UN ESTRATTO DAL NUOVO LIBRO DI FULTON SHEEN “IL PIANTO DEL CRISTO”
Il libro è appena uscito e si può acquistare sul sito della casa editrice Mimep delle suore. Qui il link: 👇
Il pianto del Cristo
La passione che nell’uomo affonda più profondamente le sue radici nella sua natura razionale è quella dell’ira. L’ira può essere perfettamente compatibile con la ragione, perché la rabbia si basa sulla ragione, che soppesa il torto subito e la soddisfazione da pretendere. Se ci adiriamo è perché qualcuno ci ha ferito in qualche modo o perché ci sentiamo tali. Ma non sempre l’ira è un peccato: esiste quella che si definisce “la giusta rabbia”. Un esempio è quando nostro Signore si infuria contro i mercanti nel tempio. Varcata la soglia, durante le feste della Pasqua, trovò il cortile del tempio ingombro di commercianti che assillavano i fedeli, cercando di vender loro qualche colomba o un agnello per il sacrificio. Fatta una frusta con alcune cordicelle, Gesù avanzò nel mezzo delle bancarelle, con un’espressione severa, ancor più minacciosa della frusta che aveva in mano. Cacciò i buoi e le pecore con la frusta, mentre con le mani rovesciava i banchi dei cambiavalute, in una pioggia di monetine che rotolavano sul pavimento; si rivolse ai venditori di colombe, ingiungendo loro di lasciarle libere; in tutto questo egli diceva: “Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!” (Gv 2, 16). In questo si adempì il comandamento delle Scritture, “Adiratevi ma non peccate” (Ef 4, 26) perché la rabbia non è un peccato, in questi tre casi:
1.Se ci si adira per una giusta causa, ad esempio la difesa dell’onore di Dio.
2. Se l’ira non è spropositata rispetto alla sua causa, cioè se la si tiene sotto controllo.
3. Se è subito domata: “Non tramonti il sole sulla vostra ira” (Ef 4, 26).
Qui però non parliamo di “giusta ira”, ma ingiusta, senza un valido motivo – una rabbia eccessiva, vendicativa, accanita: il tipo di rabbia che molti provano in odio verso Dio; la rabbia che vuole l’annientamento della religione su un sesto della superficie terrestre e che in Spagna ha incendiato venticinquemila chiese e cappelle e ucciso dodicimila servi di Dio; il tipo di odio che è diretto non solo contro Dio, ma contro un altro uomo e che viene alimentato dai discepoli della lotta di classe che parlano di pace ma si compiacciono della guerra: la rabbia rossa, che infiamma il volto di furia, e la rabbia bianca, che lo sbianca di livore; la rabbia che cerca “la parità”, che ripaga della stessa moneta, colpo per colpo, pugno per pugno, occhio per occhio, menzogna per menzogna, la rabbia del pugno chiuso pronto a colpire, non in difesa di ciò che si ama, ma all’attacco di ciò che si odia: in una parola la rabbia che distruggerà la nostra civiltà, a meno che la soffochiamo con l’amore.
Nostro Signore è venuto per liberarci dal peccato della rabbia, in primo luogo insegnandoci una preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori”; e poi lasciandoci un comandamento: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano”, (Mt 5, 44) e, più concretamente: “Se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due… Se qualcuno ti chiede il mantello, tu dagli anche la tunica” (Mt 5, 40–41). Non sono ammesse vendetta e ritorsione: “Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. … ma io vi dico amate i vostri nemici” (Mt 5, 38, 44). Questi precetti sono ancor più impressionanti perché Gesù stesso li ha messi in pratica. Quando i Geraseni si arrabbiarono con lui perché egli attribuì un peso maggiore alla vita di un povero uomo, piuttosto che ad una mandria di maiali, la Scrittura non riporta nessuna rimostranza da parte sua: “Salito sulla barca, passò dall’altra parte” (Mt 9, 1), al soldato che l’aveva colpito con il pugno di ferro, la sua risposta mite fu: “Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male. Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?” (Gv 18, 23). La rabbia fu completamente riparata sul Calvario. Fu l’odio e la rabbia a trascinare nostro Signore su quella collina. I suoi concittadini lo odiavano e reclamavano la sua crocifissione; la legge lo odiava, tanto da rinnegare la giustizia pur di condannare la Giustizia; i gentili lo odiavano, perché hanno permesso che venisse ucciso; i boschi lo odiavano perché fu su uno dei loro alberi che venne inchiodato; i fiori lo odiavano perché fornirono le spine con cui venne incoronato; le viscere della terra lo odiavano e fornirono l’acciaio e il ferro per il martello e i chiodi. E poi, per rendere più personale tutto quest’odio, si è vista la prima generazione del pugno chiuso che sia mai apparsa nella storia: erano quelli che lo minacciavano sotto la croce. Quel giorno hanno dilaniato il suo corpo, come oggi distruggono e mandano in frantumi il suo tabernacolo. I loro figli e le loro figlie calpestano le croci in Spagna e in Russia, come un tempo hanno percosso il crocifisso sul Calvario.
