CONCILIO DI TRENTO: Decreto e canoni sul peccato originale e sulla giustificazione del peccatore “Nessuno potrà essere giustificato-salvato se non l’accetterà fedelmente e fermamente”

 

(Il Concilio di Trento o Concilio Tridentino fu il XIX concilio ecumenico della Chiesa cattolica, aperto da papa Paolo III nel 1545 e chiuso, dopo numerose interruzioni, nel 1563. Con questo concilio venne definita la riforma della Chiesa cattolica (Controriforma) e la reazione alle dottrine del calvinismo e del luteranesimo (Riforma protestante).

Fu un concilio importante per la storia della Chiesa cattolica, tanto che l’aggettivo “tridentino” viene usato ancora oggi per definire alcuni aspetti caratteristici della Chiesa cattolica ereditati da questo concilio e mantenuti per i successivi tre secoli, fino ai concili Vaticano I e Vaticano II)

 

CONCILIO DI TRENTO: Decreto sul peccato originale, sulla giustificazione e canoni sulla  giustificazione

 

SESSIONE V (I7 giugno 1546)  
Decreto sul peccato originale.  

Perché la nostra fede cattolica, senza la quale è impossibile piacere a Dio (18), rimossi gli errori, resti integra e pura e perché il popolo cristiano non sia turbato da ogni vento di dottrina (19) dal momento che l’antico, famoso serpente (20), sempre nemico del genere umano, tra i moltissimi mali da cui è sconvolta la Chiesa di Dio in questi nostri tempi, ha suscitato nuovi e vecchi dissidi, anche nei riguardi del peccato originale e dei suoi rimedi il sacrosanto, ecumenico e generale Concilio Tridentino, legittimamente riunito nello Spirito santo, sotto la presidenza degli stessi tre legati della Sede Apostolica, volendo richiamare gli erranti e confermare gli incerti, seguendo le testimonianze delle sacre scritture, dei santi padri, dei concili piú venerandi ed il giudizio e il consenso della Chiesa stessa, stabilisce, confessa e dichiara quanto segue sul peccato originale.  

 

1. Chi non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comando di Dio, ha perso subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato creato e che è incorso per questo peccato di prevaricazione nell’ira e nell’indignazione di Dio, e, quindi, nella morte, che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitú di colui che, in seguito, ebbe il potere della morte e cioè il demonio (21); e che Adamo per quel peccato di prevaricazione fu peggiorato nell’anima e nel corpo: sia anatema.  

2. Chi afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non anche alla sua discendenza; che perdette per sé soltanto, e non anche per noi, la santità e giustizia che aveva ricevuto da Dio; o che egli, inquinato dal peccato di disobbedienza, abbia trasmesso a tutto il genere umano solo la morte e le pene del corpo, e non invece anche il peccato, che è la morte dell’anima: sia anatema. Contraddice infatti all’apostolo, che afferma: Per mezzo di un sol uomo il peccato entrò nel mondo e a causa del peccato la morte, e cosí la morte si trasmise a tutti gli uomini, perché in lui tutti peccarono (22).  

3. Chi afferma che il peccato di Adamo, uno per la sua origine, trasmesso con la generazione e non per imitazione, che aderisce a tutti, ed è proprio di ciascuno, possa esser tolto con le forze della natura umana, o con altro mezzo, al di fuori dei meriti dell’unico mediatore, il signore nostro Gesú Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue (23), diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione (24); o nega che lo stesso merito di Gesú Cristo venga applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo il modo proprio della Chiesa: sia anatema. Perché non esiste sotto il cielo altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che possiamo essere salvi (25). Da cui l’espressione: Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo (26) e l’altra: Tutti voi che siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo (27).  

4. Chi nega che i fanciulli, appena nati debbano esser battezzati, anche se figli di genitori battezzati oppure sostiene che essi sono battezzati per la remissione dei peccati, ma che non contraggono da Adamo alcun peccato originale, che sia necessario purificare col lavacro della rigenerazione per conseguire la vita eterna, e che, quindi, per loro la forma del battesimo per la remissione dei peccati non debba credersi vera, ma falsa sia anatema. Infatti, non si deve intendere in altro modo quello che dice l’apostolo: Per mezzo di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e col peccato la morte, cosí la morte si è trasmessa ad ogni uomo perché tutti gli uomini hanno peccato (28), se non nel senso in cui la Chiesa cattolica universale l’ha sempre inteso. Secondo questa norma di fede per tradizione apostolica anche i bambini, che non hanno ancora potuto commettere peccato, vengono veramente battezzati, affinché in essi sia purificato con la rigenerazione quello che contrassero con la generazione. Se, infatti, uno non rinasce per l’acqua e lo Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio (29).  

