GIOVANNI TAULERO: Non devi scoraggiarti nella sofferenza né diffidare del cuore paterno, dicendo: “Dio mi ha dimenticato, Dio mi ha abbandonato”. Sappi che Dio castiga chi ama e flagella chi elegge per figlio.

-L’abbandono nella sofferenza è davanti a Dio come un’arpa che suona dolcemente in un soave tocco di corde-

Se ti agita qualche impazienza nelle tue sofferenze, resisti e sopportati. Come Cristo, il più perfetto di tutti gli uomini, che fu così scosso dalla sua imminente passione da dire nell’angoscia del suo cuore: «L’anima mia è triste sino alla morte. E cosa dirò io? Padre, salvami». Ah, come fu scosso il suo spirito, tanto da sprizzare nella sua agonia sudore di sangue! Così nel tuo patire devi raccogliere quanto rapidamente puoi le tue facoltà, rigenerare la sofferenza nella sua origine, essa è infatti scaturita dall’amore che è Dio, offrirla spiritualmente a Dio come un’oblazione dorata, elevarla umilmente al Padre e dire:

«O Padre di ogni paternità, io, tua povera e inferma figlia, ricevo oggi dalla tua mano paterna questa sofferenza come un nobile e prezioso dono d’amore. Padre amorevole, se devo bere il calice di questa sofferenza come un malato beve una pozione amara per vincere la sua malattia, sia fatta, Padre, la tua volontà e non la mia. Ma ti prego, dammi forza di sopportarla secondo la tua volontà, perché senza di te non posso nulla».

E quando fai questo, sappi che gli occhi dell’eterno e clementissimo Padre sono aperti e rivolti alle tue necessità, per aiutarti a tempo opportuno, se vuoi aspettare. Proprio come un padre non può sopportare a lungo il suo diletto figlio nelle angustie senza venire ad aiutarlo e paternamente ricrearlo nella sua sofferenza. Non devi scoraggiarti nella sofferenza né diffidare del cuore paterno, dicendo: “Dio mi ha dimenticato, Dio mi ha abbandonato”. Sappi che Dio castiga chi ama e flagella chi elegge per figlio (Eb 12,6).

Il Padre vide il Figlio suo sudare dolorosamente sangue, lo vide flagellare alla colonna, amaramente inaridire nelle pene sulla croce come fieno, o come un orrore nella sua ignominiosa passione, e per questo non lo amò di meno; gli era così caro sulla croce come oggi in cielo nel suo seno paterno. Allo stesso modo ne è stato di tutti i suoi cari amici i quali hanno dovuto patire tutti amaramente: gli uni furono bolliti, gli altri arrostiti, i terzi ridotti in polvere, i quarti inceneriti. Così è pure per te, o nobile anima. Se vuoi piacere particolarmente a Dio ed essere amata familiarmente da lui, devi pure accettare da lui in singolare carità una particolare sofferenza. Se persevererai sino alla fine, sarai perfetta e salva, come ha detto Cristo, la bocca stessa della verità.

L’abbandono nella sofferenza è davanti a Dio come un’arpa che suona dolcemente in un soave tocco di corde. Infatti sulle sue corde -cioè sulle facoltà dell’anima- modula un così dolce canto lo Spirito Santo in intima devozione, che le loro voci penetrano soavemente nelle orecchie del Padre celeste in un misterioso e interiore silenzio. In esso si ode un doppio canto su questa cetra: le corde grosse hanno un tono basso e le piccole un tono acuto; cioè quando le facoltà del corpo sono ricolme di sofferenza, si ode un canto basso. Ma le facoltà dell’anima, piene di devozione, cantano dolcemente nel volontario e paziente abbandono. E al di sopra di questo canto a doppia voce c’è lo Spirito Santo, maestro d’organo. Le facoltà dell’anima sono le piccole e grandi canne dell’organo, e i santi angeli calcano i mantici dell’organo: essi muovono l’aria spirituale della devozione nelle facoltà, così di frequente come lo Spirito Santo vuol modulare l’acuto canto della devozione interiore su queste facoltà dell’anima e del corpo.

O com’è soave il canto dello Spirito Santo! Chi lo sente gusta una gioia interiore ed angelica e un convito di nozze celesti, ed esso è in questo tempo il preludio dello Spirito Santo del puro gaudio che c’è lassù nell’eternità. (…)

In verità se Dio ti lascia senza molte sofferenze, non sei una delle sue più care regine. Qualunque anima vuol essere la prediletta regina dello Sposo eterno, deve diventarlo attraverso infuocate e ardenti afflizioni che penetrano bruciando l’interno midollo, che ti preparano proprio come la cera è preparata dal fuoco affinché diventi ricettiva di qualunque forma l’artista voglia imprimervi. Se il supremo artefice deve imprimere in te la forma della sua deliziosa, essenziale, eterna immagine, deve cadere senza alcun dubbio la tua vecchia immagine, e per la ragione propria di questa sublime trasformazione, devi deporre in tale operazione soprannaturale la tua vecchia forma.

È impossibile infatti per natura e pure per grazia che una cosa possa ricevere una nuova e nobile forma senza che sia rigettata la vecchia e vile forma. Ed a questo cambiamento della suddetta forma nella trasformazione dell’anima, Dio ha preordinato una pura preparazione attraverso sofferenze intensissime e toccanti le interiori midolla della vita. Qualunque anima il Padre celeste vuol altamente favorire, rapire e trasformare in maniera sublime, egli non suole lavarla lievemente, ma le fa il bagno, l’immerge e la sommerge nel mare dell’amarezza, come fece gettare in mare il profeta Giona. E Davide disse: «Signore, hai condotto sopra di me tutti i tuoi flutti». (…)

La sofferenza degli eletti non è sempre una sofferenza comune. È spesso una sofferenza così inaudita che Dio permette improvvisamente nei loro riguardi, che mai hanno pensato ad una cosa simile né mai ne hanno avuto sospetto. Fatti coraggio, anima nobile e sofferente: in tutta questa amarezza Cristo, l’eletto amico del tuo cuore tra mille, sa entrare a porte chiuse, cioè quando tutte le tue facoltà sono serrate per la durezza, e donarti una nuova e non sperimentata dolcezza. E la tua amarezza soffrila come il tuo inferno e il tuo purgatorio.

Un’anima infatti veramente pura, abbandonata e paziente se ne vola nuda e immacolata dalla bocca al cielo. Là mille anni sono più brevi di un giorno. Tu quindi non devi lasciar passare infruttuosamente nessuna sofferenza, ma devi dire nel tuo cuore : “Signore, ti offro la mia meritata benché involontaria sofferenza e la metto insieme alla tua santa Passione, affinché unita alla virtù di questa, diventi accetta al tuo Padre celeste, come la sofferenza del ladrone sulla croce divenne feconda nella tua Passione”.

Guardati nella sofferenza dal disordine. Un disordine infatti ne genera un altro, e il disordine rende l’animo burrascoso; e uno spirito disordinato è interiormente per l’anima una pena più grave della sofferenza esteriore. Sii perciò ordinato nella sofferenza, perché in tal modo Dio prepara i suoi eletti. E così quando essi non sentono che ripugnante sofferenza all’esterno e insopportabile amarezza all’interno, allora opera ulteriormente la grazia di Dio in virtù della Passione, e distacca e rade esteriormente la vecchia ruggine dei peccati, e monda e purifica interiormente l’anima dalla putrida muffa delle inclinazioni animalesche. E intanto lo spirito di Dio denuda la faccia dell’anima e la trasforma di chiarità in chiarità, finché dallo stesso Spirito del Signore non è trasformata nella sua stessa immagine.

(Giovanni Taulero, da le “Divine istituzioni del Dottore Illuminato”)

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA-CONFESSIONE (DAL CATECHISMO TRIDENTINO) “Una volta perduta l’innocenza battesimale, se non si ricorre alla tavola della Penitenza, non v’è speranza di salvezza” “Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in grande amicizia” “Se dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, dobbiamo anche detestare sopra ogni cosa ciò che da lui ci allontana, il peccato”

“Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2; 4,17)

 “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati commessi e custodirà tutti i miei precetti, operando secondo il diritto e la giustizia, vivrà” (Ez 18,21)

 “Non godo della morte dell’empio, ma che l’empie desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33,11)

“Se l’empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, ne io mi ricorderò delle iniquità da lui commesse” (Ez 18,21). E san Giovanni: “Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto e ce li perdonerà” (1 Gv 1,9).

 

IL SACRAMENTO DELLA PENITENZA, RICONCILIAZIONE, CONFESSIONE

(DAL CATECHISMO TRIDENTINO)

Si deve sovente inculcare la dottrina intorno alla Penitenza  

239 Essendo notissime la debolezza e la fragilità della natura umana, come ciascuno può facilmente sperimentare in se stesso, nessuno può disconoscere la grande necessità del sacramento della Penitenza. Che se lo zelo dei pastori si deve misurare dall’importanza della materia da loro trattata, bisogna concludere che essi non saranno mai abbastanza zelanti nello spiegare questo argomento. Anzi, con tanta maggior diligenza si dovrà trattare di questo in confronto con il Battesimo, in quanto il Battesimo si somministra una sola volta, ne si può reiterare, mentre la Penitenza si può ricevere ed è necessario riceverla ogni volta che ci avvenga di ricadere nel peccato dopo il Battesimo. Perciò il Concilio di Trento ha detto che il sacramento della Penitenza è così necessario per la salvezza di coloro che sono caduti in peccato dopo il Battesimo, come questo è necessario a quelli che non sono ancora rigenerati alla fede (sess. 14, cap. 2). San Girolamo ha scritto quella notissima sentenza, approvata pienamente da quelli che hanno scritto di questo argomento sacro dopo di lui, secondo la quale la Penitenza è la seconda tavola di salvezza (Epist. 130, 9). Come, infranta la nave, rimane una sola via di scampo, quella cioè di aggrapparsi a una tavola scampata al naufragio, così una volta perduta l’innocenza battesimale, se non si ricorre alla tavola della Penitenza, non v’è speranza di salvezza.

Queste considerazioni si rivolgono non solo ai pastori ma a tutti i fedeli, affinché in materia così necessaria non pecchino di negligenza. Convinti dell’umana fragilità, il loro primo e più ardente desiderio sia di camminare nella via di Dio, con il soccorso della sua grazia, senza inciampi ne cadute. Ma se inciampassero, considerando subito la somma benignità di Dio, che da buon pastore cura le ferite delle sue pecorelle e le risana (Ez 34,10), ricorreranno senza indugio a questa saluberrima medicina della Penitenza.

 

Vari significati del termine “Penitenza”

240 Per entrare subito in materia, spieghiamo anzitutto il valore e il significato del termine “penitenza”, per evitare che alcuno sia indotto in errore dall’ambiguità del vocabolo. Taluni intendono penitenza come soddisfazione; altri, ben lontani dalla dottrina cattolica, la definiscono una nuova vita, ritenendo che non abbia alcuna relazione con il passato. Bisogna dunque chiarire i significati di questo vocabolo.

Anzitutto diciamo che prova pentimento (o penitenza) chi si rammarica di una cosa, che prima gli era piaciuta, a parte la considerazione se fosse buona o cattiva. Tale è il pentimento di coloro la cui tristezza è di carattere mondano e non secondo Dio, pentimento che arreca non la salute, ma la morte (2 Cor 7,10). Altra specie di pentimento è quello di coloro che si dolgono di un misfatto commesso, di cui si erano compiaciuti, non per riguardo di Dio, ma di se stessi (Mt 27,3). Una terza specie si ha quando non solo ci addoloriamo con intimo sentimento del peccato commesso, o ne mostriamo anche qualche segno esterno, ma ci rammarichiamo principalmente per l’offesa di Dio (Gl 2,12).

A tutte e tre queste specie di dolore conviene propriamente il nome di penitenza; quando invece leggiamo nella Scrittura che Dio “si pente”, tale parola ha un valore metaforico, adattato alla maniera umana di parlare, che la Scrittura adopera come per dire che Dio ha mutato divisamente. Infatti in questo caso Dio sembra quasi agire alla maniera degli uomini che, quando si pentono di qualche cosa, cercano con ogni studio di mutarla. In questo senso leggiamo che Dio “si pentì” di avere creato l’uomo (Gl 6,6) e di aver eletto re Saul (1 Sam 15,11).

Ma v’è una grande diversità tra queste tre specie di penitenza. La prima è difettosa, la seconda è l’afflizione di un animo commosso e turbato, solo la terza è nello stesso tempo una virtù e un sacramento; di questa propriamente qui si tratta.

 

La penitenza in quanto virtù

241 Trattiamo prima di tutto della penitenza in quanto è una virtù, non solo perché i popolo deve essere dai suoi pastori istruito intorno a ogni genere di virtù, ma anche perché gli atti di questa virtù offrono la materia riguardante il sacramento della Penitenza; sicché, se non si conosce prima bene che cosa sia la virtù della penitenza, si dovrà necessariamente ignorare l’inefficacia di questo sacramento.

Bisogna dunque esortare dapprima i fedeli a fare ogni sforzo per raggiungere quella interiore penitenza dell’anima che noi chiamiamo virtù e senza la quale la penitenza esteriore riuscirà di ben poco giovamento. La penitenza interna è quella per la quale noi con tutto l’animo ci convertiamo a Dio e detestiamo profondamente i peccati commessi, proponendo insieme fermamente di emendare le nostre cattive abitudini e i costumi corrotti, fiduciosi di conseguire il perdono dalla misericordia di Dio. Si associa a questa penitenza, come compagna della detestazione del peccato, una dolorosa tristezza che è una vera affezione emotiva dell’animo e da molti viene chiamata “passione”. Perciò parecchi santi Padri definiscono la penitenza partendo da un così fatto tormento dell’anima. E tuttavia necessario che nel pentito la fede preceda la penitenza, perché nessuno può convertirsi a Dio senza la fede. Da ciò segue che a ragione non si può dire che la fede sia una parte della penitenza.

Che questa interiore penitenza sia una virtù, come abbiamo detto, è chiaramente dimostrato dai molti precetti che la riguardano (Mt 3,2; 4,17; Mc 1,4.15; Lc 3,3; At 2,38), poiché la Legge ordina solo quegli atti che si esercitano mediante la virtù. Del resto nessuno vorrà negare che sia atto di virtù il dolersi nel tempo, nel modo e nella misura opportuna. Tutto questo ce lo insegna a dovere la virtù della penitenza. Spesso avviene infatti che gli uomini non si pentano dei peccati quanto dovrebbero; che anzi vi sono taluni, a detta di Salomone, che si rallegrano del male commesso (Prv 2,14), mentre vi sono altri che se ne affliggono cosi amaramente, da disperare di salvarsi. Tale sembra essere stato il caso di Caino che esclamò: “II mio peccato è più grande del perdono di Dio” (Gn 4,13) e tale fu certamente quello di Giuda, il quale pentito, appendendosi al laccio, perdette insieme la vita e l’anima (Mt 27,3; At 1,18). La virtù della penitenza ci aiuta pertanto a conservare la giusta misura nel nostro dolore.

La stessa cosa si deduce anche da quanto si propone come fine chi davvero si pente del peccato. Questi, infatti, prima vuole cancellare la colpa e lavare tutte le macchie dell’anima; secondo, vuole dare soddisfazione a Dio per i peccati commessi, il che è evidentemente un atto di giustizia, poiché, sebbene tra Dio e gli uomini non possano esserci rapporti di vera e rigorosa giustizia, dato l’infinito abisso che li separa, pure taluno ve n’è, nel genere di quelli che si verificano tra padre e figli, tra padrone e servi; terzo, delibera di ritornare in grazia di Dio, nella cui inimicizia e disgrazia era caduto per motivo del peccato. Tutto ciò chiaramente mostra che la penitenza è una virtù.

 

I vari gradi per giungere alla penitenza

242 Importa anche insegnare ai fedeli attraverso quali gradini possiamo progredire in questa divina virtù.

Anzitutto la misericordia di Dio ci previene e converte a sé i nostri cuori. Questo domandava al Signore il Profeta quando implorava: “Convertici a te, o Signore, e saremo convertiti” (Lam 5,21).

Secondo: illuminati da questa luce, ci rivolgiamo a Dio sulle ali della fede, poiché, come afferma l’Apostolo, chi si accosta a Dio deve credere che Dio esiste e che è il rimuneratore di quelli che lo cercano (Eb 11,6). Terzo: segue il senso del timore, quando l’anima, considerando l’atrocità delle pene, si ritira dal peccato. A questo sembrano riferirsi le parole di Isaia: “Come una donna incinta, prossima al parto, si lagna e grida fra le sue doglie, tali siamo noi” (Is 26,17). Quarto: si aggiunge la speranza di impetrare la misericordia di Dio, sollevati dalla quale, risolviamo di emendare la vita e i costumi.

Quinto: finalmente la carità infiamma i nostri cuori e da essa scaturisce quel filiale timore che degnamente conviene a figli probi e assennati. Per essa, non temendo più che l’offesa della maestà di Dio, abbandoniamo del tutto l’abitudine del peccato.

Questi sono i gradi attraverso i quali si giunge alla più sublime virtù della penitenza, che agli occhi nostri deve apparire tutta celeste e divina. Infatti la Sacra Scrittura le promette il regno dei cieli, come si legge in san Matteo: “Fate penitenza, che il regno dei cieli è vicino” (Mt 3,2; 4,17) e in Ezechiele: “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati commessi e custodirà tutti i miei precetti, operando secondo il diritto e la giustizia, vivrà” (Ez 18,21) e ancora: “Non godo della morte dell’empio, ma che l’empie desista dalla sua condotta e viva” (Ez 33,11), parole che devono evidentemente riferirsi alla vita eterna e beata.

 

La Penitenza come sacramento

243 Circa la penitenza esteriore si deve insegnare che essa costituisce propriamente sacramento e consiste in talune azioni esterne e sensibili, che esprimono quello che avviene nell’interno dell’anima. Anzitutto si deve spiegare ai fedeli perché Gesù Cristo ha messo la Penitenza nel novero dei sacramenti. Ciò è perché non avessimo più a dubitare della remissione dei peccati, da lui promessa con le parole citate: “Se l’empio farà penitenza, ecc.”. Poiché se giustamente ciascuno deve temere del proprio giudizio sulle sue azioni, di necessità saremmo stati condotti a dubitare del nostro pentimento interiore. Il Signore, volendo rimediare a questa nostra ansietà, ha istituito il sacramento della Penitenza, per il quale, in virtù dell’assoluzione del sacerdote, noi fossimo certi della remissione dei nostri peccati e la coscienza si calmasse in grazia della fede che dobbiamo avere nella virtù dei sacramenti. La parola del sacerdote che legittimamente assolve dai peccati avrà per noi lo stesso valore di quella che Gesù Cristo disse al paralitico: “Confida figliolo, che i tuoi peccati ti sono rimessi” (Mt 9,2).

Inoltre poiché nessuno può conseguire la salvezza se non per Cristo e per i meriti della sua passione, era conveniente e assai utile per noi che venisse istituito questo sacramento per la cui efficacia il sangue di Cristo, scorrendo su di noi, lava i peccati commessi dopo il Battesimo e ci obbliga così a riconoscere che soltanto al nostro divino Salvatore dobbiamo il beneficio della riconciliazione.

Che la Penitenza sia un vero sacramento i parroci lo dimostreranno facilmente così: come è un sacramento il Battesimo, perché cancella tutti i peccati e specialmente quello originale, così lo è pure in senso pieno la Penitenza, che toglie tutti i peccati commessi con il desiderio o con l’opera, dopo il Battesimo. Di più (e questo è l’argomento principale), siccome gli atti esterni del penitente e del sacerdote indicano quel che avviene nell’interno dell’anima, chi vorrà negare che la Penitenza abbia vera e propria natura di sacramento? Il sacramento infatti è il segno di una cosa sacra: ora, il peccatore pentito esprime chiaramente con le parole e con gli atti di avere distaccato l’animo dal peccato. D’altra parte, dalle parole e dagli atti del sacerdote, facilmente rileviamo la misericordia di Dio che perdona quei peccati. Del resto, una prova chiara l’abbiamo nelle parole del Salvatore: “Darò a te le chiavi del regno dei cieli; qualunque cosa avrai sciolto sulla terra, sarà sciolta anche nei cieli” (Mt 16,19). L’assoluzione pronunciata dal sacerdote esprime la remissione dei peccati che essa produce nell’anima.

Ma non basta insegnare ai fedeli che la Penitenza è un sacramento: occorre aggiungere che è uno di quelli che si possono ripetere. Infatti quando Pietro domandò al Signore se doveva perdonare fino a sette volte un peccato, si ebbe per risposta: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette” (Mt 18,22). Pertanto, qualora si abbia a trattare con uomini che sembrino diffidare della somma bontà e clemenza di Dio, dovrà il loro animo esser rafforzato e sollevato alla speranza della grazia divina. Ciò sarà facile, illustrando questo e altri passi numerosi della Sacra Scrittura e insieme allegando quei motivi e quelle argomentazioni, che si trovano nel trattato Sui caduti in peccato, di san Giovanni Crisostomo e in quello Sulla Penitenza di sant’Agostino.

 

Materia della Penitenza

244 Poiché il popolo deve conoscere meglio di ogni altra cosa la materia di questo sacramento, si dovrà insegnare che esso differisce dagli altri soprattutto perché, mentre la materia degli altri è qualche cosa di naturale o di artificiale, della Penitenza sono quasi materia gli atti del penitente, cioè la contrizione, la confessione e la soddisfazione, com’è stato dichiarato dal Concilio di Trento (sess. 14, cap. 3 De Paenit., can. 4).

