SE NON SOFFRIAMO CON CRISTO NON RISORGEREMO CON LUI. Cosa ci insegnano le Piaghe del Cristo Risorto?

Amici di Fulton John Sheen

Mentre la nostra terra reca queste piaghe, chi mai può indurci a sperare che davanti a noi avremo giorni migliori e che tutta questa sofferenza, tutta questa angoscia, non siano una beffa, un inganno?

Una cosa è certa: che le nostre ali spezzate non possono essere risanate da quel Cristo “Liberale” inventato dal secolo decimonono che fece di Lui nient’altro che un moralista simile a Socrate, a Maometto, a Buddha o a Confucio, e che, come loro, fu imprigionato nei ceppi della morte.

La sola cosa che oggi può esserci di conforto è il Cristo Risorto con le Sue Piaghe Gloriose, passato anche Lui attraverso la morte per darci la Speranza e la Vita: il Cristo, cioè, della mattina di Pasqua.

Risaltano, nella storia della Pasqua, le Stigmate di Cristo.

La Maddalena, che era stata sempre ai Suoi Piedi, o nella casa di Simone o presso la Croce, si trova…

View original post 450 altre parole

LA GRANDE LEZIONE DEL GIORNO DI PASQUA: “Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione…E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo…Nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente”

Il mondo ebbe torto e Cristo ebbe ragione. Colui che aveva il potere di offrire la propria vita aveva anche il potere di riprenderla di nuovo; Colui che volle nascere nella carne, volle anche morire; Colui che sapeva come sarebbe morto, sapeva anche come sarebbe risorto per dare a questo minuscolo e misero nostro pianeta un onore ed una gloria che astri fiammeggianti e Pianeti gelosi non condividono: la gloria dell’unica tomba lasciata vuota.

La grande lezione del giorno di Pasqua consiste nel fatto che un Vincitore può essere considerato sotto un duplice punto di vista: quello del mondo e quello di Dio. Secondo il mondo, Cristo quel Venerdì Santo fu sconfitto, secondo Dio Egli fu vincitore. Coloro che lo condannarono a morte gli offrirono proprio l’occasione di cui Egli aveva bisogno, coloro che chiusero con la pietra il sepolcro, gli offrirono proprio la porta che Egli desiderava spalancare; il loro apparente trionfo aprì la strada alla Sua suprema vittoria. II Natale ha insegnato che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno si attendeva di trovarlo avvolto in fasce e posto in una mangiatoia. La Pasqua conferma la lezione ripetendo che il Divino sta sempre dove il mondo meno se lo aspetta; poiché nessuno fra quelli del mondo si attendeva che uno sconfitto sarebbe stato il vincitore, che la pietra scartata dai costruttori sarebbe divenuta testata d’angolo, che Colui che era morto, sarebbe ritornato a camminare e che, ignorato, posto in un sepolcro, sarebbe diventato la nostra Risurrezione e la nostra Vita. 

Nel giorno di Pasqua, io non intono il canto dei vincitori, ma quello di coloro che hanno subito la sconfitta:

