli occhi nostri; il quale venisse ad insegnarci la via della salute, ch’è la pratica delle sante virtù, e specialmente della santa povertà. Et erunt oculi tui videntes praeceptorem tuum (Is. XXX, 20). Ma questo maestro dovea insegnarci non solo colla voce, ma ancora, anzi più coll’esempio della sua vita. Dice S. Bernardo che la povertà non si ritrovava in cielo, solo in terra poteva trovarsi; ma l’uomo non conosceva il di lei pregio, e perciò non la cercava. Pertanto il Figlio di Dio discese dal cielo in terra, e l’elesse per compagna di tutta la sua vita, per renderla col suo esempio anche a noi preziosa e desiderabile: Paupertas non inveniebatur in caelis, porro in terris abundabat, et nesciebat homo pretium eius. Hanc itaque Filius concupiscens descendit, ut eam eligat sibi, et nobis sua aestimatione faciat pretiosam (Serm. 1, in vig. Nat.).3 Ed ecco il nostro Redentor bambino, che già sul principio di sua vita è fatto maestro di povertà nella spelonca di Betlemme, chiamata appunto dallo stesso S. Bernardo, Schola Christi,4 e da sant’Agostino, Spelunca magistra.5
A questo fine dispose Dio che uscisse l’editto di Cesare, acciocché il Figlio nascesse non solo povero, ma il più povero di tutti gli uomini, facendolo nascere fuori della propria casa, in una grotta ch’era stanza d’animali. Gli altri poveri, nascendo nelle loro case, almeno nascono con qualche maggior comodità di panni, di fuoco, e d’assistenza di persone, che almeno per compassione loro soccorrono. Qual figlio mai di alcun povero nasce nelle stalle? Nelle stalle appena nascono le bestie. Come ciò avvenisse, lo narra S. Luca. Venuto il tempo che Maria dovea partorire, Giuseppe le va cercando alloggio in Betlemme. Va girando e cercandolo per le case, ma non lo trova. Lo va a cercare nell’osteria, e neppure lo trova. Non erat eis locus in diversorio (Luc. II, 7). Onde fu costretta Maria a ricoverarsi e partorire in quella spelonca, dove con tutto il concorso di tanta gente non vi stavano già uomini, ma appena erano due animali. – A’ figli de’ principi che nascono si apprestano le stanze calde e addobbate di arazzi, le culle d’argento, e i panni più fini, coll’assistenza de’ primi nobili e dame del regno. Al re del cielo in vece della stanza addobbata e calda gli tocca una grotta fredda, vestita d’erbe: in vece delle coltrici di piume, gli tocca un poco di paglia dura e pungente: in vece de’ panni fini, gli toccano poveri pannicelli, rozzi, freddi ed umidi: Conditor angelorum, dice S. Pier Damiani, non ostro opertus, sed vilibus legitur panniculis involutus. Erubescat terrena superbia, ubi coruscat humilitas Salvatoris (Lib, 6, cap. 18).6 In vece di fuoco, e dell’assistenza de’ grandi, appena gli tocca l’alito e la compagnia di due bestie: in vece finalmente della culla d’argento, gli tocca una vil mangiatoia.- Come? dice S. Gregorio Nisseno, il Re de’ regi, che riempie il cielo e la terra, non trova altro luogo nascendo che un povero presepio di animali? Qui complexu suo ambit omnia, in brutorum praesepe reclinatur?7 Sì, perché questo Re de’ regi per nostro amore voll’esser povero, ed il più povero di tutti. Almeno i bambini de’ poveri hanno latte che basta a saziarli; ma anche in ciò voll’esser povero Gesù Cristo, mentre il latte di Maria era latte miracoloso, di cui era ella provveduta, non dalla natura, ma dal cielo, come ci avvisa la santa Chiesa: Virgo lactabat ubere de caelo pleno.8 E Dio, per compiacere il desiderio di suo Figlio, che voleva essere il più povero di tutti, non provvide Maria di latte abbondante, ma solamente di quello che appena bastava per sostentare la vita del Figlio; onde canta la stessa santa Chiesa: Modico lacte pastus est.9
E conforme nacque povero Gesù Cristo, così seguì a viver povero in tutta la sua vita; e non solo povero, ma mendico, mentre la parola egenus di S. Paolo,10 nel testo greco significa mendico; onde dice Cornelio a Lapide: Patet Christum non tantum pauperem fuisse, sed etiam mendicum.11 Il nostro Redentore dopo esser nato così povero, fu costretto a fuggire dalla patria in Egitto. In questo viaggio S. Bonaventura va considerando e compatendo la povertà di Maria e di Giuseppe, che viaggiano da poveri, per un cammino così lungo, portando il santo bambino, che molto venne a patire per la loro povertà. Quomodo, dice il santo, faciebant de victu? Ubi nocte quiescebant ? Quomodo hospitabantur?12 Ma di che altro potevano cibarsi, che di poco pane, e duro ? Dove di notte alloggiavano in quel deserto, se non sopra il terreno allo scoperto e sotto qualche albero? Oh chi mai avesse incontrati per quelle vie questi tre gran pellegrini, per quali mai gli avrebbe allora riputati, se non per tre poveri mendici! – Giungono in Egitto; ed ivi ciascun può considerare, essendo essi poveri e forestieri, senza parenti, senza amici, la gran povertà che dovettero soffrire per quei sette anni che vi abitarono. Dice S. Basilio che in Egitto appena arrivavano a sostentarsi, procacciandosi il vitto colle fatiche delle loro mani: Sudores frequentabant, necessaria vitae inde sibi quaerentes.13 Scrisse Landolfo da Sassonia che talvolta Gesù fanciullo costretto dalla fame andava a cercare un poco di pane a Maria. e Maria lo licenziava, dicendo che non vi era pane: Aliquando Filius famem patiens panem petiit, nec unde daret Mater habuit (In vita Christi, c. 13).14
Da Egitto passano di nuovo alla Palestina a vivere in Nazaret, ed ivi siegue Gesù a vivere da povero. Ivi la casa è povera, e povera la suppellettile: Domus paupercula, suppellex exigua. Tale elegit hospitium fabricator mundi, dice S. Cipriano (Serm. 1, de Nat.).15 In questa casa vive da povero, sostendando la vita coi sudori e colle fatiche, come appunto vivono gli artigiani e i figli degli artigiani, secondo era già chiamato e creduto dagli ebrei, che diceano: Nonne hic est faber? (Marc. VI, 3). Nonne hic est fabri filius? (Matth. XIII, 55).- Esce poi il Redentore finalmente a predicare, ed in questi ultimi tre anni di sua vita non muta già fortuna o stato, ma vive con maggior povertà di prima, vivendo di limosine. Ond’ebbe a dire ad un cert’uomo che volea seguirlo, affin di poter vivere più comodamente; sappi, gli disse, Vulpes foveas habent, volucres caeli nidos; Filius… hominis non habet ubi caput reclinet (Matth. VIII 20). E volle dire: Uomo, se tu speri con farti mio seguace di avanzare il tuo stato, erri, perché io sono venuto ad insegnare in terra la povertà; e perciò mi sono fatto più povero delle volpi e degli uccelli, che hanno le loro tane e i loro nidi; ma io in questo mondo non ho neppure un palmo di terra mio proprio, dove mettere a riposare la testa; e tali voglio che sieno ancora i miei discepoli. Speras commenta il suddetto testo Cornelio a Lapide- te in mei sequela rem tuam augere? Sed erras, quia ego, velut perfectionis magister, pauper sum, talesque volo esse meos discipulos.16 Poiché, come dice S. Girolamo: Servus Christi nihil praeter Christum habet (Epist. ad Herod.):17 I veri servi di Gesù non hanno né desiderano d’avere altro che Gesù. Povero in somma visse sempre Gesù Cristo, e povero finalmente morì; mentre per seppellirsi18 bisognò che Giuseppe d’Arimatea gli desse un luogo, ed altri per limosina gli dessero un lenzuolo da coprirgli il morto corpo.