5. Chi nega che per la grazia del signore nostro Gesú Cristo, conferita nel battesimo, sia rimesso il peccato originale, o anche se asserisce che tutto quello che è vero e proprio peccato, non viene tolto, ma solo cancellato o non imputato (30) sia anatema. In quelli infatti che sono rinati a nuova vita Dio non trova nulla di odioso, perché non vi è dannazione per coloro (31) che col battesimo sono stati sepolti con Cristo nella morte (32), i quali non camminano secondo la carne (33), ma spogliandosi dell’uomo vecchio e rivestendosi del nuovo (34), che è stato creato secondo Dio, sono diventati innocenti, immacolati, puri, senza macchia, figli cari a Dio, eredi di Dio e coeredi di Cristo (35); di modo che assolutamente nulla li trattiene dall’ingresso nel cielo. Questo santo Sinodo confessa che tuttavia nei battezzati rimane la concupiscenza o passione. Ma, essendo questa lasciata per la lotta, non può nuocere a quelli che non acconsentono e che le si oppongono virilmente con la grazia di Gesú Cristo. Anzi, chi avrà combattuto secondo le regole, sarà coronato (36). 
Il santo Sinodo dichiara che mai la Chiesa cattolica ha inteso che venga chiamato “peccato” la concupiscenza, qualche volta chiamata dall’apostolo peccato (37), per il fatto che nei rinati alla grazia non è un vero e proprio peccato, ma perché ha origine dal peccato e ad esso inclina. Chi pensasse il contrario sia anatema.  

6. Questo santo Sinodo dichiara tuttavia, che non è sua intenzione comprendere in questo decreto, dove si tratta del peccato originale, la beata ed immacolata vergine Maria, madre di Dio, ma che si debbano osservare a questo riguardo le costituzioni di Papa Sisto IV (38), di felice memoria, sotto pena di incorrere nelle sanzioni in esse contenute che il Sinodo rinnova.

 

SESSIONE VI (13 gennaio I547)

Decreto sulla giustificazione

 
Proemio
 
In questi anni è stata divulgata con grave danno per molte anime e per l’unità della chiesa, una dottrina erronea sulla giustificazione. Perciò questo sacrosanto concilio tridentino ecumenico e generale, riunito legittimamente nello Spirito santo, a lode e gloria di Dio onnipotente, per la tranquillità della chiesa e per la salvezza delle anime, sotto la presidenza dei reverendissimi signori Gianmaria del Monte, cardinale vescovo di Palestrina, Marcello Cervini, cardinale presbitero del titolo di S. Croce in Gerusalemme, cardinali della santa chiesa romana, e legati apostolici de latere, a nome del nostro santissimo padre in Cristo e signore Paolo III, per divina provvidenza papa, intende esporre a tutti i fedeli cristiani la vera e sana dottrina sulla giustificazione che Gesù Cristo, sole di giustizia (45), autore e perfezionatore della nostra fede (46), ha insegnato che gli apostoli hanno trasmesso e che la chiesa cattolica, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, ha sempre ritenuto. E proibisce assolutamente che, d’ora innanzi, qualcuno osi credere, predicare e insegnare diversamente da quello che col presente decreto si stabilisce e si dichiara.
 
Capitolo I.
L’impotenza della natura e della legge a giustificare gli uomini.
 
Prima di tutto il santo sinodo dichiara che, per una conoscenza esatta e corretta della dottrina della giustificazione, è necessario che ognuno riconosca e confessi che tutti gli uomini, perduta l’innocenza per la prevaricazione di Adamo, fatti immondi (47) e (come dice l’Apostolo San Paolo) per natura figli dell’ira (48), come ha esposto nel decreto sul peccato originale, erano talmente servi del peccato (49) e sotto il potere del diavolo e della morte, che non solo i gentili con le forze della natura, ma neppure i Giudei con l’osservanza della lettera della legge di Mosè potevano esserne liberati e risollevati, anche se in essi il libero arbitrio non era affatto estinto, ma solo attenuato e indebolito.
 