«Io canto l’inno dei vinti, quelli che caddero nella battaglia della Vita, l’inno dei feriti, dei battuti, che perirono soccombendo nella mischia. Non il canto di giubilo dei vincitori, per i quali risuona l’acclamazione elevata in coro dalle nazioni, di quelli con la corona della gloria terrena sulla fronte, ma l’inno dei miseri, degli umili, degli esausti, di quelli dal cuore spezzato, che lottarono e persero, facendo con coraggio la loro parte, silenziosa e senza speranza; la loro gioventù non fu ricca di fiori, le loro speranze finirono in cenere, dalle loro mani sfuggì il bottino che cercavano di afferrare, al loro tramonto stavano fra i cocci della loro vita sparsi attorno, senza ricevere da nessuno compassione o attenzione, soli ed abbandonati. La morte spazzò via il loro fallimento, tutto venne travolto eccetto la loro fede. Mentre il mondo, in coro, innalza il suo elogio a coloro che hanno vinto, mentre la tromba, tenuta alta nella brezza ed al sole suona trionfante, mentre le bandiere sventolano, scrosciano applausi e ci si affretta dietro ai vincitori, cinti d’alloro, io rimango nel campo dei vinti, nell’ombra, con i caduti, i feriti, gli agonizzanti, là recito sottovoce un requiem, gli poso le mie mani sulla loro fronte contratta dalla sofferenza, innalzo sommessamente una preghiera, tengo la mano impotente e sussurro: “Otterranno la vittoria solo coloro che hanno combattuto la buona battaglia, che hanno sbaragliato il demone che li tentava nel loro intimo, che hanno conservato la fede rifiutando di farsi sedurre da quei beni che il mondo stima così tanto; che, per una causa superiore, hanno osato soffrire, resistere, combattere e, se necessario, morire”. Parla, o Storia! Chi sono i vincitori nella battaglia della Vita? Scorri i tuoi annali e di’, sono quelli che il mondo chiama vincitori che conquistarono il successo effimero di un giorno? Sono i martiri o Nerone? Gli Spartani, caduti alle Termopili? O i Persiani e Serse? I suoi giudici o Socrate? Pilato o Cristo?». 

Srotola le pergamene del tempo ed osserva come la lezione di quella prima Pasqua Cristiana si ripete, quando, ad ogni celebrazione della Pasqua si raccontano le vicende del grande Condottiero che è uscito dal sepolcro per rivelare che la vittoria finale, quella definitiva, deve sempre essere intesa come sconfitta agli occhi del mondo. Almeno una dozzina di volte nel corso della sua storia bimillenaria, il mondo nell’impeto di un effimero trionfo, ha posto la pietra a sigillo sul sepolcro della Chiesa, vi ha posto la guardia e l’ha considerata come morta, esausta, sconfitta, solo per vederla risorgere vittoriosa nell’aurora della sua Pasqua. (…)

Infine la Pasqua ci offre una lezione che riguarda la nostra stessa vita.

E’ meglio essere sconfitti agli occhi del mondo seguendo la voce della propria coscienza piuttosto che essere vincenti secondo la falsa opinione del mondo; è meglio essere vinti nella santità del vincolo matrimoniale che ottenere l’effimera vittoria del divorzio; è meglio essere vinti in mezzo a tanti figlioli, frutti dell’amore, che vincenti in un’unione volutamente sterile; è meglio essere vinti dall’amore della Croce, che conseguire l’effimera vittoria del mondo che mette in croce. In conclusione è meglio essere sconfitti agli occhi del mondo dando a Dio ciò che è interamente e assolutamente nostro. Se diamo a Dio la nostra energia, Gli restituiamo un Suo dono; se Gli diamo i nostri talenti, le nostre gioie, i nostri beni, Gli rendiamo ciò che Egli mise nelle nostre mani non per esserne proprietari, bensì semplici amministratori. Una sola cosa c’è al mondo che possiamo definire veramente nostra, la sola che possiamo dare a Dio, che è nostra invece che Sua, la sola che Egli non ci toglierà mai; questa cosa è la nostra volontà col suo potere di scegliere l’oggetto del suo amore. Quindi il dono più perfetto che possiamo offrire a Dio è quello della nostra volontà. Agli occhi del mondo, donarla a Dio è la suprema sconfitta che possiamo subire, ma è anche la suprema vittoria che possiamo conseguire agli occhi di Dio. Nel cedergliela ci sembra di perdere tutto, la sconfitta però è il seme della vittoria. La rinuncia alla propria volontà conduce a ritrovare tutto ciò che la volontà abbia mai cercato, la perfezione della Vita, della Verità, dell’Amore, cioè Dio.