Ugon cardinale, considerando la povertà, i disprezzi e le pene a cui volle sottomettersi il nostro Redentore, dice: Quasi insanus factus, ad miserias nostras descendit: Sembra che Dio per amore degli uomini sia andato in pazzia, volendo abbracciarsi con tante miserie, per ottenere loro le ricchezze della grazia divina e della gloria beata. E chi mai, dice lo stesso autore, avrebbe potuto credere, se Gesù Cristo non l’avesse fatto, ch’egli essendo il padrone di tutte le ricchezze, abbia voluto rendersi così povero! essendo il signore di tutti, abbia voluto farsi servo! essendo Re del cielo, assumere tanti disprezzi! essendo beato, assumere tante pene! Quis crederet divitem ad paupertatem descendere, dominum ad servitutem, regem ad ignominiam, deliciosum ad austeritatem!19 Vi sono in terra sì bene de’ principi pietosi, che godono d’impiegare le loro ricchezze in sollievo de’ poveri; ma dove mai si è ritrovato un re, che per sollevare i poveri siasi fatto egli povero simile ad essi, come Gesù Cristo? Si narra come un prodigio di carità quel che fece il santo re Eduardo, che vedendo un povero mendico sulla via, il quale non potea muoversi e stava da tutti abbandonato, questo principe con affetto se lo prese sulle spalle e lo portò alla chiesa.20 Sì, fu questo un grand’atto di carità che fé stordire i popoli; ma S. Eduardo con far ciò non lasciò di esser monarca, e restò ricco qual era. Ma il Figlio di Dio, il Re del cielo e della terra, per salvare la pecorella perduta, qual era l’uomo, non solo discese dal cielo per venire a cercarla, non solo se la pose sulle spalle, ma depose anche la sua maestà, le sue ricchezze, i suoi onori; e si fece povero, anzi il più povero tra gli uomini. Abscondit purpuram sub miseriae vestimentis, dice S. Pier Damiani (Serm. 61):21 Nascose la porpora, cioè la sua maestà divina, sotto le vesti d’un misero garzone di un fabbro. Qui alios ditat – ammira S. Gregorio Nazianzeno – paupertate afficitur; carnis meae paupertatem subit, ut ego divinitatis opes consequar:22 Quegli che provvede di ricchezze i ricchi, si elegge d’esser povero, affin di meritare a noi, non già le ricchezze terrene misere e caduche, ma le divine che sono immense ed eterne; procurando così col suo esempio di distaccarci dall’affetto de’ beni mondani, che portano seco un gran pericolo dell’eterna ruina. Si riferisce nella vita di S. Giovan Francesco Regis, che l’ordinaria sua meditazione era la povertà di Gesù Cristo.23
Riflette Alberto Magno che Gesù Cristo volle nascere in un presepe, esposto alla via pubblica, per due fini: l’uno per farci meglio intendere che tutti siam pellegrini in questo mondo, e che vi stiamo di passaggio.24 Hospes es, vides et transis, dice S. Agostino.25 Chi si trova ad alloggiare in un luogo di passaggio, certamente che non vi mette affetto, pensando che tra poco l’ha da lasciare. Oh se gli uomini pensassero continuamente che su questa terra son viandanti, e di passaggio all’eternità, chi mai si attaccherebbe a questi beni con pericolo di perdere i beni eterni? L’altro fine fu, dice Alberto Magno, ut mundum contemnere doceret; acciocché noi dal suo esempio imparassimo a disprezzare il mondo, che non ha beni che possano contentare il nostro cuore.26 Insegna il mondo a’ suoi seguaci, che la felicità consiste nel possesso delle ricchezze, de’ piaceri e degli onori; ma questo mondo ingannatore fu condannato dal Figlio di Dio nel farsi uomo: Nunc iudicium est mundi (Io. XII, 31). E questa condanna del mondo – come dicono S. Anselmo,27 e S. Bernardo28 – principiò nella stalla di Betlemme. Volle Gesù Cristo in quella nascer povero, ut inopia illius divites essemus;29 acciocché al suo divino esempio togliessimo dal cuore l’affetto alle robe, e lo ponessimo alle virtù ed al santo amore. Initiavit Christus, scrisse Cassiano, viam novam, dilexit quae mundus odio habuit, paupertatem.30
Perciò i santi, all’esempio del Salvatore, han cercato di spogliarsi di tutto, per seguire da poveri Gesù Cristo povero. Dice S. Bernardo: Ditior Christi paupertas cunctis thesauris saeculi (Serm. 5, in Vig. Nat.).31 La povertà di Gesù Cristo apportò a noi più beni che tutti i tesori mondani, perché ella ci muove ad acquistare le ricchezze del cielo con disprezzare quelle della terra. Ecco un S. Paolo che diceva: Omnia… arbitror ut stercora, ut Christum lucrifaciam (Philip. III, [8]). L’Apostolo, a confronto della grazia di Gesù Cristo, stimava ogni altra cosa letame e sterco. Ecco un S. Benedetto, che nel fiore della sua gioventù lascia i comodi della sua ricca casa paterna, e va a vivere in una spelonca, ricevendo la limosina di un poco di pane dal monaco Romano, che per carità così lo sostentava.32 Ecco un S. Francesco Borgia, che lascia tutte le sue ricchezze, e se ne va a vivere da povero nella Compagnia di Gesù.33 Ecco un S. Antonio abbate, che vende tutto il suo ricco patrimonio, lo dispensa a’ poveri e poi se ne va a vivere in un deserto.34 Ecco un San Francesco d’Assisi che rinuncia al padre anche la camicia, per vivere mendicando in tutta la sua vita.35
Chi vuole robe, diceva S. Filippo Neri, non si farà mai santo.36 Sì, perché in quel cuore che sta pieno di terra non trova luogo l’amor divino. Affersne cor vacuum? Questo era il requisito più necessario che cercavano i monaci antichi, per accettare alcuno che veniva ad aggregarsi nella loro compagnia.37 E dicendo, porti il cuor vuoto degli affetti di terra? volean dire: Altrimenti sappi che non mai potrai essere tutto di Dio. Ubi enim, disse Gesù Cristo, est thesaurus tuus, ibi est et cor tuum (Matth. VI, [21]). Quello è il tesoro di ciascuno, quel bene ch’egli stima ed ama. Essendo morto una volta un certo ricco, ed essendosi dannato, S. Antonio di Padova pubblicò dal pulpito la sua dannazione, ed in segno di ciò disse che andassero a vedere il luogo dove stavano i suoi danari, che avrebbon trovato il suo cuore. In fatti andarono e trovarono il cuore di quel miserabile ancora caldo in mezzo a’ denari.38 Non può esser Dio il tesoro di quell’anima che tiene l’affetto ai beni di questa terra; perciò pregava Davide: Cor mundum crea in me Deus (Ps. L, [12]): Signore, purgate il mio cuore dagli affetti terreni, acciocch’io possa dire che voi solo siete il Dio del mio cuore e la mia ricchezza eterna: Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum.39 Chi dunque vuol farsi veramente santo, bisogna che scacci dal cuore ogni cosa che non è Dio. Che onori!40 che robe! che ricchezze! A che servono questi beni, se non contentano il cuore, e presto l’abbiamo da lasciare? Nolite thesaurizare vobis thesauros in terra, ubi aerugo et tinea demolitur…: thesaurizate… vobis thesauros in caelo (Matth. VI, 19, [20]).
Oh che beni immensi apparecchia Dio nel cielo a chi l’ama! Oh che tesoro è la grazia di Dio, e ‘l divino amore a chi lo sa conoscere! Mecum sunt divitiae, et …opes superbae,… ut ditem diligentes me (Pro VIII, 8).41 Dio in se stesso contiene, e porta seco la ricchezza, e ‘l premio: Ecce merces mea cum eo, diceva Isaia (LXII, 11). Dio solo in cielo è tutto il premio de’ beati; egli solo basta a farli appieno contenti: Ego… ero merces tua magna nimis (Gen. XV, 1).42 Ma chi vuole amare Dio assai in cielo, bisogna che prima l’ami assai in questa terra. Con quella misura d’amore colla quale finiremo il viaggio di nostra vita, con quella seguiremo poi ad amare Dio in eterno. E se vogliamo assicurarci di non averci più a separare da questo sommo bene nella presente vita, stringiamolo sempre più coi legami del nostro amore, dicendo colla sacra Sposa: Inveni quem diligit anima mea: tenui eum, nec dimittam (Cant. III, [4]). Come la Sposa tenne il suo diletto? Brachiis caritatis,43 colle braccia dell’amore, risponde Guglielmo nel luogo citato.44 Sì, dice S. Ambrogio (In Ps. CXVIII, serm. 7): Tenetur Deus vinculis caritatis: Dio da noi si fa legare dai lacci dell’amore. Felice dunque chi potrà dire con S. Paolino: Habeant sibi divitias suas divites, regna sua reges, mihi Christus divitiae, et regnum est.45 E con S. Ignazio: Amorem tui solum cum gratia tua mihi dones, et dives sum satis.46 Signore, dammi la grazia tua, il tuo santo amore; fa ch’io t’ami, e sia amato da te; et dives sum satis, e son ricco abbastanza; altro non desidero, né ho più che desiderare. Non pavet, dice S. Leone, indigentia laborare, cui donatum est in Domino omnia possidere (Serm. 4, in Quadr.).47 Non lasciamo poi sempre di ricorrere alla divina Madre, e di amarla sopra ogni cosa dopo Dio, assicurandoci ella – come la fa parlare la santa Chiesa – che fa ricchi di grazie tutti coloro che l’amano: Mecum sunt divitiae… ut ditem diligentes me.
Colloquio.
Caro mio Gesù, infiammatemi del vostro santo amore, giacché a questo fine voi siete venuto in questa terra. È vero ch’io misero, per avervi offeso dopo tanti lumi e grazie speciali a me fatte, non meriterei più di ardere di quelle beate fiamme, di cui ardono i santi, solamente mi toccherebbe ad ardere nel fuoco dell’inferno; ma trovandomi ora fuori di quel carcere da me meritato, sento che voi, rivolto anche verso di me ingrato, mi dite: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde e tuo.48
Vi ringrazio, mio Dio, che ritornate a darmi questo dolce precetto; e già che mi comandate ch’io vi ami, sì, voglio ubbidirvi, e voglio amarvi con tutto il mio cuore. Signore, per lo passato sono stato uno sconoscente, un cieco, perché ho voluto scordarmi dell’amore che mi avete portato. Ma ora che di nuovo m’illuminate e mi fate conoscere quanto avete fatto per amor mio: or che penso che vi siete fatto uomo per me, e vi siete addossato le mie miserie: or che vi vedo sulla paglia tremar di freddo, vagire e piangere per me, o mio Dio bambino, come posso vivere senza amarvi?
Deh perdonatemi, amor mio, tutti i disgusti che vi ho dati. O Dio, come io, sapendo per fede quanto voi avete patito per me, ho potuto darvi tanti disgusti ? Ma queste paglie che vi pungono, questa vil mangiatoia che vi accoglie, questi teneri vagiti che mandate, queste amorose lagrime che spargete, queste mi fanno fermamente sperare il perdono e la grazia di amarvi nella vita che mi resta. V’amo, o Verbo incarnato: v’amo, o Fanciullo divino, e tutto a voi mi dono. Per quelle pene che patiste nella stalla di Betlemme, accettate, o Gesù mio, questo misero peccatore che vuole amarvi. Aiutatemi, datemi perseveranza, tutto a voi spero.
O Maria, o gran Madre di questo gran Figlio, e da questo Figlio la più amata, pregatelo per me.
DISCORSO IX – Il Verbo Eterno da sublime si fece umile.
Discite a me, quia mitis sum, et humilis corde.
(Matth. XI, 29).
La superbia fu la prima causa della caduta de’ nostri primi parenti, i quali per non volersi sottomettere alla divina ubbidienza, perderono se stessi e tutto il genere umano. Ma la misericordia di Dio per rimedio d’una tanta ruina fece che il suo Unigenito si umiliasse a prendere carne umana, e coll’esempio della sua vita inducesse l’uomo ad innamorarsi della santa umiltà, e a detestare la superbia, che ci rende odiosi agli uomini e a Dio. A tal fine c’invita oggi S. Bernardo a visitare la grotta di Betlemme, con dirci: Transeamus usque Bethlehem, ibi habemus quod admiremur, quod amemus, quod imitemur.1 Sì in quella spelonca avremo per prima che ammirare. Come! un Dio in una stalla! un Dio sulla paglia! Come! quel Dio che siede in trono di maestà, il più sublime nel cielo: Vidi Dominum, disse Isaia, super solium excelsum et elevatum (VI, 1); vederlo collocato poi dove? In una mangiatoia, sconosciuto e abbandonato, sì che appena gli stan d’intorno due animali e pochi poveri pastori! – Habemus quod amemus, ben troveremo ivi a chi mettere il nostro affetto, trovando un Dio, bene infinito, che ha voluto avvilirsi a comparire nel mondo da povero bambino, per farsi a noi più amabile e caro, come diceva lo stesso S. Bernardo: Quantum mihi vilior, tantum mihi carior.2 – Troveremo finalmente che imitare, habemus quod imitemur: il sublime, il Re del cielo, fatto umile, piccolo e povero bambino, che già in questa grotta vuol cominciare dalla sua infanzia ad insegnarci col suo esempi quel che poi dovrà dirci colla voce. Clamat exemplo – parla il medesimo santo abbate – quod post docturus est verbo: Discite a me, quia mitis sum et humilis corde.3 Cerchiamo lume a Gesù e a Maria.