Codesti atti vengono detti parti della Penitenza, in quanto si esigono, per divina istituzione, nel penitente, per ottenere l’integrità del sacramento e una piena e perfetta remissione dei peccati. Son detti “quasi materia” non perché non abbiano ragione di vera materia, ma perché non sono di quel genere di materia che esteriormente si adopera, come l’acqua nel Battesimo e il crisma nella Confermazione. Né, a intender bene, hanno affermato cosa diversa coloro che hanno detto essere i peccati la materia propria di questo sacramento, perché, come diciamo che la legna è materia del fuoco, perché dal fuoco è consumata, così a buon diritto possiamo dire che i peccati sono materia della Penitenza, perché dalla Penitenza vengono cancellati.

 

Forma della Penitenza

245 Né dovranno i pastori tralasciar di spiegare la forma del sacramento, perché questa conoscenza ecciterà gli animi dei fedeli a riceverne con gran devozione la grazia che gli è propria. La forma è “Io ti assolvo”, come si ricava non solo da quelle parole: “Quanto scioglierete sulla terra, sarà sciolto nel cielo” (Mt 18,18), ma anche dall’insegnamento di Gesù Cristo tramandateci dagli Apostoli. Poiché i sacramenti significano quel che operano, le parole “Io ti assolvo” mostrano che la remissione dei peccati avviene mediante l’amministrazione di questo sacramento. E chiaro dunque che questa è la forma perfetta della Penitenza, in quanto i peccati sono quasi lacci che tengono avvinte le anime, da cui si liberano con il sacramento della Penitenza. Si noti anzi che il sacerdote pronuncia con eguale verità la forma anche su di un penitente che, mosso da contrizione perfetta, accompagnata dal desiderio di confessarsi, abbia già ottenuto da Dio il perdono dei peccati.

Si aggiungono a queste parole varie preghiere, non necessario alla forma del sacramento, ma dirette ad allontanare tutto ciò che potrebbe impedirne la virtù e l’efficacia per difetto di chi lo riceve.

Grazie infinite rendano dunque i peccatori a Dio che ha conferito ai suoi sacerdoti una cosi ampia potestà nella Chiesa. Oggi i sacerdoti non hanno soltanto il potere di dichiarare il penitente assolto dai peccati, come quelli del Vecchio Testamento, che si limitavano a testificare che il lebbroso era guarito dal suo male (Lv 13,9), ma lo assolvono veramente, come ministri di Dio, il quale opera lui stesso principalmente, essendo autore e padre della grazia e della giustizia.

I fedeli osserveranno con cura anche i riti propri di questo sacramento. Così avranno più altamente scolpito nell’animo ciò che hanno conseguito in questo sacramento: la loro riconciliazione di servi con un Padrone clementissimo; o piuttosto, di figlioli con un ottimo Padre; e comprenderanno meglio quel che convenga fare a coloro che vogliono (e tutti devono volerlo) mostrarsi grati e memori di tanto beneficio. Colui che si pente dei peccati, si getta con animo umile e dimesso ai piedi del sacerdote, per riconoscere, mentre compie quest’atto di umiltà, che si devono estirpare le radici della superbia, di cui hanno principio e origine tutti quei peccati che piange e detesta. Nel sacerdote, che siede come suo legittimo giudice, riconosce la persona e la potestà di Gesù Cristo, poiché il sacerdote nell’amministrare la Penitenza, come pure gli altri sacramenti, tiene il luogo di Cristo. Dopo di che il penitente enumera tutti i suoi peccati, riconoscendo di meritare le pene più grandi e acerbe, e ne domanda supplichevole il perdono. In san Dionigi si trovano le più chiare testimonianze sull’antichità di tutte queste pratiche.

 

Effetti della Penitenza

246 Ma nulla gioverà tanto ai fedeli e desterà in essi il vivo desiderio di appressarsi alla Penitenza, quanto la frequente spiegazione della sua utilità fatta dal parroco; vedranno allora quanto giustamente si possa dire della Penitenza che, se sono amare le sue radici, dolcissimi ne sono i frutti.

Tutto il valore della Penitenza consiste nel restituirci alla grazia di Dio stringendoci a lui in grande amicizia. Ne segue, massime negli uomini pii che la ricevono con santa devozione, una ineffabile pace e tranquillità di coscienza, accompagnate da viva gioia spirituale. Infatti non c’è colpa per quanto grave ed empia, che non si cancelli grazie alla Penitenza; e non una sola volta, ma molte e molte volte. A questo proposito così parla il Signore per bocca di Ezechiele: “Se l’empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, osserverà i miei precetti e praticherà il giudizio e la giustizia, vivrà e non morrà, ne io mi ricorderò delle iniquità da lui commesse” (Ez 18,21). E san Giovanni: “Se confessiamo i nostri peccati, Dio è fedele e giusto e ce li perdonerà” (1 Gv 1,9). E poco più oltre: “Se taluno avrà peccato [si noti che non eccettua nessun genere di peccato] abbiamo un avvocato presso il Padre, Gesù Cristo giusto, il quale è propiziazione per i nostri peccati; ne solamente per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” (1 Gv 2,1.2).

Se leggiamo nella Scrittura che alcuni non hanno ricevuto misericordia da Dio, pur avendola caldamente implorata (2 Mac 9,13; Eb 12,17), ciò avvenne perché essi non erano pentiti di vero cuore dei loro misfatti. Perciò quando occorrono nella Scrittura o nei Padri frasi che sembrano affermare che per alcuni peccati non c’è remissione (1 Sam 2,25; Mt 12,31; Eb 6,4; 10,26), bisogna intenderle nel senso che il loro perdono è oltremodo difficile. Come infatti una malattia viene detta insanabile quando il malato respinge l’uso della medicina, così c’è una specie di peccati che non si rimette ne si perdona, perché rifugge dalla grazia di Dio che è il rimedio suo proprio. In questo senso sant’Agostino ha scritto: “Quando un uomo, giunto alla conoscenza di Dio per la grazia di Gesù Cristo, viola la carità fraterna e invidiosamente si agita contro la grazia stessa, la macchia di tale peccato è tanta che il peccatore non riesce a umiliarsi per domandarne perdono, sebbene i rimorsi lo obblighino a riconoscere e confessare il suo fallo” (De serm. Dom. in monte, 1, 22, 73).

Per ritornare alla Penitenza, la sua efficacia nel rimettere i peccati le è in tal modo propria che senza di essa è impossibile non solo ottenere, ma neppure sperarne il perdono, essendo scritto: “Se non farete penitenza, perirete tutti allo stesso modo” (Lc 13,3).

E’ vero che queste parole si applicano solo ai peccati gravi o mortali; ma anche i peccati più leggeri o veniali esigono la loro congrua penitenza. Dice infatti sant’Agostino: “Quella specie di penitenza, che si fa ogni giorno nella Chiesa per i peccati veniali, sarebbe certo vana se detti peccati si potessero rimettere senza di essa”.

 

Le parti costitutive della Penitenza

247 Ma poiché in materia pratica non basta dare nozioni e spiegazioni generali, i parroci cureranno di spiegare a parte quanto i fedeli devono sapere sulle doti di una vera e salutare penitenza. Ora, questo sacramento, oltre alla materia e alla forma, che ha in comune con gli altri sacramenti, contiene, come abbiamo già detto, tre elementi necessari a renderlo integro e perfetto: la contrizione, la confessione e la soddisfazione. Dice in proposito san Giovanni Crisostomo: “La penitenza induce il peccatore a sopportare tutto volentieri: nel suo cuore è la contrizione, sulla bocca la confessione, nelle opere grande umiltà, ossia la salutare soddisfazione” (Grat., 2, causa 33, q. 3, dist. 1, can. 40). Ora queste parti sono indispensabili alla costituzione di un tutto.

Come il corpo umano è formato di molte membra, mani, piedi, occhi e simili, di cui nessuna potrebbe mancare senza imperfezione dell’insieme, che diciamo perfetto solo quando le possiede tutte, così la Penitenza risulta delle tre suddette parti in modo tale che, sebbene la contrizione e la confessione che giustificano il peccatore siano le sole richieste assolutamente per costituirla, nella sua essenza essa rimane tuttavia imperfetta e difettosa, quando non include la soddisfazione. Queste tre parti sono dunque inseparabili e così ben collegate tra loro, che la contrizione racchiude il proposito e la volontà di confessarsi e di soddisfare; la contrizione e la soddisfazione implicano la confessione e la soddisfazione è la conseguenza delle altre due.

La ragione della necessità di queste tre parti è che noi offendiamo Dio in tre maniere: in pensieri, parole e opere. Perciò è giusto e ragionevole che noi, sottomettendoci alle chiavi della Chiesa, ci sforziamo di placare l’ira di Dio e di ottenere da lui il perdono dei peccati con quegli stessi mezzi adoperati per offendere il suo santissimo nome. Vi è un’altra ragione. La Penitenza è una specie di compenso dei peccati, che procede dalla volontà del peccatore ed è stabilita dalla volontà di Dio, contro cui si è peccato. Bisogna quindi da un lato che il penitente voglia dare questo compenso (questo costituisce la contrizione) e dall’altro, che egli si sottometta al giudizio del sacerdote, che tiene il luogo di Dio, affinché si possa fissare una pena proporzionata alle colpe; ecco la necessità della confessione e della soddisfazione.

Poiché tuttavia si devono insegnare ai fedeli la natura e la proprietà di ciascuna di queste parti, bisogna cominciare dalla contrizione e spiegarla con tanta maggior cura in quanto noi dobbiamo concepirla nel nostro cuore non appena i peccati commessi ci ritornano alla memoria, quando ne commettiamo dei nuovi.

 

La contrizione: sua natura

248 Ecco come definiscono la contrizione i Padri del Concilio di Trento: “La contrizione è un dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso, con il proposito di non più peccare per l’avvenire” (sess. 14, cap. 4). Parlando più oltre della contrizione, aggiungono: “Questo atto prepara alla remissione dei peccati, purché sia accompagnato dalla fiducia nella misericordia di Dio e dalla volontà di fare quanto è necessario per ben ricevere il sacramento della Penitenza”. Questa definizione fa ben comprendere ai fedeli che l’essenza della contrizione non consiste solo nel trattenersi dal peccare, nel risolvere di mutar vita, o nell’iniziare di fatto una vita nuova, ma anche e soprattutto nel detestare ed espiare le colpe della vita passata. Questo è chiaramente provato dai gemiti dei santi, che così spesso troviamo nei libri sacri. Dice David: “Io sono stanco di piangere; ogni notte spargo di lacrime il mio giaciglio. Il Signore ha sentito la voce del mio pianto” (Sai 6,7.9). E in Isaia: “Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l’amarezza dell’anima mia” (Is 38,15). Queste parole e altre simili sono l’espressione evidente di un odio profondo dei peccati commessi e di una detestazione della vita passata.

Dopo avere ben fissato che la contrizione è un dolore, bisogna avvertire i fedeli di non immaginarsi che esso debba esser esterno e sensibile. La contrizione è un atto della volontà e sant’Agostino attesta che il dolore accompagna la penitenza, ma non è la penitenza stessa (Sermo 351, 1). I Padri Tridentini hanno espresso con il termine dolore  la detestazione e l’odio del peccato commesso, sia perché la Scrittura lo usa così (dice David al Signore: “Fino a quando nell’anima mia proverò affanni, tristezza nel cuore ogni momento? “) (Sal 12,3), sia perché il dolore nasce dalla contrizione in quella parte inferiore dell’anima che è sede delle passioni. Non a torto, pertanto, è stata definita la contrizione come un dolore, perché produce appunto il dolore; i penitenti, per esprimere meglio il loro dolore, usavano mutare le vesti, come si ricava dalle parole del Signore: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti presso di voi, già da tempo avrebbero far penitenza in cenere e cilicio” (Mt 11,21; Lc 10,13).

La detestazione del peccato di cui parliamo ha ricevuto giustamente il nome di contrizione per esprimere l’efficacia del dolore da essa provocato, per similitudine tratta dalle sostanze corporee: come queste si frantumano con un sasso o con altra materia più dura, così i cuori induriti dall’orgoglio sono spezzati dalla forza della penitenza. Nessun altro dolore, che nasca per la morte del padre, della madre, dei figli, o per qualsiasi altra calamità, vien detto contrizione, ma soltanto quello che proviamo per aver perduto la grazia di Dio e l’innocenza.

Ci sono anche altri vocaboli atti a esprimere questa detestazione. Talora essa viene chiamata “contrizione di cuore”, perché la Scrittura scambia sovente il cuore con la volontà: come infatti il cuore è il principio dei movimenti del corpo, così la volontà regola e governa tutte le potenze dell’anima. Talora i Padri la chiamano “compunzione del cuore” e appunto così hanno intitolato i libri da loro scritti sulla contrizione. Come si aprono con il ferro chirurgico i tumori per farne uscire la materia purulenta, così con lo scalpello della contrizione si lacerano i cuori, affinché ne esca il veleno mortifero del peccato. Anche Gioele chiama la contrizione una lacerazione del cuore, scrivendo; “Convertitevi a me con tutto il vostro cuore nel digiuno, nel pianto, nei gemiti. E lacerate i vostri cuori” (Gl 2,12).

 

La contrizione: sue qualità

249 II dolore d’aver offeso Dio con i peccati deve essere veramente sommo e massimo, tale che non se ne possa pensare uno maggiore. È facile dimostrarlo con le ragioni seguenti.

Poiché la perfetta contrizione è un atto di carità che procede dal timore filiale, ne segue che la misura della contrizione dev’essere la carità. Siccome la carità con cui amiamo Dio è la più grande, ne segue che la contrizione deve portar con sé un veementissimo dolore di animo. Se dobbiamo amare Dio sopra ogni cosa, dobbiamo anche detestare sopra ogni cosa ciò che da lui ci allontana.

Giova qui notare che la Scrittura adopera i medesimi termini per esprimere l’estensione della carità e della contrizione. Dice infatti della carità: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore” (Dt 6,5; Mt 22,37; Mc 12,30; Lc 10,27); della seconda il Signore dice per bocca del profeta: “Convenitevi con tutto il vostro cuore” (Gl 2,12).

In secondo luogo, come Dio è il primo dei beni da amare, così il peccato è il primo e il maggiore dei mali da odiare. Quindi, la stessa ragione che ci obbliga a riconoscere che Dio deve essere sommamente amato, ci obbliga anche a portare sommo odio al peccato. Ora, che l’amore di Dio si debba anteporre a ogni altra cosa, sicché non sia lecito peccare neppure per conservare la vita, lo mostrano apertamente queste parole del Signore: “Chi ama suo padre o sua madre più di me, non è degno di me” (Mt 10,37); “Chi vorrà salvare la sua vita, la perderà” (Mt 16,25; Mc 8,35). Notiamo ancora che alla carità, secondo san Bernardo, non si può prescrivere ne limite ne misura, perché la misura di amare Dio è di amarlo senza misura (De dilig. Deo, 1, 1). Perciò non si deve porre limite alcuno alla detestazione del peccato.

Oltre che massima, la contrizione dev’esser vivissima e così perfetta da escludere ogni negligenza e pigrizia. Sta scritto nel Deuteronomio: “Quando cercherai il Signore Dio tuo lo troverai, purché lo cerchi con tutto il cuore e tutto il dolore dell’anima tua” (Dt  4,29). E in Geremia: “Voi mi cercherete e mi troverete purché mi cerchiate con tutto il vostro cuore, perché allora io mi farò trovare da voi, dice il Signore” (Ger 29,13).

Ma quand’anche la contrizione non fosse così perfetta, può esser sempre vera ed efficace. Poiché avviene spesso che le cose sensibili ci commuovono più delle spirituali, sicché taluni sentono per la morte dei figli, maggior dolore che per la turpitudine del peccato. Il medesimo si dica quando l’acerbità del dolore non suscita le lacrime, che però nella Penitenza sono da desiderare e lodare assai, come ben dice sant’Agostino: “Non hai viscere di carità cristiana tu, che piangi un corpo abbandonato dall’anima e non piangi un’anima abbandonata da Dio” (Sermo 65, 6). A questo si possono riferire le parole del Signore citate sopra: “Guai a te, Corazin, guai a te, Betsaida; poiché se in Tiro e Sidone fossero stati compiuti i miracoli compiuti presso di voi, già da tempo avrebbero fatto penitenza in cenere e cilicio” (Mt 11,21). A conferma di questa verità basti ricordare gli esempi famosi dei niniviti (Gio 3,5), di David (Sal 6,7), della Maddalena (Lc 7,37), del principe degli apostoli (Mt 26,75), i quali tutti implorarono con lacrime abbondanti la misericordia di Dio e ottennero il perdono dei peccati.

Sarà utile ammonire i fedeli ed esortarli nella maniera più efficace a esprimere un particolare atto di contrizione per ogni peccato mortale, poiché dice Ezechia: “Ti darò conto, o Signore, di tutti gli anni miei, con l’amarezza dell’anima mia” (Is 38,15).

Dar conto di tutti gli anni significa ricercare uno a uno tutti i peccati, per deplorarli dal fondo del cuore. Leggiamo ancora in Ezechiele: “Se l’empio farà penitenza di tutti i suoi peccati, vivrà” (Ez 18,21).

In questo stesso senso sant’Agostino ha detto: “II peccatore esamini la qualità del suo peccato secondo il luogo, il tempo, la specie e la persona” (De vera et falsa paenit., 14,19).

Ma i fedeli non disperino mai della bontà e clemenza infinita di Dio, il quale, bramoso com’è della nostra salute, non tarda mai ad accordarci il perdono. Egli abbraccia con paterna carità il peccatore, appena questi, rientrato in se stesso, si ravvede e, detestando in genere tutti i suoi peccati, si rivolge al Signore, purché intenda di ricordarli e detestarli ciascuno in particolare a tempo opportuno. Dio stesso ci comanda di sperare, dicendo per bocca del suo Profeta: “Non nuocerà all’empio la sua empietà, dal giorno in cui egli si sarà convertito” (Ez 33,12).                  ,

 

Quanto è richiesto per una vera contrizione

250 Da quanto abbiamo detto è facile dedurre le condizioni necessario per una vera contrizione, condizioni che devono essere spiegate ai fedeli con la maggiore diligenza, affinché tutti sappiano con quali mezzi possano acquistarla e abbiano una norma sicura per discernere fino a qual punto siano lontani dalla perfezione di essa.

La prima condizione è l’odio e la detestazione di tutti i peccati commessi. Se ne detestassimo soltanto alcuni, la contrizione non sarebbe salutare, ma falsa e simulata, poiché scrive san Giacomo: “Chi osserva tutta la legge e in una sola cosa manca, trasgredisce tutta la legge” (Gc 2,10).

La seconda è che la contrizione comprenda il proposito di confessarci e di fare la penitenza: cose di cui parleremo a suo luogo.

La terza è che il penitente faccia il proposito fermo e sincero di riformare la sua vita, come insegna chiaramente il Profeta: “Se l’empio farà penitenza di tutti i peccati che ha commessi, custodirà tutti i miei precetti e osserverà il giudizio e la giustizia, vivrà; ne mi ricorderò più dei peccati che avrà commesso”. E più oltre: “Quando l’empio si allontanerà dall’empietà che ha commesso e osserverà il giudizio e la giustizia, darà la vita all’anima sua”. E più oltre ancora: “Convenitevi e fate penitenza di tutte le vostre iniquità; così queste non vi torneranno a rovina. Gettate lungi da voi tutte le prevaricazioni in cui siete caduti e fatevi un cuore nuovo e uno spirito nuovo” (Ez 18,21ss).

La medesima cosa ha ordinato il Signore stesso dicendo all’adultera: “Va’ e non peccare più” (Gv 8,11) e al paralitico risanato nella piscina: “Ecco, sei risanato: non peccare più” (Gv 5,14).

Del resto la natura e la ragione mostrano chiaramente che vi sono due cose assolutamente necessarie, per rendere la contrizione vera e sincera: il pentimento dei peccati commessi e il proposito di non commetterli più per l’avvenire. Chiunque si voglia riconciliare con un amico che ha offeso deve insieme deplorare l’ingiuria fatta e guardarsi bene, per l’avvenire, dall’offendere di nuovo l’amicizia. Queste due cose devono necessariamente essere accompagnate dall’obbedienza, poiché è giusto che l’uomo obbedisca alla legge naturale, divina e umana, alle quali è soggetto. Pertanto, se un penitente ha rubato con violenza o con frode qualche cosa al suo prossimo, è obbligato alla restituzione; se ha offeso la sua dignità e la sua vita con le parole o con i fatti, deve soddisfarlo con la prestazione di qualche servizio o di qualche beneficio. È noto a tutti, in proposito, il detto di sant’Agostino: “Non è rimesso il peccato, se non si restituisce il maltolto” (Epist., 153, 6, 20).

Né si consideri come poco importante, tra le altre condizioni volute dalla contrizione, il perdonare interamente le offese ricevute, come espressamente ci ammonisce il Signore e Salvatore nostro: “Se perdonerete agli uomini le loro mancanze, il vostro Padre celeste vi perdonerà i vostri peccati; ma se non perdonerete agli uomini, nemmeno il Padre vostro perdonerà a voi le vostre colpe” (Mt 6,14s).

Questo è quanto i fedeli devono osservare rispetto alla contrizione. Tutte le altre considerazioni che i pastori potranno facilmente raccogliere in proposito, posson riuscire a render la contrizione più perfetta nel suo genere, ma non devono essere considerate come assolutamente necessarie, potendosi avere anche senza di esse una penitenza vera e salutare.