E così, nel giorno di Pasqua non cantare l’inno del vincitore, ma quello del perdente. Cosa importa se la strada, in questa vita, sia ripida e disagevole, se la povertà di Betlemme, la solitudine della Galilea, le sofferenze della Croce siano il nostro pane? Mentre combattiamo, santamente ispirati da Colui che ha conquistato il mondo, perché mai dovremmo trattenerci dal manifestare la nostra sfida di fronte all’ipocrisia del mondo? Perché temere di estrarre la spada e assestare il primo colpo mortale al nostro egoismo? Marciando sotto la guida del Condottiero dalle cinque Piaghe, fortificati dai Suoi Sacramenti, resi incrollabili dal Suo essere Verità infallibile, divinizzati dal Suo Amore redentivo, non abbiamo alcun timore circa l’esito della battaglia della vita; nessun dubbio sull’epilogo della sola lotta che conta; nessun bisogno di chiederci se saremo vincitori o perdenti. Perché? Perché abbiamo già vinto – solo che la notizia non è ancora trapelata! 

(Fulton J. Sheen, da “The Morale Universe”)

IL PARADOSSO PIÙ STRAORDINARIO DELLA STORIA DEL MONDO

Per il paradosso più straordinario della storia del mondo, crocifiggendo Cristo hanno dimostrato che Lui aveva ragione e loro avevano torto, e sconfiggendolo hanno perso. Uccidendolo Lo hanno trasformato: per la potenza di Dio hanno cambiato la mortalità in Immortalità. La Croce era proprio ciò che Egli disse che un uomo deve portare per essere rifatto; Gli diedero la croce ed Egli la trasformò in un trono di gloria. Disse che un uomo deve morire per vivere; Gli diedero la morte ed Egli visse di nuovo. Disse che se il seme caduto in terra non muore, rimane solo; Lo piantarono come un seme il venerdì, e a Pasqua risuscitò nella novità della vita divina, come il fiore che spunta dalla zolla in primavera. Ha detto che nessuno sarà esaltato se non è umiliato; Lo hanno umiliato sul Calvario, ed Egli è stato esaltato e si è innalzato sopra un sepolcro vuoto. Hanno seminato il Suo corpo nel disonore ed è risorto nella gloria; Lo hanno seminato nella debolezza ed è risorto nella potenza. Nel togliergli la vita, Gli hanno dato Nuova Vita…Rifate l’uomo e rifarete il mondo!

(Fulton J. Sheen, da “Justice and Charity”)

-GIOVEDÌ SANTO- L’ULTIMA CENA E L’ISTITUZIONE DELL’EUCARISTIA. CRISTO: SACERDOTE E VITTIMA.

Amici di Fulton John Sheen

Il Nostro Signore Benedetto è venuto in questo mondo per morire. (…)

Essendo la Sua Morte la ragione della Sua Venuta, Egli ora istituiva per gli Apostoli, e per i posteri, un Atto Commemorativo della Sua Redenzione, da Lui promesso quando aveva affermato di essere il Pane di Vita.

Non disse: “Questo rappresenta, o simboleggia, il Mio Corpo”, bensì: “Questo è il Mio Corpo offerto in Sacrificio”. Un Corpo che sarebbe stato spezzato durante la Sua Passione.

Poi, prese il vino nelle Sue Mani e disse: “Questo è il Mio Sangue… che sarà sparso per molti in remissione dei peccati”

Sulla Croce, Egli sarebbe morto per la separazione del Suo Sangue dal Suo Corpo: ecco perché non consacrò insieme, ma separatamente, il pane e il vino, a rivelare il modo della Sua Morte a seguito della separazione del Corpo e del Sangue. In quell’atto, Nostro Signore, fu ciò che sarebbe…

View original post 403 altre parole

LO SPIRITO SANTO E L’UMANA LIBERTÀ NELL’ELEZIONE DEL PAPA: “Sarebbe stolto e peccaminoso rifiutare l’obbedienza a chi rappresenta Dio, con la scusa che, data la sua indegnità, non è possibile che sia stato eletto direttamente per divina illuminazione” DON DOLINDO RUOTOLO