Non crediate che il pugno chiuso sia un fenomeno del ventesimo secolo: coloro che oggi raggelano i loro cuori in un pugno, sono i diretti eredi di coloro che sotto la croce levavano le mani contro l’Amore e con le loro voci roche cantavano la prima Internazionale dell’odio. Davanti a quei pugni chiusi, vien naturale pensare che se c’è una volta che la rabbia potrebbe dirsi giustificata, se c’è una volta in cui la Giustizia poteva essere applicata correttamente, una volta in cui il Potere poteva essere degnamente esercitato o l’Innocenza rivendicata a ragion veduta, una volta in cui Dio avrebbe avuto tutte le ragioni di punire l’uomo, ebbene quel momento era proprio quello sul Calvario. E tuttavia, proprio in quell’istante in cui una falce e un martello hanno tagliato l’erba sul Calvario per far posto alla croce, e i chiodi hanno immobilizzato le mani impedendo loro di impartire la benedizione dell’Amore Incarnato, egli, come un legno profumato che inonda del suo aroma l’ascia che lo stronca, ha pronunciato con le sue labbra la prima preghiera che sia mai calata sulla terra, la preghiera perfetta che sana la rabbia e l’odio. Una preghiera per l’esercito dei pugni chiusi, la prima parola pronunciata sulla croce: “Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno”.
Anche il peggior peccatore adesso può essere salvato; il peccato più nero può essere cancellato; i pugni chiusi possono aprirsi; ciò che era imperdonabile ora può essere perdonato. Anche se loro credevano di sapere quello che stavano facendo, Cristo fa appello a quell’unica attenuante per il loro crimine e la adduce davanti al Padre Celeste, con tutto l’ardore del suo Cuore misericordioso: l’ignoranza – “non sanno quello che fanno”. Se avessero saputo quello che stavano facendo, inchiodando l’Amore alla croce, e pur sapendolo avessero continuato a farlo, non ci sarebbe stata redenzione per loro. Sarebbero stati dannati. È solo perché i pugni si chiudono nell’ignoranza, che è possibile ancora aprirli in mani che si congiungono, è perché le lingue blasfeme sono ignoranti, che esse possono ancora sciogliersi in preghiera. Non è la loro consapevolezza che li salva: ma la loro ignoranza inconsapevole.