Chi non sa che Dio è il primo, il sommo nobile, dal quale ogni nobiltà dipende? Egli è l’infinita grandezza. Egli è indipendente, sicché la sua grandezza non l’ha ricevuta da altri, ma sempre l’ha posseduta in se stesso. Egli è il Signore del tutto, a cui tutte le creature ubbidiscono: Mare et venti obediunt ei (Matth. VIII, 27).4 Dunque ha ragione di dire l’apostolo che solo a Dio spetta l’onore e la gloria: Soli Deo honor et gloria (I Tim. I,17). Ma il Verbo Eterno per recar rimedio alla disgrazia dell’uomo, che per la sua superbia si era perduto, siccome fecesi esempio di povertà – come considerammo nel precedente discorso – per distaccarlo da i beni mondani; così volle anche farsi esempio di umiltà, per liberarlo dal vizio della superbia. Ed in ciò il primo e maggior esempio d’umiltà fu il farsi uomo e vestirsi delle nostre miserie: Habitu inventus ut homo (Philip. II, [7]). Dice Cassiano, che colui che si mette la veste d’un altro, sotto quella si nasconde; così Dio nascose la sua natura divina sotto l’umile veste di carne umana: Qui vestitur, sub veste absconditur; sic natura divina sub carnis veste se delituit.5 E S. Bernardo: Contraxit se maiestas, ut se ipsum limo nostro coniungeret, et in persona una uniretur Deus et limus, maiestas et infirmitas, tanta vilitas et sublimitas tanta (Serm. 3, in vigil. Nat.).6 Un Dio unirsi al fango! la grandezza alla miseria! la sublimità alla viltà! Ma quello che più dee farci stupire, è che non solo un Dio volle comparir creatura, ma volle comparir peccatore, vestendosi di carne peccatrice: Deus Filium suum mittens in similitudinem carnis peccati (Rom. VIII, 3).
Ma non fu contento il Figlio di Dio di comparir uomo, ed uomo peccatore; di più volle eleggersi una vita la più bassa ed umile tra gli uomini; talmente che Isaia ebbe a chiamarlo l’ultimo, il più umiliato tra gli uomini: Novissimum virorum (Is., c. LIII, [3] ). Geremia disse che doveva esser saziato d’ignominie: Satiabitur opprobriis (Thren. III, 30).7 E Davide che dovea rendersi l’obbrobrio degli uomini, e ‘l rifiuto della plebe: Opprobrium hominum et abiectio plebis (Ps. CXXI, 6)8 A tal fine volle nascer Gesù Cristo nel modo più vile che possa immaginarsi. Quale obbrobrio d’un uomo, ancorché povero, è l’esser nato in una stalla? Chi nasce nelle stalle? I poveri nascono nelle casucce, almeno nella paglia, ma non già nelle stalle; nelle stalle appena nascono le bestie, i vermi; e da verme volle nascere in terra il Figlio di Dio: Ego vermis, et non homo (Iob, XXI, 7).9 Sì, con tale umiltà, dice S. Agostino, nascer volle il Re dell’universo, per dimostrarci nella stessa umiltà la sua maestà e potenza, in rendere col suo esempio amanti dell’umiltà quegli uomini, che nascono tutti pieni di superbia: Sic nasci voluit Excelsus humilis, ut in ipsa humilitate ostenderet maiestatem (S. Aug., I. 2, de Symb., c. 5).10
L’angelo annunziò a’ pastori la nascita del Messia, e i segni che diede loro per ritrovarlo e riconoscerlo, furono tutti segni d’umiltà. Quel bambino, disse, che troverete in una stalla fasciato tra’ panni, e collocato in una mangiatoia sulla paglia, quello sappiate ch’è il vostro Salvatore: Et hoc vobis signum, invenietis infantem pannis involutum et positum in praesepio (Luc. II, [12]). Così fa trovarsi un Dio che viene in terra a distruggere la superbia. La vita poi che Gesù Cristo fece in Egitto, dopo essere stato esiliato, fu conforme alla sua nascita. Visse ivi, per quegli anni che vi stette, da forestiere, sconosciuto e povero tra quei barbari; ivi chi mai lo conosceva? chi ne facea conto? Ritornò nella Giudea; e la sua vita non fu molto dissimile da quella che avea fatta in Egitto. Visse per trent’anni in una bottega, stimato da tutti per figlio d’un vile artigiano, facendo l’officio di semplice garzone, povero, nascosto, e disprezzato. In quella santa famiglia non v’erano già né servi, né serve. Ioseph et Maria – scrisse S. Pier Grisologo – non habent famulum, non ancillam: ipsi domini et famuli.11 Un solo servo vi era in questa casa, ed era il Figlio di Dio, che volle farsi figlio dell’uomo, cioè di Maria, per farsi umile servo, e qual servo ubbidire ad un uomo e ad una donna: Et erat subditus illis (Luc. II, 51).
Dopo trent’anni di vita nascosta, venne finalmente il tempo che ‘l nostro Salvatore dovette comparire in pubblico a predicare le sue celesti dottrine, ch’egli dal cielo era venuto ad insegnarci; e perciò fu bisogno che si facesse conoscere per quello ch’era, vero Figlio di Dio. Ma oh Dio, quanti furono coloro che lo riconobbero e l’onorarono come meritava? Toltine pochi discepoli che lo seguirono, tutti gli altri in vece d’onorarlo lo disprezzarono qual uomo vile ed impostore. Ah che allora maggiormente si avverò la profezia di Simeone: Positus est hic… in signum cui contradicetur (Luc. II, [34] ). Fu Gesù Cristo contraddetto e disprezzato in tutto. Disprezzato nella dottrina, poiché palesando ch’egli era l’Unigenito di Dio, fu stimato bestemmiatore, e come tale giudicato degno di morte; così disse l’empio Caifas: Blasphemavit, reus est mortis (Io. IX, 22).12 Disprezzato nella sapienza, mentre fu stimato pazzo, privo di senno: Insanit, quid eum auditis? (Io. X, 20). Disprezzato ne’ costumi, mentre fu stimato crapulone, ubbriaco, ed amico dei ribaldi: Ecce homo devorator, [et] bibens vinum, amicus publicanorum et peccatorum (Luc. VII, 34). Fu stimato stregone che avesse commercio co’ demoni: In principe daemoniorum eiicit daemonia (Matth. IX, 34).13 Stimato eretico e indemoniato: Nonne bene dicimus nos, quia samaritanus es tu, et daemonium habes? (Io. VIII, 48). Stimato seduttore: Quia seductor ille dixit etc. (Matth. XXVII, 63). In somma fu stimato Gesù Cristo uomo così scellerato appresso il pubblico, che non vi bisognasse processo per condannarlo a morir crocifisso, siccome dissero gli Ebrei a Pilato: Si non esset hic malefactor, non [tibi] tradidissemus eum (Io. XVIII, 30).
Giunse in fine il Salvatore finalmente al termine di sua vita, ed alla sua Passione; e nella sua Passione, oh Dio, quali disprezzi e vilipendi non ricevette! Fu tradito e venduto da uno de’ suoi stessi discepoli per trenta danari, prezzo minore di quel che vale una bestia. Da un altro discepolo fu rinnegato. Fu portato per tutte le vie di Gerusalemme ligato da ribaldo, abbandonato da tutti, anche dagli altri suoi pochi discepoli. Fu trattato vilmente da schiavo col castigo de’ flagelli. Fu schiaffeggiato in pubblico, fu trattato da pazzo, facendolo vestire Erode con una veste bianca per farlo riputare- quale scemo senza senno: Sprevit illum tamquam ignorantem, dice S. Bonaventura, quia verbum non respondit: tamquam stolidum, quia se non defendit.14 Fu trattato da re di burla, con porgli nelle mani una canna rozza in vece di scettro, uno straccio rosso sulle spalle in vece di porpora, ed un fascio di spine in testa in vece di corona; e quindi deridendolo lo salutavano: Ave Rex Iudaeorum;15 e poi lo caricavano di sputi e di guanciate: Et exspuentes in eum (Matth. XXVII, [30]). Et dabant ei alapas (Io. XIX, [3]).- Finalmente volle morire Gesù Cristo, ma con qual morte? colla morte più ignominiosa, quale fu la morte di croce: Humiliavit semet ipsum factus obediens usque ad mortem, mortem autem crucis (Philip. II, 8). Chi moriva allora giustiziato in croce, era stimato il più vile e ribaldo fra’ rei: Maledictus [omnis] qui pendet in ligno (Galat. III, 13). Onde il nome de’ crocifissi restava per sempre maledetto ed infamato. Perciò scrisse l’Apostolo: Christus factus est pro nobis maledictum (Galat. III).16 Commenta S. Atanagio: Dicitur maledictum, quod pro nobis maledictum suscepit.17 Volle Gesù prender sopra di sé una tal maledizione, per salvare noi dalla maledizione eterna. Ma dove, Signore, esclama S. Tomaso da Villanova, dov’è il tuo decoro, la tua maestà nello stato di tanta ignominia? Ubi est, Deus, gloria tua, maiestas tua? E risponde: Noli quaerere, extasim passus est Deus (Ser. de Transfig.).18
E vuol dire il santo: Non andar cercando gloria e maestà in Gesù Cristo, poich’egli è venuto a dar esempio di umiltà ed a manifestare l’amore che porta agli uomini, e l’amore l’ha fatto quasi uscir di se stesso.