L’elezione di un Papa ha due elementi preponderanti: quello umano e quello divino, gli uomini che eleggono e Dio che sceglie e sanziona. Quando gli uomini sono timorati di Dio e fanno appello non alle passioni ma al Signore, allora Egli interviene per eleggere direttamente il successore di S. Pietro, e risponde alle preghiere che gli uomini gli fanno liberamente, illuminandoli. Quando l’elemento umano forma, per così dire, un’atmosfera maleodorante, addensata dall’umana libertà, quando gli uomini non fanno appello a Lui, ma si agitano nelle loro passioni, il Signore non interviene nel primo momento dell’elezione, permette loro di operare come vogliono, ed interviene in un secondo momento costituendo Lui l’eletto che gli uomini hanno voluto ed hanno meritato.

L’elezione pone il Papa in quella serie ininterrotta dei successori di S. Pietro, nei quali è tanto preponderante la luce della suprema potestà che tutte le miserie individuali non hanno alcun peso. Il Pastore supremo allora è come quelle lampade macchiate e polverose nel loro involucro esterno che diventano luce smagliante appena, chiuso il circuito, sono immesse nella corrente che le rende illuminazione per gli altri e guida sicura nel tortuoso cammino. È sempre il rispetto all’umana libertà che campeggia in ogni disposizione della Divina Provvidenza, anche quando si tratta dell’elezione del Capo della Chiesa: è forse, in questo caso, l’espressione più alta di questo rispetto ineffabile di Dio per le sue creature.

Questo che diciamo risolve una delle più gravi difficoltà, tanto nell’elezione dei Papi, quanto nella nomina dei Vescovi, posti dallo Spirito Santo a reggere la Chiesa di Dio. L’umana mente si smarrisce, non sa capire come possa dirsi posto dallo Spirito Santo un Pastore indegno, ed è tentata di ribellarsi all’Autorità. Ma anche un Pastore traviato, messo sulla sua cattedra secondo i canoni della Chiesa, è posto dallo Spirito Santo, conseguentemente, perché è l’espressione di una libertà, che Dio nell’infinita sua delicatezza rispetta sino allo scrupolo, se può dirsi così. Sarebbe stolto e peccaminoso rifiutare perciò l’obbedienza a chi rappresenta Dio, con la scusa che, data la sua indegnità, non è possibile che sia stato eletto direttamente per divina illuminazione. Quando il Pastore supremo è costituito secondo i canoni della Chiesa, ciò che influì sulla sua elezione è accidentale alla sua legittimità, ed a noi non rimane che obbedire.

Del resto anche sotto Papi meno santi, e sotto Pastori meno retti, sono germinati i Santi nella Chiesa, anche i più grandi Santi. Questo significa che chi vuole, può attingere l’acqua salutare anche da un condotto deteriorato. Dio, che è infinita bontà, non viene meno con i suoi aiuti neppure ad un indegno, e lo rende canale di grazie singolari per le anime rette che cercano Lui solo. Egli passa allora come raggio di sole attraverso la stessa nebbia delle umane miserie, e giunge a riscaldare ed a fecondare l’umile pianticella che vuole prosperare.

Che importa che l’uomo che rappresenta il potere divino sia reprensibile? La potestà che egli ha, è tanto separata e distinta dalla sua vita, è gemma che non perde il suo valore, sol perché è sepolta in una terra brulla. È più grande la nostra fede quando onoriamo Dio in uno che ottenebra la potestà che ha ricevuto, è più profondo e meritorio l’ossequio della nostra sudditanza, ed è più fecondo di beni soprannaturali per noi. Lasciamo dunque al Signore il giudizio degli uomini, e curviamo la fronte innanzi alla loro potestà, quando ci rappresenta la potestà di Dio.