Capitolo II.
L’economia della salvezza e il mistero della venuta di Cristo.
 
Perciò il Padre celeste, padre delle misericordie e Dio di ogni consolazione (50), quando giunse quella beata pienezza dei tempi (51), mandò agli uomini Gesù Cristo, suo figlio, annunciato e promesso, sia prima della legge, sia durante il tempo della legge da molti santi padri, affinché riscattasse i Giudei, che erano sotto la legge (52), e i gentili i quali non cercavano la giustizia, ottenessero la giustizia (53); e tutti ricevessero l’adozione di figli (54). Questo Dio ha posto quale propiziatore mediante la fede nel suo sangue (55), per i nostri peccati, e non solo per i nostri, ma anche per quelli di tutto l’universo (56).
 
Capitolo III.
Chi sono i giustificati da Gesù Cristo.
 
Ma benché egli sia risorto per tutti (57), tuttavia non tutti ricevono il beneficio della sua morte, ma solo quelli cui viene comunicato il merito della sua passione.
Come infatti gli uomini, in concreto, se non nascessero dalla discendenza del seme di Adamo, non nascerebbero ingiusti, proprio perché con questa propagazione, quando vengono concepiti, contraggono da lui la propria ingiustizia: così se essi non rinascessero nel Cristo, non potrebbero mai essere giustificati, proprio perché con quella rinascita viene attribuita loro, per il merito della sua passione la grazia per cui diventano giusti.
Per questo beneficio l’apostolo ci esorta a rendere sempre grazie al Padre, che ci ha fatti degni di partecipare alla eredità dei santi nella luce, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasportati nel regno del Figlio del suo amore, nel quale abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati (58).
 
Capitolo IV.
Descrizione della giustificazione dell’empio.
Suo modo sotto la grazia.
 
Queste parole indicano chiaramente che la giustificazione dell’empio è il passaggio dallo stato, in cui l’uomo nasce figlio del primo Adamo, allo stato di grazia e di adozione dei figli di Dio (59), per mezzo del secondo Adamo, Gesù Cristo, nostro Salvatore. Questo passaggio, dopo la promulgazione del Vangelo, non può avvenire senza il lavacro della rigenerazione (Battesimo) o senza il desiderio di esso, conformemente a quanto sta scritto: Se uno non rinascerà per acqua e Spirito santo, non può entrare nel regno di Dio (60).
 
Capitolo V.
Necessità degli adulti di prepararsi alla giustificazione, e da dove essa scaturisce.
 
Dichiara ancora il concilio che negli adulti l’inizio della stessa giustificazione deve prender la mosse dalla grazia preveniente di Dio, per mezzo di Gesù Cristo, cioè della chiamata, che essi ricevono senza alcun loro merito, di modo che quelli che coi loro peccati si erano allontanati da Dio, disposti dalla sua grazia, che sollecita ed aiuta, ad orientarsi verso la loro giustificazione, accettando e cooperando liberamente alla stessa grazia, così che, toccando Dio il cuore dell’uomo con l’illuminazione dello Spirito Santo, l’uomo non resti assolutamente inerte subendo quella ispirazione, che egli può anche respingere, né senza la grazia divina possa, con la sua libera volontà, rivolgersi alla giustizia dinanzi a Dio.
Perciò quando nelle sacre scritture si dice: Convertitevi a me, ed io mi rivolgerò a voi (61), si accenna alla nostra libertà e quando rispondiamo: Facci tornare, Signore, a te e noi ritorneremo (62), noi confessiamo di essere prevenuti dalla grazia di Dio.
 
Capitolo VI.
Il modo di prepararsi.
 