Son favole quelle che narravano i gentili, che il dio Ercole per l’amore che portava al re Augia, si pose a governargli i cavalli; e che il dio Apollo per amore di Admeto gli guardasse la greggia.19 Queste son invenzioni di cervello; ma è di fede che Gesù Cristo vero Figlio di Dio per amor dell’uomo si e umiliato a nascere in una stalla, a fare una vita disprezzata, e finalmente a morir giustiziato in un patibolo infame. O gratiam, o amoris vim! esclama S. Bernardo. Ita ne summus omnium imus factus est omnium? (Serm. 64, in Cant.).20 Oh forza dell’amor divino; il più grande di tutti si è fatto il più vile di tutti! Quis hoc fecit? seguita S. Bernardo. Amor dignitatis nescius. Triumphat de Deo amor (Serm. 84, in Cant.).21 L’amore non riguarda dignità quando si tratta di guadagnar l’affetto della persona amata. Dio che da niuno può esser mai vinto, è stato vinto dall’amore, mentre l’amore l’ha ridotto a farsi uomo e a sagrificarsi per amor dell’uomo in un mare di dolori e di disprezzi. Semet ipsum exinanivit, conclude il santo abbate, ut scias amoris fuisse, quod altitudo adaequata est.22 Il Verbo divino ch’è la stessa altezza, si umiliò sino per così dire ad annientarsi, per far conoscere all’uomo l’amore che gli portava. Sì, perché, dice S. Gregorio Nazianzeno che in niun altro modo potea meglio palesarsi l’amor divino, che con abbassarsi ad abbracciare le maggiori miserie ed ignominie che patiscono gli uomini in questa terra: Non aliter Dei amor erga nos declarari poterat, quam quod nostra causa ad deteriorem partem se deiecerit (Lib. 2. De Incarn. hom. 9.).23 Aggiunge Riccardo di S. Vittore che avendo l’uomo avuto l’ardire di offendere la maestà di Dio, fu necessario a purgare il suo delitto, che v’intervenisse un’umiliazione dal sommo all’infimo: Oportuit ut ad expiationem peccati fieret humiliatio de summo ad imum (Lib. de Incarn., cap. 8).24 Ma quanto più, ripiglia S. Bernardo, il nostro Dio si è abbassato, tanto più grande si è dimostrato nella bontà ed amore: Quanto minorem se fecit in humanitate, tanto maiorem se exhibuit in bonitate.25
Dopo dunque che un Dio si è tanto umiliato per amore dell’uomo, avrà ripugnanza l’uomo di umiliarsi per amore di Dio? Hoc… sentite in vobis, quod et in Christo Iesu (Philip. II, 5). Non merita nome di cristiano chi non è umile, e non cerca d’imitare l’umiltà di Gesù Cristo, il quale, come dice S. Agostino, è venuto umile al mondo per abbattere la superbia. La superbia dell’uomo è stato il morbo che ha estratto dal cielo questo medico divino, l’ha colmato d’ignominie e l’ha fatto morire in croce. Si vergogni dunque l’uomo d’esser superbo, almeno in vedere un Dio che, per guarirlo dalla superbia, s’è tanto umiliato: Propter hoc vitium superbiae Deus humilis venit. Iste morbus medicum de caelo deduxit, usque ad formam servi humiliavit, contumeliis egit, ligno suspendit. Erubescat homo esse superbus, propter quem factus est humilis Deus (S. Aug., in Ps. XVIII, enarr. 2, n. 15).26 E S. Pier Damiani scrisse: Ut nos erigeret se inclinavit.27 Ha voluto abbassarsi per sollevar noi dal lezzo de’ nostri peccati, e collocarci insieme cogli angeli nell’alto regno del cielo: De stercore erigens pauperem, ut collocet eum eum principibus… populi sui (Ps. CXII, 7, [8]). Humilitas eius nostra nobilitas est (S. Hilar., lib. II, de Trinit.).28 O immensità dell’amore divino! ripiglia S. Agostino. Un Dio per amor dell’uomo viene a prendersi i disprezzi, per fargli parte del suo onore: viene ad abbracciarsi con i dolori per dargli la salute; viene a patire la morte per ottenergli la vita: Mira dignatio! Venit accipere contumelias, dare honores: venit haurire dolores, dare salutem: venit subire mortem, dare vitam.29
Gesù Cristo con eleggersi una nascita così umile, una vita così disprezzata, ed una morte così ignominiosa, ha renduti nobili ed amabili i disprezzi e gli obbrobrii. Che perciò i santi in questo mondo sono stati così amanti, anzi avidi dell’ignominie, che par che altro non sapessero desiderare e cercare, che d’esser disprezzati e calpestati per amor di Gesù Cristo. Alla venuta del Verbo in terra ben si avverò quel che predisse Isaia (Cap. XXXV, [7]):30 In cubilibus ubi prius dracones habitabunt, orietur viror calami; che dove abitavano i demoni, spiriti della superbia, ivi dovea nascere, al vedersi l’umiltà di Gesù Cristo, lo spirito d’umiltà: Viror calami, id est humilitatis, commenta Ugone, quia humilis est vacuus in oculis suis;31 gli umili non sono pieni di sé, come sono i superbi, ma vuoti, stimando quello ch’è in verità, che tutto ciò che hanno è dono di Dio. Da ciò ben possiamo intendere, che quanto è cara a Dio un’anima umile, altrettanto si fa odioso un cuore superbo. Ma è possibile, dice S. Bernardo, che si trovino superbi, dopo che abbiam veduta la vita di Gesù Cristo? Ubi se exinanivit maiestas, vermis intumescit!32 È possibile che un verme lordo di peccati, vedendo un Dio d’infinita maestà e purità, che tanto si umilia per insegnare a noi l’essere umili, sia superbo! Ma sappiasi che i superbi non fan bene con Dio. Avverte S. Agostino: Erigis te, Deus fugit a te; humilias te, Deus venit ad te.33 Il Signore sen fugge da’ superbi; ma all’incontro un cuore che s’umilia, ancorché peccatore, Dio non sa disprezzarlo: Cor contritum et humiliatum, Deus, non despicies.34 Dio ha promesso di esaudire ognuno che lo prega: Petite et dabitur vobis… omnis enim qui petit accipit (Matth. VII, 7, [8] ). Ma si è protestato che non può esaudire i superbi, come ci avvisa S. Giacomo: Deus superbis resistit, humilibus autem dat gratiam (Epist. IV, 6). Alle orazioni de’ superbi resiste, e non le ascolta; ma agli umili non sa negare qualunque grazia che gli domandano. Diceva in fatti S. Teresa che le maggiori grazie ella aveale ricevute da Dio, allora che più si umiliava avanti la sua presenza.35 L’orazione di chi si umilia entra da sé nel cielo, senza bisogno di chi l’introduca; e non si parte senza ottenere da Dio ciò che desidera: Oratio humiliantis se nubes penetrabit… et non discedet, donec Altissimus aspiciat (Eccli. XXXV, 21).
Colloquio.
O Gesù mio disprezzato, voi col vostro esempio avete renduti troppo cari ed amabili i disprezzi a’ vostri amanti. Ma come va ch’io poi, in vece d’abbracciarli, come l’avete abbracciati voi, in ricevere alcun disprezzo dagli uomini, mi son portato con tanta superbia, che per causa loro ho ancora offeso voi, maestà infinita? Peccatore e superbo! Ah Signore. ben intendo; io non ho saputo prendere gli affronti con pazienza, perché non ho saputo amarvi. S’io vi amava, quelli ben mi sarebbero stati dolci e grati. Ma giacché voi promettete il perdono a chi si pente, io mi pento con tutta l’anima di tutta la vita mia disordinata, e tutta dissimile alla vita vostra. Ma voglio emendarmi, e perciò vi prometto di voler soffrire con pace da oggi avanti tutti i disprezzi che mi saran fatti, per amor vostro, o Gesù mio, che per mio amore siete stato così disprezzato. Intendo, che le umiliazioni sono le miniere preziose colle quali voi fate ricche l’anime de’ tesori eterni. Altre umiliazioni ed altri disprezzi merito io che ho disprezzata la grazia vostra; merito di esser calpestato da’ demoni. Ma i meriti vostri sono la speranza mia.
Io voglio mutar vita, non vi voglio più disgustare; e da oggi innanzi non voglio cercar altro che ‘l vostro gusto. Io ho meritato più volte d’esser mandato ad ardere nel fuoco dell’inferno; voi che sinora mi avete aspettato ed anche perdonato, come spero, fate che in vece di ardere di quel fuoco infelice, arda del fuoco beato del vostro santo amore.
No che non voglio vivere più, o amor mio, senza amarvi. Aiutatemi voi, non mi fate più vivere a voi ingrato, come ho fatto per lo passato. Per l’avvenire voi solo voglio amare; voglio che di voi solo sia il mio cuore. Deh prendetene il possesso, e questo possesso sia eterno; sicché io sia sempre vostro e voi siate sempre mio: io sempre v’ami e voi sempre mi amiate. Sì, così spero, o mio Dio amabilissimo, ch’io sempre v’amerò e voi sempre mi amerete. Credo in voi, bontà infinita: spero in voi, bontà infinita: amo voi, bontà infinita: v’amo, e sempre vi dirò, io v’amo, io v’amo, io v’amo, e perché v’amo voglio far quanto posso per compiacervi. Disponete voi di me come vi piace. Basta che mi diate la grazia d’amarvi, e fate di me quel che volete. L’amor vostro è e sarà sempre l’unico mio tesoro, l’unico desiderio, l’unico mio bene, l’unico mio amore.
Maria, speranza mia, madre del bell’amore, aiutatemi voi ad amare assai e sempre il mio amabilissimo Dio.
DISCORSO X – Dalla nascita di Gesù, per la notte del Santo Natale.
Evangelizo vobis gaudium magnum…
quia natus est vobis hodie Salvator.
(Luc. II, [10], 11).