(Don Dolindo Ruotolo, dal “Commento al libro 2 delle Cronache”)

GIUDA E PIETRO DAVANTI A CRISTO: TRADIMENTO, DISPERAZIONE, PERDONO E CONVERSIONE: “Non appena abbiamo coscienza di essere peccatori, Egli si volge a guardarci: Dio non rinuncia mai a noi”

Amici di Fulton John Sheen

“Ti saluto Maestro e lo baciò”

Non appena commesso il crimine, il disgusto s’impadronì di Giuda. Le acque profonde del rimorso cominciarono ad agitarsi nella sua anima, ma, al pari di molte anime dei nostri giorni, egli fraintese il senso del rimorso, e ritornò da quelli con cui aveva negoziato e ai quali aveva venduto Nostro Signore per trenta denari d’argento, qualcosa come diciassette dollari d’oggi.

La Divinità è sempre tradita in misura ultra-sproporzionata rispetto al suo valore effettivo. Ogni qualvolta noi vendiamo Cristo, sia al fine di progredire in una qualsiasi carriera terrena – come coloro che abbandonano la Fede perché con una croce sulle spalle non possono conseguire alcun successo politico – sia per denaro, ci par sempre, in ultima analisi, d’essere stati truffati.

Non c’è quindi da stupirsi che Giuda riportasse i trenta denari a coloro che glieli avevano dati. Non bramava più ciò che prima aveva…

View original post 760 altre parole

IL TEMPO DELLA VITA CI È DATO PERCHÉ POSSIAMO FARE PENITENZA: “Se non facciamo ammenda del nostro passato, posponiamo e aumentiamo le nostre pene eterne”

Amici di Fulton John Sheen

La penitenza è il riconoscimento del nostro “passato”. Riconoscere il passato non è un fatto morboso: lo è piuttosto negarne l’esistenza. Questo passato influisce sul nostro futuro. Noi non siamo soltanto ciò che mangiamo: siamo ciò che i nostri peccati ci hanno fatto. Se non facciamo ammenda del nostro passato, posponiamo e aumentiamo le nostre pene eterne. Il tempo ci è dato solo perché possiamo fare penitenza. Chi ama veramente Dio, conscio di aver ferito l’Amore, rinuncerà volentieri ai suoi privilegi e si comporterà in modo da identificarsi in Cristo che ha cinque orrende piaghe alle mani, ai piedi e al costato.

In questo mondo la maggior parte di noi si preoccupa più della pena che del peccato, perché crede che il dolore fisico sia il più grande dei mali. La penitenza ci aiuta a rimettere queste idee false nella loro giusta prospettiva; chi trova gioia nella penitenza capisce che…

View original post 520 altre parole

PARTECIPARE ALLA MESSA È LO STESSO CHE ESSERE PRESENTI SUL CALVARIO: “Lo svantaggio di non aver vissuto all’epoca di Cristo è azzerato dalla Messa. Sulla croce, Egli ha potenzialmente redento tutta l’umanità; nella Messa noi rendiamo attuale quella Redenzione” FULTON SHEEN

La Messa, quindi, guarda avanti e indietro. Poiché viviamo nel tempo e possiamo servirci soltanto di simboli terreni, vediamo in successione quello che non è altro che un unico eterno movimento d’amore. Se una bobina cinematografica fosse dotata di coscienza, vedrebbe e capirebbe la storia in una volta; mentre noi non la afferriamo finché non ne vediamo lo svolgimento sullo schermo. Così accade con l’amore da cui Cristo ha preparato la sua venuta nell’Antico Testamento, ha offerto sé stesso sul Calvario e ora lo ripresenta nel sacrificio della Messa.

La Messa, di conseguenza, non è un’altra immolazione, ma una nuova presentazione dell’eterna vittima e la sua applicazione a noi. Partecipare alla Messa è lo stesso che essere presenti sul Calvario. Ma con alcune differenze. Sulla croce, Nostro Signore ha offerto sé stesso per tutta l’umanità; nella Messa noi applichiamo quella morte a noi stessi e uniamo il nostro sacrificio al suo.

