Padre Aldo Trento : Solo l’ubriaco dimentica che «verrà la morte e avrà i tuoi occhi» Guarda che l’unica cosa che serve per vivere e per morire è Cristo!

 

Di Padre Aldo Trento

Mentre i disorientati giocavano a fare Halloween, noi che ancora amiamo e usiamo la ragione ci apprestavamo a vivere il giorno di Ognissanti e la commemorazione dei defunti. Due date differenti: 1 e 2 novembre. Due giorni dedicati agli estinti, ma ontologicamente una cosa sola. Perché? Chi sono i santi? Sono tutti quei defunti che hanno vissuto la loro vita con la coscienza più o meno chiara della loro relazione con il Mistero. Quei defunti che hanno preso sul serio la loro umanità, il loro cuore, inteso non come metro di misura del mondo, ma come finestra aperta sulla realtà. I santi sono coloro che hanno raggiunto, superando la barriera della morte, la visione piena di Dio, che nel vecchio catechismo si chiamava paradiso. La Chiesa attraverso questa doppia festività vuole ricordarci, e risvegliare in ciascuno di noi, il destino. La Chiesa, nella sua vocazione divina, è chiamata a dirci che la morte restituisce all’essere umano la verità della vita, il destino ultimo per cui siamo stati creati. Il 2 novembre, giorno dei morti, a meno di non aver anestetizzato il raziocinio, non possiamo non porci tutti davanti alla realtà della morte, guardandola dritta in faccia.

Solo lo sciocco può eliminarla, solo “l’ubriaco” può scordare quanto scritto nella bella poesia di Cesare Pavese: «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». I tuoi occhi, non quelli della fidanzata o del fidanzato, dello sposo o della sposa, degli amici, dei tuoi parenti, degli altri. No, no, no. Avrà i tuoi occhi, avrà il tuo nome, il tuo cognome, e si porterà via tutto ciò che hai, quello che hai idolatrato, ciò in cui hai riposto la tua fiducia, la tua ragione di vita. Ti strapperà via dalla tua casa, portandoti dove il tuo corpo ritornerà ad essere terra. Nella confusione che molte volte ci domina, la morte mette in chiaro tutto.

Non si tratta di un’affermazione bensì di un fatto, senza “se” e senza “ma”: perché ci mette davanti all’eterno e ci pone una domanda alla quale non possiamo sfuggire, che non possiamo evitare, se non venendo meno alla natura del nostro cuore: cosa supera la barriera della morte? Risposta: solo ciò che è vero.Per questo la morte porta in sé un giudizio su ciò che realmente vale e su ciò che è inutile, e questo è l’ultimo gesto di amicizia che una persona che se ne va ci offre. È come se dicesse a tutti: «Attenzione, tutto ciò che non supera questa barriera non vale, non serve». Pertanto la morte è l’invito più potente che il Mistero può porgerci per vivere di fronte all’eterno. Possiamo scegliere di guardare alla morte come a una disgrazia, invece è la porta che ci apre definitivamente all’incontro con l’Amato, con l’oggetto unico al quale aspira e anela il nostro cuore. Quando una persona amata se ne va, è come se ci dicesse: «Guarda che l’unica cosa che serve per vivere e per morire è Cristo. È l’unica opzione risolutiva, l’unica capace di accompagnarci nella vita e di accompagnarci alla morte. Tutto quello che non contiene questa finalità non ci fa vivere, e nemmeno serve per morire».

Cosa ho io più delle bestie?

Osservando ogni giorno, nella clinica Divina Providencia “San Riccardo Pampuri”, morire di Aids o di tumore davanti ai miei occhi spesso ragazzi giovanissimi, mi viene sempre in mente la frase di san Gregorio Nazianzeno: «Se non fossi tuo, mio Cristo, mi sentirei una creatura finita. Sono nato e mi sento dissolvere. Mangio, dormo, riposo e cammino, mi ammalo e guarisco, mi assalgono senza numero brame e tormenti, godo del sole e di quanto la terra fruttifica. Poi io muoio e la carne diventa polvere come quella degli animali che non hanno peccati. Ma io cosa ho più di loro? Nulla, se non Dio. Se non fossi tuo, Cristo mio, mi sentirei creatura finita». Che bomba, che provocazione nella vita di un uomo che sia impegnato seriamente con la sua vita, queste parole più dense del piombo e più vere dell’aria che respiriamo! Quando ero piccolo, i miei genitori e i miei professori erano soliti ripetermi come un ritornello: «Ricorda che un giorno morirai. Come e quando non ti è dato saperlo. Però sai che la morte è certa e che la vita è breve. Hai soltanto un’anima, e se la perdi che ne sarà di te?». Queste parole mi spaventavano, però col tempo mentre crescevo in consapevolezza ho capito la profondità del loro contenuto, il che mi ha permesso di prendere sul serio la vita, di cercare ciò che vale la pena, ciò che è eterno e non si corrompe, e a domandarmi: cosa può colmare davvero il mio cuore? A cosa serve all’uomo conquistare il mondo, se perde se stesso?