Evangelizo vobis gaudium magnum. Così disse l’angelo a’ pastori, e così dico a voi in questa notte, anime divote. Vi porto una nuova di grande allegrezza. E qual nuova di maggior allegrezza può darsi ad un popolo di poveri esiliati dalla patria e condannati alla morte, che quella d’esser già venuto il lor Salvatore non solo a liberarli dalla morte, ma ancora ad ottenere loro il ritorno alla patria? E ciò è quello appunto che stanotte io vi annunzio: Natus est vobis… Salvator. È nato Gesù Cristo, ed è nato per voi, per liberarvi dalla morte eterna e per aprirvi il paradiso, ch’è la patria nostra, dalla quale avevamo avuto il bando in pena de’ nostri peccati. Ma acciocché siate grati in amare d’oggi in poi questo vostro nato Redentore, lasciate ch’io vi metta avanti gli occhi, dove è nato, e com’è nato, e dove questa notte si ritrova, affinché possiate andare a trovarlo e a ringraziarlo di tanto beneficio e tanto amore. Cerchiamo lume a Gesù ed a Maria.
Lasciate dunque ch’io vi rappresenti in breve l’istoria della nascita di questo Re del mondo ch’è sceso dal cielo per la vostra salute. Volendo Ottaviano Augusto imperator di Roma sapere le forze del suo imperio, volle che si facesse una general numerazione di tutti i suoi sudditi; e perciò ordinò a tutti i presidi delle provincie, e tra gli altri a Cirino preside della Giudea, che facessero venire ciascuno a scriversi, con pagare insieme un certo tributo in segno del comun vassallaggio: Factum est… edictum…, ut describeretur universus orbis (Luc. II, [1]). Pubblicato che fu quest’ordine, ecco Giuseppe che subito ubbidisce, né aspetta che prima partorisca la sua santa sposa, che stava già vicina al parto. Subito, dico, ubbidisce, e si mette in cammino con Maria pregna del Verbo Incarnato, per andare a scriversi nella città di Betlemme, ut profiteretur cum Maria… uxore praegnante.1 Il viaggio fu lungo, mentre come portano gli autori, fu di 90 leghe, viene a dire di quattro giornate;2 lungo e strapazzoso, dovendosi andare per montagne e per vie aspre, e con venti, pioggie e freddo.
Quando entra la prima volta il re in una città del suo regno, quali onori non se gli apprestano? quanti apparati, quanti archi trionfali! Preparati dunque, o felice Betlemme, a ricever con onore il tuo Re, mentre ti avvisa il profeta, che già viene a visitarti il tuo Signore, ch’è Signore non solo di tutta la Giudea, ma di tutto il mondo. E sappi, dice il profeta, che fra tutte le città della terra tu sei la fortunata, che s’ha eletta per nascere in terra il Re del cielo, affin di regnare poi non già nella Giudea, ma ne’ cuori degli uomini, che vivono nella Giudea ed in tutta la terra: Et tu, Bethleem Ephrata, parvulus es in millibus Iuda; ex te mihi egredietur qui sit dominator in Israel (Mich. V, 2). Ma ecco già entrano in Betlemme questi due gran pellegrini, Giuseppe e Maria che porta seco nell’utero il Salvator del mondo. Entrano nella città, vanno alla casa del ministro imperiale a pagare il tributo, ed a scriversi nel libro de’ sudditi di Cesare, dove si scrive anche la prole di Maria, cioè Gesù Cristo, ch’era il Signore di Cesare e di tutti i principi della terra. Ma chi li riconosce? Chi va loro ad incontro per onorarli? Chi li saluta, chi l’ accoglie? In propria venit, et sui eum non receperunt (Io. I, [11]). Vanno essi da poveri, e come poveri son disprezzati, anzi peggio che gli altri poveri son trattati e discacciati. Sì, perché stando ivi, factum est autem, cum essent ibi, impleti sunt dies, ut pareret (Luc. II, [6] ). Intese Maria ch’era già arrivato il tempo del parto, e che ‘l Verbo Incarnato voleva in quel luogo e in quella notte nascere e farsi vedere al mondo. Ond’ella ne avviso Giuseppe, e Giuseppe con fretta si diede a procurar qualche alloggio tra le case di quei cittadini, per non portare la sposa a partorire nell’osteria, che non era luogo decente per una donzella che partoriva; tanto più che in quel tempo stava quella piena di gente. Ma non trovò chi li desse udienza, e verisimilmente da alcuno fu anche rimproverato come sciocco, in condurre la sposa vicina al parto in quel tempo di notte e di tanto concorso. Sicché fu costretto finalmente, per non restare in quella notte in mezzo alla via, di portarla alla pubblica osteria, dove v’erano già anche molti poveri alloggiati in quella notte. Vi andò; ma che? anche di là furono discacciati; e fu risposto loro che non ci era luogo per essi: Non erat eis locus in diversorio (Luc. II, 7). Vi era luogo per tutti, anche per li plebei, ma non per Gesù Cristo.- Quell’osteria fu figura di quei cuori ingrati dove molti dan luogo a tante creature miserabili, e non a Dio. Quanti amano i parenti, amano gli amici, amano anche le bestie, ma non amano Gesù Cristo, e niente fan conto, né della sua grazia, né del suo amore. Ma disse Maria SS. ad un’anima divota: Fu disposizione di Dio, che mancasse a me ed a mio Figlio alloggio tra gli uomini, acciocché l’anime innamorate di Gesù gli offerissero se stesse per alloggio, e con amore l’invitassero a venire nei loro cuori (Vedi il P. Patrign.).3
Ma seguitiamo l’istoria. Vedendosi dunque discacciati da ogni parte questi poveri pellegrini, escono dalla città per ritrovare almeno fuori di essa qualche ricovero. Camminano all’oscuro, girano, spiano; finalmente vedono una grotta che stava cavata in un sasso del monte sotto la città. Scrive il Barrada, Beda e Brocardo, che il luogo dove nacque Gesù Cristo, era una rupe scavata sotto il muro di Betlemme, separata dalla città, a guisa d’una spelonca, che serviva d’alloggio agli animali.4 Allora disse Maria: Giuseppe mio, non occorre passare più avanti, entriamo in questa grotta e qui fermiamoci.
Ma come? rispose allora Giuseppe; sposa mia, non vedi che questa è grotta tutta svadata, fredda, umida, che da ogni parte scorre acqua? non vedi che questa non è stanza d’uomini, ma è stalla di bestie? Come vuoi stare qui in tutta questa notte, e qui partorire? Eppur è vero, allora disse Maria, che questa stalla, questa è la reggia, il palagio regale in cui vuol nascere in terra il Figlio eterno di Dio.
Oh che avran detto gli angeli in vedere entrar la divina Madre a Partorire in quella grotta! I figli de’ principi nascono nelle stanze addobbate d’oro, si apparecchiano loro culle ricche di gemme, panni preziosi, col corteggio de’ primi signori del regno. E poi al re del cielo si apparecchia per nascervi una stalla fredda e senza fuoco? poveri pannicelli per coprirlo, un poco di paglia per letto, ed una vil mangiatoia per riporvelo? Ubi aula?, dimanda san Bernardo, ubi thronus? Dov’è la corte, dov’è il soglio regale, dice il santo, per questo Re del cielo, s’io non vedo altro che due animali che stan per fargli compagnia, e che un presepio di bestie, dove ha da esser collocato?5 – O grotta fortunata che avesti sorte di vedere in te nato il Verbo divino! O presepe fortunato che avesti l’onore di accogliere in te il Signor del cielo! O fortunate paglie che serviste di letto a colui che siede sulle spalle de’ serafini! Ah che in considerare la nascita di Gesù Cristo e ‘l modo come nacque, dovressimo tutti ardere d’amore; e in sentir nominare grotta, mangiatoia, paglia, latte, vagiti, tali nomi – pensando alla nascita del Redentore – dovrebbero essere per noi tutte fiamme d’amore, e saette che ci ferissero i cuori. Sì, voi foste fortunati, o grotta, o presepe, o paglie; ma son più fortunati quei cuori che amano con fervore e tenerezza questo amabilissimo Signore, ed infiammati d’amore l’accolgono poi nella santa comunione. Oh con qual desiderio e contento va Gesù Cristo a riposare in un cuore che l’ama!
Entrata che fu Maria nella spelonca, subito si pose in orazione, e venuta già l’ora del parto, si scioglie i capelli, in segno di riverenza, spargendoli sulle spalle; ed ecco che vede una gran luce, sente nel cuore un gaudio celeste, bassa gli occhi, e oh Dio che mira? mira già sulla terra un bambino, così bello ed amabile, che innamora, ma che trema, che piange, e collo stender delle mani dà segno di voler esser preso tra le di lei braccia: Extendebat membra quaerens Matris favorem, secondo la rivelazione fatta a S. Brigida.6 Maria chiama Giuseppe. Vieni, Giuseppe, disse, vieni a vedere ch’è già nato il figlio di Dio. Viene Giuseppe, e in vedere Gesù già nato, L’adora in mezzo a un fiume di dolci lagrime: Intravit senex, et prosternens se plorabat prae gaudio (Revel., ibid.).7 Indi la S. Vergine con riverenza prende l’amato Figlio, e se lo pone in seno. Cerca di riscaldarlo col calore delle sue guance e del suo petto: Maxilla et pectore calefaciebat eum cum laetitia et tenera compassione materna.8 – Considerate la divozione, la tenerezza, l’amore che allora provò Maria in vedersi tra le braccia e in seno il Signore del mondo, il Figlio dell’Eterno Padre, che si era degnato di farsi anche figlio di lei, scegliendola per sua Madre tra le donne.- Avendolo poi già in seno Maria, l’adora come Dio, gli bacia i piedi come a suo Re, e poi la faccia come a suo Figlio. Indi cerca subito di covrirlo, e fasciarlo co’ panni. Ma, oh Dio, che i panni sono aspri e rozzi perché son panni di poveri; e son freddi, sono umidi, e in quella grotta non v’è fuoco da riscaldarli!