 

Utilità e mezzi per eccitare la contrizione

251 Perché i parroci insegnino quanto occorre alla salvezza, affinché i fedeli indirizzino a essa la vita e le opere, non trascurino di ricordare spesso con diligenza, sia l’utilità, sia l’efficacia della contrizione. Infatti le altre opere di devozione, come le elemosine, i digiuni, le orazioni e altre simili sono talora respinte da Dio per colpa di chi le offre, mentre la contrizione non può non essergli sempre grata e accetta. “Tu non respingerai, o Signore” dice il Profeta “un cuore contrito e umiliato” (Sal 50,19). Che anzi, appena l’abbiano concepita nel cuore, Dio da il perdono dei peccati, come il Profeta stesso dichiara in altro luogo: “Io dico: confesso il mio delitto davanti al Signore e tu rimetti l’empietà del mio peccato” (Sal 31,5). Di tale verità abbiamo come una figura nei dieci lebbrosi che il Signore inviò ai sacerdoti e che furono guariti prima che a loro giungessero (Lc 17,14). Da ciò si rileva che la vera contrizione, di cui abbiamo fin qui parlato, possiede sì grande efficacia che per essa il Signore accorda immediatamente la remissione di tutti i nostri peccati.

Molto varrà ancora, ad accendere la pietà dei fedeli, il fornire loro un metodo per eccitarsi alla contrizione. A tale scopo sarà opportuno ammonirli di esaminare spesso la propria coscienza e vedere se hanno fedelmente osservato i precetti di Dio e della Chiesa. Se si riconoscono colpevoli di qualche fallo, se ne accusino subito davanti a Dio e gliene domandino umilmente perdono, scongiurandolo di accordare loro il tempo di confessarsi e fare penitenza. Soprattutto implorino il soccorso della sua grazia, per non più ricadere in quelle colpe che essi deplorano amaramente di aver commesse.

Cercheranno infine i pastori d’ispirare nei fedeli un odio sommo contro il peccato, sia a motivo della sua immensa e vergognosa bruttezza, sia perché arreca gravissimi danni in quanto aliena da noi la benevolenza di Dio, da cui abbiamo ricevuti tanti beni e tanti maggiori ce ne ripromettiamo, mentre poi ci condanna alla morte eterna con i suoi acerbi tormenti senza fine.

 

Utilità e necessità della confessione

252 Fin qui abbiamo trattato della contrizione; passiamo alla confessione o accusa, che costituisce la seconda parte della Penitenza. Con quanta cura e diligenza i parroci debbano spiegarla s’intenderà facilmente (com’è evidente per tutti i buoni cristiani), considerando che tutto quel che di santo, pio e religioso è piaciuto a Dio di conservare nella Chiesa ai nostri tempi, lo si deve attribuire in gran parte alla confessione. Sicché nessuno si meraviglierà se il nemico del genere umano, che vorrebbe distruggere dalle fondamenta la fede cattolica, si stia sforzando a tutta possa, per mezzo dei suoi satelliti e ministri della sua empietà, di abbattere questa rocca della virtù cristiana.

Si insegni anzitutto che l’istituzione della confessione fu per noi utilissima, anzi necessaria. Pur ammettendo che la contrizione cancella i peccati, chi non sa che essa deve, in tal caso, essere così viva e ardente da eguagliare la grandezza del peccato? Ma poiché pochi sono capaci di giungere a un grado sì alto di pentimento, ne segue che pochissimi potrebbero sperare da questa via il perdono dei peccati. Fu dunque necessario che il Signore, nella sua clemenza, fornisse un più agevole modo alla salvezza degli uomini e lo fece in maniera mirabile, dando alla Chiesa le chiavi del regno dei cieli.

Secondo la dottrina della Chiesa cattolica, tutti devono credere e affermare senza riserva che se uno è sinceramente pentito dei suoi peccati e risoluto di non più commetterli per l’avvenire, quand’anche non sentisse un dolore sufficiente a ottenergli il perdono, otterrà il perdono e la remissione di tutte le colpe, in virtù delle chiavi, purché li confessi nel debito modo al sacerdote. In questo senso tutti i santi Padri hanno proclamato con ragione che il cielo ci è aperto dalle chiavi della Chiesa e il Concilio di Firenze ha messo questa verità fuori dubbio, dichiarando che l’effetto della Penitenza è la remissione dei peccati (Decr. pro Arm.).

Ma v’è un’altra considerazione che mostra l’utilità della confessione. L’esperienza prova che nulla giova tanto a emendare i costumi di persone che menano una vita corrotta, quanto la manifestazione dei segreti pensieri del loro animo, delle loro parole e azioni, a un amico prudente e fedele, che li possa aiutare coi suoi servigi e consigli. Allo stesso modo dobbiamo considerare sommamente profittevole a quelli che son turbati dal rimorso dei loro peccati, lo scoprire le malattie e le piaghe della loro anima al sacerdote, il quale tiene il luogo di nostro Signore Gesù Cristo ed è sottoposto dalle leggi più severe a un perpetuo silenzio. In tal guisa troveranno pronti dei rimedi pieni di quella celeste virtù, atta non solo a sanare la presente infermità, ma ancora a disporre le anime in modo che per l’avvenire non ricadano sì facilmente nella stessa malattia o nello stesso vizio.

Né si dimentichi un altro vantaggio della confessione, che interessa vivamente la vita sociale. Tolta infatti dalla vita cristiana la confessione sacramentale, il mondo sarà inondato da occulte e nefande scelleratezze. A poco a poco l’abitudine del male renderà gli uomini così depravati, che non si periteranno di commettere in pubblico queste iniquità e altre ancora più gravi. Invece il pudore di doversi confessare raffrena la licenza e il desiderio del peccato, ponendo un argine alla irrompente malizia degli uomini.

 

Natura della confessione

253 Esposta l’utilità della confessione, i parroci ne spiegheranno la natura e il valore.

La confessione si definisce così: è un’accusa dei peccati, nel sacramento della Penitenza, fatta per riceverne il perdono, in virtù delle chiavi.

Anzitutto e a ragione è detta accusa; perché noi non dobbiamo confessare i peccati quasi con ostentazione, come fanno coloro che si compiacciono di operare il male (Prv 2,14), ovvero come una narrazione, quasi volessimo trattenerci con una persona oziosa che non avesse altro da fare, ma enumerarli con l’intenzione di confessarci colpevoli e con il desiderio di punirli in noi stessi. Noi confessiamo i peccati per ottenerne il perdono; perché il tribunale della Penitenza è diverso dai tribunali umani, nei quali alla confessione del delitto è riservata la pena, non già la liberazione dalla colpa e il perdono dell’offesa. In questo medesimo senso, sebbene con altre parole, sembrano aver definito la confessione alcuni santi Padri, per esempio sant’Agostino: “La confessione è la manifestazione di una infermità occulta, fatta con la speranza del perdono” (In Psalmos, 66,7) e san Gregorio: “La confessione è una detestazione dei peccati” (Hom. in ev., 40, 2). Queste due definizioni possono riportarsi a quella data più sopra, che le contiene tutt’e due.

I parroci poi insegneranno ai fedeli, senza la minima esitazione, una verità di massima importanza e cioè che Gesù Cristo medesimo, il quale ha operato tutto per il bene e in vista della nostra salvezza, ha istituito questo sacramento per la sua somma bontà e misericordia. Infatti essendo gli Apostoli riuniti insieme il giorno della sua resurrezione, alitò su di essi dicendo: “Ricevete lo Spirito Santo. Saranno perdonati i peccati a chi voi li rimetterete e ritenuti a coloro, cui voi li avrete ritenuti” (Gv 20,22). Avendo dunque il Signore concessa ai sacerdoti la facoltà di perdonare o di ritenere i peccati, è chiaro che egli li costituì giudici di quello che dovessero fare.

La stessa cosa il Signore parve volesse significare, quando agli Apostoli comandò di sciogliere Lazzaro risuscitato dalle bende in cui era avvolto (Gv 11,44). Sant’Agostino spiega così quel passo: “I sacerdoti possono ora andare più in là, possono più abbondantemente perdonare a chi confessa, rimettendo le colpe. Infatti il Signore affidò agli Apostoli l’incarico di sciogliere Lazzaro, ch’egli aveva risuscitato, mostrando che la facoltà di sciogliere veniva concessa ai sacerdoti”.

Può anche invocarsi a questo proposito il comando impartito dal Signore ai lebbrosi, guariti lungo la strada, di presentarsi ai sacerdoti e di sottoporsi al loro giudizio (Lc 17,14).

Poiché dunque il Signore ha conferito ai sacerdoti la facoltà di rimettere o di ritenere i peccati, evidentemente essi sono costituiti giudici in questa materia. E siccome secondo l’ammonimento sapiente del santo Concilio Tridentino non è possibile pronunciare una sentenza giusta su qualsiasi argomento, ne si può rispettare la regola della giustizia nell’assegnare le pene dei delitti, se la causa non sia stata ampiamente esposta e ponderata, ne segue che i penitenti nella loro confessione devono presentare ai sacerdoti tutte e singole le loro colpe.

I parroci quindi spiegheranno minutamente quanto su ciò ha stabilito il santo Concilio Tridentino e la Chiesa cattolica ha sempre insegnato. Se leggiamo con attenzione i santi Padri, rintracceremo dovunque testimonianze esplicite, che confermano come questo sacramento sia stato istituito da nostro Signore Gesù Cristo e come esista nel Vangelo la legge della confessione sacramentale, che essi chiamano, alla greca, exomologesi ed exagoreusi. Che se poi ci volgiamo al Vecchio Testamento in cerca di immagini, ci appariranno come indubbiamente pertinenti alla confessione dei peccati quei vari generi di sacrifici, compiuti dai sacerdoti in espiazione delle varie specie di peccati.

Né basta: come occorre mostrare ai fedeli l’istituzione divina della confessione, occorre anche insegnare che per autorità della Chiesa furono aggiunti riti e cerimonie solenni, non inerenti all’essenza del sacramento, ma tali da farne maggiormente risaltare il valore e da predisporre le anime dei penitenti, riscaldate dalla pietà, a ricevere più copiosamente la grazia del Signore. Prostrati a capo scoperto ai piedi del sacerdote, gli occhi abbassati, le mani in atto di supplica, dando prova anche in altri modi, non necessari all’essenza del sacramento, di cristiana umiltà, confessiamo i nostri peccati. Mostriamo così di comprendere che nel sacramento è racchiusa una forza celeste e che doverosamente con tutto l’ardore imploriamo e cerchiamo la misericordia divina.

 

Necessità della confessione

254 Nessuno osi pensare che la confessione sia stata istituita dal Signore in modo che la pratica non ne sia necessaria. I fedeli sono tenuti a credere che chi ha la coscienza gravata da peccato mortale deve essere richiamato alla vita spirituale mediante il sacramento della confessione. Vediamo che il Signore espresse questa necessità con una magnifica immagine, quando definì il potere di amministrare questo sacramento “chiave del regno dei cieli” (Mt 16,19). Chi può penetrare in un luogo chiuso senza ricorrere a chi ne ha le chiavi? Così nessuno può entrare in cielo, se i sacerdoti, alla fedeltà dei quali il Signore consegnò le chiavi, non ne dischiudano le porte. Altrimenti sarebbe assolutamente inutile l’uso delle chiavi nella Chiesa e inutilmente chi ha questo potere potrebbe interdire l’ingresso in cielo ad alcuno, se vi fosse un’altra via per giungervi.

Bene spiegò la cosa sant’Agostino, dicendo: “Nessuno pretenda di far penitenza di nascosto, alla presenza del Signore, pensando: il Signore che mi deve perdonare, sa quel che è nel mio cuore. Ma allora è stato detto invano: “Quel che avrete sciolto sulla terra sarà sciolto in cielo”? E senza ragione sono state consegnate le chiavi alla Chiesa di Dio?” (Sermo 392, 3). Nel medesimo senso sant’Ambrogio scrive nel libro Sulla penitenza, combattendo l’eresia dei novaziani, i quali riservavano soltanto a Dio la potestà di rimettere i peccati: “Chi dunque presta maggiore ossequio a Dio: chi si uniforma ai suoi comandi o chi vi resiste? Orbene: Dio ha comandato di obbedire ai suoi ministri; ciò facendo, tributiamo in realtà onore direttamente a Dio”.

Non potendo esserci dubbio alcuno sull’origine e istituzione divina della legge della confessione, ne segue che occorre ricercare chi debba a essa sottostare, in quale età e in quale tempo dell’anno. Dal canone del Concilio del Laterano, il quale comincia con le parole: “Ogni individuo dell’uno o dell’altro sesso”, risulta che nessuno è vincolato dalla legge della confessione prima dell’età in cui può avere l’uso della ragione. Tale età però non si desume da un definito numero di anni. Sicché sembra doversi ritenere genericamente che la confessione comincia a obbligare il fanciullo quando abbia raggiunto la capacità di distinguere tra bene e male e la sua anima sia capace di malizia.

Si devono, cioè, confessare i propri peccati al sacerdote, non appena pervenuti a quella età in cui è dato di ragionare e di decidere intorno alla vita eterna, non essendoci altro modo di sperare in essa, per chi ha la consapevolezza di aver peccato.

Con il medesimo canone la santa Chiesa stabiliva così il tempo in cui è obbligatorio fare la confessione: “Tutti i fedeli devono confessare i propri peccati almeno una volta l’anno”. Vediamo però se la cura della nostra salvezza non esiga qualcosa di più. In realtà, ogni volta che sembra imminente il pericolo di morte, o iniziarne un atto impraticabile per un uomo macchiato di colpa, come quando amministriamo o riceviamo i sacramenti, la confessione non deve essere tralasciata. Lo stesso faremo quando siamo nel dubbio di avere dimenticato una colpa. Non possiamo, evidentemente, confessare peccati che non ricordiamo, ma neppure otteniamo da Dio il perdono dei peccati, se attraverso la confessione non li cancella il sacramento della Penitenza.

 

Proprietà della confessione

255 Nel fare la confessione si devono osservare molte prescrizioni, di cui alcune appartengono all’essenza stessa del sacramento, mentre altre non sono così necessario. Il parroco spiegherà le une e le altre. Non mancano peraltro opere e commenti, da cui è facile ricavare le spiegazioni in proposito.

Anzitutto i parroci dovranno insegnare che la confessione deve essere integra e assoluta, dovendosi manifestare al sacerdote tutti i peccati mortali. I peccati veniali invece, che non tolgono la grazia di Dio e in cui cadiamo più di frequente, sebbene si possano opportunamente e utilmente confessare, come dimostra la consuetudine dei buoni cristiani, possono però tralasciarsi senza colpa ed espiarsi in molte altre maniere. Ma, ripetiamo, i peccati mortali devono essere tutti e singoli enunciati, anche i più segreti, come quelli che violano solamente i due ultimi comandamenti del Decalogo.

Accade sovente che tali colpe feriscano l’anima più seriamente di quelle altre, che gli uomini sogliono commettere apertamente. Così ha definito il Concilio Tridentino (sess. 14, cap. 5, can. 7) e ha sempre insegnato la Chiesa cattolica, come ne fan fede le testimonianze dei santi Padri. Leggiamo, per esempio, in sant’Ambrogio; “Nessuno può essere perdonato di una colpa, se non abbia confessato il suo peccato” (De parad., 14, 71). Commentando l’Ecclesiaste, san Girolamo conferma la medesima verità: “Chi sia stato segretamente morso dal serpente diabolico e infettato dal veleno del peccato all’insaputa di tutti, se tacerà e non farà penitenza, ne scoprirà la sua ferita al fratello e al maestro, questo maestro, che ha nella lingua la capacità di curare, non potrà essergli utile” (Comm. in Eccl., 10, 11). E san Cipriano, nel discorso sui Lapsi apertamente sentenzia: “Sebbene costoro non abbiano commesso il peccato di sacrificare [agli idoli] o di comprare il relativo libello, se ne ebbero il pensiero, devono nel dolore confessare la colpa ai sacerdoti di Dio”. Su questo punto il parere dei santi Dottori è unanime.

Nella confessione si deve usare quella somma e diligentissima cura che usiamo nelle contingenze più gravi: dobbiamo mirare con tutte le energie a sanare le ferite dell’anima e a svellere le radici del peccato, ne dobbiamo limitarci a spiegare nella confessione i peccati gravi, ma anche le circostanze di ciascuno, che ne accrescono o diminuiscono notevolmente la malizia. Infatti vi sono circostanze così aggravanti, che da sole rendono mortale il peccato: è necessario perciò sempre confessarle. Chi abbia ucciso, dovrà dire se la vittima era laico o ecclesiastico. Chi abbia avuto rapporti carnali con una donna, dovrà spiegare se questa era nubile o coniugata, parente o consacrata a Dio con voto. Tutte queste circostanze costituiscono altrettanti generi di peccati: nel primo caso si tratta di fornicazione semplice; nel secondo di adulterio; nel terzo d’incesto; nel quarto, sempre secondo la nomenclatura dei teologi, di sacrilegio.

Anche il furto è genericamente un peccato; ma chi ruba uno scudo pecca molto più lievemente di chi ne ruba cento o duecento o, comunque, sottragga una forte somma, specialmente se sacra. Simile considerazione vale anche per il tempo e per il luogo, come appare dagli esempi ben noti addotti da tanti mai libri, che non occorre ripeterli. Tutto ciò va spiegato in confessione; però si ricordi che le circostanze non aggravanti la colpa in misura notevole possono essere taciute senza peccato.

E’ veramente indispensabile che la confessione sia integra e completa. Chi di proposito confessi in parte i peccati e in parte li ometta, non solo non ritrarrà alcun vantaggi dalla confessione, ma si renderà reo di una nuova colpa. Simile difettosa manifestazione di colpe non potrà meritare il nome di confessione sacramentale. In tal caso il penitente dovrà rinnovare la confessione e in più si è fatto reo di un altro peccato, perché ha violato la santità sacramentale con la simulazione della confessione.

Si badi però che le lacune della confessione, non volute di proposito, ma provenienti da involontaria dimenticanza o da manchevole esplorazione della propria coscienza pur sussistendo l’intenzione di confessare tutte le proprie colpe, non impongono che tutta la confessione sia ripetuta. Basterà in un’altra occasione confessare al sacerdote le colpe dimenticate, dopo che esse siano tornate alla memoria. Occorre badare a che l’esame di coscienza non sia troppo sommario e rapido. Se saremo stati cosi negligenti nell’esaminarci sui peccati commessi, che possa dirsi di noi di non averli in realtà voluti ricordare, saremo tenuti a ripetere la confessione.

La confessione deve essere schietta, semplice, aperta, non artificiosamente concepita come sogliono fare tanti che sembrano fare più la storia della loro vita, che confessare i peccati. Essa deve mostrarci al sacerdote quali noi siamo, quali compariamo a noi stessi, dando il certo per certo, il dubbio per dubbio. Simili doti mancheranno alla confessione, se i peccati non vengono nettamente espressi, o in essa vengono mescolati discorsi estranei alla materia.

Meritano lode coloro che espongono le cose con prudenza e verecondia. Non è bene perdersi in lunghe frasi; ma succintamente, modestamente, deve dirsi quanto riguarda la natura e l’entità di ciascun peccato. Così il confessore come il penitente devono cercare con ogni mezzo che la loro conversazione nella confessione sia segreta. Perciò non è mai lecito confessare i peccati per mezzo di una terza persona o per lettera, non essendo questi i modi di tener segreta una cosa.

Sarà massima cura dei fedeli purificare incessantemente l’anima mediante la confessione frequente dei peccati. Nulla è più salutare per chi ha l’anima gravata da colpa mortale, in mezzo ai molti pericoli della vita, che confessare senza indugio i propri peccati. Del resto, pur potendosi ripromettere una lunga vita, è veramente riprovevole che noi, mentre usiamo tanta diligenza nel mondare il corpo e le vesti, non usiamo altrettanta diligenza nel far sì che lo splendore dell’anima non sia offuscato dalle macchie di turpissimi peccati.

 

Ministro della confessione

256 È tempo di parlare del ministro di questo sacramento, che è il sacerdote fornito della facoltà ordinaria o delegata di assolvere, come vogliono le leggi ecclesiastiche. Chi deve attendere a simile mansione riveste non solo la potestà dell’ordine, ma anche quella di giurisdizione. Alcune parole del Signore nel Vangelo di san Giovanni offrono un’insigne testimonianza intorno a questo sacro ministero: “A chi rimetterete i peccati, saranno rimessi e saranno ritenuti a chi li riterrete” (20,23). È evidente che queste parole non furono rivolte a tutti, ma solamente agli Apostoli, ai quali i sacerdoti succedono in questa funzione. E poiché ogni specie di grazia, impartita mediante questo sacramento, rifluisce dal capo, che è Gesù Cristo, nelle membra, è logico che esso sia impartito al corpo mistico di Gesù Cristo, vale a dire ai fedeli, solo da coloro che hanno la potestà di consacrare sull’altare il suo corpo reale; tanto più che, in virtù del sacramento della Penitenza, i fedeli vengono preparati e abilitati a ricevere l’Eucaristia.

I vecchi decreti dei Padri lasciano agevolmente comprendere di quanto rispetto fosse circondata nella Chiesa antichissima la potestà del sacerdote ordinario. Essi stabilivano che nessun vescovo o sacerdote compisse atti di amministrazione sacramentale nella parrocchia altrui, senza l’autorizzazione di chi vi fosse preposto o senza la giustificazione di un’estrema necessità. In sostanza la stessa cosa sanciva l’Apostolo, ordinando a Tito di porre sacerdoti in ogni città, perché nutrissero e formassero i fedeli con il pascolo celeste della dottrina e dei sacramenti (Tt 1,5).

Qualora però sussista pericolo imminente di morte, ne sia possibile avere pronto il proprio parroco, affinchè nessuno in tali circostanze si perda, il Concilio di Trento insegna essere consuetudine della Chiesa di Dio che ogni sacerdote possa non solamente assolvere da ogni genere di peccato, comunque riservato, ma anche sciogliere dal vincolo della scomunica.