Non possiamo dimenticare che la stessa filosofia nacque come umano tentativo di risolvere il problema della morte. E non esiste tra gli uomini esperienza religiosa che non abbia portato in seno questa idea, e quella conseguente di premio o castigo in ciò che ci aspetta dopo la morte. Censurarlo è negare l’uomo, è eliminare la sua razionalità che si esprime con queste domande chiare e precise: qual è il senso ultimo della vita? Perché esiste il dolore? Cosa c’è dopo la morte? Solo gli idioti censurano questa verità primigenia, che nasce con la ragione non appena un bambino comincia a rendersi conto della realtà. Tragicamente, oggi si cerca di eliminare il fatto che «verrà la morte e avrà i tuoi occhi». La medicina totalmente ideologizzata, il culto del corpo, i funerali come manifestazioni sociali dove tra ciarle e bevute si finge di condividere il dolore altrui, sono tutte prove evidenti del caos in cui è caduta la società, il caos della ragione.

Come un ladro nella notte

Finché non arriva la morte cerchiamo disperatamente di ridurla a spettacolo, a commedia. Sarebbe sufficiente entrare in uno di questi “postriboli” che sono le veglie funebri per renderci conto che questa è la realtà: tutto è organizzato per non pensare, per non farsi provocare dalla verità che «verrà la morte e avrà i tuoi occhi». Il poeta inglese Thomas Stearns Eliot qualche decina di anni fa affermava che la Chiesa è odiata perché ricorda al mondo la verità della morte, la verità del destino ultimo dell’uomo. E Gesù lo ripete molte volte nel Vangelo quando avverte: «Vigilate, perché non sapete il giorno né l’ora», o ancora: «Quel giorno (quello della morte) verrà come un ladro». O nella parabola del ricco proprietario terriero che avendo raccolto il quadruplo dell’anno precedente abbatte i granai che già possiede per costruirne uno più grande, e godendo per tanta ricchezza comincia a dirsi: «Anima mia, hai molti beni conservati per molti anni, riposati, mangia, bevi, rifocillati». Però nella notte una voce gli dice: «Sciocco, questa notte verranno a chiederti la tua anima. E tutto quello che hai messo da parte, di chi sarà?».

L’ansia di fuggire

Mentre Halloween è l’anestesia della ragione, che si annulla in pazzia, la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti rappresentano l’evidenza della ragione nel suo massimo splendore. È inutile il tuo tentativo di fuggire la morte rifugiandoti nell’orgia del potere, del sesso, dell’avarizia, perché tutto passa, e «verrà la morte e avrà i tuoi occhi»: i miei, i tuoi, quelli di Lugo (presidente del Paraguay, ndr), dei suoi ministri, dei suoi parlamentari, dei ricchi, dei poveri. Il problema è: come fare a prepararsi alla morte, e affrontare il giudizio di Dio? Signori ministri della Corte, voi che in modo arrogante maneggiate il futile potere che avete, tenete a mente che la morte è a lato delle vostre scrivanie e che presto vi porterà con sé? E che ne sarà di quelli che molte volte, spinti dalla superficialità e dall’ansia di potere e di denaro, hanno perso la dignità chiamando giustizia ciò che semplicemente e razionalmente era ingiustizia? Si ricordano del giudizio di Dio, che userà con loro lo stesso metro di misura che oggi adoperano? Ma non ci sarà più nessuno che potrà aiutarli e men che meno difenderli, perché il giudizio di Dio è inappellabile. Ciascuno raccoglie ciò che semina. In questo mondo la giustizia divina si chiama misericordia, dopo la morte si chiama semplicemente giustizia. Vale a dire che ognuno ha quel che si merita.

E vale ancora l’antico detto: «Memorare novissima et in aeternum non pecabis» (ricorda le verità ultime della vita – morte, giudizio, inferno, paradiso – e non peccherai mai). Nei miei quasi quarant’anni di sacerdozio non ho visto nessuno, neanche tra gli orgogliosi atei (si definiscono così mentre hanno la pancia piena e tutto funziona molto bene a livello materiale, però poi…), che accostandosi alla morte non abbia tremato davanti a ciò che essa è e significa.