Venite, monarchi, venite imperatori, venite tutti, o principi della terra, venite sù ad adorare il vostro sommo Re, che per amor vostro nasce e nasce così povero in questa spelonca. Ma chi comparisce? niuno. In propria venit, et mundus eum non cognovit (Io. I).9 Ah che il Figlio di Dio è venuto nel mondo, ma il mondo non vuol conoscerlo. Ma se non vengono gli uomini, ben vengono gli angeli ad adorare il lor Signore. Così comanda l’eterno Padre per onor di questo suo Figlio: Et adorent eum omnes angeli eius (Hebr. I, 6). Vengono in gran numero, lodando il loro Dio cantano con giubilo: Gloria in altissimis Deo, et in terra pax hominibus bonae voluntatis (Luc. II, 14). Gloria alla divina misericordia che in vece di castigare gli uomini ribelli, fa che lo stesso loro Dio prenda sopra di sé il castigo, e così li salvi. Gloria alla divina sapienza che ha trovato il modo di soddisfare insieme la giustizia e di liberare l’uomo dalla morte da esso meritata. Gloria alla divina potenza, in abbattere le forze dell’inferno in maniera così ammirabile, col venire il Verbo divino da povero a patire dolori, disprezzi e morte, e così tirarsi i cuori degli uomini ad amarlo, ed a lasciar tutto per suo amore, onori, beni e vita: come han fatto poi tante donzelle, tanti giovani, anche nobili, e principi, per esser grati all’amore di questo Dio. Gloria finalmente al divino amore, mentre ha ridotto un Dio a farsi bambino, povero, umile, a vivere una vita penosa, ed a fare una morte spietata. per dimostrare all’uomo l’affetto che gli porta, e per guadagnarsi il di lui amore. Agnoscimus in stabulo potentiam exinanitam, sapientiam prae amoris nimietate infatuatam.10 Vediamo in questa stalla, dice San Lorenzo Giustiniani, la potenza di un Dio quasi annichilata; vediamo un Dio ch’è la stessa sapienza, per lo troppo amore che porta agli uomini, quasi impazzito.
Orsù, Maria invita tutti, nobili e plebei, ricchi e poveri, santi e peccatori, ad entrare nella grotta di Betlemme, per adorare e baciare i piedi al suo Figlio già nato. Entrate dunque, anime divote, entrate a vedere sul fieno il Creatore del cielo e della terra in forma d’un piccolo bambino, ma così bello, e così luminoso che manda per tutto raggi di luce. Ora ch’è nato e sta su quella paglia, la grotta non è più orrida, ma è divenuta un paradiso. Entriamo su e non abbiamo timore. È nato Gesù, ed è nato per tutti, per ognun che lo vuole. Ego flos campi – egli ci fa sapere ne’ sagri Cantici – et lilium convallium (Cant. II, 1). Si chiama giglio delle valli, per darci ad intendere che siccome egli nasce sì umile, così solamente gli umili lo trovano; perciò l’angelo non andò ad annunziar la nascita di Gesù Cristo a Cesare o ad Erode; ma a poveri ed umili pastori. Del resto egli si chiama fiore de’ campi, perché sta esposto per farsi trovare da tutti: Ego flos campi, commenta Ugon cardinale, quia omnibus me exhibeo inveniendum.11 I fiori de’ giardini stan chiusi e son riserbati tra le mura, non è permesso a tutti di trovarli e di prenderli; all’incontro i fiori de’ campi sono esposti a tutti; chi li vuole, li prende; e tale vuol essere Gesù Cristo, esposto ad ognun che lo vuole. Entriamo su, la porta è aperta: non est satelles, dice S. Pier Grisologo, qui dicat non est hora.12 I monarchi stan chiusi nelle lor reggie, e le reggie stan circondate da’ soldati: non è facile aver udienza da’ principi: chi vuol parlarci, molto ci ha da stentare; più volte dovrà essere licenziato, con sentirsi dire: Ritornate in altro tempo, ora non è tempo di udienza. Non va così con Gesù Cristo. Egli se ne sta in quella grotta, e vi sta da bambino, per allettare ognun che viene a cercarlo; e la grotta è svadata, senza guardie e senza porte, sicché ciascuno può entrarvi a suo piacere quando vuole, per trovare e parlare, ed anche abbracciare questo picciolo Re, se l’ama e desidera.
Entrate dunque sù, anime. Ecco là, guardate in quella mangiatoia, su quella povera paglia quel tenero pargoletto che piange. Vedete come è bello; mirate la luce che manda, l’amore che spira quegli occhi inviano saette a’ cuori che lo desiderano; quei vagiti son fiamme a chi l’ama; la medesima stalla, le stesse paglie gridano, dice S. Bernardo: Clamat stabulum, clamant paleae,13 e vi dicono che amiate chi vi ama: amiate un Dio ch’è degno d’infinito amore, e ch’è sceso dalle stelle, e si è fatto bambino, si è fatto povero per farvi intendere l’amor che vi porta, e per guadagnarsi colle sue pene il vostro amore. Dimandategli sù: Ahi vago bambinello, dimmi, a chi sei figlio? Risponde: La madre mia è questa bella e pura verginella, che mi sta accanto. E ‘l Padre tuo chi è? Il Padre mio, dice, è Dio. E come! tu sei figlio di Dio, e stai così povero? così umile? in questo stato chi mai ti riconoscerà? chi ti rispetterà? No, risponde Gesù, la santa fede mi farà conoscere per quel che sono, e mi farà amare dall’anime ch’io son venuto a redimere e ad infiammare del mio amore. Io non son venuto. dice, a farmi temere, ma a farmi amare; e perciò ho voluto comparire a voi la prima volta che mi vedete, da bambino cosi povero ed umile, acciocché così più mi amiate, vedendo a che mi ha ridotto l’amore ch’io vi porto. Ma dimmi, Bambino mio, perché giri gli occhi d’intorno? che vai guardando? Ti sento sospirare, dimmi, perché sospiri? Oh Dio ti sento piangere; dimmi, perché piangi? Sì, risponde Gesù, io giro gli occhi d’intorno, perché vo cercando qualche anima che mi desidera. Sospiro per desiderio di vedermi a canto qualche cuore che arda per me, come ardo io per lui d’amore. Ma piango, e per questo piango, perché non vedo, o vedo troppo poche anime e cuori che mi cercano e mi vogliono amare.
Colloquio per lo bacio de’ piedi del santo Bambino che suol praticarsi in alcune chiese.
Or via, Gesù v’invita, o anime divote, di venire a baciargli i piedi in questa notte. I pastori che vennero allora a visitarlo nella stalla di Betlemme, portarono i loro presenti; bisogna che ancora voi portiate i presenti vostri. Che gli porterete? Sentite, il presente più caro che gli potete portare, è un cuore pentito ed amante. Ciascuno dunque prima di venire gli dica così: Signore, io non avrei ardire di accostarmi a voi, vedendomi così sozzo di peccati; ma giacché voi, Gesù mio, con tanta cortesia m’invitate e con amore mi chiamate, non voglio ricusare. Non voglio usarvi già quest’altra rozzezza, che dopo avervi tante volte voltate le spalle, ora per diffidenza avessi a rifiutare questo dolce invito che mi fate. Ma sappiate, digli, ch’io son povero di tutto, non ho che offerirvi. Non ho altro che questo cuore, questo vengo a portarvi. È vero che questo mio cuore un tempo vi ha offeso, ma ora è pentito, e pentito ve lo porto. Sì, Bambino mio, mi pento d’avervi disgustato. Confesso, io sono stato il barbaro, il traditore, l’ingrato, che vi ho fatto tanto patire, e vi ho fatto spargere tante lagrime nella stalla di Betlemme; ma le lagrime vostre sono la speranza mia. Son peccatore è vero, non merito perdono; ma vengo a voi ch’essendo Dio vi siete fatto bambino per perdonarmi.
Eterno Padre, s’io merito l’inferno, mirate le lagrime di questo innocente vostro Figlio, che vi cercano perdono per me. Voi niente negate alle preghiere di Gesù Cristo. Esauditelo dunque, mentr’egli vi domanda che mi perdoniate in questa notte, ch’è notte di allegrezza, notte di salute, notte di perdono.
Ah Bambino mio Gesù, da voi spero il perdono, ma il solo perdono de’ peccati miei non mi basta. In questa notte voi dispensate all’anime grazie grandi; anch’io voglio una gran grazia che mi avete da fare, ed è la grazia d’amarvi. Ora che vengo a’ piedi vostri, infiammatemi tutto del vostro santo amore, e ligatemi con voi; ma ligatemi talmente che io non abbia a separarmi più da voi.
Io v’amo, o mio Dio, fatto bambino per me, ma v’amo poco; voglio amarvi assai, e voi l’avete da fare. Io vengo già a baciare i piedi, e vi porto il mio cuore; a voi lo lascio, io non lo voglio più; voi mutatelo e voi conservatevelo per sempre; non me lo tornate più, perché se lo tornate in mano mia, io temo che di nuovo egli vi tradirà.
Maria santissima, voi che siete la Madre di questo gran Figlio, ma siete ancora la Madre mia, a voi consegno questo povero mio cuore; voi presentatelo a Gesù; presentato per mano vostra, egli non lo rifiuterà. Presentatelo dunque voi, e voi pregatelo che l’accetti.
DISCORSO XI – Del nome di Gesù.
Vocatum est nomen eius Iesus. (Luc. II, 21).
Questo gran nome di Gesù non fu ritrovato già dagli uomini, ma da Dio medesimo. Nomen Iesus, dice S. Bernardo, primo fuit a Patre praenominatum.1 Egli fu un nome nuovo: Nomen novum, quod os Domini nominabit (Is. LXII, [2]). Nome nuovo, che solo Dio poteva darlo a chi destinava per Salvatore del mondo. Nome nuovo ed eterno; perché siccome ab eterno fu fatto il decreto della Redenzione, così ab eterno fu dato anche il nome al Redentore. Nulladimeno in questa terra tal nome fu imposto a Gesù Cristo nel giorno della sua circoncisione: Et postquam consummati sunt dies octo, ut circumcideretur puer, vocatum est nomen eius Iesus.2 Volle allora l’Eterno Padre rimunerare l’umiltà del suo Figlio, con dargli un nome di tanto onore. Sì, mentre Gesù si umilia, soggettandosi colla circoncisione a soffrire la marca di peccatore, con ragione il Padre l’onora con dargli un nome che supera la dignità e l’altezza d’ogni altro nome. Dedit illi nomen quod est super omne nomen (Philip. II, 9).3 E comanda che questo nome sia adorato dagli angeli, dagli uomini e da’ demoni: Ut in nomine Iesu omne genuflectatur caelestium, terrestrium, et infernorum (Ibid., [10]). Se dunque tutte le creature adorano questo gran nome, tanto più dobbiamo adorarlo noi peccatori, mentre a nostro riguardo gli è imposto questo nome di Gesù, che significa Salvatore; ed a questo fine ancora, per salvare i peccatori, egli e sceso dal cielo: Propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et homo factus est. Dobbiamo adorarlo, e nello stesso tempo ringraziare Iddio che gli ha dato questo nome per nostro bene; poiché questo nome ci consola, ci difende, e c’infiamma. Tre punti del nostro discorso. Vediamolo: ma prima cerchiamo luce a Gesù e a Maria.