Gli uomini si dispongono alla stessa giustizia, quando, eccitati ed aiutati dalla grazia divina, ricevendo la fede mediante l’ascolto (63), Si volgono liberamente verso Dio, credendo vero ciò che è stato divinamente rivelato e promesso, e specialmente che l’empio viene giustificato da Dio col dono della sua grazia, mediante la redenzione che è in Cristo Gesù (64). Parimenti accade quando, riconoscendo di essere peccatori, scossi dal timore della divina giustizia passano a considerare la misericordia di Dio e sentono nascere in sé la speranza, confidando che Dio sarà loro propizio a causa del Cristo, e cominciano ad amarlo come fonte di ogni giustizia; e si rivolgono, quindi, contro il peccato con odio e detestazione, cioè con quella penitenza, che bisogna fare prima del battesimo; infine si propongono di ricevere il battesimo, di cominciare una nuova vita e di osservare i comandamenti divini.
Di questo atteggiamento sta scritto: È necessario che chiunque nascosta Dio, creda che egli esiste e che ricompensa quelli che lo cercano (65); e: Confida, figlio, ti sono rimessi i tuoi peccati (66); come pure: Il timore del Signore scaccia il peccato (67); e: Fate penitenza e ciascuno di voi sia battezzato nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati e riceverete il dono dello Spirito santo (68); e: Andate dunque e istruite tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato (69) Finalmente: Rivolgete al Signore i vostri cuori (70).
 
Capitolo VII.
Cosa è la giustificazione del peccatore e quali le sue cause.
 
A questa disposizione o preparazione segue la stessa giustificazione. Essa non è solo remissione dei peccati, ma anche santificazione e rinnovamento dell’uomo interiore, attraverso l’accettazione volontaria della grazia e dei doni, per cui l’uomo da ingiusto diviene giusto, e da nemico amico, così da essere erede secondo la speranza della vita eterna (71).
Cause di questa giustificazione sono: causa finale, la gloria di Dio e del Cristo e la vita eterna; causa efficiente la misericordia di Dio, che gratuitamente lava (72) e santifica, segnando ed ungendo (73) con lo Spirito della promessa, quello santo che è pegno della nostra eredità (74); causa meritoria è il suo dilettissimo unigenito e signore nostro Gesù Cristo, il quale, pur essendo noi suoi nemici (75), per l’infinito amore con cui ci ha amato (76), ci ha meritato la giustificazione con la sua santissima passione sul legno della croce e ha soddisfatto per noi Dio Padre. Causa strumentale è il sacramento del battesimo, che è il sacramento della fede (77), senza la quale a nessuno, mai, viene concessa la giustificazione. Finalmente, unica causa formale è la giustizia di Dio, non certo quella per cui egli è giusto, ma quella per cui ci rende giusti; con essa, cioè per suo dono, veniamo rinnovati interiormente nello spirito (78), e non solo veniamo considerati giusti, ma siamo chiamati tali e lo siamo di fatto (79), ricevendo in noi ciascuno la propria giustizia, nella misura in cui lo Spirito santo la distribuisce ai singoli come vuole (80) e secondo la disposizione e la cooperazione propria di ciascuno.
Quantunque infatti nessuno possa esser giusto, se non colui al quale vengono comunicati i meriti della passione del signore nostro Gesù Cristo, ciò, tuttavia, in questa giustificazione del peccatore, si opera quando, per merito della stessa santissima passione, l’amore di Dio viene diffuso mediante lo Spirito santo nei cuori (81) di coloro che sono giustificati e inerisce loro. Per cui nella stessa giustificazione l’uomo, con la remissione dei peccati, riceve insieme tutti questi doni per mezzo di Gesù Cristo nel quale è innestato: la fede, la speranza e la carità. Infatti la fede, qualora non si aggiungano ad essa la speranza e la carità, non unisce perfettamente a Cristo né rende membra vive del suo corpo. Per questo motivo è assolutamente vero affermare che la fede senza le opere è morta ed inutile (82) e che in Cristo non valgono né la circoncisione, né la incirconcisione, ma la fede operante per mezzo della carità (83).
Questa fede, secondo la tradizione apostolica, chiedono i catecumeni alla chiesa prima del sacramento del battesimo quando chiedono la fede che dà la vita eterna, che la fede non può garantire senza la speranza e la carità. È per questo che essi ascoltano subito la parola di Cristo: Se vuoi entrare nella vita, osserva i comandamenti (84). Perciò a chi riceve la vera giustizia cristiana, non appena rinato viene comandato di conservare candida e senza macchia la prima stola, donata loro da Gesù Cristo in luogo di quella che Adamo ha perso con la sua disobbedienza per sé e per noi. Essi dovranno portarla dinanzi al tribunale del signore nostro Gesù Cristo per avere la vita eterna (85).
 