Oltre la potestà di ordine e di giurisdizione, strettamente necessarie, il ministro di questo sacramento sia fornito di vasta dottrina e di prudenza, poiché egli deve essere insieme giudice e medico. Non basta una scienza qualsiasi, perché tale giudice deve conoscere a fondo i peccati commessi, assegnarli alle rispettive specie, distinguere i leggeri dai gravi, secondo la qualità e il rango dei penitenti. Anche come medico ha bisogno della massima sagacia, dovendo con cura apprestare al malato quei rimedi che sembrino più acconci a risanarne l’anima e a premunirla in avvenire dall’insidia del male.

Da ciò i fedeli comprenderanno come ciascuno debba porre ogni studio nello scegliersi un sacerdote raccomandato per integrità di vita, dottrina e chiaroveggenza, capace di valutare convenientemente l’importanza gravissima del suo ufficio, quale pena convenga a ciascun peccato, chi sia da sciogliere e chi da lasciar senza assoluzione.

 

Legge del segreto

257  Siccome tutti desiderano ardentemente che le proprie colpe e le proprie vergogne rimangano occulte, i pastori assicureranno i fedeli che non v’è ragione di temere che il sacerdote riveli mai ad alcuno i peccati ascoltati in confessione e ne possa giammai derivare alcun genere di pericolo. Le sanzioni sacre minacciano gravissimamente quei sacerdoti che non abbiano tenuti sepolti nel più inviolabile silenzio i peccati da chiunque confessati loro nel sacramento. Leggiamo fra i decreti del grande Concilio Lateranense: ” Badi il sacerdote a non rivelare mai con la parola, con i segni o con qualsiasi altro mezzo il peccatore”.

 

Regole per ricevere le confessioni

258 L’ordine della nostra esposizione esige che, dopo aver trattato del ministro, svolgiamo alcuni punti principali sull’uso e lo svolgimento della confessione. Vi sono molti fedeli ai quali par mill’anni che trascorrano i giorni dalla legge ecclesiastica stabiliti per la confessione e sono così remoti dalla genuina professione cristiana, da non curarsi di ricordare bene i peccati che dovrebbero denunciare al sacerdote, trascurando tutto ciò che può massimamente contribuire al conseguimento della grazia divina. Con tanto maggiore studio occorre quindi venire in soccorso della loro salvezza. Perciò i sacerdoti osserveranno bene se il penitente abbia concepito vero dolore dei suoi peccati e se nutra deliberato proposito di non ricadervi.

Se si accorgono che egli possiede tali disposizioni, lo esortino a ringraziare Dio di cosi singolare beneficio e a implorare incessantemente l’aiuto della divina grazia, con il sussidio della quale potrà resistere vittoriosamente alle malvagie concupiscenze. Lo ammaestrino a meditare ogni giorno per un po’ di tempo sui misteri della passione di nostro Signore, a imitarlo e a riscaldare il cuore d’amore per lui. Mediante tale meditazione si sentirà ogni giorno più al sicuro dalle demoniache tentazioni. Causa vera della nostra rapida e facile disfatta dinanzi agli assalti del nemico è appunto il non cercare di attingere dalla meditazione delle verità celesti il fuoco della divina carità, capace di rinnovare e rafforzare lo spirito.

Qualora il sacerdote comprenda che il penitente non si duole dei suoi peccati in modo da dirsi veramente contrito, si sforzi perché concepisca vivo desiderio di tale contrizione.

Il desiderio ardente di tanto dono lo indurrà a invocarlo dalla misericordia divina.

Si deve però anzitutto reprimere la superbia di chi si sforza di scusare o attenuare le proprie colpe. Vi sarà, per esempio, chi, confessando i propri scatti d’ira, ne vorrà far ricadere la causa su altri, da cui si lamenterà di aver ricevuto ingiuria. Il sacerdote gli faccia osservare che qui v’è un indizio di animo superbo, che non tiene conto o addirittura ignora l’entità della propria colpa; che simile genere di scuse finisce con l’accrescere, anziché diminuire, la gravita del male, poiché chi lo vuole spiegare così, lascia intendere d’essere disposto a usare pazienza solo quando non sia ingiuriato da altri. Ci potrebbe mai essere cosa meno degna di un cristiano? Avrebbe dovuto invece dolersi quanto mai per colui che lo ha ingiuriato. Invece non è colpito dallo spettacolo del male, ma si adira e anziché cogliere l’ottima occasione per prestare ossequio a Dio con la sua pazienza e correggere il fratello con la mitezza, trasforma un mezzo di salute in mezzo di rovina.

Più perniciosa appare la colpa di coloro che, trattenuti da uno sciocco pudore, non osano manifestare i propri peccati. Bisogna far loro animo con le esortazioni, far loro intendere che non c’è motivo di vergognarsi nel rivelare i loro vizi e che non c’è da meravigliarsi nell’apprendere che un uomo ha peccato. Non è questo un male universale, che rientra nella sfera dell’umana debolezza?

Vi sono altri poi che, per la poca consuetudine o per la nessuna cura posta nell’evocare il ricordo delle loro colpe, non sanno condurre bene a termine una confessione cominciata, o non sanno neppure cominciarla. Occorre vivamente rimproverarli e insegnare che, prima di presentarsi al sacerdote, devono con ogni cura concepire dolore dei peccati, il che è impossibile se questi non sono stati distintamente e minutamente ricordati.

Se il sacerdote riconosce che cedesti penitenti sono del tutto impreparati, li congedi cortesemente, non mancando di esortarli a prendere tempo per ricordare le proprie colpe e poi tornare. Se protesteranno di avere già posto nella preparazione ogni studio e ogni diligenza, poiché il sacerdote deve sempre avere timore che se respinti non tornino più, dovranno essere ascoltati, specialmente nel caso che dimostrino sincera brama di correggere la propria vita e finiscano con l’accusare la propria negligenza e promettere di compensarla nell’avvenire con una maggiore riflessione. Però in tutto questo è necessaria una scrupolosa cautela.

Ascoltata la confessione, se il sacerdote giudica che non mancano al penitente né la diligenza nell’esposizione delle colpe, né il dolore di averle commesse, potrà assolverlo; altrimenti, come abbiamo detto, raccomanderà maggiore attenzione nell’esame di coscienza e lo congederà con la maggiore delicatezza.

Siccome accade che qualche donna, avendo dimenticato di accusare un peccato in una confessione precedente, non osa tornare al sacerdote, nel timore di essere considerata dal popolo rea di singolare malvagità, o avida di lode per la sua religiosità, non sarà male insistere, in pubblico e in privato, che nessuno può vantare tale memoria, da ricordare tutti e singoli i suoi atti, i suoi detti e i suoi pensieri. Perciò i fedeli non devono in nessun modo vergognarsi di tornare al sacerdote, qualora ricordino un peccato prima dimenticato. Queste e altre simili regole dovranno essere osservate dai sacerdoti nella confessione.

 

Definizione e proprietà della soddisfazione

259 Veniamo alla terza parte della Penitenza, che è la soddisfazione.

Esporremo anzitutto il significato e l’efficacia della soddisfazione, da cui i nemici della Chiesa cattolica hanno tratto ripetute occasioni di divergenza e discordia, con gravissimo pregiudizio del popolo cristiano.

La soddisfazione è l’integrale pagamento di ciò che è dovuto, poiché è soddisfacente ciò a cui nulla manca. Sicché trattando della riconciliazione per riottenere la grazia, soddisfare significa offrire quel che a un animo irato appare sufficiente a vendicare l’ingiuria. In altre parole, la soddisfazione è il compenso offerto per l’ingiuria arrecata ad altri. Nel caso nostro i teologi usarono il vocabolo soddisfazione, per indicare quel genere di compenso che l’uomo offre a Dio per i peccati commessi.

Poiché in questo campo possono esserci molte gradazioni, la soddisfazione può intendersi in vari modi.

La più alta ed eccellente soddisfazione è quella con la quale, a compenso delle nostre colpe, è stato dato a Dio tutto ciò che da parte nostra gli si doveva, pur supponendo che Dio abbia voluto trattarci a rigore di diritto. Tale soddisfazione, che ci rese Dio placato e propizio, fu offerta unicamente da Gesù Cristo, che sulla croce scontò l’intero debito dei nostri peccati. Nessuna creatura avrebbe potuto sgravarci di così pesante onere; per questo egli, secondo la parola di san Giovanni, si diede pegno di propiziazione per le colpe nostre e per quelle di tutto il mondo (1 Gv 2,2).

Questa è dunque la piena e globale soddisfazione, perfettamente adeguata al debito contratto con il cumulo di cattive azioni commesse in tutta la storia del mondo. Il suo valore riabilita gli atti umani al cospetto di Dio; senza di esso, questi apparirebbero destituiti di qualsiasi pregio. Sembrano valere in proposito le parole di David che, dopo avere esclamato nella contemplazione dello spirito: “Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha donato?” nulla rinvenne degno di tanti e così grandi benefici, al di fuori di questa soddisfazione, che espresse con il nome di calice: “Prenderò il calice della salvezza e invocherò il nome del Signore” (Sal 115, 12).

Un secondo genere di soddisfazione e detto canonico e si compie in un determinato periodo di tempo. E antichissima consuetudine ecclesiastica che, al momento dell’assoluzione, sia assegnata ai penitenti una penitenza determinata, il cui soddisfacimento è appunto chiamato soddisfazione.

Con il medesimo nome è pure indicato ogni genere di penalità, che spontaneamente e deliberatamente affrontiamo a sconto dei nostri peccati, anche senza l’imposizione del sacerdote.

Quest’ultima soddisfazione non spetta alla natura del sacramento, di cui invece fa parte quella imposta per i peccati dal sacerdote di Dio, con unito il fermo proposito di evitare in avvenire ogni peccato. Perciò alcuni proposero questa definizione: “Soddisfare significa tributare a Dio l’onore dovuto”. Ma è evidente che nessuno può tributare a Dio l’onore dovutogli, se non si proponga di evitare assolutamente ogni colpa. Quindi soddisfare è anche un recidere le cause dei peccati, non lasciare varco alla loro suggestione. Per questo altri preferiscono definire la soddisfazione come la purificazione dell’anima da ogni bruttura di peccato e l’affrancamento dalle pene temporali stabilite, i cui vincoli la stringevano.

 

Necessità della soddisfazione

260 Ciò posto, non sarà difficile persuadere i fedeli della necessità, in cui si trovano i penitenti, di esercitarsi nella pratica della soddisfazione.

Si deve loro insegnare che dal peccato scaturiscono due conseguenze: la “macchia” e la “pena”. Poiché perdonata la colpa, risparmiato il supplizio della morte eterna nell’inferno, non sempre accade, secondo la definizione del Tridentino, che il Signore condoni i residui dei peccati e la pena temporanea loro dovuta. Esempi significativi di questa verità si riscontrano nella Sacra Scrittura, nel terzo capitolo della Genesi, nei capitoli dodici e venti dei Numeri e altrove.

L’esempio più insigne è però offerto da David, il quale, sebbene avesse udito dal profeta Natan le parole rassicuratrici: “II Signore ha cancellato il tuo peccato e tu non morrai” (2 Sam 12,13), pure dovette sottostare a pene gravissime, implorando notte e giorno la misericordia divina: “Lavami abbondantemente dalla mia iniquità; mondami dal mio peccato; riconosco la mia colpa; ho sempre dinanzi a me il mio peccato” (Sal 50,4). Così chiedeva al Signore di condonargli non solamente il delitto, ma anche la pena a esso dovuta e che lo volesse reintegrare nel primitivo stato di decoro, purgandolo da ogni residuo peccaminoso. Eppure il Signore, nonostante le sue incessanti preci, colpì David con il tradimento e la morte del figlio adulterino e di Assalonne, il prediletto, e con altre punizioni, in precedenza annunciate.

Anche nell’Esodo leggiamo che, sebbene il Signore, placato dalle preghiere di Mosè, avesse perdonato al popolo idolatra, pure minacciò di chiedere conto con gravi pene di così grande colpa e lo stesso Mosè previde che il Signore ne avrebbe tratto severissima vendetta fino alla terza e quarta generazione (Es 32,33). L’autorità dei santi Padri attesta come questi ammaestramenti siano stati sempre vivi nella Chiesa cattolica.

Il santo Concilio Tridentino spiega luminosamente la ragione per cui non tutta la pena viene condonata nel sacramento della Penitenza, come invece accade nel Battesimo, con queste parole: “L’essenza della giustizia divina esige che in modo diverso siano ricevuti in grazia coloro che, per ignoranza, peccarono prima del Battesimo e coloro che, una volta affrancati dalla schiavitù del peccato e del demonio e insigniti del dono dello Spirito Santo, non esitano a violare consapevolmente il tempio di Dio e a contristare lo Spirito Santo. In questo caso conviene alla divina clemenza che non siano condonati i peccati senza alcuna soddisfazione, perché alla prima occasione, reputando poca cosa la colpa, disprezzando lo Spirito Santo, non cadiamo in misfatti più gravi, accumulando l’ira divina per il giorno della vendetta. Senza dubbio le pene soddisfattorie trattengono efficacemente dal peccato e ci stringono con un freno potente, rendendoci più cauti e vigili per l’avvenire” (sess. 14,cap. 8).

Esse inoltre sono come prove documentarie del dolore concepito per i peccati commessi: sono riparazione data alla Chiesa, gravemente lesa nel suo decoro dalle nostre colpe. Scrive sant’Agostino: “Dio non ripudia un cuore contrito e umiliato, ma perché spesso il dolore di un cuore è ignorato da un altro e non giunge a cognizione altrui con parole o con altri segni, opportunamente sono stati fissati dalla Chiesa i periodi della penitenza, affinché sia data soddisfazione alla Chiesa stessa, nel cui grembo i peccati vengono rimessi” (Ench., 65).

Si aggiunga che gli esempi della nostra penitenza insegnano agli altri come essi stessi debbano regolare la loro vita e battere la via della pietà. Scorgendo le pene imposteci per i nostri peccati, gli altri comprendono come siano necessario nella vita speciali cautele e come i costumi vadano corretti. Per questo la Chiesa ha saggiamente stabilito che chi ha pubblicamente peccato sottostia a una penitenza parimenti pubblica; così gli altri, intimoriti, sappiano più diligentemente evitare in seguito la colpa. Del resto anche per i peccati occulti s’imponeva talvolta la penitenza pubblica, quando fossero molto gravi. La regola però non ammetteva eccezione per i peccati pubblici che non venivano assolti prima della pubblica penitenza. Frattanto i pastori pregavano Dio per il peccatore e nel medesimo tempo lo esortavano a fare altrettanto.

Va ricordata in proposito la premura di sant’Ambrogio, le cui lacrime, a quanto è narrato, riuscirono più volte a infondere autentico dolore in anime che si erano avvicinate con molta freddezza al sacramento della Penitenza (Paolino, Vita Ambr., 39). Più tardi, purtroppo, si è abbandonata la severità dell’antica disciplina, essendosi raffreddata la carità; sicché molti fedeli hanno finito con il non ritenere necessari, per impetrare il perdono dei peccati, alcun dolore intimo dell’animo, ne gemito del cuore, credendo sufficiente la semplice parvenza del dolore.

Infine, sottostando alle debite pene, noi riproduciamo l’immagine del nostro capo Gesù Cristo, che ha affrontato la passione e la prova (Eb 2,18). Come ha detto san Bernardo: “Che cosa si potrebbe concepire di più deforme che un membro delicato, unito a un capo coronato di spine?” (Sermo de omn. sanct., 5, 9). Scrive Infatti l’Apostolo che saremo coeredi con Cristo, se soffriremo con lui (Rm 8,17); vivremo con lui, se saremo morti insieme; regneremo con lui, se con lui avremo sofferto (2 Tm 2,11).

Anche san Bernardo ha affermato che nel peccato si riscontrano la macchia e la piaga; la prima è cancellata dalla misericordia divina, ma a sanare la seconda è indispensabile la cura, che consiste nel rimedio della penitenza. Come nella ferita rimarginata rimangono cicatrici, che esigono esse stesse una cura, così nell’anima, assolta dalla colpa, rimangono tracce bisognose ancora di rimedio. Una sentenza del Crisostomo conferma questa verità, quando osserva che non basta estrarre dal corpo la freccia, ma bisogna risanarne la ferita; così appunto nell’anima, dopo conseguito il perdono della colpa, deve curarsi con la penitenza la piaga rimasta. Ripetutamente insegna sant’Agostino che nella Penitenza è necessario distinguere la misericordia dalla giustizia di Dio; la prima rimette le colpe e le pene eterne meritate; la seconda infligge al peccatore pene temporali (In Psalmos, 50, 7).

Del resto la pena penitenziale, volenterosamente accettata, previene i supplizi stabiliti da Dio, come insegna l’Apostolo. Se ci giudicassimo da noi stessi non saremmo giudicati, quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo castigati per non essere condannati con questo mondo (1 Cor 11,31). Nell’apprendere tutto ciò, i fedeli si sentiranno necessariamente stimolati a opere di penitenza.

 

Efficacia e base della soddisfazione

261 Quanto grande sia l’efficacia della soddisfazione risulta dal fatto che essa scaturisce tutta dai meriti della passione di nostro Signore Gesù Cristo, in virtù della quale noi conseguiamo con le azioni virtuose i due massimi beni: il premio della gloria immortale, poiché è scritto che neppure un bicchiere d’acqua fresca dato nel suo nome mancherà di congrua mercede (Mt 10,42), e il soddisfacimento che facciamo per i nostri peccati.

Non è oscurata per questo la perfetta e sovrabbondante soddisfazione, offerta da nostro Signore Gesù Cristo. Al contrario, è resa più insigne e più luminosa. Risulta infatti più copiosa la grazia di Gesù Cristo per il fatto che ci vengono comunicati non solo i suoi meriti personali, ma anche quelli che, come capo, egli attua nei santi e nei giusti, che sono sue membra. Infatti solo di là le azioni giuste e oneste dei pii ricevono tanto valore e tanta importanza. Come la testa in rapporto a tutto il corpo e la vite in rapporto ai tralci (Gv 15,4; Ef 4,15), Gesù Cristo non cessa di diffondere la sua grazia in coloro che gli sono uniti nella carità. Questa grazia previene sempre le nostre buone azioni, le accompagna e le segue, rendendoci possibili il merito e la soddisfazione da darsi a Dio.

Ne segue che nulla manca ai giusti. Mediante le opere compiute con il soccorso di Dio, essi possono soddisfare alla legge divina, secondo la capacità della natura umana e mortale, e possono meritare la vita eterna, che conseguiranno se escono da questa vita ornati della grazia divina. E nota la sentenza del Salvatore: “Chi avrà bevuto l’acqua che io darò, non avrà sete in eterno, e l’acqua che gli avrò dato, si trasformerà in lui in una sorgente d’acqua che sale all’eterna vita” (Gv 4,13).

La soddisfazione però deve possedere due requisiti. Anzitutto, chi soddisfa deve essere giusto e amico di Dio. Le opere compiute senza fede e senza carità non possono essere in nessun modo gradite a Dio. In secondo luogo le opere intraprese siano tali da recare dolore e disagio, perché dovendo esse riuscire compensatrici di passati peccati e quasi, secondo le parole di san Cipriano, redentrici del male fatto (Epist., 55), occorre assolutamente che racchiudano qualcosa di amaro, sebbene non sempre sia vero che chi si esercita in azioni onerose, per questo stesso ne senta dolore. Spesso l’abitudine del soffrire o l’ardente amore di Dio fanno sì che anche pene gravissime siano appena percepite. Ciò non toglie a tali opere la capacità di soddisfazione, poiché è proprio dei figli di Dio l’essere così infiammati dall’amore divino da non provare incomodo in mezzo ai più acerbi dolori, sopportando tutto con animo invitto.

 

Azioni soddisfattorie

262 I parroci insegneranno che le opere capaci di valore soddisfattorio possono ridursi a tre categorie: orazioni, digiuni, elemosine, in corrispondenza al triplice ordine di beni, spirituali, corporali ed esteriori, che abbiamo ricevuto da Dio. Si trovano qui i mezzi più atti ed efficaci a recidere le radici del peccato. Poiché infatti il mondo è impastato di cupidigia carnale, di cupidigia degli occhi, di superbia della vita, è chiaro che a queste tre cause di male vanno contrapposte tre medicine: il digiuno, l’elemosina, la preghiera. Tale classificazione appare ragionevole anche se si considerano le persone offese dai nostri peccati, che sono Dio, il prossimo, noi stessi. Ora noi plachiamo Dio con la preghiera; diamo soddisfazione al prossimo con l’elemosina; dominiamo noi stessi con il digiuno.

Ma poiché fatalmente la vita è accompagnata da innumerevoli angosce e disgrazie, ai fedeli si deve con ogni cura ricordare che tollerando pazientemente quanto a Dio piaccia di mandarci, si accumula buon materiale di meriti e di soddisfazione; mentre recalcitrando e ripugnando alla sofferenza, si perde ogni frutto di soddisfazione, esponendosi alla diretta punizione di Dio, giusto vendicatore della colpa.

Veramente degna di ogni lode e di ogni ringraziamento è la bontà clemente di Dio, il quale concesse all’umana debolezza che uno potesse soddisfare per un altro; cosa che è in modo speciale propria di questa parte della Penitenza. Se nessuno può pentirsi o fare la confessione delle colpe al posto di altri, può però, chi è in grazia, sciogliere per altri il debito contratto verso Dio; in altre parole, portare in qualche modo il carico altrui. Il fedele non può in alcun modo dubitarne, poiché nel Simbolo degli Apostoli professiamo di credere nella comunione dei santi.

