Fra Jacopo Passavanti – Specchio della vera penitenza: “Niuna cosa è più certa che la morte, né è più incerta che l’ora della morte. Ed è troppo grande pericolo che ella sopravvenga e truovi l’uomo sanza penitenzia”

 

“Come dice santo Agustino, Iddio, che ti promette perdonanza de’ tuoi peccati, se ti pentirai, non ti promette il dì di domani, nel quale ti possa pentire.”

Brano del frate domenicano Jacopo Passavanti, nato a Firenze nel 1302, tratto dalla sua opera “Lo specchio della vera penitenza”

“Niuna cosa è più certa che la morte, né è più incerta che l’ora della morte. Ed è troppo grande pericolo che ella sopravvenga e truovi l’uomo sanza penitenzia. E ha Iddio ordinato che la morte sia incerta, secondo che dice santo Gregorio, a ciò che non sappiendo quando debba venire, sempre stiamo apparecchiati come se sempre dovesse venire: che, come dice santo Agustino, Iddio, che ti promette perdonanza de’ tuoi peccati, se ti pentirai, non ti promette il dì di domani, nel quale ti possi pentere […]. E molti sono gli impedimenti che non lasciano altrui veramente pentere: ché, alcuna volta la morte è sùbita o è si brieve la infermitade, e tempo molto si mette nelle medicine, e il duolo della infermitade occupa l’uomo e mettelo in travaglio, e fallo si dimenticare lui medesimo che non s’avvede che dee morire. E avvegna pure che la infermitade sia lunga, è tanta la voglia del guarire, e la speranza ch’è data da’ medici e da quelle persone che sono d’intorno, parenti e amici, che celano allo infermo il male ch’egli ha, e non lasciano che né prete né frate gliene dicano; anzi il confessare e gli altri sacramenti, e il fare testamento o restituzione che abbia a fare lo infermo, impediscono, dicendo, con pregiudicio delle loro anime, che non vogliono lo infermo isbigottire. E però gli dicono, mentendo sopra il capo loro: Tu non hai male di rischio: tosto sarai libero; i medici ti pongono nel sicuro di questa infermitade: a tale ora ch’egli è nel maggiore dubbio; si che lo infermo appena s’avvede d’avere grande male e spesse volte muore, non avveggendosi né credendosi dovere morire. O gente mortale! ponete rimedio a così pericoloso errore e non vi lasciate ingannare alle false promesse degli ignoranti medici, alle lusinghe malvagie de’ non veri amici, alle lagrime affinte de’ parenti traditori, all’affettuoso amore della male amata moglie e de’ mal veduti figliuoli, al bugiardo conforto della famiglia stolta, alla desiderosa voglia del tosto guarire; e innanzi ad ogni altra cosa vada la salute dell’anima, la quale se a sanitade non è provveduta, o non tanto che basti, immantenente, nel principio della infermitade anzi che sopravvenghino gli accidenti gravi, che danno impedimento e fanno l’uomo dimenticare sé medesimo, si faccia ciò che è da fare del confessare, del restituire, del fare testamento […].
E se si trovasse alcuno che dicesse: lo non farò penitenzia nella vita mia, ma alla fine io mi pentirò e andrò a fare penitenzia nel purgatorio, stolto sarebbe questo detto: che come è detto di sopra, non ogni persona che crede fare buona fine la fa; anzi molti ne rimangono ingannati, però che comunemente il più delle volte, come l’uomo vive, così muore […].
Ma pogniamo che l’uomo fusse certo di pentersi alla fine; che sciocchezza sarebbe di volere anzi andare alle pene del purgatorio, delle quali dice santo Agustino che avanzano ogni pena che sostenere si possa in questa vita, che volere sostenere qui un poco di penitenzia? […].