Capitolo VIII.
Come si debba intendere che il peccatore è giustificato per la fede e gratuitamente.
 
Quando poi l’apostolo dice che l’uomo viene giustificato per la fede (86) e gratuitamente (87), queste parole si devono intendere secondo l’interpretazione accettata e manifestata dal concorde e permanente giudizio della chiesa cattolica e cioè che siamo giustificati mediante la fede, perché la fede è il principio dell’umana salvezza, il fondamento e la radice di ogni giustificazione, senza la quale è impossibile piacere a Dio (88), giungere alla comunione (89) che con lui hanno i suoi figli. Si dice poi che noi siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di ciò che precede la giustificazione – sia la fede che le opere – merita la grazia della giustificazione, se infatti è per grazia, non è per le opere; o altrimenti (come dice lo stesso apostolo (90)) la grazia non sarebbe più grazia.
 
Capitolo IX.
Contro la vana fiducia degli eretici.
 
Quantunque sia necessario credere che i peccati non vengano rimessi, né siano stati mai rimessi, se non gratuitamente dalla divina misericordia a cagione del Cristo: deve dirsi, tuttavia, che a nessuno che ostenti fiducia e certezza della remissione dei propri peccati e che si abbandoni in essa soltanto, vengono rimessi o sono stati rimessi i peccati, mentre fra gli eretici e gli scismatici potrebbe esservi, anzi vi è, in questo nostro tempo, e viene predicata con grande accanimento contro la chiesa cattolica questa fiducia vana e lontana da ogni vera pietà.
Ma neppure si può affermare che sia necessario che coloro che sono stati realmente giustificati, debbano credere assolutamente e senza alcuna esitazione, dentro di sé, di essere giustificati; e che nessuno venga assolto dai peccati e giustificato, se non chi crede fermamente di essere assolto e giustificato e che l’assoluzione e la giustificazione sia operata per questa sola fede, quasi che chi non credesse ciò, dubiti delle promesse di Dio e dell’efficacia della morte e della resurrezione del Cristo.
Infatti come nessun uomo pio deve dubitare della misericordia di Dio, del merito del Cristo, del valore e dell’efficacia dei sacramenti, così ciascuno nel considerare se stesso, la propria debolezza e le sue cattive disposizioni, ha motivo di temere ed aver paura della sua grazia, non potendo alcuno sapere con certezza di fede, scevra di falso, se ha conseguito la grazia di Dio.
 
Capitolo X.
L’aumento della grazia ricevuta.
 
Gli uomini così giustificati e divenuti amici e familiari di Dio (91), progredendo di virtù in virtù (92), si rinnovano (come dice l’apostolo (93)) di giorno in giorno, mortificando, cioè, le membra del proprio corpo (94) e mostrandole come armi di giustizia per la santificazione (95), attraverso l’osservanza dei comandamenti di Dio e della chiesa: nella stessa giustizia ricevuta per la grazia di Cristo, con la cooperazione della fede alle buone opere, essi crescono e vengono resi sempre più giusti, come è scritto: Chi è giusto, continui a compiere atti di giustizia (96), ed ancora: Non aspettare fino alla morte a giustificarti (97), e di nuovo: Voi dunque vedete che l’uomo è giustificato dalle opere e non dalla fede soltanto (98). Questo aumento della giustizia chiede la santa chiesa quando prega: Dacci, o Signore, un aumento di fede, di speranza e di carità (99).
 
Capitolo XI.
Dell’osservanza dei comandamenti e della sua necessità e possibilità.
 