PADRE ALDO TRENTO: Che bello poter chiamare la morte nostra sorella! Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso

 

di Padre Aldo Trento

«Verrà e avrà i tuoi occhi» signor magistrato, che ti prostituisci al denaro e al potere illudendoti di poter comprare la felicità degli altri. «Verrà e avrà i tuoi occhi» signor avvocato, poco scrupoloso e avido di denaro che inganni l’orfano e la vedova e pretendi da chi è nel bisogno quello che non hai seminato. «Verrà e avrà i tuoi occhi» signor capo del governo, signori ministri, parlamentari, consiglieri, che invece di cercare il bene comune delle persone umili creando leggi che nascono dalla voce della realtà e dalle vere necessità del popolo, imponete le vostre ideologie, favorendo i vostri interessi personali o quelli dei potenti. Voi che vendete la cultura del nostro popolo che invece è ancora legata alla concezione dell’uomo maschio e femmina, al diritto esclusivo e inderogabile dei genitori all’educazione dei figli e che crede nella famiglia monogamica ed eterosessuale. Voi che cancellate la nostra tradizione sostituendola con proposte legislative inumane e irrazionali, che pervertono l’ordine antropologico e cosmico stabilito dal Creatore. «Verrà e avrà i tuoi occhi» signor contadino senza terra o che abiti nel pantano e che invece di lasciarti educare preferisci rimanere in quella deplorevole ignoranza. continuando a mendicare e approfittando degli altri. «Verrà e avrà i tuoi occhi» monsignore, reverendo, che approfitti della tua condizione e del tuo ministero, che hai perseguito la carriera, il potere, gli interessi personali invece di essere un appassionato amministratore dei misteri divini, dimenticando quello che, nel momento in cui un cardinale è eletto Papa, canta la millenaria tradizione della Chiesa: «Sic transit gloria mundi» (Così passa la gloria di questo mondo). «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» caro sacerdote che hai abbandonato la tua vocazione a favore della politica o del potere, convinto che ciò che neppure Cristo ha potuto fare sia invece alla tua portata.

Il grido di Pavese

«Verrà la morte e avrà i tuoi occhi» diceva il poeta Cesare Pavese. Quanto è realistico, quanto è saggio in questo mese, in cui la Chiesa propone la commemorazione dei defunti, poter guardare in faccia la morte senza paura, ma con sincerità, in un mondo che vive nell’illusione di superare questo limite. E infine – forse presto, vista l’età – arriverà anche la mia morte e tutto quel che ho fatto finirà e se, invece di cercare la gloria di Dio, ho cercato la mia, che il Signore abbia pietà di me. «Memento mori» (ricorda che morirai) era il modo in cui si auguravano il buon giorno i certosini, i monaci dei monasteri di clausura, che vivevano completamente per il Signore. E con la consapevolezza di questa indiscutibile verità crearono la civiltà dell’Europa e delle Riduzioni gesuitiche perché non c’è nulla, quanto la familiarità con la morte, che risvegli il dinamismo della ragione trasformandola in operatività, in lavoro. La morte rimanda all’eternità, e come affermava il grande architetto Gaudí: «L’uomo lavora soltanto quando la sua prospettiva è l’eternità». La filosofia stessa è nata come tentativo della ragione di risolvere il problema della morte, con tutti gli interrogativi nati da questa verità che nemmeno i peggiori atei possono negare. Nel corso della storia umana questo è stato l’enigma più crudele, più difficile da risolvere e nessun essere umano, neppure la genialità della filosofia greca, è riuscito a dare una risposta chiara, definitiva, che darà soltanto il Mistero attraverso l’incarnazione di suo Figlio. I miti, l’immaginazione, i diversi tentativi di rispondere a questo dramma che questa realtà ha suscitato anche nei geni dell’antichità, sono stati un interessante punto di arrivo della ragione umana, dato che tutti riconoscono l’esistenza di un aldilà cui tutti siamo destinati. Tutti hanno affermato che l’essere umano non può finire nel nulla, tutti hanno riconosciuto che il cuore, l’intelligenza umana hanno come scopo l’Infinito, senza il quale l’esistenza stessa sarebbe assurda e il suicidio sarebbe il gesto più logico del mondo. Ma non soltanto i geni del passato, anche la stessa filosofia e letteratura contemporanea hanno sottolineato in vari modi la necessità di spiegare il senso della vita, della quale la morte rappresenta un passaggio necessario, per incontrare quel Mistero che la struttura stessa dell’Io riconosce come propria consistenza, propria ragione.