Infatti se tutti, lavati nel medesimo Battesimo, rinasciamo a Cristo, partecipiamo ai medesimi sacramenti e principalmente ci alimentiamo e ci dissetiamo con il medesimo corpo e sangue di nostro Signore Gesù Cristo, siamo evidentemente membra del medesimo corpo. Orbene, come il piede adempie la sua funzione per il vantaggio, non solamente proprio, ma anche, per esempio, degli occhi, e a sua volta la vista giova agli occhi e insieme a tutte le membra, così dobbiamo reputare comuni fra tutti noi le opere della soddisfazione. Vi sono però delle eccezioni, per quanto riguarda i vantaggi che da esse scaturiscono. Le opere soddisfattorie infatti sono come medicine e metodi di cura, prescritti al penitente per risanare le cattive inclinazioni del suo spirito: perciò non possono partecipare della loro virtù risanatrice coloro che personalmente nulla fanno per soddisfare.

 

A chi deve negarsi l’assoluzione

263 Le tre parti della Penitenza, dolore, confessione, soddisfazione, devono essere abbondantemente spiegate. I sacerdoti però, ascoltata la confessione dei peccati e prima di assolvere il penitente, vedano bene se questi sia veramente reo di avere sottratto qualcosa alla sostanza o alla fama del prossimo. In tal caso dovrà riparare il danno e non potrà essere assolto se non promette di affrettarsi a restituire. E poiché molti si dilungano nel promettere la riparazione, ma non si decidono mai ad assolvere la promessa, devono esservi assolutamente costretti, ripetendo l’ammonimento dell’Apostolo: “Chi ha rubato, ormai non rubi più; lavori piuttosto con le sue mani per venire incontro alle necessità di chi soffre” (Ef 4,28).

Nell’assegnare la pena soddisfattoria, i sacerdoti ricordino di non fissarla a capriccio, bensì con giustizia, prudenza e pietà. Affinché i peccati risultino valutati secondo una regola e i penitenti riconoscano più agevolmente la gravita dei loro misfatti, sarà bene dir loro talvolta quali pene fossero decretate dai vecchi canoni, detti “penitenziali”, per determinati peccati. In generale la misura della soddisfazione sarà data dalla natura della colpa. Tra tutte le forme di soddisfazione è bene specialmente imporre ai penitenti di pregare in determinati giorni per tutti, ma in modo particolare per coloro che hanno lasciato questa vita nel nome del Signore. I sacerdoti li esorteranno a ripetere spesso le medesime opere soddisfattorie; a foggiare i loro costumi in modo che, pur avendo coscienziosamente compiuti tutti gli atti pertinenti al sacramento della confessione, non tralascino per questo la pratica della virtù della penitenza. Che se talora, a causa del pubblico scandalo, sarà necessario imporre una penitenza pubblica, anche se il penitente cerchi di evitarla e per questo preghi, non gli si presti facilmente ascolto, ma è necessario convincerlo a sottostare con animo pronto a quanto riesce salutare a lui e agli altri.

Quanto siamo venuti esponendo relativamente al sacramento della Penitenza e alle sue parti, sia spiegato in modo che non solo i fedeli l’intendano perfettamente, ma anche, con l’aiuto del Signore, si sentano indotti a eseguirlo piamente e religiosamente.

(Dal Catechismo tridentino)

INTRODUZIONE  AL

 CATECHISMO DEL

 CONCILIO DI TRENTO

 

Il Catechismo del Concilio di Trento detto anche Catechismo tridentino o Catechismo romano è un catechismo rivolto ai sacerdoti (ad parochos) promulgato ufficialmente dalla Chiesa Cattolica riunita durante il Concilio di Trento del XVI secolo; è stato l’unico catechismo ecumenico prima dell’attuale Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 da cui ha preso la struttura e tutti gli insegnamenti. Esso aveva lo scopo di fornire un manuale autorevole che fosse base per gli insegnamenti dei sacerdoti ai fedeli laici e che contribuisse ad affermare la dottrina cattolica contro la Riforma protestante.

 Storia:

L’esplosione della Riforma protestante nel XVI secolo e le nuove tecnologie della stampa fecero si che un gran quantitativo di trattati teologici popolari e catechismi si diffondesse in Europa, gran parte dei quali promulgavano dottrine in aperto contrasto con la Chiesa Cattolica e da questa considerate eretiche. I parroci ed i sacerdoti più a diretto contatto con il popolo spesso non avevano le conoscenze teologiche necessarie a contrastare gli ideali riformatori che si diffondevano rapidamente e portavano molti fedeli lontano dalla chiesa di Roma.

Nelle discussioni in seno al concilio ecumenico di Trento emerse la volontà di riunire in un unico testo ufficiale le basi di tutti gli insegnamenti della Chiesa Cattolica: “Mossi da tale stato di cose i Padri del Concilio Ecumenico Tridentino, con il vivo desiderio di adottare qualche rimedio salutare per un male così grave e pernicioso, non si limitarono a chiarire con le loro definizioni i punti principali della dottrina cattolica contro tutte le eresie dei nostri tempi, ma decretarono anche di proporre una certa formula e un determinato metodo per istruire il popolo cristiano nei rudimenti della fede, da adottare in tutte le chiese da parte di coloro cui spetta l’ufficio di legittimi pastori e insegnanti.” (Prefazione del Catechismo Romano, n°4)

Questa decisione fu presa nel corso della diciottesima sessione del Concilio Ecumenico (26 febbraio 1562) su suggerimento del cardinale San Carlo Borromeo che desiderava ardentemente una riforma del clero. Papa Pio IV affidò la composizione del catechismo a quattro eminenti teologi: l’arcivescovo Leonardo Marino di Lanciano, Muzio Calidi di Zara, il vescovo di Modena Egidio Foscarini e il dominicano portoghese Francisco Fureiro; la supervisione del lavoro fu compito di tre cardinali. Borromeo supervisionò la redazione del testo originale italiano che grazie ai suoi sforzi fu terminato nel 1564, quindi fu riesaminato dal cardinal Guglielmo Sirleto e tradotto in latino da due famosi umanisti: Paulus Manutius e Julius Pogianus.

La pubblicazione avvenne contemporaneamente in latino ed italiano nel 1566 su ordine di Papa Pio V con il titolo:

“CATECHISMUS EX DECRETO

CONCILII   TRIDENTINI AD PAROCHOS   PII  V

JUSSU EDITUS,   ROMÆ,   1566”

(in-folio). Il concilio ordinò le traduzioni in tutte le altre lingue (Sess. XXIV, “De Ref.”, C. VII).

 

 Contenuto:

Il Sacrosanto Concilio Tridentino intese il Catechismo come il manuale ufficiale per l’istruzione popolare, il settimo canone cita: “Perché il fedele possa avvicinarsi ai sacramenti con maggior reverenza e devozione, il Santo Sinodo incarica tutti i vescovi che li amministrano a spiegare i gesti e le usanze in modo che sia adatto alla comprensione del popolo; devono inoltre osservare che i propri parroci osservino la stessa regola con pietà e prudenza, facendo uso per le loro spiegazioni, dove necessario e conveniente, della lingua volgare; e siano conformi alle prescrizioni del Santo Sinodo nei loro insegnamenti (catechesi) per i vari Sacramenti: i vescovi devono accertarsi che tutti questi insegnamenti siano accuratamente tradotti in lingua volgare e spiegati da ogni parroco ai fedeli…”. (Concilio Ecumenico di Trento, De Reformatione Sess. XXIV.)

Nelle intenzioni della Chiesa il catechismo, benché scritto primariamente per i parroci, fu inteso anche come uno schema fisso e stabile di insegnamenti per i fedeli, specialmente riguardo alla grazia; per questo compito il lavoro segue fedelmente le definizioni dogmatiche del concilio.

Il testo è diviso in quattro parti:

1. La Fede ed il suo Simbolo;

2. I Sacramenti

3. I precetti del Decalogo

4. L’Orazione ed in particolare il Padre Nostro

I vescovi si affrettarono a diffondere in ogni modo il nuovo catechismo, sia leggendolo essi stessi per memorizzarlo che esortando i sacerdoti a discutere su di esso in ogni loro raduno e a utilizzarlo per l’istruzione dei fedeli.

 

 I Catechismi di ieri di oggi: un’unica fede e dottrina senza evoluzioni.

Questo Catechismo rimane tuttora a disposizione dei fedeli. È un grave errore dottrinale, supporre che con l’edizione del Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992, questo glorioso Catechismo Tridentino abbia perso valore e sia considerato superato. Il Catechismo Romano (così come il catechismo di san Pio X) è ancora un luminoso faro che può e deve continuare a trovare accoglienza così come ha trovato accoglienza tra i fedeli di tutti il mondo del Catechismo di Giovanni Paolo II e del suo Compendio edito da Benedetto XVI.

Così come in una sinfonia dove gli strumenti musicali seppur diversi suonano all’unisono creando un’armonia melodia così è la Dottrina Cattolica che per rispendere e per essere compresa da tutti ha bisogno che i Catechismi di San Pio V, San Pio X (Pio XI), Giovanni Paolo II, e Benedetto XVI siano accolti e approfonditi egualmente perché ciò che non è presente in un catechismo certamente sarà presente nell’altro e nel mutuo scambio e condivisione il fedele potrà comprendere quale ricchezza dottrinale immutabile ed eterna  ha la nostra religione.

Infatti ciò che muta nel tempo non è la Verità, che rimane scolpita, fissa e ancorata al reale e che dunque non conosce contraddizione o evoluzione, quasi come se ciò che è vero e giusto in un’epoca possa diventare falso e ingiusto in un’altra. Ciò che muta è sempre la condizione sociale del popolo di Dio e pertanto, la Chiesa nella sua attività pastorale è sempre impegnata nella realizzazione del suo ufficio di insegnare, di adeguarsi pastoralmente a quelle che sono le condizioni reali della gente.

Questo spiega il proliferare di catechismi da parte della Chiesa: non perché la dottrina in essa contenuta debba essere emendata, riformata, superata da chissà quali nuove conquiste del pensiero moderno, ma semplicemente perché le persone di epoche differenti, hanno condizioni culturali, sociali, economiche, politiche e spirituali differenti. L’attività di insegnamento della Chiesa, nel tenere conto di queste circostanze è sempre venuta incontro alle specifiche esigenze dell’uomo contemporaneo.

Nell’epoca del Concilio di Trento, erano i parroci a dover svolgere l’attività di divulgatori dell’insegnamento cristiano, non potendo il popolo istruirsi da sè. Per questo motivo, il catechismo tridentino si rivolge ai parroci e non direttamente ai fedeli. Secoli dopo, san Pio X e Pio XI sapranno trasformare l’esposizione del catechismo tridentino, compendiandola in una forma che faciliti l’alfabetizzazione religiosa delle masse, attraverso le familiari formule del Catechismo della Dottrina Cristiana. Mutate le condizioni del popolo di Dio, è sempre rimasta l’esigenza di abbeverarsi alla medesima fonte di Verità.

La Chiesa ha sempre saputo porgere la Verità immutabile e divina, nelle forme più efficaci per l’edificazione del popolo. Con la cultura di massa e l’ingresso della società nella post-modernità, la Chiesa si rivolge direttamente ai fedeli laici, attraverso il Catechismo della Chiesa Cattolica, che rappresenta una esposizione organica di tutta la fede, che permette all’uomo moderno certamente più erudito rispetto al passato, di avviare tramite una base sicura la sua personale ricerca e studio del cattolicesimo.

Infine il Compendio culmina l’opera iniziata dal Catechismo della Chiesa Cattolica, che nella sua completezza appare come un’opera considerevolmente voluminosa. Con la sua forma più semplice e diretta riprendendo lo stile intramontabile del catechismo di San Pio X e Pio XI, permette all’uomo d’oggi, incline al pragmatismo, di ottenere la risposta corretta alla domanda della fede.

Dunque, come si vede, la fede è sempre la stessa, poiché essa è sempre la medesima ricerca, in ogni epoca, del medesimo Dio, Signore e Creatore.

Ci permettiamo di deporre, sotto lo sguardo e l’intercessione della Beata Vergine Maria, l’intero lavoro svolto per la Maggior Gloria di Dio. Alla Madre della Chiesa rifugio dei peccatori e Madre della Misericordia affidiamo opere ed intenzioni perché le orienti e le sostenga e perché l’uomo nella riscoperta della Verità possa incontrare la Salvezza.

 

DAL SITO IN CUI SI TROVA TUTTO IL CATECHISMO TRIDENTINO: http://www.maranatha.it/catrident/00page.htm

 

 

Sant’Anselmo d’Aosta: “E’ indispensabile che, chiunque desideri che Dio dimori in lui, abbia la purezza del cuore” “Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è indispensabile che ne provi dolore.” ESORTAZIONE DELLA MENTE A CONTEMPLARE DIO

Gesù: “Beati i puri di cuore perché vedranno Dio” (Mt 5,8)

“Non può l’uomo scorgere il cuore dell’uomo, poiché <<nessuno conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui>> (1 Cor 2,11). Al contrario Dio, al quale nulla rimane nascosto, scorge senza impedimento il cuore dell’uomo e ciò a cui tende. Chi l’avrà puro, potrà vedere Dio; chi invece non l’avrà puro, senza dubbio non potrà vederlo in alcun modo. E allora è indispensabile che, chiunque desideri che Dio dimori in lui, abbia la purezza del cuore. Nessuno la potrà avere, se non libererà il suo cuore dalle brame terrene, e non si sforzerà di ardere d’amore celeste. Nella misura in cui amerà il mondo, nella stessa misura sarà privato dell’amore celeste. E tanto più ciascuno abbandona Cristo, quanto più col peccare si allontana dalla giustizia di Dio. ( … )

Chi pertanto vuol divenire dimora dello spirito del Signore, conservi la purezza del cuore, allontani i desideri della carne. ( … ) La nostra volontà sia pertanto pura, per essere chiamata ed essere sposa di Dio; né macchia alcuna d’impurità la deturpi, per non divenire adultera. Finché s’accorda al volere di Dio, è pura, è sposa; quando invece discorda dal suo volere, si guasta, s’insozza, si prostituisce.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap. 14, pag. 269, 271.)

“… nell’ora della tentazione prima di dar compimento alla colpa, non si deve mai pensare alla misericordia di Dio, ma alla sua giustizia e al suo giudizio, alla sua ira e al suo sdegno. Ciò si deve ponderare, ciò portare davanti agli occhi della mente, ciò prendere sovente in considerazione con gran spavento. Quando uno è tentato, non deve dire: <<la misericordia>> di Dio <<è grande>> (Sal 86,85,13); ben si dire: <<E’ terribile cadere nelle mani del Dio vivente>> (Eb 10,31). Quando la brama di lussuria agita chicchessia, non pensi che, in qualsiasi momento il peccatore li deplori, tutti i suoi peccati non saranno più ricordati, ma piuttosto, ripensandovi di frequente, consideri che, chiunque pecchi sperando, è maledetto. Pure questo: <<Guai, gente peccatrice, popolo carico di iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!>> (Is 1,4).

( … ) Nell’ora della tentazione, deve ciascuno sforzarsi in tutti i modi per non essere vinto, perché, sebbene Dio abbia garantito il perdono a chi pecca, non ha però promesso di dare a chi pecca il desiderio di pentirsi.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap.1, pag.185)

“Quando la suggestione del peccato colpisce un animo che dall’amore per le cose presenti tende verso i beni eterni, lo lascerà subito andare, se quell’animo si mantiene fermamente nel suo proposito. Ma se rivolgendo la sua attenzione alla suggestione, quest’animo le consentirà di entrare dentro di sé, e quasi eccitandola la rimugina col pensiero, essa lo inquieterà sempre più frequentemente pur non procurandogli ferite, perché di semplice tentazione si tratta per sempre.

Ma se l’animo la culla troppo a lungo, il cane pesante si trasforma nel cagnetto, ossia la suggestione diventa piacere, il quale attacca con più accanimento e se non è scacciato prontamente ferisce l’anima. Ecco perché, non appena comincia a insorgere, l’anima sposa di Cristo deve respingerlo, pensando come le sarebbe ignominioso comparire al suo cospetto insozzata da un piacere così vergognoso. Se infatti l’anima non respingerà il piacere, il cagnetto si trasforma nell’enorme mastino, ossia il piacere si fa consenso che impossessandosi dell’anima, se essa non vi reagisce con grande energia, la uccide. Ma, non appena cerca di aggredire l’anima, questa deve opporsi con grande energia, cioè annientandolo in sé opponendogli un grandissimo timore della morte eterna.

Dunque non prestiamo nessuna attenzione alla suggestione, reprimiamo prontamente il piacere, opponiamoci con forza al consenso. E così sforziamoci di custodire il nostro cuore affinché il diavolo non sia messo in condizione di violarlo neppure con un solo pensiero superfluo.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, SUI COMPORTAMENTI UMANI MEDIANTE SIMILITUDINI, De Humanis moribus, capitolo 40, pag.47)

“Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è pertanto indispensabile che ne provi dolore.”

“Vi sono infatti taluni i quali ammettono di essere peccatori, ma non ne provano dolore alcuno. E’ indispensabile che costoro si dolgano, se vogliono meritare il perdono; poiché non conta che uno si riconosca peccatore, se non ne prova dolore. Se uno infatti peccasse contro il suo signore e non se ne dolesse, cosa pensi che direbbe di lui il signore? Come rimettergli l’offesa, finché sapesse che lui non se ne duole per nulla? Più che altro parrebbe buffo il suo chiedere perdono di cosa della quale non si duole.

Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è pertanto indispensabile che ne provi dolore. Viene poi la confessione, perché deve il peccatore confessare in che modo conosce se stesso e se ne duole.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap.1, pag.177)

 

Sant’ Anselmo d’Aosta – Esortazione della Mente a Contemplare Dio

dal Proslogion di Anselmo d’Aosta

 

1. Orsù, omuncolo, abbandona per un momento le tue occupazioni, nasconditi un poco ai tuoi tumultuosi pensieri. Abbandona ora le pesanti preoccupazioni, rimanda i tuoi laboriosi impegni. Per un po’ dedicati a Dio e riposati in Lui. «Entra nella camera» del tuo spirito, escludi da essa tutto, all’infuori di Dio e di ciò che ti possa giovare a cercarlo, e, «chiusa la porta», cercalo (Mt 6, 6). Di’ ora, o «mio cuore» nella tua totalità, di’ ora a Dio: «Io cerco il tuo volto; il tuo volto, o Signore, io cerco» (Sal 27, 8).

2. Orsù, dunque, o Signore Dio mio, insegna al mio cuore dove e come possa cercarti e dove e come possa trovarti. O Signore, se non sei qui, dove te assente cercherò? E se invece sei ovunque, perché non ti vedo presente? Ma certo tu abiti «una luce inaccessibile» (1 Tm 6,16). E dov’è la luce inaccessibile? E come mi avvicinerò a questa luce inaccessibile? E chi mi condurrà e mi introdurrà in essa, affinché in essa io ti veda? Per mezzo di quali segni, di quale immagine ti cercherò? Non ti ho mai visto, o Signore Dio mio, non conosco il tuo volto. Che cosa farà, o altissimo Signore, che cosa farà codesto tuo esule lontano? Che cosa farà il tuo servo ansioso del tuo amore e gettato lontano «dal tuo volto» (Sal 51,13)? Anela di vederti ed è troppo lontano dai tuo volto. Desidera di avvicinarsi a te e il luogo dove tu abiti è inaccessibile. Brama di trovarti e non conosce dove tu stai. Fa di tutto per cercarti e ignora il tuo volto. O Signore, tu sei il mio Dio e sei il mio Signore e non ti ho mai visto. Tu mi hai fatto e rifatto e mi hai dato tutti i miei beni e io ancora non ti conosco. In breve: sono stato fatto per vederti e non ho ancora fatto ciò per cui sono stato fatto.

3. O misera sorte dell’uomo, che ha perduto ciò per cui è stato fatto! O dura e crudele quella caduta! Ohimè, che cosa ha perduto e che cosa ha trovato, che cosa è scomparso e che cosa è rimasto! Egli ha perso la beatitudine per la quale fu fatto e ha trovato la miseria per la quale non fu fatto. E’ scomparso ciò senza cui nessuno è felice ed è rimasto ciò che di per sé è soltanto misero. Allora «l’uomo mangiava il pane degli angeli» (Sal 78,25), di cui ora ha fame; ora mangia «il pane di dolore» (Sal 127,2), che allora non conosceva. Ohimè, lutto di tutti gli uomini, universale pianto dei figli di Adamo! Egli ruttava di sazietà, noi sospiriamo per fame. Egli era nell’abbondanza, noi mendichiamo. Egli felicemente possedeva e ha miseramente abbandonato ciò che possedeva, noi infelicemente abbiamo bisogno e miserevolmente desideriamo e, ohimè, restiamo senza! Perché Dio non ci ha conservato, pur potendolo facilmente fare, ciò di cui così gravemente sentiamo la mancanza? Perché Dio ci ha tolto la luce e ci ha avvolto nelle tenebre? Perché ci ha tolto la vita e ci ha inflitto la morte? Donde, pieni di miserie, siamo stati cacciati, dove siamo stati spinti! Donde siamo precipitati, dove siamo rovinati! Siamo stati cacciati dalla patria nell’esilio, dalla visione di Dio alla nostra cecità; dalla giocondità della immortalità all’amarezza e all’orrore della morte. Misero mutamento! Da quanto bene in quanto male! Grave danno, grave dolore, grave tutto.

4. Ma, ohimè, io misero, uno dei miseri figli di Eva lontani da Dio, che cosa ho intrapreso, che cosa ho condotto a termine? Dove ero diretto, dove sono giunto? A che cosa tendevo e di che cosa sospiro? «Ho cercato i beni» (Sal 122,9) «ed ecco il turbamento» (Ger 14,19)! Tendevo a Dio e ho urtato in me stesso. Cercavo riposo in me stesso e «ho trovato tribolazione e dolore» (Sal 116,3) nell’intimo mio. Volevo ridere per la gioia della mia mente e sono costretto a «ruggire per il gemito del mio cuore» (Sal 38,9). Speravo letizia ed ecco invece che si moltiplicano i miei sospiri!