Nessuno, poi, per quanto giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti, nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e proibita dai padri sotto pena di scomunica (100), esser cioè impossibile per l’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio, infatti, non comanda l’impossibile; ma quando comanda ti ammonisce di fare quello che puoi (101) e di chiedere quello che non puoi, ed aiuta perché tu possa: i suoi comandamenti non sono gravosi (102), il suo giogo è soave e il peso leggero (103).
Quelli infatti che sono figli di Dio, amano Cristo e quelli che lo amano (come dice lui stesso (104)) osservano le sue parole, cosa che con l’aiuto di Dio certamente possono fare. Quantunque infatti in questa vita mortale, per quanto santi e giusti, qualche volta essi cadono almeno in mancanze leggere e quotidiane, che si dicono anche veniali, non per questo cessano di essere giusti. Ed è propria dei giusti l’espressione, umile e verace: Rimetti a noi i nostri debiti (105).
Deriva da ciò, che gli stessi giusti debbano sentirsi tanto maggiormente obbligati a camminare per la via della giustizia, quanto più, liberi già dal peccato e fatti schiavi di Dio (106), vivendo con moderazione, giustizia e pietà (107), possono progredire per mezzo di Gesù Cristo, mediante il quale ebbero accesso a questa grazia (108). Dio infatti non abbandona con la sua grazia quelli che una volta ha giustificato, a meno che prima non sia abbandonato da essi (109).
Nessuno quindi deve cullarsi nella sola fede, credendo di essere stato costituito erede e di conseguire l’eredità per la sola fede, anche senza soffrire con Cristo per poi esser con lui glorificato (110). Cristo stesso, infatti, come dice l’apostolo, sebbene fosse Figlio, imparò, da ciò che sofferse, l’obbedienza; sicché reso perfetto, divenne principio di eterna salvezza per tutti quelli che gli obbediscono (111). Per questo lo stesso apostolo ammonisce quelli che sono stati giustificati, dicendo: Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Io dunque corro, ma non come chi è senza meta, faccio il pugilato, ma non come chi batte l’aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo avere predicato agli altri, venga io stesso squalificato (112).
Ugualmente Pietro principe degli apostoli, dice: Adoperatevi sempre più per rendere sicura la vostra vocazione e la vostra elezione; poiché facendo questo voi mai peccherete (113).
Deriva da ciò, che sono in contrasto con la dottrina della vera religione quelli che dicono che il giusto pecca, almeno venialmente, in ogni opera buona (114); o (cosa ancora più insostenibile) che merita le pene eterne. E sono pure in contrasto quelli che sostengono che in tutte le opere buone i giusti peccano, se, eccitando in quelle la loro pigrizia ed esortando se stessi a correre nello stadio, insieme anzitutto con la gloria di Dio, essi guardano anche al premio eterno poiché sta scritto: Ho piegato il mio cuore ad osservare i tuoi precetti, per la ricompensa (115). E di Mosè l’apostolo (116) dice che tendeva alla ricompensa.
 
Capitolo XII.
Bisogna evitare la presunzione temeraria della predestinazione.
 
Nessuno, inoltre, fino che vivrà in questa condizione mortale, deve presumere talmente del mistero segreto della divina predestinazione, da ritenere per certo di essere senz’altro nel numero dei predestinati (117), quasi fosse vero che chi è stato giustificato o non possa davvero più peccare, o se anche peccasse, debba ripromettersi un sicuro ravvedimento. Infatti non si possono conoscere quelli che Dio si è scelti se non per una speciale rivelazione.
 
Capitolo XIII.
Del dono della perseveranza.
 
Similmente, per quanto riguarda il dono della perseveranza, di cui sta scritto: Chi avrà perseverato sino alla fine, questi sarà salvo (118) (dono che non si può avere se non da chi ha tanta potenza da mantenere in piedi colui che già vi è (119), perché perseveri, e da riporvi colui che cade), nessuno si riprometta qualche cosa con assoluta certezza, quantunque tutti debbano nutrire e riporre fiducia fermissima nell’aiuto di Dio. Dio infatti se essi non vengono meno alla sua grazia, come ha cominciato un’opera buona, così la perfezionerà (120), suscitando il volere e l’operare (121).
Tuttavia quelli che credono di esser in piedi, guardino di non cadere (122), e lavorino per la propria salvezza con timore e tremore (123), nelle fatiche, nelle veglie, nelle elemosine, nelle preghiere e nelle offerte, nei digiuni e nella castità (124). Proprio perché sanno di essere rinati alla speranza della gloria (125), e non ancora alla gloria, devono temere per la battaglia che ancora rimane contro la carne, contro il mondo, contro il diavolo, nella quale non possono riuscire vincitori, se non si atterranno con la grazia di Dio, alle parole dell’apostolo: Noi siamo debitori, ma non verso la carne, da dovere vivere secondo la carne. Se vivete secondo la carne, morrete; se invece per mezzo dello Spirito fate morire le azioni del corpo, vivrete (126).
 