Leggesi scritto da Elinando, che nel contado di Niversa fu uno povero uomo il quale era buono, e temeva Iddio; ed era carbonaio, e di quell’arte si viveva. E avendo egli accesa la fossa de’ carboni, una volta, istando la notte in una sua caparmetta a guardia dell’accesa fossa, senti in su l’ora della mezzanotte, grandi strida. Usci fuori per vedere che fusse, e vide venire in verso la fossa correndo e stridendo una femmina iscapigliata e ignuda; e dietro le veniva uno cavaliere in su uno cavallo nero, correndo, con uno coltello ignudo in mano; e della bocca, e degli occhi, e del naso del cavaliere e del cavallo usciva una fiamma di fuoco ardente. Giugnendo la femmina alla fossa che ardeva, non passò più oltre, e nella fossa non ardiva di gittarsi, ma correndo intorno alla fossa fu sopraggiunta dal cavaliere, che dietro le correva: la quale traendo guai, presa per li svolazzanti capelli, crudelmente ferii per lo mezzo del petto col coltello che tenea in mano. E, cadendo in terra, con molto spargimento di sangue, si la riprese per li insanguinati capelli, e gittolla nella fossa de’ carboni ardenti: dove, lasciandola stare per alcuno spazio di tempo, tutta focosa e arsa la ritolse; e ponendolasi davanti in su il collo del cavallo, correndo se ne andò per la via onde era venuto. E così la seconda e la terza notte vide il carbonaio simile visione. Onde, essendo egli dimestico del conte di Niversa, tra per l’arte sua de’ carboni e per la bontà sua la quale il conte, che era uomo d’anima, gradiva, venne al conte, e diss’egli la visione che tre notti avea veduta. Venne il conte col carbonaio al luogo della fossa. E vegghiando il conte e il carbonaio insieme nella cappannetta, nell’ora usata venne la femmina stridendo, e il cavaliere dietro, e feciono tutto ciò che il carbonaio aveva veduto. Il conte, avvegna che per l’orribile fatto che aveva veduto fosse molto spaventato prese ardire. E partendosi il cavaliere ispietao con la donna arsa, attraversata in suI nero cavallo, gridò iscongiurandolo che dovesse ristare, e isporre la mostrata visione. Volse il cavaliere il cavallo e fortemente piangendo rispuose e disse: Da poi, conte, che tu vuoi sapere i nostri martiri i quali Dio t’ha voluto mostrare, sappi ch’io fui Giuffredi tuo cavaliere, e in tua corte nutrito. Questa femmina contro alla quale io sono tanto crudele e fiero, è dama Beatrice, moglie che fu del tuo caro cavaliere Berlinghieri. Noi, prendendo piacere di disonesto amore l’uno dell’altro, ci conducemmo a consentimento di peccato; il quale a tanto condusse lei che, per potere più liberamente fare il male, uccise il suo marito. E perseverammo nel peccato insino alla infermitade della morte; ma nella infermitade della morte, in prima ella e poi io tornammo a penitenzia; e, confessando il nostro peccato, ricevemmo misericordia da Dio, il quale mutò la pena eterna dello inferno in pena temporale di purgatorio. Onde sappi che non siamo dannati, ma facciamo in cotale guisa come hai veduto, nostro purgatorio, e averanno fine, quando che sia, i nostri gravi tormenti. E domandando il conte che gli desse ad intendere le loro pene più specificamente, rispuose con lacrime e con sospiri, e disse: imperò che questa donna per amore di me uccise il marito suo, le è data questa penitenzia, che, ogni notte tanto quanto ha istanziato la divina iustizia, patisca per le mie mani duolo di penosa morte di coltello, e imperò ch’ella ebbe in verso di me ardente amore di carnale concupiscienza, per le mie mani ogni notte, è gittata ad ardere nel fuoco, come nella visione vi fu mostrato. E come già ci vedemmo con grande disio e con piacere di grande diletto, così ora ci veggiamo con grande odio, e ci perseguitamo con grande sdegno. E come l’uno fu cagione all’altro d’accendimento di disonesto amore, così l’uno è cagione all’altro di crudele tormento: ché ogni pena ch’io lo patire a lei, sostengo io, che il coltello di che io la ferisco, tutto è fuoco che non si spegne; e, gittandola nel fuoco, e traendonela e portandola, tutto ardo io di quello medesimo fuoco che arde ella. Il cavallo è uno dimonio al quale noi siamo dati, che ci ha a tormentare. Molte altre sono le nostre pene. Pregate Iddio per noi, e fate limosine e dite messe, accio che Dio alleggeri i nostri martirii. E, detto questo, sparirono come fussono una saetta.”

  (Jacopo Passavanti, Lo specchio della vera penitenza)