5. «Ma tu, o Signore, fino a quando?» (Sal 6,4). «Fino a quando, o Signore, ti dimenticherai di noi, fino a quando ci nasconderai il tuo volto?» (Sal 13,1). Quando ci guarderai e ci esaudirai? Quando illuminerai i nostri occhi e ci mostrerai «il tuo volto» (Sal 80,4)? Quando ti restituirai a noi? Guardaci, o Signore, esaudiscici, illuminaci, mostraci te stesso. Restituisciti a noi, affinché il bene sia con noi, poiché senza di te solo il male è con noi. Abbi pietà delle nostre fatiche e dei nostri sforzi verso di te, poiché senza di te non possiamo nulla. Poiché ci inviti, «aiutaci» (Sal 79,9).

6. Ti supplico, o Signore, che io non disperi sospirando, ma che io respiri sperando. Ti supplico, o Signore il mio cuore è amareggiato per la sua desolazione, addolciscilo con la tua consolazione. Ti supplico, o Signore, ho incominciato a cercarti affamato, fa’ che io non desista di cercarti digiuno di te. Mi sono avvicinato famelico, fa’ che non mi allontani senza aver mangiato. Povero sono venuto al ricco, misero al misericordioso, fa’ che non ritorni senza nulla e disprezzato. E se «prima di mangiare debbo sospirare» (Gb 3,24), dammi almeno, dopo i sospiri, da mangiare. O Signore, incurvato non posso guardare altro che in basso: raddrizzami, affinché possa volgere lo sguardo in alto. «Le mie iniquità, che hanno superato il mio capo», mi avvolgono tutto e mi appesantiscono «come un grave carico» (Sal 38,5). Disseppelliscimi, alleggeriscimi, affinché «l’abisso» delle mie iniquità «non chiuda su di me la sua bocca» (Sal 69,16). Mi sia permesso di guardare la tua luce anche se da lontano o dal profondo. Insegnami a cercarti e mostrati a me che ti cerco, poiché non posso cercarti, se tu non me lo insegni, e non posso trovarti, se tu non ti mostri. Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti. Che io ti trovi amandoti e ti ami trovandoti.

7. Riconosco, o Signore, e te ne ringrazio, che hai creato in me questa tua immagine affinché, memore di te, ti pensi e ti ami. Ma questa immagine è così cancellata dallo sfregamento dei vizi ed è così offuscata dal fumo dei peccati, che non può fare ciò per cui è stata fatta, se tu non la rinnovi e la riformi. Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, poiché in nessun modo metto con essa a confronto il mio intelletto; ma desidero intendere in qualche modo la tua verità, quella che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo in questo: «se non avrò creduto, non potrò intendere» (Is 7,9).

(Sant’ Anselmo d’Aosta, Dottore della chiesa)

Rivelazione della Vergine Maria alla Venerabile Suor Maria: “Così Lucifero continuamente trascina all’Inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia” “Facendo dimenticare agli uomini i ‘Novissimi’: Morte, Giudizio, Inferno e Gloria”

Dalla “Mistica città di Dio,Vita della Vergine Madre di Dio” rivelata alla Venerabile Suor Maria di Ágreda

 

Insegnamento della Regina del cielo, parla Maria Vergine:

773. Figlia mia, tutte le opere del mio Figlio santissimo e mie sono colme di insegnamenti e istruzioni per gli uomini che le considerano con attenta stima. Sua Maestà si allontanò da me affinché cercandolo con dolore e lacrime lo ritrovassi poi con gioia a mio vantaggio spirituale. Anche tu devi cercare il Signore con amaro dolore, affinché questo dolore ti procuri un’incessante sollecitudine, senza riposare su cosa alcuna per tutto il tempo della tua vita, sino a quando tu non arrivi a possederlo e non lo lasci più. Perché tu comprenda meglio il mistero del Signore, sappi che la sua sapienza infinita plasma le creature capaci della sua eterna felicità ponendole sì sul cammino che conduce ad essa, ma allo stesso tempo così lontane e non sicure di arrivarvi. Fintanto che non siano giunte a possedere l’eterna felicità, vivano sempre pronte e nel dolore, affinché la sollecitudine generi in esse un continuo timore e orrore per il peccato, il quale fa perdere la beatitudine. Anche nel tumulto della conversazione umana la creatura non si lasci legare né avviluppare dalle cose visibili e terrene. Il Creatore aiuta in questa sollecitudine, aggiungendo alla ragione naturale le virtù della fede e della speranza, le quali stimolano l’amore con cui cercare e trovare il fine ultimo. Oltre a queste virtù e ad altre infuse con il battesimo, manda ispirazioni e aiuti per ridestare e rimuovere l’anima lontana dallo stesso Signore, affinché non lo dimentichi né si scordi di se stessa mentre è priva della sua amabile presenza. Anzi continui la sua strada sino a giungere al bene desiderato, dove troverà la pienezza del suo amore e dei suoi desideri.

774. Potrai, dunque, capire quanto grande sia la cecità dei mortali e quanto scarso il numero di coloro che si concedono il tempo di considerare attentamente l’ordine meraviglioso della loro creazione e giustificazione e le opere che l’Altissimo ha compiuto per così alto fine. A questa dimenticanza fanno seguito tanti mali, quanti ne soffrono le creature attaccandosi al possesso dei beni terreni e dei piaceri ingannevoli, come se questi fossero la loro felicità e il fine ultimo: è cattiveria grande, rivolta contro la volontà del Signore. I mortali vogliono in questa breve e transitoria vita dilettarsi di ciò che è visibile, come se fosse il loro ultimo fine, mentre dovrebbero usare le creature come mezzo per raggiungere il sommo Bene e non per perderlo. Avverti, dunque, o carissima, questo rischio della stoltezza umana. Tutto ciò che è dilettevole, piacevole e poco serio giudicalo un errore; di’ all’appagamento dei sensi che si lascia ingannare invano e che è madre della stoltezza, rende il cuore ubriaco, impedisce e distrugge tutta la vera sapienza. Vivi sempre con il santo timore di perdere la vita eterna e sino a quando non l’avrai raggiunta non ti rallegrare in altre cose se non nel Signore. Fuggi dalle conversazioni umane e temine i pericoli. Se per obbedienza o a gloria sua Dio ti porrà in mezzo ad essi, devi confidare nella sua protezione, e tuttavia con la necessaria prudenza non devi essere né svogliata né negligente. Non ti affidare all’amicizia e alla relazione con le creature, perché vi è riposto il tuo pericolo più grande. Il Signore ti ha dato un animo grato e un’indole dolce, affinché tu sia incline a non resistergli nelle sue opere, usando per suo amore i benefici che ti ha concesso. Se permetterai che in te entri l’amore delle creature, queste sicuramente ti trasporteranno, allontanandoti dal sommo Bene. Altererai, così, l’ordine e le opere della sua sapienza infinita. È cosa molto indegna utilizzare il più grande beneficio della natura con un oggetto che non sia il più nobile di tutta la natura stessa. Sublima le azioni delle tue facoltà e rappresenta ad esse l’oggetto nobilissimo dell’essere di Dio e del suo Figlio diletto tuo sposo, il più bello tra i figli dell’uomo, e amalo con tutto il tuo cuore, la tua anima e la tua mente.

792. Figlia mia, l’Altissimo, buono e clemente, ha dato e continua a dare l’esistenza a tutti gli esseri viventi, non nega ad alcuno la sua provvidenza e illumina fedelmente ogni uomo, affinché possa intraprendere il cammino della conoscenza di Lui e poi entrare nel gaudio perenne, se non oscura questa luce con le sue colpe, abbandonando la conquista del regno dei cieli. Dio, con le anime che per i suoi segreti giudizi chiama a far parte della Chiesa, si dimostra più generoso. Nel battesimo, infatti, comunica loro con la grazia le virtù “infuse essenzialmente”, dette così perché nessuno può acquistarle da se stesso, e quelle “infuse accidentalmente”, che cioè potrebbero ottenere con le opere. Egli le anticipa loro perché siano più pronte e devote nell’osservare la sua santa legge. Ad alcune, oltre alla fede, la sua benevolenza aggiunge speciali doni soprannaturali di maggior intelligenza e forza per comprendere e attuare i comandamenti evangelici. In questo favore si è mostrato verso di te più liberale di quanto non lo sia stato con molte generazioni; perciò ti devi contraddistinguere nella carità e nella corrispondenza che gli spetta, stando sempre umiliata e abbracciata alla polvere.

793. Con la sollecitudine e l’affetto di una madre, ti voglio insegnare l’astuzia con la quale satana si sforza di distruggere questi benefici dell’Onnipotente. Da quando le creature cominciano a usare la ragione, molti demoni le seguono una per una con vigilanza e, proprio nel momento in cui esse dovrebbero innalzare la mente alla cognizione di Dio e iniziare ad esercitare le virtù ricevute, con incredibile furore e sagacia tentano di sradicare la semenza divina. Se non ci riescono, fanno in modo che questa non dia frutto, incitando gli uomini ad atti viziosi, inutili e infantili. Li distraggono con tale iniquità perché non si servano della fede, della speranza e di quanto ancora è stato loro elargito, non si ricordino che sono cristiani e non cerchino di conoscere il loro Dio, i misteri della redenzione e della vita eterna. Inoltre, questi nemici introducono nei genitori una stolta inavvertenza o un cieco amore carnale verso i propri figli e spingono i maestri ad altre negligenze, affinché non si preoccupino della maleducazione, permettano loro di corrompersi e di acquisire cattive consuetudini e di perdere le loro buone inclinazioni, avviandosi così alla rovina.

794. Il pietosissimo Signore, però, non tralascia di ovviare a questo rischio. Rinnova loro la luce interiore con altri aiuti e sante ispirazioni, con la dottrina della Chiesa attraverso i suoi predicatori e ministri, con l’uso e il rimedio efficace dei sacramenti, e con altri mezzi che servono a ricondurli sulla via della salvezza. Se nonostante questi numerosi provvedimenti sono pochi coloro che tornano alla salute spirituale, la causa di ciò sta nell’empia legge dei vizi e nelle abitudini depravate che si prendono durante la fanciullezza. Siccome è vera la sentenza: «Quali furono i giorni della gioventù, tale sarà anche la vecchiaia», i diavoli acquistano sempre più coraggio e potere sulle anime. Pensano, infatti, che, come le dominavano quando esse avevano commesso meno e minori colpe, così lo potranno fare con più facilità quando senza timore si saranno macchiate di molte altre e più gravi. Poi le muovono alla trasgressione e le colmano d’insensata audacia. Ciascun peccato compiuto da una persona toglie a questa forze interiori e la soggioga maggiormente a satana che, come tiranno, se ne impossessa e l’assoggetta a tale malvagità e meschinità da schiacciarla sotto i piedi della sua iniquità; quindi la conduce dove vuole, da un precipizio a un altro. Questo è il castigo che spetta a chi la prima volta si sottomette a lui. Così Lucifero continuamente trascina all’inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia. Per tale via ha introdotto nel mondo la sua prepotenza, facendo dimenticare agli uomini i “novissimi”: morte, giudizio, inferno e gloria; ha gettato tante nazioni di abisso in abisso, sino a farle cadere in errori così ciechi e bestiali quanto quelli che contengono tutte le eresie e le false sette degli infedeli. Pensa, dunque, figlia mia, a un pericolo così grande e non scordarti mai dei precetti di Dio e delle verità cattoliche. Non ci sia giorno in cui tu non mediti su questo; consiglia alle tue religiose e a tutti coloro ai quali parlerai di fare lo stesso, perché il nemico, il diavolo, si affatica e veglia per oscurare il loro intelletto e deviarlo dalla legge divina, affinché l’intelligenza non indirizzi la volontà, potenza cieca, a compiere gli atti per la giustificazione, che si consegue tramite viva fede, speranza certa, amore fervente e cuore contrito e umiliato.

“Maria di Ágreda, nata María Fernández Coronel y Arana (Ágreda, 2 aprile 1602Ágreda, 24 maggio 1665), è stata  una mistica, cattolica, spagnola, appartenente all’ordine delle monache Concezioniste francescane con il nome “Maria di Gesù di Ágreda“.

È stata un’originalissima figura di donna, religiosa, mistica e scrittrice della Spagna del XVII secolo; è in corso il processo di beatificazione; la Chiesa cattolica le ha attribuito il titolo di venerabile.”

Beato John Henry Newman “Dovremo sperimentare cos’è il peccato nell’al di là, se non ce ne rendiamo conto ora. Dio ci dà ogni grazia per scegliere la sofferenza del pentimento, prima del sopraggiungere dell’ira ventura” “Ripeto, senza una qualche idea giusta del nostro cuore e del peccato, non possiamo avere un’idea giusta del governo morale, di un salvatore o santificatore”

 

“I propri errori chi li conosce? Purificami, o Signore, dalle mie colpe nascoste” (Sal 18 (19), 13).

Beato John Henry Newman:

“Può sembrare strano, ma molti cristiani trascorrono la loro vita senza alcuno sforzo di raggiungere una corretta conoscenza di se stessi. Si accontentano di impressioni vaghe e generiche circa il loro effettivo stato; se hanno qual­cosa in più di questo, si tratta di esperienze casuali, quali i fatti della vita a volte impongono. Ma nulla di esatto e siste­matico, che non rientra nemmeno nei loro desideri avere.

Quando dico che è strano, non è per suggerire che la conoscenza di sé sia facile; è quanto mai difficile conoscere se stessi anche parzialmente, e da questo punto di vista l’i­gnoranza di se stessi non è una cosa strana. La stranezza sta nel fatto che si affermi di credere e di praticare le grandi verità cristiane, mentre si è così ignoranti di se stessi, tenen­do conto che la conoscenza di sé è una condizione necessa­ria per la comprensione di quelle verità. Quindi non è trop­po dire che tutti quelli che trascurano il dovere di un abitua­le esame di coscienza, adoperano in molti casi parole senza averne il senso. Le dottrine del perdono dei peccati, e della nuova nascita dal peccato, non possono essere comprese senza una certa giusta conoscenza della natura del peccato, cioè, del nostro cuore. […]

Ripeto, senza una qualche idea giusta del nostro cuore e del peccato, non possiamo avere un’idea giusta del governo morale, di un salvatore o santificatore; e nel professare di crederci, useremmo parole senza attribuire ad esse precisi distinti significati. Perciò la conoscenza di sé è alla radice di tutta la reale conoscenza religiosa; ed è invano – peggio che invano -, un inganno e un danno, pensare di comprendere le dottrine cristiane come cose ovvie, unicamente in merito all’insegnamento che si può ricavare dai libri, o dall’ascolta­re prediche, o da qualsiasi altro mezzo esteriore, per quanto eccellente, preso in sé e per sé. Perché è in proporzione alla conoscenza e alla comprensione del nostro cuore e della nostra natura, che comprendiamo cosa significhi Dio gover­natore e giudice, ed è in proporzione alla nostra compren­sione della natura della disobbedienza e della nostra reale colpevolezza, che avvertiamo quale sia la benedizione della rimozione del peccato, della redenzione, del perdono, della santificazione, che altrimenti si riducono a mere parole. La conoscenza di sé è la chiave dei precetti e delle dottrine della Scrittura. […] E allora, quan­do abbiamo sperimentato cosa sia leggere se stessi, avremo utilità dalle dottrine della Chiesa e della Bibbia.

Certo, la conoscenza di sé può avere gradazioni. Probabilmente nessuno ignora se stesso totalmente; e anche il cristiano più maturo conosce se stesso solo «in parte». Comunque, la maggioranza degli uomini si accontentano di una esigua conoscenza del loro cuore, e quindi di una fede superficiale. Questo è il punto sul quale mi propongo di insistere. Gli uomini non si turbano all’idea di avere innu­merevoli colpe nascoste. Non ci pensano, non le vedono né come peccati né come ostacoli alla forza della fede, e continuano a vivere come se non avessero nulla da apprendere.

Consideriamo con attenzione la forte presunzione che esiste, che cioè noi tutti abbiamo delle serie colpe nascoste: un fatto che, credo, tutti sono pronti ad ammettere in termi­ni generali, anche se pochi amano considerare con calma e in termini pratici; cosa che ora cercherò di fare.

1. Il metodo più rapido per convincerci dell’esistenza in noi di colpe ignote a noi stessi, è considerare come chiara­mente vediamo le colpe nascoste degli altri. Non vi è ragione per supporre che noi siamo diversi dagli altri attorno a noi; e se noi vediamo in loro dei peccati che essi non vedono, si può presumere che anche loro abbiano le loro scoperte su di noi, che ci sorprenderebbe di ascoltare. […] Ad esempio: ci sono persone che agiscono principalmente per interesse, mentre pensano di compiere azioni generose e virtuose; si spendono gratuitamente, oppure si mettono a rischio, lodati dal mondo e da se stessi, come se agissero per alti principi. Ma un osserva­tore più attento può scoprire, quale causa principale delle loro buone azioni, sete di guadagno, amore degli applausi, ostentazione, o la mera soddisfazione di essere indaffarato e attivo. Questa può essere non solo la condizione degli altri, ma anche la nostra; o, se non lo è, può esserlo una infermità simile, la soggezione a qualche altro peccato, che gli altri vedono, e noi non vediamo.

Ma se dite che non c’è alcuno che veda in noi dei peccati di cui noi non siamo consapevoli (benché questa sia una supposizione alquanto temeraria da fare), pure, perché mai la gamma delle nostre mancanze dovrebbe dipendere dalla conoscenza accidentale che qualcuno ha di noi? Se anche tutto il mondo parlasse bene di noi, e le persone buone ci salutassero fraternamente, dopo tutto vi è un Giudice che prova le reni e il cuore. Egli conosce il nostro stato reale. Lo abbiamo pressantemente supplicato di dischiuderci la conoscenza del nostro cuore? Se no, questa stessa omissione fa presumere contro di noi. Anche se dappertutto nella Chiesa fossimo lodati, possiamo essere certi che egli vede in noi innumerevoli pecche, profonde e odiose, di cui non abbiamo l’idea. Se l’uomo vede tanto male nella natura umana, che cosa deve vedere Dio? «Se il nostro cuore ci con­danna, Dio è più grande del nostro cuore, e conosce ogni cosa». Dio non solo registra ogni giorno contro di noi atti peccaminosi, di cui noi non siamo consapevoli, ma anche i pensieri del cuore. Gli impulsi dell’orgoglio, della vanità, della concupiscenza, dell’impurità, del malumore, del risen­timento, che si susseguono nelle momentanee emozioni di ogni giorno, sono a lui noti. Noi non li riconosciamo; ma quanto importante sarebbe riconoscerli!

2. Questa considerazione ci è suggerita già a prima vista. Riflettiamo ora sulla scoperta di nostre mancanze nascoste, provocate da incidenti occasionali. Pietro seguiva Gesù bal­danzosamente, e non sospettava del suo cuore, fino a che nell’ora della tentazione non lo tradì, e lo portò a rinnegare il suo Signore. Davide visse anni di felice obbedienza men­tre conduceva vita privata. Quale fede illuminata e calma appare dalla sua risposta a Saul a proposito di Golia: «Il Signore mi ha liberato dagli artigli del leone e dagli arti­gli dell’orso. Egli mi libererà dalle mani di questo filisteo»! Anzi, non soltanto nella sua vita privata e segregata, fra gravi tribolazioni, e fra gli abusi di Saul, egli continuò a essere fedele al suo Dio; anni e anni egli procedette, irrobu­stendo il suo cuore, e praticando il timor di Dio; ma il potere e la ricchezza indebolirono la sua fede, e ad un certo punto prevalsero su di lui. Venne il momento in cui un profeta poté ritorcere su di lui: «Tu sei quell’uomo» che tu hai condannato. A parole, aveva conservato i suoi principi, ma li aveva smarriti nel suo cuore. Ezechia è un altro esempio di un uomo religioso che resse bene alla tribolazione, ma che ad un certo punto cadde sotto la tentazione delle ricchezze, che al seguito di altre grazie straordinarie gli erano state concesse. – E se le cose stanno così nel caso dei santi, predi­letti di Dio, quale (possiamo supporre) sarà il nostro vero stato spirituale ai suoi occhi? È questo un pensiero serio. L’ammonimento da dedurne è di non pensare mai di avere la dovuta conoscenza di sé stessi fino a che non si sia stati esposti a molti generi di tentazioni e provati da ogni lato. L’integrità da un lato del nostro carattere non attesta l’inte­grità da un altro lato. Non possiamo dire come ci comporte­remmo se venissimo a trovarci in tentazioni differenti da quelle che abbiamo sperimentato finora. Questo pensiero deve tenerci in umiltà. Siamo peccatori, ma non sappiamo quanto. Solo lui che è morto per i nostri peccati lo sa.

3. Fin qui non possiamo scansarci: dobbiamo ammettere di non conoscere noi stessi da quei lati nei quali non siamo stati messi alla prova. Ma al di là di questo; se non ci cono­scessimo nemmeno là dove siamo stati messi alla prova e trovati fedeli? Una circostanza notevole e spesso rilevata è che, se guardiamo ad alcuni dei santi più eminenti della Scrittura, troveremo che i loro errori recensiti si sono verifi­cati in quelle parti dei loro doveri nelle quali ciascuno di loro era stato maggiormente provato, e in cui generalmente aveva dimostrato perfetta obbedienza. Il fedele Abramo per mancanza di fede negò che Sara fosse sua moglie. Mosè, il più mite degli uomini, fu escluso dalla terra promessa per una intemperanza verbale. La sapienza di Salomone fu sedotta ad inchinarsi agli idoli. […] Se dunque uomini, che senza dubbio conoscevano se stessi meglio di quanto ci conosciamo noi, avevano in sé tanta do­se di nascosta infermità, persino in quelle parti del loro ca­rattere che erano più libere da biasimo, che dobbiamo pen­sare di noi stessi? E se le nostre stesse virtù sono così mac­chiate da imperfezioni, che devono essere le molteplici e ignote circostanze aggravanti la colpa dei nostri peccati?Questa è una terza presunzione contro di noi.