Per prima, il nome di Gesù ci consola; mentre invocando Gesù noi possiamo trovare il sollievo in tutte le nostre afflizioni. Ricorrendo a Gesù, egli vuol consolarci, perché ci ama; e può consolarci, poiché esso non solamente è uomo, ma ancora è Dio onnipotente; altrimenti non potrebbe avere propriamente questo gran nome di Salvatore. Il nome di Gesù importa l’esser nome d’una potenza infinita, e insieme d’una sapienza e di un amore infinito; imperocché, se in Gesù Cristo non concorrevano tutte queste perfezioni, egli non avrebbe potuto salvarci. Neque enim, dice S. Bernardo, posse te aut vocari Salvatorem, si quidpiam horum defuisset (Serm. 2, de Circumcis.).4 Onde dice il santo, parlando della circoncisione: Circumciditur tamquam filius Abrahae, Iesus vocatur tamquam Filius Dei (Serm. 1, de Circumc.).5 Egli è ferito come uomo col segno di peccatore, mentre si ha addossato il peso di soddisfare per li peccatori, e già sin da bambino vuol cominciare a soddisfare i loro delitti, con patire e sparger sangue; ma si chiama poi Gesù, si chiama Salvatore, come Figlio di Dio, perché solamente a Dio compete il salvare.
Il nome di Gesù è chiamato dallo Spirito Santo olio diffuso: Oleum effusum nomen tuum (Cant. I, 2). E con ragione, dice S. Bernardo, perché siccome l’olio serve per luce, per cibo e per medicina, così primieramente il nome di Gesù egli è luce: Lucet praedicatum.6 E d’onde mai, dice il santo, così subito risplendé nella terra la luce della fede, sicché tra poco tempo tanti gentili conobbero il vero Dio, e si fecero suoi seguaci, se non col sentir predicare il nome di Gesù? Unde putas in toto orbe tanta, et tam subita fidei lux, nisi praedicato nomine Iesu? (Serm. 15).7 In questo nome noi fortunati siamo stati fatti figli della vera luce, cioè figli della S. Chiesa; poiché abbiamo avuta la sorte di nascere in grembo alla Chiesa Romana, in regni cristiani e cattolici: grazia e sorte non concessa alla maggior parte degli uomini, che nascono tra gl’idolatri, maomettani o eretici.- Inoltre il nome di Gesù è cibo che pasce l’anime nostre. Pascit recogitatum.8 Questo nome da forza a’ fedeli di trovar pace e consolazione anche in mezzo alle miserie ed alle persecuzioni in questa terra. I santi apostoli maltrattati e vilipesi giubilavano, essendo confortati dal nome di Gesù. Ibant gaudentes a conspectu concilii, quoniam digni habiti sunt pro nomine Iesu contumeliam pati (Act. V, 41).- È luce, è cibo ed è ancora medicina a chi l’invoca. Invocatum lenit et ungit.9 Dice il santo Abbate: Ad exortum nominis lumen, nubilum diffugit, redit serenum.10 Se l’anima sta afflitta e turbata, fate che nomini Gesù, che subito da lei fuggirà la tempesta e tornerà la pace. Labitur quis in crimen? currit ad laqueum mortis desperando? non ne, si invocet nomen vitae, confestim respirabit ad vitam?11 Se mai alcun miserabile è caduto in peccato, e sente diffidenza del perdono, invochi questo nome di vita, che subito sentirà rincorarsi a sperare il perdono: nominando Gesù, che dal Padre a tal fine è stato destinato per nostro Salvatore, per ottenere a’ peccatori il perdono. Dice Eutimio che se Giuda quando fu tentato a disperarsi, avesse invocato il nome di Gesù, non si sarebbe disperato: Si illud nomen invocasset, non periisset (Eutim., in c. 27 Matth.). Onde poi soggiunge che non mai giungerà all’ultima ruina di disperarsi qualunque peccatore, perduto che sia, il quale invocherà questo santo nome, ch’è nome di speranza e di salute: Longe est desperatio, ubi est huius nominis invocatio.12
Ma i peccatori lasciano d’invocare questo nome di salute, perché non vogliono guarire dalle loro infermità. Gesù Cristo è pronto a sanare tutte le nostre piaghe; ma se taluno ama le sue piaghe e non vuol essere sanato, come può guarirlo Gesù Cristo? La Ven. Suor Maria Crocifissa Siciliana vide una volta il Salvatore che stava come dentro uno spedale, e che andava in giro colle medicine in mano per guarire quegl’infermi che ivi stavano; ma quei disgraziati in vece di ringraziarlo e di chiamarlo, lo discacciavano da loro.13 Così fanno molti peccatori dopo che si sono volontariamente avvelenati col peccato, ricusano la salute, cioè la grazia che Gesù Cristo loro offerisce, e così restano miseramente perduti nelle loro infermità. Ma all’incontro che timore può avere quel peccatore che ricorre a Gesù, poiché Gesù medesimo si offerisce ad ottenerci dal suo Padre il perdono, avendo egli già colla sua morte pagata la pena a noi dovuta? Qui offensus fuerat, dice S. Lorenzo Giustiniani, ipse se intercessorem destinavit; quod illi debebatur exsolvit (Serm. in Nat.)14 Onde poi, soggiunge il santo: Si configeris aegritudine, si doloribus fatigaris, si concuteris formidine, Iesu nomen edito.15 Povero infermo, se ti ritrovi aggravato da infermita, o da’ dolori e da’ timori, chiama Gesù, ed egli ti consolerà. Basterà che in suo nome preghiamo l’Eterno Padre, e ci sarà dato quanto chiederemo. È promessa questa di Gesù medesimo, replicata più volte, non può fallire: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis (Io. XVI, [23]). Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam (Io. XV, 16).16
In secondo luogo abbiam detto che il nome di Gesù ci difende. Sì, egli ci difende da tutte l’insidie ed assalti de’ nemici. Il Messia appunto perciò fu chiamato il Dio forte, Deus fortis;17 e dal Savio fu chiamato il suo nome una fortissima torre, Turris fortissima nomen tuum (Prov. XVIII, 10);18 acciocché noi intendiamo che non avrà timore di tutti gl’insulti dell’inferno, chi si avvale dello scudo di questo potentissimo nome. Christus, scrive S. Paolo (Philip. II, [8]), humiliavit semet ipsum, factus obediens usque ad mortem; mortem autem crucis. Gesù Cristo in sua vita si umiliò ubbidendo al Padre sino a morir crocifisso; viene a dire, dice S. Anselmo, si umiliò tanto che più non poté umiliarsi; e perciò il suo divin Padre, per lo merito di questa umiltà e ubbidienza del Figlio, lo sublimò tanto che non poté più sublimarlo: Ipse se tantum humiliavit, ut ultra non posset; propter quod Deus tantum exaltavit ut ultra non posset.19 Quindi il Padre gli ha dato un nome superiore ad ogni nome: Propterea dedit illi nomen super omne nomen, ut omne genuflectatur caelestium, terrestrium et infernorum.20 Gli ha dato un nome sì grande e sì potente, ch’è venerato dal cielo, dalla terra e dall’inferno. Nome potente in cielo, perch’egli può ottenerci tutte le grazie: potente in terra, perché può salvare tutti coloro che divotamente l’invocano; potente nell’inferno, perché tal nome atterrisce tutti i demoni. Tremano quegli angeli ribelli al suono di questo nome sacrosanto, poiché si ricordano che Gesù Cristo è stato quel forte che ha distrutto il dominio e le forze ch’essi prima aveano sopra degli uomini. Tremano, dice S. Pier Grisologo, perché in questo nome debbono adorare tutta la maestà d’un Dio: In hoc nomine deitatis adoratur tota maiestas (Serm. 114).21 Disse il medesimo nostro Salvatore, che in questo suo potente nome avrebbero i suoi discepoli discacciati i demoni: In nomine meo daemonia eiicient (Marc. XVI, 17). Ed in fatti la S. Chiesa negli esorcismi, di questo nome sempre si avvale, per discacciare gli spiriti infernali dagli ossessi. Ed i sacerdoti che assistono a’ moribondi, del nome di Gesù si avvalgono per liberare i loro infermi dagli assalti più terribili che l’inferno dà in quel punto estremo della morte.
Leggasi la Vita di S. Bernardino da Siena, e veggansi quanti peccatori convertì questo santo, quanti abusi distrusse, e quante città santificò coll’insinuar predicando a’ popoli l’invocare il nome di Gesù.22 Disse S. Pietro che non vi è altro nome a noi dato, in cui bisogna trovar la salute, che questo nome sacrosanto di Gesù: Nec enim aliud nomen est sub caelo datum hominibus, in quo oporteat nos salvos fieri (Act. IV,12). Gesù è quello che non solamente ci ha salvati una volta, ma continuamente ci salva per li suoi meriti dal pericolo del peccato, ogni volta che con confidenza l’invocheremo: Quodcumque petieritis Patrem in nomine meo, hoc faciam (Io. XIV, 13). Onde S. Paolo ci anima, dicendo che chiunque l’invoca, certamente sarà salvo: Quicumque invocaverit nomen Domini, salvus erit (Rom. X, [13]). Nelle tentazioni dunque, replico con S. Lorenzo Giustiniani: Si tentaris a diabolo, si ab hominibus opprimeris, Iesu nomen edito.23 Se i demoni o gli uomini t’infestano e ti spingono al peccato, chiama Gesù, e sarai salvo; e se le tentazioni sieguono a perseguitarti, siegui tu ad invocare Gesù, che non mai cadrai. Quei che praticano questa gran divozione, si prova coll’esperienza che si mantengono saldi e sempre vincono. Aggiungiamoci ancora sempre il nome di Maria, il quale anche spaventa l’inferno, e saremo sempre sicuri. Haec brevis oratio, dice Tommaso da Kempis, Iesus et Maria, facilis ad tenendum, fortis ad protegendum:24 Questa orazione così breve e così facile a tenerla in memoria, ella è potente a liberarci da ogn’insulto de’ nemici.