Lo svantaggio di non aver vissuto all’epoca di Cristo è azzerato dalla Messa. Sulla croce, Egli ha potenzialmente redento tutta l’umanità; nella Messa noi rendiamo attuale quella Redenzione. Il Calvario è legato a un dato momento nel tempo e a una specifica collina nello spazio. La Messa temporalizza e spazializza quell’eterno atto di amore. Il sacrificio del Calvario è stato offerto in modo cruento mediante la separazione del suo corpo dal suo sangue.

Nella Messa, questa morte è presentata misticamente e sacramentalmente in modo incruento, mediante la consacrazione separata del pane e del vino. I due elementi non sono consacrati insieme, con parole del tipo: «Questo è il mio corpo e il mio sangue»; piuttosto, secondo le parole di Nostro Signore: «Questo è il mio corpo», si dice sul pane; poi, «Questo è il mio sangue», si dice sul vino. La consacrazione separata è una sorta di spada mistica che divide il corpo dal sangue, nel modo in cui il Signore è morto sul Calvario.

Supponiamo che ci sia un’eterna stazione radiofonica che trasmetta onde eterne di saggezza e illuminazione. Le persone che vivono in differenti epoche potrebbero sintonizzarsi a quella sapienza, assimilarla e applicarla a sé stessi. L’eterno atto di amore di Cristo è qualcosa con cui possiamo sintonizzarci nelle successive epoche storiche mediante la Messa. La Messa, di conseguenza, trae la sua realtà e la sua efficacia dal Calvario e non ha senso al di fuori di esso. Chi assiste alla Messa, solleva la croce dal suolo del Calvario per piantarla al centro del proprio cuore.

Questo è il solo perfetto atto d’amore, di sacrificio, di ringraziamento e di obbedienza con cui possiamo ripagare Dio; precisamente, quello che è offerto dal suo Figlio divino incarnato. Da noi stessi non siamo in grado di toccare il cielo perché non siamo abbastanza alti. Da noi stessi non possiamo toccare Dio. Abbiamo bisogno di un mediatore, qualcuno che sia Dio e uomo, che è Cristo.

Nessuna preghiera umana, nessun atto umano né abnegazione, nessun sacrificio è sufficiente a squarciare il cielo. Solo il sacrificio della croce può farlo ed è ciò che avviene nella Messa. Quando la celebriamo, per noi è come essere appesi alle sue vesti, aggrappati ai suoi piedi durante l’ascensione, stretti alle sue mani piagate mentre offre sé stesso al Padre celeste. Nascondendoci in lui, le nostre preghiere e i nostri sacrifici hanno il suo stesso valore. Nella Messa siamo una volta di più sul Calvario, associati a Maria, alla Maddalena, e a Giovanni, mentre vediamo tristemente alle nostre spalle i carnefici che disputano ai dadi le vesti del Signore.

Il sacerdote che offre il sacrificio semplicemente presta a Cristo la propria voce e le proprie dita. È Cristo il Sacerdote; è Cristo la Vittima. In tutti i sacrifici pagani e nei sacrifici giudaici, la vittima era sempre distinta dal sacerdote. Poteva trattarsi di una capra, un agnello o un toro. Ma quando è venuto Cristo, Egli, il Sacerdote, ha offerto sé stesso come Vittima. Nella Messa è Cristo che ancora offre sé stesso e che è la Vittima con la quale diventiamo una cosa sola.