4. Pensate anche a questo. Non c’è nessuno che, comin­ciando a esaminare se stesso e a pregare per conoscere se stesso (come Davide nel testò), non trovi entro di sé mancan­ze in abbondanza che prima gli erano interamente o quasi interamente ignote. Che sia così, lo apprendiamo da biogra­fie e agiografie, e dalla nostra esperienza. È per questo che gli uomini migliori sono sempre i più umili: avendo nella loro mente una unità di misura dell’eccellenza morale più esigente di quella che hanno gli altri, e conoscendo meglio se stessi, intravedono l’ampiezza e la profondità della propria natura peccaminosa, e sono costernati e spaventati di sé. Gli’uomini, in genere, non possono capire questo; e se a volte l’autoaccusa, abituale per gli uomini religiosi, si esprime a parole, pensano che provenga da ostentazione, o da uno strano stato di alterazione mentale, o da un accesso di malinconia e depressione. Mentre la confessione di un buon uomo contro se stesso è realmente una testimonianza contro tutte le persone irriflessive che l’ascoltano, e un invito loro rivolto ad esaminare il loro cuore. Senza dubbio, più esami­niamo noi stessi, più imperfetti e ignoranti ci troveremo.

5. Anche se un uomo persevera in preghiera e vigilanza fino al giorno della sua morte, non arriverà al fondo del suo cuore. Benché conosca sempre più di se stesso col diventare più serio e coscienzioso, pure la piena manifestazione dei segreti che là si trovano è riservata per l’altro mondo. E all’ultimo giorno, chi può dire lo spavento e il terrore di un uomo che sulla terra è vissuto per se stesso, assecondan­do la sua volontà perversa, seguendo nozioni improvvisate del vero e del falso, eludendo la croce e i rimproveri di Cristo, quando i suoi occhi si apriranno di fronte al trono di Dio, e gli saranno evidenti i suoi innumerevoli peccati, la sua abituale dimenticanza di Dio, l’abuso dei suoi talenti, il mal-uso e spreco del suo tempo, e l’originaria inesplorata peccaminosità della sua natura? Per gli stessi veri servi di Cristo, la prospettiva è terrificante. […] Senza dubbio, tutti dovremo sopporta­re la cruda e terrificante visione del nostro vero io; dovremo sopportare quell’ultima prova del fuoco prima dell’accetta­zione, ma che sarà una agonia spirituale e una seconda morte per tutti coloro che allora non saranno sostenuti dalla forza di colui che morì per portarci in salvo oltre quel fuoco, e nel quale essi sulla terra abbiano creduto.

[…] Richiamiamoci alla mente gli impedimenti che si frappongono alla conoscenza di sé, e al senso della propria ignoranza, e giudicate.

1.Per prima cosa, la conoscenza di sé non è una cosa ovvia; comporta fatica e lavoro. Supporre che la conoscenza delle lingue sia data dalla natura e supporre che la cono­scenza del nostro cuore sia naturale, sarebbero la stessa cosa. Il semplice sforzo di una abituale riflessività è penoso per molti, per non parlare della difficoltà del riflettere cor­rettamente. Chiedersi perché facciamo questo o quello, con­siderare i principi che ci guidano, e vedere se agiamo in coscienza o per più scadenti motivi, è penoso. Siamo pieni di occupazioni, e il tempo libero che abbiamo siamo pronti a dedicarlo a qualche impegno meno severo e affaticante.

2.L’amor proprio, poi, vuole la sua parte. Speriamo il meglio, e questo ci risparmia la noia di esaminarci. L’amor proprio è istintivamente conservatore. Pensiamo di caute­larci sufficientemente ammettendo che al massimo possano esserci rimaste nascoste solo alcune colpe; e le aggiungiamo quando pareggiamo i conti con la nostra coscienza. Ma se conoscessimo la verità, troveremmo che non abbiamo che debiti, debiti maggiori di quanto pensiamo e sempre in aumento.

3.Un tale giudizio favorevole di noi stessi sarà particolar­mente in noi prevalente, se avremo la sfortuna di avere inin­terrottamente buona salute, euforia, comodità. La salute del corpo e della mente è una grande benedizione, se la si sa portare; ma se non è tenuta a freno da «veglie e digiuni», darà comunemente alla persona l’illusione di essere migliore di quanto sia in realtà. Le difficoltà ad agire correttamente, sia che provengano dall’interiorità che dall’esterno, mettono a prova la coerenza; ma quando le cose procedono senza intoppi, e per attuare qualcosa non abbiamo che da deside­rarlo, non possiamo dire fino a che punto agiamo o non agiamo per senso del dovere. L’euforico si compiace di tutto, specie di se stesso. Può agire con vigore e prontezza, e scambiare per fede quella che è meramente una sua energia costitutiva. È allegro e contento; e pensa che sia quella la pace cristiana. Se è felice in famiglia, egli scambia tali affetti natu­rali per la benevolenza cristiana e per la solida tempra dell’a­more cristiano. In breve, egli è nel sogno, dal quale nulla potrebbe salvarlo tranne una umiltà più profonda; ma nulla, ordinariamente, lo libera tranne l’incontro con la sofferenza. […]

4.C’è ancora da considerare la forza dell’abitudine. La coscienza, inizialmente, ci ammonisce contro il peccato; ma se non è ascoltata, smette presto di richiamarci; in tal modo il peccato, prima conosciuto, diventa occulto. Sembra allora (ed è questa una riflessione impressionante) che più colpe­voli siamo, meno lo sappiamo; e questo perché più spesso pecchiamo, meno ne siamo angosciati. Penso che molti di noi, riflettendo, possano ritrovare, nella loro personale espe­rienza, esempi del fatto che noi gradualmente dimentichia­mo la scorrettezza di certi comportamenti, di cui inizial­mente avevamo avuto l’esatta percezione. Tanta è la forza dell’abitudine. Per suo tramite, ad esempio, gli uomini giungono a permettersi vari generi di disonestà. Giungono, negli affari, ad affermare ciò che non è vero, o quello che non sono sicuri che sia vero. Imbrogliano e ingannano; anzi, probabilmente cadono ancora più in basso nei comporta­menti egoistici, senza accorgersene, mentre continuano meticolosamente nell’osservanza dei precetti della Chiesa e conservano una religiosità formale. Oppure, indulgenti con se stessi, si danno ai piaceri della mensa, fanno sfoggio di residenze lussuose, e meno che mai pensano ai doveri cri­stiani della semplicità e dell’astinenza. Non si può supporre che essi da sempre abbiano ritenuto giustificabile un tal modo di vivere; perché altri ne sono colpiti; e ciò che altri avvertono ora, senza dubbio anch’essi lo avvertivano un tempo. Ma tale è la forza dell’abitudine. Un terzo esempio è quello del dovere della preghiera personale; inizialmente viene omessa con rimorso, ma ben presto con indifferenza. Ma non è meno peccato per il solo fatto che non avvertiamo che lo sia. L’abitudine l’ha resa un peccato nascosto.

5. Alla forza dell’abitudine deve essere aggiunta quella degli usi e costumi. Qui ogni epoca ha le sue storture; e que­ste hanno tale influenza, che persino le persone dabbene, per il fatto di vivere nel mondo, sono inconsapevolmente portate fuori strada da esse. In un’epoca è prevalso un fero­ce odio persecutorio contro gli eretici; in un’altra, un’odiosa esaltazione della ricchezza e dei mezzi per procurarsela; in un’altra, una irreligiosa venerazione delle facoltà pura­mente intellettuali; in un’altra, il lassismo morale; in un’altra, la noncuranza degli ordinamenti e della disciplina della Chiesa. Le persone religiose, se non fanno speciale attenzio­ne, risentiranno delle deviazioni di moda nella loro epoca […]. Tuttavia la loro ignoranza del male non cambia la natura del peccato: il peccato è sempre quello che è, solo le abitudini generali lo rendono segreto.

6. Ora, qual è la nostra principale guida in mezzo alle perverse e seducenti costumanze del mondo? La Bibbia, evi­dentemente. «Il mondo passa, ma la parola del Signore dura in eterno». Quanto esteso e rafforzato deve necessariamen­te essere questo segreto dominio del peccato su di noi, se consideriamo quanto poco leggiamo la Sacra Scrittura! La nostra coscienza si corrompe, è vero; ma la parola della verità, anche se cancellata dalle nostre menti, rimane nella Scrittura, luminosa nella sua eterna giovinezza e purezza. Eppure, non studiamo la Sacra Scrittura per svegliare e risa­nare le nostre menti. Chiedetevi, fratelli miei: quanto cono­sco io della Bibbia? Vi è una parte qualsiasi della Bibbia che abbiate letto con attenzione e per intero? Per esempio, uno dei Vangeli? Conoscete qualcosa di più delle opere e delle parole di nostro Signore di quanto avete sentito leggere in chiesa? Avete confrontato i suoi precetti, o quelli di S. Paolo, o quelli di qualcun altro degli Apostoli, con la vostra con­dotta giornaliera? Avete pregato e fatto degli sforzi per conformarvi ad essi? Se sì, bene; perseverate in questo. Se no, è chiaro che non possedete, perché non avete cercato di pos­sedere, un’idea adeguata di quel perfetto carattere cristiano al quale avete il dovere di tendere, e nemmeno della vostra attuale situazione di peccato; siete nel numero di quelli che «non vengono alla luce, perché non siano svelate le loro opere».

Queste osservazioni possono servire per darvi il senso della difficoltà di raggiungere una giusta conoscenza di noi stessi, e del conseguente pericolo a cui siamo esposti: di darci pace, quando non c’è pace.

Molte cose sono contro di noi; è chiaro. Ma il nostro pre­mio futuro non meriterà che lottiamo? E non merita che peniamo e soffriamo, se con ciò potremo sfuggire al fuoco inestinguibile? Ci aggrada il pensiero di scendere nella tomba con sul capo un peso di peccati ignorati e non riprovali? Possiamo accontentarci di una così irreale fede in Cristo, che ha lasciato uno spazio insufficiente all’umiliazione, o alla gratitudine, o al desiderio e sforzo di santificazione? Come possiamo sentire l’urgenza dell’aiuto di Dio, o la nostra dipendenza da lui, o il nostro debito verso di lui, o la natura del suo dono, se non conosciamo noi stessi? […] Se ricevete la verità rivelata unicamente tramite gli occhi e le orecchie, crederete a delle parole, non a delle cose; e ingannerete voi stessi. Potrete ritenervi saldi nella fede, ma sarete nella più totale ignoranza.

L’unica pratica veramente interprete dell’insegnamento scritturistico è l’obbedienza ai comandamenti di Dio, che implica conoscenza del peccato e della santità, e il desiderio e lo sforzo di piacere a lui. Senza cono­scenza di sé siete personalmente privi di radice in voi stessi; potete resistere per qualche tempo, ma a fronte dell’afflizio­ne o della persecuzione la vostra fede verrà meno. Questo è perché molti in questo tempo (ma pure in ogni epoca) diventano infedeli, eretici, scismatici, sleali spregiatori della Chiesa. Ripudiano la forma della verità, perché non è stata per loro più che una forma. Non reggono, perché non hanno mai provato che Dio fa grazia; e non hanno mai avuto espe­rienza del suo potere e del suo amore, perché non hanno mai conosciuto la loro propria debolezza e indigenza. Que­sta può essere la condizione futura di alcuni di noi, se oggi induriamo il nostro cuore: l’apostasia. Un giorno, in questo mondo, potremmo trovarci apertamente fra i nemici di Dio e della sua Chiesa.

Ma anche se ci fosse risparmiata una tale vergogna, quale vantaggio potremmo, alla fine, avere dal professare senza comprendere? Dire che si ha la fede, quando non si hanno le opere? In tal caso rimarremmo nella vigna celeste come una pianta rachitica, infruttuosi, privi in noi del principio interiore di crescita. E, alla fine, saremmo svergognati di fronte a Cristo e ai suoi angeli, come «alberi di fine stagione, senza frutto, due volte morti, sradicati», anche se morissi­mo in esteriore comunione con la Chiesa.

Pensare a queste cose, e esserne allarmati, è il primo passo verso una obbedienza accettabile; sentirsi tranquilli, è essere in pericolo. Dovremo sperimentare cos’è il peccato nell’al di là, se non ce ne rendiamo conto ora. Dio ci dà ogni grazia per scegliere la sofferenza del pentimento, prima del sopraggiungere dell’ira ventura.”

John Henry Newman – Sermoni sulla Chiesa. Conferenze sulla dottrina della giustificazione. Sermoni penitenziali. (Fonte: THE INTERNATIONAL CENTRE OF NEWMAN FRIENDS)

 

Beato John Henry Newman: “I cristiani – avendo Cristo nel cuore – sorreggono il mondo (Amor meus crucifixus est). Più ci avviciniamo a Lui, più entra in noi; più abita in noi, più intimamente lo possediamo… Ecco, perché è così facile per noi morire per la nostra fede, tanto da stupire il mondo… Perché non ti avvicini a Lui?”

Nel romanzo “Callista”, Newman ha dimostrato cosa intende dire quando parla della “profonda ferita della natura umana” nel dialogo tra Callista e il prete Cecilio (che in realtà è Cipriano, Vescovo di Cartagine):

“Vuol dire – disse Callista con calma – che dopo questa vita finirò nel Tartaro per l’eternità?

– Tu sei felice? – chiese il sacerdote a sua volta.

Callista indugiò, abbassò gli occhi e poi disse con voce chiara e profonda:

– No.

Abbi il coraggio di guardare in faccia la realtà. Ogni giorno che passa senti su di te un peso in più. Questa è la legge della nostra vita terrena… Non puoi rifiutare di accettare ciò che non è un’opinione ma un fatto.

Voglio dire che questo peso di cui parlo non è solo un dogma della nostra fede, ma un fatto naturale innegabile. E i nostri sentimenti non potranno mai cambiarlo; anche se tu vivessi duecento anni, constateresti che è sempre più vero. Alla fine dei duecento anni, la tua infelicità sarebbe tale da non far rallegrare neppure i tuoi peggiori nemici….

– Ma tu non vivrai tanto, dovrai morire. Forse mi risponderai che così cesserai d’esistere. So però che non la pensi così. Tu pensi, come me e come una moltitudine d’altri individui, che continuerai a vivere, che continuerai ad esistere.

– Se, d’altra parte – continuò Cecilio, senza badare alla sua interruzione – tutti i tuoi pensieri seguono una stessa direzione; se tutti i tuoi bisogni, desideri, aspirazioni sono rivolti a un solo oggetto, e suppongono, per il fatto stesso della loro esistenza, che esista anche tale oggetto; e se niente in questo mondo può appagarli, e se una dottrina ti dice che vengono da quell’oggetto che hai presentito e di cui ti parlano, e così sono una risposta alla tua brama; e se quelli che hanno accettato quella risposta dicono che è soddisfacente; allora,Callista, non ti sentirai obbligata almeno a guardare quella soluzione, a esaminare ciò che ti hanno detto, e a chiedere il suo aiuto, se può darti la forza di credere in Lui?

– E’ ciò che mi diceva una mia vecchia schiava – commentò improvvisamente Callista -… Qual è il vostro rimedio, il vostro oggetto, il vostro amore, o maestro cristiano?…

Cecilio tacque un momento, come se non trovasse la risposta. Alla fine disse:

– Ogni individuo si trova nella tua situazione. Purtroppo, non amiamo l’unico amore che dura per sempre.

Noi amiamo le realtà che passano, che finiscono. Dato che le cose stanno così, colui che dovremmo amare ha deciso di riportarci a sé. Per questo, è venuto in questo mondo, sotto forma di uomo. E sotto questa forma umana, ci apre le braccia e cerca di farci tornare a Lui, nostro Creatore. Questa è la nostra fede, questo è il nostro amore, Callista…

È il solo che ama le anime – disse con foga Cecilio – ed ama ciascuno di noi come se fosse l’unica persona da amare. È morto per ciascuno di noi come se fossimo l’unica persona per cui morire. È morto su una croce obbrobriosa. “Amor meus crucifixus est”. L’amore ispirato da Lui dura per sempre, perché è l’amore dell’immutabile. È un amore che appaga perfettamente, perché è inesauribile. Più ci avviciniamo a Lui, più entra in noi; più abita in noi, più intimamente lo possediamo… Ecco, perché è così facile per noi morire per la nostra fede, tanto da stupire il mondo… Perché non ti avvicini a Lui? Perché non lasci le creature per il creatore?

Sì, la separazione dal creatore, che mette il creato al posto di Dio, questa è “la profonda ferita della natura umana”, quella ferita di cui il mondo si gloria ma che minaccia la caduta del mondo. Eppure il mondo, simile a un bambino piagnucoloso che allontana dalla sua bocca la medicina necessaria per la sua guarigione e mena colpi alla sua mamma che gliela porge, non solo rifiuta il rimedio per la sua ferita mortale, ma arriva persino a perseguitare il datore del rimedio.

Sì, sono i cristiani che sorreggono il mondo, con la loro comunione in Cristo, la loro santità, il loro vivere nel mondo senza appartenere al mondo, col dare tutto per amore di Cristo, disposti a perdere tutto pur di restare con Lui, in una parola, seguendo colui dal quale hanno ereditato il proprio nome. Sì, malgrado le forze contrarie, i cristiani – avendo Cristo nel cuore – sorreggono il mondo, non a guisa di una fascia che stringe insieme una ferita, ma come un nutrimento e una cura attenta che aiuta la ferita a guarire dal di dentro.”

(Beato John Henry Newman,Callista, Paoline, Roma 1983, p. 126-129.)

Sant’Anselmo d’Aosta: “è indispensabile che, chiunque desideri che Dio dimori in lui, abbia la purezza del cuore” “Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è indispensabile che ne provi dolore.”

 

“Beati i puri di cuore perché vedranno Dio. (Mt 5,8)”

 

“Non può l’uomo scorgere il cuore dell’uomo, poiché <<nessuno conosce i segreti dell’uomo se non lo spirito dell’uomo che è in lui>> (1 Cor 2,11). Al contrario Dio, al quale nulla rimane nascosto, scorge senza impedimento il cuore dell’uomo e ciò a cui tende.

Chi l’avrà puro, potrà vedere Dio; chi invece non l’avrà puro, senza dubbio non potrà vederlo in alcun modo. E allora è indispensabile che, chiunque desideri che Dio dimori in lui, abbia la purezza del cuore. Nessuno la potrà avere, se non libererà il suo cuore dalle brame terrene, e non si sforzerà di ardere d’amore celeste. Nella misura in cui amerà il mondo, nella stessa misura sarà privato dell’amore celeste. E tanto più ciascuno abbandona Cristo, quanto più col peccare si allontana dalla giustizia di Dio.

( … ) Chi pertanto vuol divenire dimora dello spirito del Signore, conservi la purezza del cuore, allontani i desideri della carne. ( … ) La nostra volontà sia pertanto pura, per essere chiamata ed essere sposa di Dio; né macchia alcuna d’impurità la deturpi, per non divenire adultera. Finché s’accorda al volere di Dio, è pura, è sposa; quando invece discorda dal suo volere, si guasta, s’insozza, si prostituisce.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap. 14, pag. 269, 271.)

 

“… nell’ora della tentazione prima di dar compimento alla colpa, non si deve mai pensare alla misericordia di Dio, ma alla sua giustizia e al suo giudizio, alla sua ira e al suo sdegno. Ciò si deve ponderare, ciò portare davanti agli occhi della mente, ciò prendere sovente in considerazione con gran spavento.

Quando uno è tentato, non deve dire: <<la misericordia>> di Dio <<è grande>> (Sal 86,85,13); ben si dire: <<E’ terribile cadere nelle mani del Dio vivente>> (Eb 10,31). Quando la brama di lussuria agita chicchessia, non pensi che, in qualsiasi momento il peccatore li deplori, tutti i suoi peccati non saranno più ricordati, ma piuttosto, ripensandovi di frequente, consideri che, chiunque pecchi sperando, è maledetto. Pure questo: <<Guai, gente peccatrice, popolo carico di iniquità! Razza di scellerati, figli corrotti!>> (Is 1,4). ( … ) Nell’ora della tentazione, deve ciascuno sforzarsi in tutti i modi per non essere vinto, perché, sebbene Dio abbia garantito il perdono a chi pecca, non ha però promesso di dare a chi pecca il desiderio di pentirsi.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap.1, pag.185)

 

“Quando la suggestione del peccato colpisce un animo che dall’amore per le cose presenti tende verso i beni eterni, lo lascerà subito andare, se quell’animo si mantiene fermamente nel suo proposito. Ma se rivolgendo la sua attenzione alla suggestione, quest’animo le consentirà di entrare dentro di sé, e quasi eccitandola la rimugina col pensiero, essa lo inquieterà sempre più frequentemente pur non procurandogli ferite, perché di semplice tentazione si tratta per sempre.

Ma se l’animo la culla troppo a lungo, il cane pesante si trasforma nel cagnetto, ossia la suggestione diventa piacere, il quale attacca con più accanimento e se non è scacciato prontamente ferisce l’anima. Ecco perché, non appena comincia a insorgere, l’anima sposa di Cristo deve respingerlo, pensando come le sarebbe ignominioso comparire al suo cospetto insozzata da un piacere così vergognoso. Se infatti l’anima non respingerà il piacere, il cagnetto si trasforma nell’enorme mastino, ossia il piacere si fa consenso che impossessandosi dell’anima, se essa non vi reagisce con grande energia, la uccide.