Capitolo XIV.
Di quelli che cadono e della loro riparazione.
 
Quelli poi che col peccato sono venuti meno alla grazia della giustificazione, potranno nuovamente essere giustificati, se procureranno, sotto l’ispirazione di Dio, di recuperare la grazia perduta attraverso il sacramento della penitenza, per merito del Cristo. Questo modo di essere giustificato consiste nella riparazione di colui che è caduto; quella riparazione che i santi padri chiamarono, con espressione adatta, la seconda tavola dopo il naufragio della grazia perduta (127). Infatti, per quelli che cadono in peccato dopo il battesimo, Gesù Cristo ha istituito il sacramento della penitenza, quando disse: Ricevete lo Spirito santo. A chi rimetterete i peccati saranno loro rimessi, e a chi li riterrete, saranno ritenuti (128).
Bisogna quindi, insegnare che la penitenza del cristiano dopo la caduta è di natura molto diversa da quella del battesimo e che essa comporta non solo la cessazione dai peccati e la loro detestazione, cioè un cuore contrito ed umiliato (129), ma anche la confessione sacramentale dei medesimi, almeno nel desiderio e da farsi a suo tempo e l’assoluzione del sacerdote; e così pure la soddisfazione col digiuno, con le elemosine, con le orazioni e con le altre pie pratiche della vita spirituale, non certo per la pena eterna, che è rimessa con la colpa mediante il sacramento o il desiderio del sacramento, ma per la pena temporale, che (come insegna la sacra scrittura) non sempre viene totalmente rimessa, come nel battesimo, a quelli che, ingrati verso la grazia di Dio, che hanno ricevuto, contristarono lo Spirito santo (130), ed osarono violare (131) il tempio del Signore.
Di questa penitenza sta scritto: Ricordati dunque da dove sei caduto, ravvediti e compi le opere di prima (132). Ed inoltre: La tristezza che è secondo Dio, produce un pentimento salutare che non si rimpiange, perché conduce a salvezza (133). E di nuovo: Ravvedetevi (134); e: Fate degni frutti di penitenza (135).
 
Capitolo XV.
Con qualunque peccato mortale si perde la grazia, ma non la fede.
 
Contro le maligne insinuazioni di certi spiriti, i quali con parole dolci e seducenti ingannano i cuori dei semplici (136), bisogna affermare che non solo con l’infedeltà, per cui si perde la stessa fede, ma anche con qualsiasi altro peccato mortale, sebbene non si perda la fede, si perde però la grazia della giustificazione. Con ciò difendiamo l’insegnamento della legge divina, che esclude dal regno di Dio non soltanto gli infedeli, ma anche i fedeli impuri, adulteri, effeminati, sodomiti, ladri, avari, ubriaconi, maledici, rapaci e tutti gli altri che commettono peccati mortali, da cui con l’aiuto della grazia potrebbero astenersi (137) e a causa dei quali vengono separati dalla grazia del Cristo (138).
 
Capitolo XVI.
Del frutto della giustificazione, ossia del merito delle buone opere, e del modo ai questo merito.
 