(Fulton J. Sheen, da “I 7 Sacramenti” edizioni Ares)

Per acquistare il libro:

GIUDA: LA COLPA SENZA LA SPERANZA IN CRISTO È DISPERAZIONE E SUICIDIO! “È paradossale, ma noi cominciamo a essere buoni soltanto quando ci accorgiamo di essere cattivi”

Amici di Fulton John Sheen

Pietro si pentì nel Signore, mentre Giuda si pentì in se stesso. La differenza era enorme, come quella che vi può essere tra il sottoporre una causa all’autorità Divina e il sottoporla a se stessi; tra la Croce e il lettino dello psicanalista.

Giuda riconobbe di aver tradito il «sangue innocente» ma non volle mai esserne lavato. Pietro sapeva di aver peccato e cercò la Redenzione. Giuda sapeva di aver commesso un errore e cercò l’evasione, diventando il capolista di una lunga serie di fuggitivi che voltano le spalle alla Croce. Il perdono divino ha in sé il presupposto della libertà umana, mai quello della sua distruzione. Chissà se Giuda, fermo sotto l’albero dal quale gli sarebbe venuta la morte, abbia guardato, attraverso la vallata, l’Albero dal quale gli sarebbe potuta venire la Vita.

Giuda era il tipo che dice: «Sono un cretino!»; Pietro quello che dice: «Sono un peccatore!».

View original post 206 altre parole

ABBRACCIARE LE CROCI DELLA VITA: “Cosa ho fatto per meritarmi questo? Mio Dio, perché devo soffrire?” IL DOLORE SENZA CRISTO È SOFFERENZA, IL DOLORE CON CRISTO È SACRIFICIO

Amici di Fulton John Sheen

Ci sono molti bravi uomini e donne che si agitano su letti di dolore, i loro corpi consumati dalla lunga malattia, i loro cuori spezzati dalla sofferenza e dal dolore, o le loro menti torturate dalla perdita irreparabile di amici e fortuna. Se queste anime vogliono la pace, devono riconoscere che in questo mondo non esiste una connessione intrinseca tra peccato personale e sofferenza.

Un giorno: “Gesù che passava, vide un uomo, che era cieco dalla sua nascita. E i suoi discepoli gli chiesero: Maestro, chi ha peccato, quest’uomo o i suoi genitori, per esser nato cieco? Gesù rispose: Né quest’uomo ha peccato né i suoi genitori ”(Giovanni 9: 1–3).

Questo ci porta faccia a faccia con la Volontà imperscrutabile di Dio, che non possiamo capire, più che un topo in un pianoforte può capire perché un musicista lo disturba suonando. Le nostre menti meschine non possono capire i misteri…

View original post 1.922 altre parole

-DON DOLINDO RUOTOLO- Sia dato il bando alla mormorazione, alla maldicenza, alle dissensioni, e alle divisioni nella Chiesa: “La grande piaga della mormorazione su tutto ciò che in un modo o in un altro fanno i Superiori, arresta spesso tutta la circolazione della vita soprannaturale in una Diocesi”

Non si riformano i costumi con le ribellioni, ma con la vita di abnegazione, di preghiera e di apostolato, in piena ed umile dipendenza dalla legittima Autorità della Chiesa, come fecero S. Domenico, S. Francesco d’Assisi, e tanti altri Santi, splendore e gloria della Chiesa di Dio. Molti si lamentano che il mondo sia cattivo, dice S. Agostino, eppure se questi molti si migliorassero, il mondo sarebbe più buono. (…)

Le controversie e i dissensi rovinosi sono fenomeni violenti di purificazione nella Chiesa, che la liberano dagl’ingombri della sua vita; ma le contese latenti e dissimulate, che rimangono in lei come un eczema purulento, sono più comuni di quello che si creda. La grande piaga della mormorazione su tutto ciò che in un modo o in un altro fanno i Superiori, arresta spesso tutta la circolazione della vita soprannaturale in una Diocesi, in una Parrocchia, in una Comunità religiosa.