Questa parola sulla croce ci insegna due cose: (1) l’ignoranza può scusare, (2) non c’è limite al perdono. Un motivo per perdonare è l’ignoranza. L’Innocenza divina ha trovato questa scusa per perdonare. Sicuramente la colpa non può essere inferiore. Nel suo primo sermone, S. Pietro ha usato la medesima scusa dell’ignoranza per la crocefissione, ancora fresca nella sua memoria: “Avete ucciso l’autore della vita … Ora, fratelli, io so che voi avete agito per ignoranza, come pure i vostri capi.” (At 3, 15; 17) Se il male fosse stato fatto in piena consapevolezza, deliberatamente, sapendo quali erano le conseguenze degli atti compiuti, allora non poteva esserci perdono. Ecco perché non è stata possibile una redenzione nel caso degli angeli caduti. Loro sapevano che cosa stavano facendo. Noi no. Noi siamo ignoranti, ignoranti su noi stessi e ignoranti sugli altri. Ignoranti sugli altri. Quanto poco sappiamo dei loro motivi, della loro buona fede, delle circostanze che li hanno portati ad agire in un certo modo. Quando gli altri ci usano violenza, spesso ci dimentichiamo di quanto poco conosciamo i loro cuori e diciamo “Non mi sembra proprio che ci siano scusanti, neanche minime, sapevano benissimo quello che stavano facendo”. Eppure, nelle stesse circostanze, Gesù ha saputo dire “Non sanno quello che fanno”. Non sappiamo nulla di quello che c’è nel cuore del nostro prossimo e per questo ci rifiutiamo di perdonare. Gesù conosceva bene i cuori, dentro e fuori, e per questo ha perdonato. Prendete un fatto qualsiasi, chiedete a cinque persone di giudicarlo: avrete cinque interpretazioni diverse di quello che è successo. Nessuno di loro può conoscere tutti i fattori in ballo. Nostro Signore sì, ed è per questo che perdona. Perché noi troviamo mille scuse per giustificare la nostra rabbia verso il prossimo e non vogliamo ammettere alcuna giustificazione per la rabbia degli altri verso di noi? Diciamo che gli altri ci perdonerebbero se solo ci capissero meglio e che il solo motivo della loro rabbia è che “Non ci capiscono”. Perché l’ignoranza non è reversibile? Non può darsi che noi non capiamo le motivazioni degli altri, così come loro non capiscono le nostre? Il fatto che noi ci rifiutiamo di giustificare il loro odio, non può voler dire, implicitamente, che anche noi, nelle stesse circostanze, ci saremmo comportati in un modo imperdonabile?
Ignoranti su come siamo: un’altra ragione per perdonare gli altri. Purtroppo, non conosciamo noi stessi: sappiamo vedere con chiarezza i peccati, le debolezze e le mancanze del nostro prossimo, almeno mille volte meglio di quanto vediamo le nostre colpe. Criticare gli altri non è una buona cosa, ma la mancanza di autocritica è anche peggio. Forse sarebbe meno grave criticare gli altri se, prima, sapessimo vedere i nostri difetti: dopo aver perlustrato con cura la nostra anima, allora forse saremmo meno certi del nostro diritto di indagare le anime degli altri. È solo perché non sappiamo nulla delle nostre condizioni, che non capiamo quanto noi, per primi, abbiamo bisogno di perdono. Abbiamo mai offeso Dio? Ha dei motivi per essere irato con noi? Allora perché noi, che abbiamo così tanto bisogno di essere perdonati, non dovremmo riscattarci perdonando a nostra volta gli altri? La risposta è che non facciamo mai seriamente un esame di coscienza. Siamo così inconsapevoli della nostra vera condizione che tutto quello che di certo possiamo dire di noi è giusto il nome, l’indirizzo e che cosa possediamo; del nostro egoismo, invidia, deviazioni, peccati invece non sappiamo nulla. Infatti, per evitare di guardarci dentro, evitiamo il silenzio e la solitudine. Per evitare che la nostra coscienza si faccia troppo sentire, affoghiamo la sua voce nei divertimenti, nelle distrazioni e nel rumore. Odiamo tutto ciò che vediamo riflesso di noi negli altri. Se conoscessimo meglio noi stessi, sapremmo perdonare di più gli altri. Più siamo severi con noi stessi, più saremo indulgenti con gli altri: un uomo che non ha mai obbedito, non sa come si fa a comandare, e l’uomo che non conosce l’autodisciplina, non può usare misericordia con gli altri. È l’egoista il più spietato con gli altri; chi è duro con se stesso sa essere gentile con gli altri: l’insegnante che non conosce bene la sua materia è il più intollerante con i suoi studenti. Solo il Signore, che si riteneva così poca cosa da abbassarsi a farsi uomo e morire come un criminale, poteva perdonare le colpe di coloro che l’hanno crocifisso.