In terzo luogo il nome di Gesù non solo consola e difende da ogni male, ma ancora infiamma di santo amore tutti coloro che con divozione lo nominano. Il nome di Gesù, cioè di Salvatore, è nome che in sé esprime amore, mentre ci ricorda quanto ha fatto, quanto ha patito Gesù Cristo per salvarci: Nomen Iesus signum est repraesentans tibi omnia quaecumque Deus fecit propter salutem humanae naturae, dice S. Bernardo (Serm. 48).25 Onde con tenerezza un autor divoto gli diceva: O Gesù mio, troppo ti è costato l’essere Gesù, cioè mio Salvatore: O Iesu, quanti tibi constitit esse Iesum, Salvatorem meum!26
Scrive S. Matteo, parlando della crocifissione di Gesù Cristo: Et imposuerunt super caput eius causam ipsius scriptam: Hic est Iesus Rex Iudaeorum (XXVII, 37). Dispose dunque l’Eterno Padre che sulla croce dove morì il nostro Redentore, si leggesse scritto Questo è Gesù, il Salvatore del mondo. Così scrisse Pilato, non già perché l’avesse giudicato reo, a cagion di aversi Gesù Cristo assunto il nome di re, siccome l’accusavano i Giudei; poiché Pilato non fé conto di quest’accusa, e nello stesso tempo che lo condannò ben lo dichiarò innocente, protestandosi di non aver parte nella di lui morte: Innocens sum a sanguine iusti huius.27 Ma perché gli diede il titolo di re? Lo scrisse per volontà di Dio, il quale volle con ciò dire a noi: Uomini, sapete perché muore questo mio Figlio innocente? muore, perch’è vostro Salvatore; muore questo pastore divino su questo legno infame, per salvare voi sue pecorelle. Perciò fu detto ne’ sagri Cantici: Oleum effusum nomen eius.28 Spiega S. Bernardo: Nempe effusio divinitatis.29 Nella Redenzione Dio stesso per l’amore che ci portava, tutto a noi si diede e si comunicò: Dilexit nos et tradidit semet ipsum pro nobis (Ephes. V, 2). E per potersi a noi comunicare, egli si assunse il peso di pagare le pene a noi dovute: Languores nostros ipse tulit et dolores nostros ipse portavit (Is. LIII).30 Con quel titolo, dice S. Cirillo Alessandrino (Lib. XII, in Io.), volle scancellare il decreto prima già fatto di condanna contro noi poveri peccatori: Hoc titulo adversus genus nostrum chirographum in cruce confixo delevit;31 secondo quel che già scrisse l’Apostolo: Delens quod adversus nos erat chirographum decreti (Coloss. II, 14). Egli, l’amante nostro Redentore, volle liberarci dalla maledizione da noi meritata, facendosi esso l’oggetto delle maledizioni divine con caricarsi di tutti i nostri peccati: Christus redemit nos de maledicto, factus pro nobis maledictum (Galat. III, 13).32
Ond’è che un’anima fedele, nominando Gesù e ricordandosi col nominarlo di quel che ha fatto Gesù Cristo per salvarla, non è possibile che non si accenda ad amare chi tanto l’ha amata. Cum nomino Iesum, diceva S. Bernardo, hominem mihi propono mitem, humilem, benignum, misericordem, omni sanctitate conspicuum, eumdemque Deum omnipotentem qui me sanet et roboret.33 Nominando Gesù, dobbiamo immaginarci di vedere un uomo tutto mansueto, affabile, pietoso e pieno d’ogni virtù; e poi dobbiam pensare che egli è il nostro Dio, che per guarire le nostre piaghe ha voluto esser disprezzato ed impiagato, sino a morire di puro dolore su d’una croce. Siati dunque caro, o cristiano, ti esorta S. Anselmo, il bel nome di Gesù; egli sia sempre nel tuo cuore, ed egli sia l’unico tuo cibo, l’unica consolazione: Sit tibi Iesus semper in corde; hic sit cibus, dulcedo et consolatio tua.34 Ah che solamente chi lo prova, dicea S. Bernardo, può intendere quale dolcezza sia, qual paradiso anche in questa valle di lagrime l’amare con tenerezza Gesù: Expertus potest credere quid sit Iesum diligere.35 Ben lo seppero per esperienza una santa Rosa di Lima, che in ricevere la comunione mandava dalla bocca tal fiamma d’amor divino, che bruciava la mano di chi le dava a bere dell’acqua, come si suole, dopo la comunione.36 Una S. Maria Maddalena de’ Pazzi, che con un Crocifisso alla mano andava tutta infiammata gridando: O Dio d’amore, o Dio d’amore! anzi pazzo d’amore (Vita, c. 11).37 Un S. Filippo Neri, a cui bisognò slargarsi le coste, per dar luogo al cuore che ardendo d’amor divino cercava più luogo da palpitare.38 Un S. Stanislao Kostka, a cui fu necessario talvolta bagnargli il petto con acqua fredda, per mitigare il grande ardore dal quale sentivasi consumare per Gesù.39 Un S. Francesco Saverio, che per la stessa bella cagione si slacciava il petto e diceva: Signore, basta, non più; dichiarandosi con ciò inabile a soffrire la gran fiamma che gli bruciava il cuore.40
Procuriamo dunque ancora noi, per quanto possiamo, di tenere sempre Gesù nel cuore con amarlo, e di tenerlo ancora nella bocca con sempre nominarlo. Dice S. Paolo che non può nominarsi Gesù- s’intende con divozione- se non per mezzo dello Spirito Santo: Nemo potest dicere, Dominus Iesus, nisi in Spiritu Sancto (I Cor. XII, 3). Sicché a tutti coloro che divotamente pronunziano il nome di Gesù, si comunica lo Spirito Santo. Ad alcuni il nome di Gesù è nome strano, e perché? perché non amano Gesù. I santi sempre hanno avuto in bocca questo nome di salute e d’amore. Nell’Epistole di S. Paolo non vi è pagina dove il santo non nomina più volte Gesù. S. Giovanni anche spesso lo nomina. Il B. Errico Susone un giorno per maggiormente accendersi nell’amore di questo santo nome, con un ferro tagliente si scolpì nel petto sul cuore a caratteri di ferite il nome di Gesù; e stando poi tutto bagnato di sangue: Signore, disse, io vorrei scrivervi più dentro nel mio proprio cuore, ma non posso; voi che potete il tutto, imprimete nel mio cuore il vostro caro nome, sì che non si possa più cancellare in esso né il vostro nome né il vostro amore.41 La B. Giovanna di Sciantal giunse ad imprimersi sul cuore il nome di Gesù con una piastra infocata.42 Non pretende tanto da noi Gesù Cristo; si contenta che lo tenghiamo nel nostro cuore coll’amore, e spesso con amore l’invochiamo. E siccome egli, quanto operò e quanto disse nella sua vita, tutto lo fece per nostro amore; così noi quanto facciamo, è giusto che lo facciamo in nome e per amore di Gesù Cristo, come ci esorta S. Paolo: Omnia quaecumque facitis in verbo aut in opere, omnia in nomine Iesu Christi facite (Coloss. 13).43 E se Gesù Cristo è morto per noi, dobbiam noi star pronti a morir volentieri per il nome di Gesù Cristo, come stava pronto a far lo stesso Apostolo dicendo: Ego autem non solum alligari, sed etiam mori paratus sum propter nomen Domini mei Iesu Christi.44
Concludiamo il sermone. Se dunque stiamo afflitti, invochiamo Gesù, ed egli ci consolerà. Se siam tentati, invochiamo Gesù, ed egli ci darà forza di resistere a tutti i nostri nemici. Se finalmente stiamo aridi e freddi nell’amor divino, invochiamo Gesù, ed egli c’infiammerà. Felici quell’anime che sempre avranno in bocca questo santo ed amabilissimo nome! Nome di pace, nome di speranza, nome di salute, nome d’amore. Ed oh beati noi, se poi in morte avremo la sorte di morire, e terminare la vita nominando Gesù! Ma se desideriamo di spirar l’ultimo fiato con questo dolce nome in bocca, bisogna che ci avvezziamo in vita a spesso nominarlo, nominandolo sempre con amore e confidenza. Uniamoci ancora sempre il bel nome di Maria, che ancora è nome dato dal cielo, e nome potente che fa tremare l’inferno; è nome ben anche dolce, mentre ci ricorda il nome di quella Regina, che siccome è Madre di Dio, è ancora madre nostra, madre di misericordia, madre d’amore.
Colloquio.
Giacché dunque, o Gesù mio, voi siete il mio Salvatore, che per salvarmi avete dato il sangue e la vita, scrivete, vi prego, sul mio povero cuore il vostro adorato nome; affinché avendolo io sempre impresso nel cuore coll’amore, l’abbia ancor sempre nella bocca, con invocarla in tutti i miei bisogni. Se il demonio mi tenterà, il vostro nome mi darà forza a resistere. Se mi verrà la sconfidenza, il vostro nome mi animerà a sperare. Se sarò afflitto, il vostro nome mi conforterà, ricordandomi quanto più voi siete stato afflitto per me. Se mi vedrò freddo nel vostro amore, il vostro nome m’infiammerà, ricordandomi l’amore che voi m’avete dimostrato. Per lo passato io son caduto in tanti peccati, perché non vi ho invocato; da oggi avanti il vostro nome avrà da essere la mia difesa, il mio rifugio, la mia speranza, l’unica mia consolazione, l’unico mio amore. Così spero di vivere, e così spero di morire, sempre col vostro nome in bocca.
Vergine SS. ottenetemi voi questa grazia d’invocare sempre ne’ miei bisogni il nome del vostro Figlio Gesù, e di voi, madre mia Maria; ma ch’io l’invochi sempre con confidenza e amore; sicché possa io ancora dirvi come vi diceva il divoto Alfonso Rodriguez: Iesus et Maria, pro vobis patiar, pro vobis moriar; sim totus vester, sim nihil meus.45
O Gesù mio diletto, o amata signora mia Maria, datemi la grazia di patire e morire per vostro amore; io non voglio essere più mio, voglio esser vostro e tutto vostro: vostro in vita, e vostro in morte, in cui spero col vostro aiuto di spirare, dicendo: Gesù e Maria, aiutatemi: Gesù e Maria, a voi mi raccomando: Gesù e Maria, io v’amo e a voi consegno e dono tutta l’anima mia.
(Sant’ Alfonso Maria de Liguori “Novena del Santo Natale, colle meditazioni per tutti i giorni dell’Avvento, sino all’Ottava dell’Epifania” anno 1758)