La sfida di Prometeo

Scrive Montale, Nobel per la letteratura: «Sotto l’azzurro fitto del cielo qualche uccello di mare se ne va; né sosta mai: perché tutte le immagini portano scritto: “più in là”». E il poeta Ungaretti afferma: «Chiuso tra cose mortali (anche il cielo stellato finirà), perché bramo Dio?». Soltanto gli stolti, dice un Salmo, non riconoscono questa verità, questo grido dell’uomo. E senza dubbio non la riconosce la cultura nichilista di oggi, frutto del razionalismo, ossia dell’uomo che – come un novello Prometeo che vuole sfidare Dio, sostituendolo come padrone del mondo – è dominato da questa stoltezza che ogni giorno riesce ad anestetizzare la ragione e il cuore di tutti. L’uomo, inebriato dall’orgoglio, dalla sete di potere, può censurare la morte, ma arriverà sempre il momento in cui si ritroverà faccia a faccia con lei e l’incontro sarà drammatico. Il dolore rappresenta già un preludio di questo incontro. «Verrà la morte e avrà i tuoi occhi». E quel momento si rivelerà come l’ultima possibilità di riconoscere la presenza del Mistero, e quindi il senso della vita nella sua dimensione eterna. Diversamente, si precipiterà nell’abisso del nulla, che oggi ha le sembianze dell’eutanasia o del suicidio. Il mondo, l’uomo di oggi con il suo orgoglio non vuole nemmeno pensare a questa verità, accolta da san Francesco come nostra sorella morte corporale, e per questo vive annullato, omologato nella sua personalità. Guardiamo quelli che ci camminano a fianco, o noi stessi: sembriamo zombie manovrati dal potere dominante. La Chiesa stessa ha dimenticato di parlare dei Novissimi: morte, giudizio, inferno e paradiso. Ha dimenticato quello che recita ogni domenica alla fine del Credo: «Credo la risurrezione della carne, la vita eterna. Amen». Ma che genere di sentimento e consapevolezza risveglia in noi questa affermazione? Influisce in qualche modo sulla vita quotidiana oppure tutto rimane tranquillo e piatto? Quando ero piccolo, il pensiero della morte mi era familiare. I miei genitori e la Chiesa mi ricordavano ogni giorno i Novissimi, e da questa educazione è nata la libertà e il rispetto per i defunti. Quante volte sono stato testimone della nascita di un bambino in una stanza, mentre nell’altra moriva un membro della famiglia. I sorrisi per la nascita si mescolavano alle lacrime di dolore per la persona cara che era andata in cielo. La maestosità della morte determinava l’atmosfera di tutto il villaggio. Quando ascoltavamo il rintocco delle campane, molto diverso da quello della festa, ci rendevamo conto della morte di un compaesano e recitavamo la preghiera dei defunti. Il giorno del funerale, dopo la Messa solenne, tutto il paese andava a piedi dietro la croce con i chierichetti e il parroco, fino al cimitero dove il parroco lo salutava dandogli l’ultima benedizione. La morte non causava traumi. La grazia più grande che Dio mi ha concesso, oltre a questa educazione, è stata la clinica per malati terminali che ho dedicato a san Riccardo Pampuri. Pochi la visitano e invece è il motivo della mia gioia, del mio dinamismo, perché assistendo chi muore vedo la presenza dolce e amorosa di Cristo risuscitato. Il bel volto di un giovane che muore, o quello rugoso e non meno bello di un anziano, mi permette di non vivere anestetizzato e di sentire fortemente la presenza del Paradiso. «Memento mori!». Amici, è inutile tentare di sfuggire alla morte. Ricordate il famoso film di Bergman Il settimo sigillo? Il protagonista, spaventato perché inseguito dalla morte, la sfida a una partita a scacchi illudendosi di poterla battere. La morte accetta l’orgogliosa provocazione del cavaliere medievale, ma nonostante l’infantile tentativo di ingannarla con un imbroglio la morte vince e se lo porta via. La Chiesa in novembre ci ricorda questa verità, che culmina nella vita eterna. Che consapevolezza dimostrava san Francesco ringraziando il Signore per nostra sorella morte corporale! Noi invece viviamo come idioti, convinti che la vita dipende da noi. Nessuno dimentichi ciò che ci ha trasmesso la tradizione della Chiesa:

«Memorare novissima tua et in aeternum non peccabis» (ricordati della tua fine e non peccherai in eterno).