Il fenomeno delle dieci tribù dissidenti d’Israele si rinnova in piccolo dovunque c’è un’autorità, poichè tutti credono di poter riformare, e tutti si mostrano scontenti del regime al quale sottostanno. La prudenza dei capi sta nel non urtare soverchiamente la debolezza dei sudditi, ma il dovere strettissimo dei sudditi sta nel non presumere di dettare leggi all’autorità. Se c’è un disordine da riparare se ne parla ai Superiori con rispetto, come a rappresentanti di Dio, se non ascoltano le nostre suppliche, si ricorre alla preghiera, si volge lo sguardo sul proprio cuore, si migliora la propria vita, pensando che noi abbiamo la nostra parte di responsabilità in quello che avviene d’increscioso nel governo dei Superiori.

A che cosa serve il mormorare se non a rendere peggiori le situazioni? A che cosa servono gli ostruzionismi spirituali più o meno palliati, se non a paralizzare il bene ? Il Signore ci ha dato il mezzo per giungere là dove non può giungere la nostra attività; preghiamo ed umiliamoci, preghiamo e taciamo, affidando solo a Dio certe situazioni penose.

Alcune anime possono trovarsi nella dolorosa circostanza di essere oppresse innocentemente da un giogo aspro di avversità e di persecuzioni, da quelli stessi che rappresentano Dio. A volte persino i Santi hanno malmenato i Santi, come avvenne a S. Gerardo Maiella da parte di S. Alfonso M. De Liguori. In queste situazioni penosissime non rimane che tacere e pregare, riguardando la tribolazione come un dono speciale di Dio. Qualunque dichiarazione può peggiorare le disposizioni contrarie dell’avversario, e può determinare un male più grave.

Ricordiamoci che abbiamo un Padre Divino, una Mamma Celeste, e facciamo appello alla paternità di Dio ed alla maternità di Maria nelle nostre angustie. Quante grazie non si ottengono proprio perché non si fa appello alla paternità di Dio! È questa la chiave che apre il Cielo, è il fondamento della preghiera insegnataci da Gesù Cristo: “Padre nostro che sei nei Cieli”. Quante volte, vedendo intorno a noi un disordine vero, desideriamo eliminarlo non avendone una precisa missione da Dio! Facciamo allora le nostre dichiarazioni, e come frutto ne abbiamo una guerra aspra che non ci dà pace. Lasciamo le responsabilità a chi le ha, e contentiamoci di pregare e sopratutto di migliorare noi stessi. Ogni passo fatto per nostra iniziativa personale produce una dissensione maggiore e ci cagiona spesso amarezze inenarrabili e sterili.

Sia dato dunque il bando alla mormorazione, alla maldicenza, alle dissensioni, alle divisioni. Non perdiamo il tempo a protestare con gli uomini, ma parliamo a Dio. Pensiamo che la sua Provvidenza dispone tutto per nostro maggior bene, e che si vincono più battaglie col silenzio della preghiera che con le ire e le maldicenze. Quando si sparano i grandi cannoni che tirano a cento chilometri di distanza, il colpo non è diretto al bersaglio ma al cielo; il proiettile, sparato in linea, affonda nel terreno e non colpisce, dall’alto invece compie una parabola e va a segno. Cadano dall’alto i nostri desideri di restaurazione e di riforma, vadano a Dio i nostri sospiri angosciosi, e da Lui ricadano in terra; così non si producono le inutili e disastrose dissensioni che gettano lo scompiglio nell’armonia delle singole istituzioni della Chiesa.

La mormorazione è acqua che straripa e trascina tutto in rovina, la preghiera è acqua che svapora nel cielo e che ricade dolcemente come pioggia salutare. La mormorazione è fuoco d’incendio che non riscalda ma consuma, la preghiera è calore di sole che scende dall’alto e disgela anche i monti agghiacciati. Siamo più fedeli alla preghiera in ogni necessità ed in ogni angustia della vita e saremo nella Chiesa elementi di pace, di fecondità e di ordine.

(Don Dolindo Ruotolo dal commento al libro 2 delle Cronache)