Ma, non appena cerca di aggredire l’anima, questa deve opporsi con grande energia, cioè annientandolo in sé opponendogli un grandissimo timore della morte eterna. Dunque non prestiamo nessuna attenzione alla suggestione, reprimiamo prontamente il piacere, opponiamoci con forza al consenso. E così sforziamoci di custodire il nostro cuore affinché il diavolo non sia messo in condizione di violarlo neppure con un solo pensiero superfluo.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, SUI COMPORTAMENTI UMANI MEDIANTE SIMILITUDINI, De Humanis moribus, capitolo 40, pag.47)

 

“Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è pertanto indispensabile che ne provi dolore.”

 

“Vi sono infatti taluni i quali ammettono di essere peccatori, ma non ne provano dolore alcuno. E’ indispensabile che costoro si dolgano, se vogliono meritare il perdono; poiché non conta che uno si riconosca peccatore, se non ne prova dolore. Se uno infatti peccasse contro il suo signore e non se ne dolesse, cosa pensi che direbbe di lui il signore? Come rimettergli l’offesa, finché sapesse che lui non se ne duole per nulla? Più che altro parrebbe buffo il suo chiedere perdono di cosa della quale non si duole. Chiunque desideri ottenere il perdono delle colpe commesse, è pertanto indispensabile che ne provi dolore.

Viene poi la confessione, perché deve il peccatore confessare in che modo conosce se stesso e se ne duole.”

(Sant’Anselmo d’Aosta, Dottore della Chiesa, I detti di Anselmo, cap.1, pag.177)

Pseudo-Macario (San Macario il Grande) : Con un cuore umile e povero “Il Peccato, la Grazia e il Libero Arbitrio”

 

PSEUDO-MACARIO (SAN MACARIO IL GRANDE) : CON UN CUORE UMILE E POVERO “IL PECCATO, LA GRAZIA E IL LIBERO ARBITRIO”

1. Il vaso prezioso dell’anima si trova a grande profondità, come è detto da qualche parte: Egli scruta l’abisso e il cuore. Quando l’uomo infatti si fu allontanato dal comandamento e si trovò sotto una sentenza di collera, il peccato lo ridusse in suo potere, e il peccato è come un abisso di amarezza, sottile e profondo; penetrato nell’uomo, prese possesso dei pascoli dell’anima fin nei più profondi recessi. Potremmo paragonare l’anima e il peccato unito ad essa a un albero enorme dai molti rami, le cui radici sono immerse nelle profondità della terra; allo stesso modo il peccato, penetrando nell’anima, ne ha occupato i più profondi recessi, è diventato abitudine e predisposizione, è cresciuto con ciascuno dall’infanzia sviluppandosi con lui e insegnandogli il male.

2. Quando l’energia della grazia divina ricopre l’anima nella misura della fede di ciascuno e questa accoglie l’aiuto dall’alto, la grazia ricopre l’anima ancora parzialmente. Nessuno pensi che tutta l’anima sia illuminata. Dentro di essa resta ancora molto spazio per il peccato e sono necessarie all’uomo molta pena e fatica per accordarsi alla grazia che ha ricevuto. Per questo motivo la grazia divina iniziò a visitare l’anima parzialmente, pur potendo purificare l’uomo e portare a compimento la sua opera in un istante; fa così per mettere alla prova la libera volontà dell’uomo e vedere se mantiene integro l’amore di Dio e in nulla si unisce al malvagio, ma consegna tutto se stesso alla grazia. E così l’anima, che nel tempo ha dato buona prova di sé e non ha contristato in nulla la grazia, né le ha arrecato offesa, a poco a poco riceve aiuto. E la grazia stessa prende posto nell’anima e si radica nelle regioni e nei pensieri più profondi quando l’anima offre molteplici e buone prove e corrisponde alla grazia, finché viene tutta avvolta dalla grazia celeste che finalmente regna in essa.

3. Ma se uno non possiede una grande umiltà, viene consegnato a Satana e spogliato della grazia divina venuta a lui, e subisce la prova di numerose tribolazioni, e allora appare manifesta la sua presunzione perché egli resta ignudo e miserabile. Chi è ricco della grazia di Dio deve custodirsi in grande umiltà e contrizione di cuore e ritenersi un povero, uno che nulla possiede. Ciò che ha, infatti, non gli appartiene, un altro glielo ha dato e, quando vuole, glielo toglie. Chi si umilia in questo modo davanti a Dio e agli uomini può custodire la grazia che gli è stata data, come dice il Signore: Chi si umilia sarà innalzato. Anche se è un eletto di Dio, si consideri riprovato e, pur essendo fedele, si reputi indegno. Tali anime infatti sono gradite a Dio e sono vivificate nel Cristo, al quale è gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen.

Sforzati dunque di piacere al Signore attendendolo sempre dentro di te (…). E vedi come viene a te e stabilisce la sua dimora presso di te. Quanto più unifichi il tuo cuore per la ricerca di lui, tanto più egli è costretto dalla sua compassione e dalla sua bontà a venire a te e a riposare in te. Egli sta a guardare il tuo cuore, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti (…).

 
(Tratto da PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco, ed. Qiqaion a cui si rimanda vivamente per l’approfondimento)

 

 

Pseudo Macario, Consigli spirituali:

“Il Cristianesimo è cibo e bevanda; quanto più uno se ne nutre, tanto più dalla sua dolcezza la mente è attratta trovandosene sempre insaziabilmente bisognosa. In verità lo Spirito è cibo e bevanda che mai dà sazietà.

Quando il pittore è intento a fare il ritratto del re ne deve avere davanti Il volto, cosicchè quando il re posa davanti a lui con abilità e grazia lo ritrae: ma se il re è girato dalla parte opposta, il pittore non può compiere l’opera sua, perchè il suo occhio non ne vede il volto. Così Cristo, pittore perfetto, dipinge i lineamenti del suo volto di uomo celeste su quei fedeli che sono verso di Lui costantemente orientati. Se qualcuno non lo fissa di continuo, disprezzando ogni cosa a Lui contraria, non avrà in se stesso l’immagine del Signore disegnata dalla sua luce.

Il nostro volto sia sempre in Lui fisso, con fede e amore, trascurando tutto per essere solo in Lui intenti, affinchè nel nostro intimo si imprima la sua immagine, e così portando in noi Cristo possiamo giungere alla vita senza fine.”

(Pseudo Macario, Consigli spirituali)

 

« La sua casa siamo noi » (Eb 3, 6)

Il Signore si stabilisce in un’anima fervente. Fa di essa il suo trono di gloria, vi si siede e vi dimora… Come la casa abitata dal suo padrone è tutta grazia, ordine e bellezza, così l’anima con la quale e nella quale il Signore dimora è tutta ordine e bellezza. Possiede il Signore e tutti i suoi tesori spirituali. Egli ne è l’abitante, ne è il capo.

Invece, orrenda è la casa il cui padrone è assente, il cui Signore è lontano ! Va in rovina, crolla, si riempie di sozzure e di disordine. Diventa, secondo la parola del profeta, un covo di serpenti e di demoni (Is 34, 14). La casa abbandonata si riempie di gatti, di cani, di immondizie. Com’è infelice quell’anima che non può rialzarsi dalla sua caduta funesta, che si lascia trascinare e giunge ad odiare il suo sposo e strappare i suoi pensieri da Gesù Cristo !

Ma quando il Signore la vede raccogliersi e cercare giorno e notte il suo Signore, gridare verso di lui com’egli stesso la invita : « Pregate sempre, senza stancarvi », allora « Dio le farà giustizia » (Lc 18, 1.7) – l’ha promesso – e la purificherà da ogni cattiveria. La farà sua sposa « senza macchia, né ruga » (Ef 5, 27). Credi nella sua promessa ; è verità. Guarda se la tua anima ha già trovato la luce che rischiarerà i suoi passi e il Signore che è suo cibo e bevanda. Queste cose ti mancano ancora ? Cercale giorno e notte, le troverai.

(Pseudo-Macario,Omelia 33 ; PG 34, 741-743)

Rivelazione della Vergine Maria, Madre di Dio: “Così Lucifero continuamente trascina all’Inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia” “Facendo dimenticare agli uomini i ‘Novissimi’: Morte, Giudizio, Inferno e Gloria”

Dalla “Mistica città di Dio,Vita della Vergine Madre di Dio” rivelata alla Venerabile Suor Maria di Ágreda

Insegnamento della Regina del cielo

 

773. Figlia mia, tutte le opere del mio Figlio santissimo e mie sono colme di insegnamenti e istruzioni per gli uomini che le considerano con attenta stima. Sua Maestà si allontanò da me affinché cercandolo con dolore e lacrime lo ritrovassi poi con gioia a mio vantaggio spirituale. Anche tu devi cercare il Signore con amaro dolore, affinché questo dolore ti procuri un’incessante sollecitudine, senza riposare su cosa alcuna per tutto il tempo della tua vita, sino a quando tu non arrivi a possederlo e non lo lasci più. Perché tu comprenda meglio il mistero del Signore, sappi che la sua sapienza infinita plasma le creature capaci della sua eterna felicità ponendole sì sul cammino che conduce ad essa, ma allo stesso tempo così lontane e non sicure di arrivarvi. Fintanto che non siano giunte a possedere l’eterna felicità, vivano sempre pronte e nel dolore, affinché la sollecitudine generi in esse un continuo timore e orrore per il peccato, il quale fa perdere la beatitudine. Anche nel tumulto della conversazione umana la creatura non si lasci legare né avviluppare dalle cose visibili e terrene. Il Creatore aiuta in questa sollecitudine, aggiungendo alla ragione naturale le virtù della fede e della speranza, le quali stimolano l’amore con cui cercare e trovare il fine ultimo. Oltre a queste virtù e ad altre infuse con il battesimo, manda ispirazioni e aiuti per ridestare e rimuovere l’anima lontana dallo stesso Signore, affinché non lo dimentichi né si scordi di se stessa mentre è priva della sua amabile presenza. Anzi continui la sua strada sino a giungere al bene desiderato, dove troverà la pienezza del suo amore e dei suoi desideri.

774. Potrai, dunque, capire quanto grande sia la cecità dei mortali e quanto scarso il numero di coloro che si concedono il tempo di considerare attentamente l’ordine meraviglioso della loro creazione e giustificazione e le opere che l’Altissimo ha compiuto per così alto fine. A questa dimenticanza fanno seguito tanti mali, quanti ne soffrono le creature attaccandosi al possesso dei beni terreni e dei piaceri ingannevoli, come se questi fossero la loro felicità e il fine ultimo: è cattiveria grande, rivolta contro la volontà del Signore. I mortali vogliono in questa breve e transitoria vita dilettarsi di ciò che è visibile, come se fosse il loro ultimo fine, mentre dovrebbero usare le creature come mezzo per raggiungere il sommo Bene e non per perderlo. Avverti, dunque, o carissima, questo rischio della stoltezza umana. Tutto ciò che è dilettevole, piacevole e poco serio giudicalo un errore; di’ all’appagamento dei sensi che si lascia ingannare invano e che è madre della stoltezza, rende il cuore ubriaco, impedisce e distrugge tutta la vera sapienza. Vivi sempre con il santo timore di perdere la vita eterna e sino a quando non l’avrai raggiunta non ti rallegrare in altre cose se non nel Signore. Fuggi dalle conversazioni umane e temine i pericoli. Se per obbedienza o a gloria sua Dio ti porrà in mezzo ad essi, devi confidare nella sua protezione, e tuttavia con la necessaria prudenza non devi essere né svogliata né negligente. Non ti affidare all’amicizia e alla relazione con le creature, perché vi è riposto il tuo pericolo più grande. Il Signore ti ha dato un animo grato e un’indole dolce, affinché tu sia incline a non resistergli nelle sue opere, usando per suo amore i benefici che ti ha concesso. Se permetterai che in te entri l’amore delle creature, queste sicuramente ti trasporteranno, allontanandoti dal sommo Bene. Altererai, così, l’ordine e le opere della sua sapienza infinita. È cosa molto indegna utilizzare il più grande beneficio della natura con un oggetto che non sia il più nobile di tutta la natura stessa. Sublima le azioni delle tue facoltà e rappresenta ad esse l’oggetto nobilissimo dell’essere di Dio e del suo Figlio diletto tuo sposo, il più bello tra i figli dell’uomo, e amalo con tutto il tuo cuore, la tua anima e la tua mente.

792. Figlia mia, l’Altissimo, buono e clemente, ha dato e continua a dare l’esistenza a tutti gli esseri viventi, non nega ad alcuno la sua provvidenza e illumina fedelmente ogni uomo, affinché possa intraprendere il cammino della conoscenza di Lui e poi entrare nel gaudio perenne, se non oscura questa luce con le sue colpe, abbandonando la conquista del regno dei cieli. Dio, con le anime che per i suoi segreti giudizi chiama a far parte della Chiesa, si dimostra più generoso. Nel battesimo, infatti, comunica loro con la grazia le virtù “infuse essenzialmente”, dette così perché nessuno può acquistarle da se stesso, e quelle “infuse accidentalmente”, che cioè potrebbero ottenere con le opere. Egli le anticipa loro perché siano più pronte e devote nell’osservare la sua santa legge. Ad alcune, oltre alla fede, la sua benevolenza aggiunge speciali doni soprannaturali di maggior intelligenza e forza per comprendere e attuare i comandamenti evangelici. In questo favore si è mostrato verso di te più liberale di quanto non lo sia stato con molte generazioni; perciò ti devi contraddistinguere nella carità e nella corrispondenza che gli spetta, stando sempre umiliata e abbracciata alla polvere.

793. Con la sollecitudine e l’affetto di una madre, ti voglio insegnare l’astuzia con la quale satana si sforza di distruggere questi benefici dell’Onnipotente. Da quando le creature cominciano a usare la ragione, molti demoni le seguono una per una con vigilanza e, proprio nel momento in cui esse dovrebbero innalzare la mente alla cognizione di Dio e iniziare ad esercitare le virtù ricevute, con incredibile furore e sagacia tentano di sradicare la semenza divina. Se non ci riescono, fanno in modo che questa non dia frutto, incitando gli uomini ad atti viziosi, inutili e infantili. Li distraggono con tale iniquità perché non si servano della fede, della speranza e di quanto ancora è stato loro elargito, non si ricordino che sono cristiani e non cerchino di conoscere il loro Dio, i misteri della redenzione e della vita eterna. Inoltre, questi nemici introducono nei genitori una stolta inavvertenza o un cieco amore carnale verso i propri figli e spingono i maestri ad altre negligenze, affinché non si preoccupino della maleducazione, permettano loro di corrompersi e di acquisire cattive consuetudini e di perdere le loro buone inclinazioni, avviandosi così alla rovina.

794. Il pietosissimo Signore, però, non tralascia di ovviare a questo rischio. Rinnova loro la luce interiore con altri aiuti e sante ispirazioni, con la dottrina della Chiesa attraverso i suoi predicatori e ministri, con l’uso e il rimedio efficace dei sacramenti, e con altri mezzi che servono a ricondurli sulla via della salvezza. Se nonostante questi numerosi provvedimenti sono pochi coloro che tornano alla salute spirituale, la causa di ciò sta nell’empia legge dei vizi e nelle abitudini depravate che si prendono durante la fanciullezza. Siccome è vera la sentenza: «Quali furono i giorni della gioventù, tale sarà anche la vecchiaia», i diavoli acquistano sempre più coraggio e potere sulle anime. Pensano, infatti, che, come le dominavano quando esse avevano commesso meno e minori colpe, così lo potranno fare con più facilità quando senza timore si saranno macchiate di molte altre e più gravi. Poi le muovono alla trasgressione e le colmano d’insensata audacia. Ciascun peccato compiuto da una persona toglie a questa forze interiori e la soggioga maggiormente a satana che, come tiranno, se ne impossessa e l’assoggetta a tale malvagità e meschinità da schiacciarla sotto i piedi della sua iniquità; quindi la conduce dove vuole, da un precipizio a un altro. Questo è il castigo che spetta a chi la prima volta si sottomette a lui. Così Lucifero continuamente trascina all’inferno un gran numero di uomini, sollevandosi sempre di più contro l’Altissimo nella sua superbia. Per tale via ha introdotto nel mondo la sua prepotenza, facendo dimenticare agli uomini i “novissimi”: morte, giudizio, inferno e gloria; ha gettato tante nazioni di abisso in abisso, sino a farle cadere in errori così ciechi e bestiali quanto quelli che contengono tutte le eresie e le false sette degli infedeli. Pensa, dunque, figlia mia, a un pericolo così grande e non scordarti mai dei precetti di Dio e delle verità cattoliche. Non ci sia giorno in cui tu non mediti su questo; consiglia alle tue religiose e a tutti coloro ai quali parlerai di fare lo stesso, perché il nemico, il diavolo, si affatica e veglia per oscurare il loro intelletto e deviarlo dalla legge divina, affinché l’intelligenza non indirizzi la volontà, potenza cieca, a compiere gli atti per la giustificazione, che si consegue tramite viva fede, speranza certa, amore fervente e cuore contrito e umiliato.

Gesù rivela a Santa Brigida l’esistenza e l’eternità dell’ INFERNO : “La via dell’inferno invece è aperta e larga e molti entrano per essa.” “Perciò la mia via s’è fatta stretta e quella del mondo larga”

Dalle rivelazioni di Gesù a Santa Brigida di Svezia

Parla Gesù Cristo:

La via dell’inferno invece è aperta e larga e molti entrano per essa. Ma perché non sia del tutto dimenticata e abbandonata la mia via, alcuni amici miei per il desiderio della patria celeste passano ancora per essa, come uccelli svolazzanti di pruno in pruno, e quasi di nascosto e servendo per timore, perché passare per la via del mondo sembra a tutti felicità e gioia. Perciò la mia via s’è fatta stretta e quella del mondo larga; ora grido nel deserto, cioè nel mondo, agli amici miei, che estirpino le spine e i triboli dalla via del Cielo e la propongano agli altri. Sta scritto infatti: Beati son quelli che non mi videro e mi credettero. Così son felici quelli che ora credono alle mie parole ed eseguono le mie opere. Io infatti son come una madre che va incontro al figlio errante, gli porge la lucerna sul sentiero, perché veda il cammino e gli va incontro per amore, accorciandogli il tratto, e s’avvicina e l’abbraccia e si congratula con lui. Così son io con tutti quelli che a me tornano, e andrò incontro con amore ai miei amici e illuminerò il cuore e l’anima loro di sapienza divina. Voglio abbracciarli con ogni gloria e con l’adunanza celeste, dove non c’è il Cielo di sotto e di sopra o la terra di sotto, ma la visione di Dio, in cui non c’è cibo né bevanda, ma il celeste diletto.

Ai cattivi invece s’apre la via dell’inferno, ove caduti non ne usciranno mai più: privati della gloria e della grazia, saranno pieni di miseria e di obbrobrio sempiterno. Perciò dico queste cose e metto in mostra la mia carità, affinché tornino a me, quelli che mi abbandonarono e riconoscano che sono io il Creatore, quello che hanno dimenticato. E perciò questi fossi son larghi e profondi: larghi, perché la volontà di tali uomini è da Dio lontana in lungo e in largo; e sono anche profondi, perché contengono molti nel profondo inferno. Perciò questi fossi bisogna oltrepassarli d’un salto. Cos’è infatti il salto spirituale, se non il distacco del cuore dalle vanità e l’ascesa dalle cose terrene al Regno dei cieli?

Ecco, io mi lamento che vi siete da me allontanati e dati al diavolo mio nemico, voi avete abbandonato i miei comandamenti e seguite la volontà del diavolo e obbedite alle sue suggestioni, non pensate ch’io sono l’immutabile ed eterno Dio, vostro Creatore. Venni dal Cielo alla Vergine, da Lei assumendo la carne e ho vissuto con voi. Io in me stesso vi ho aperto la via e vi ho dato i consigli, con i quali andare al cielo. Io fui denudato e flagellato e coronato di spine e tanto stirato sulla croce che quasi tutti i nervi e le giunture del mio corpo furono staccati. Io ho sopportato tutte le ingiurie e l’ignominiosissima morte e l’amarissima ferita al mio cuore per la vostra salvezza.

A tutto questo, o miei nemici, voi non fate attenzione, perché siete stati ingannati. Perciò portate il giogo e il peso del diavolo con falsa gioia e non sapete né sentite queste parole, prima che arrivi lo smisurato dolore. Né vi basta questo, ma è tanta la vostra superbia che, se poteste porvi sopra di me, lo fareste volentieri. E tanta è in voi la voluttà della carne, che volentieri preferireste far senza di me, piuttosto di lasciare il disordine della vostra voluttà. E poi la cupidigia vostra è insaziabile, come un sacco senza fondo, perché non v’è niente che possa soddisfarla.

Giuro perciò – per la Divinità mia – che se morirete nello stato in cui vi trovate, mai vedrete il mio volto. Ma, per la vostra superbia, sprofonderete giù nell’inferno, in modo che tutti i diavoli vi saranno addosso per tormentarvi desolatamente. Per la lussuria poi sarete ricolmi d’un diabolico veleno. E per la cupidigia vostra sarete saziati di dolori e angustie e soffrirete ogni male che è nell’inferno.

O nemici miei, abominevoli e ingrati e degeneri, io sembro a voi come un verme morto nell’inverno, perciò fate tutto ciò che volete e prosperate. Per questo sorgerò contro di voi nell’estate e allora piangerete e non scamperete alla mia mano. Tuttavia, o nemici, poiché vi ho redenti col sangue mio e non chiedo che le vostre anime, tornate umilmente ancora a me e di buon grado vi accoglierò come figliuoli. Scuotete da voi il pesante giogo del diavolo e ricordatevi dell’amor mio e nella coscienza vostra vedrete che io sono soave e mansueto.