Non è l’odio che è sbagliato: ma è odiare per il motivo sbagliato che è un errore. Non è la rabbia che è sbagliata: ma l’essere adirati con la cosa sbagliata che non va bene. Dimmi chi è il tuo nemico e ti dirò chi sei. Dimmi chi è l’oggetto del tuo odio, e io ti dirò com’è il tuo carattere. Odi la religione? Allora ti rimorde la coscienza. Odi i capitalisti? Allora sei un avaro, che brama le ricchezze. Odi gli operai? Allora sei un egoista e uno snob. Odi il peccato? Allora ami Dio. Odi il tuo odio, il tuo egoismo, il tuo carattere avventato e la tua cattiveria? Allora sei un’anima buona, perché “Se uno viene a me… e non odia la sua vita, non può essere mio discepolo.” (Lc 14, 26).
La seconda lezione che ci arriva dalla prima parola di Cristo sulla croce è che non c’è limite al perdono. Nostro Signore ha perdonato pur essendo innocente, quindi non perché qualcuno aveva perdonato lui. Per questo non basta perdonare gli altri perché siamo stati perdonati, ma dobbiamo perdonarli anche se siamo innocenti. Il problema è capire quali sono i limiti del perdono. Una volta Pietro ha chiesto al Signore “Signore, se il mio fratello commette colpe contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?” (Mt 18, 21). Pietro pensava di aver esagerato con il suo “sette volte”, perché era già quattro volte di più di quanto prevedevano i Dottori della legge. Pietro aveva proposto un limite, oltre il quale non c’era più perdono. Pensava che il diritto ad essere perdonati sarebbe automaticamente scaduto dopo sette offese. Sarebbe come dire “Rinuncio al mio diritto a riscuotere i miei crediti verso di te, fintanto che la somma che mi devi rimane sotto i sette dollari. Ma se vai sopra questa somma, allora la mia rinuncia non è più valida e posso strozzarti già per otto dollari.” Nostro Signore, rispondendo a Pietro, dice che il perdono non ha limiti; il perdono è la rinuncia a qualsiasi diritto, è la negazione di un limite. “Ti dico non sette volte, ma settanta volte sette.” (Mt 18, 22). Il che significa, non 490 volte, ma all’infinito. Il Salvatore ha allora proseguito con la parabola del servo infedele che, subito dopo aver visto condonare il suo debito di diecimila talenti, si avventa sull’altro servo che gli doveva pochi spiccioli. Il servo spietato, rifiutando di avere misericordia del suo debitore, ha visto revocare la misericordia che gli era stata usata. La sua colpa non era tanto la sua implacabilità verso gli altri, pur essendo lui per primo bisognoso di perdono, quanto il fatto che, malgrado fosse stato perdonato, non aveva perdonato a sua volta. “Così anche il Padre mio celeste farà con voi se non perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello”. (Mt 18, 35).
Perdonate, e sarete perdonati; allontanate la vostra ira e Dio allontanerà la sua. Il Giudizio è come la mietitura: raccoglieremo ciò che abbiamo seminato. Se abbiamo seminato la rabbia contro i fratelli durante la vita, non raccoglieremo altro che la rabbia di Dio. Non giudicate, e non sarete giudicati. Se nella nostra vita perdoneremo agli altri di cuore, il Giorno del Giudizio Dio, nella sua saggezza, farà qualcosa di non abituale per lui: dimenticherà di metterci in conto qualcosa, e si limiterà a sottrarre invece di aggiungere. Lui che si ricorda ogni cosa dall’eternità, dimenticherà i nostri peccati. E così ci salveremo ancora una volta, grazie alla divina “ignoranza”. Se perdoniamo gli altri sulla base del fatto che non sapevano cosa facevano, Nostro Signore ci perdonerà sulla base del fatto che non si ricorda più quello che abbiamo fatto. Può anche darsi che, vedendo ora una mano che benedice un nemico dopo aver ascoltato la prima parola sulla croce, Dio arrivi a scordarsi persino che quella mano era un tempo un pugno chiuso, macchiato dal sangue del martirio cristiano.
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