Ora agli uomini giustificati in questo modo, sia che abbiano sempre conservato la grazia ricevuta, sia che, dopo averla perduta, l’abbiano recuperata si devono proporre le parole dell’apostolo: Abbondate in ogni opera buona, sapendo che il vostro lavoro nel Signore non è vano (139). Egli infatti non è ingiusto e non dimentica ciò che avete fatto, né l’amore che avete dimostrato per il suo nome (140). E: non abbandonate dunque la vostra fiducia, alla quale è riservata una grande ricompensa (141).
Perciò a quelli che operano bene fino alla fine (142) e sperano in Dio deve proporsi la vita eterna, sia come grazia promessa misericordiosamente ai figli di Dio per i meriti del Cristo Gesù, sia come ricompensa da darsi fedelmente, per la promessa di Dio stesso, alle loro opere buone e ai loro meriti. Questa è infatti quella corona di giustizia che, dopo la sua lotta e la sua corsa, l’apostolo diceva essere stata messa da parte per lui e che gli sarebbe stata data dal giusto giudice, e non a lui solo, ma anche a tutti quelli che amano la sua venuta (143).
Poiché infatti lo stesso Gesù Cristo, come il capo nelle membra e la vite nei tralci (144), trasfonde continuamente la sua virtù in quelli che sono giustificati, virtù che sempre precede, accompagna e segue le loro opere buone, e senza la quale non potrebbero in alcun modo piacere a Dio ed esser meritorie, si deve credere che niente altro manchi agli stessi giustificati, perché si dica che essi, con le opere che hanno compiuto in Dio (145), hanno pienamente soddisfatto alla legge divina, per quanto possibile in questa vita, e che hanno veramente meritato di ottenere a suo tempo la vita eterna (se tuttavia moriranno in grazia (146)). Dice, infatti, il Cristo, nostro Salvatore: Chi berrà l’acqua che gli darò io, non avrà più sete in eterno; ma l’acqua che gli darò, diventerà in lui sorgente di acqua zampillante per la vita eterna (147).
In tal modo né si esalta la nostra giustizia come se provenisse proprio da noi (148), né si pone in ombra o si rifiuta la giustizia di Dio (149). Infatti quella giustizia che si dice nostra, perché inerente a noi ci giustifica, è quella stessa di Dio, perché ci viene infusa da Dio per i meriti del Cristo.
Né si deve trascurare che, quantunque nelle sacre Scritture si dia tanta importanza alle opere buone, che perfino a chi ha dato a uno dei suoi piccoli un bicchiere d’acqua fresca Cristo promette che non resterà senza ricompensa (150), e l’apostolo testimoni: la nostra presente tribolazione momentanea e leggera ci procura un incommensurabile e eterno cumulo di gloria (151), mai un cristiano deve confidare o gloriarsi di se stesso e non nel Signore (152), il quale è talmente buono verso tutti gli uomini, da volere che diventino loro meriti, quelli che sono suoi doni (153).
E poiché tutti pecchiamo in molte maniere (154), ciascuno deve avere dinanzi agli occhi con la misericordia e la bontà anche la severità e il giudizio, né alcuno deve giudicare se stesso, anche se non fosse consapevole di nessuna colpa (155) poiché tutta la vita degli uomini deve essere esaminata e giudicata non secondo il giudizio umano, ma secondo quello di Dio, il quale illuminerà i segreti Più occulti, e renderà manifesti i consigli dei cuori; e allora ciascuno avrà da Dio la sua lode (156); che, come sta scritto, renderà a ciascuno secondo le sue opere (157).
Dopo questa dottrina cattolica della giustificazione, – e nessuno potrà essere giustificato se non l’accetterà fedelmente e fermamente (158) -, è sembrato opportuno al santo sinodo aggiungere i seguenti canoni, perché ognuno sappia non solo quello che deve credere e seguire, ma anche quello che dovrà evitare e fuggire.

 

CANONI SULLA GIUSTIFICAZIONE

 
1. Se qualcuno afferma che l’uomo può essere giustificato davanti a Dio dalle sue opere, compiute con le sole forze umane, o con il solo insegnamento della legge, senza la grazia divina meritata da Gesù Cristo: sia anatema.
 
2. Se qualcuno afferma che la grazia divina meritata da Gesù Cristo viene data solo perché l’uomo possa più facilmente vivere giustamente e meritare la vita eterna, come se col libero arbitrio, senza la grazia egli possa realizzare l’una e l’altra cosa, benché faticosamente e con difficoltà: sia anatema.
 
3. Se qualcuno afferma che l’uomo, senza previa ispirazione ed aiuto dello Spirito santo, può credere, sperare ed amare o pentirsi come si conviene, perché gli venga conferita la grazia della giustificazione: sia anatema.
 
4. Se qualcuno dice che il libero arbitrio dell’uomo, mosso ed eccitato da Dio, non coopera in nessun modo esprimendo il proprio assenso a Dio, che lo muove e lo prepara ad ottenere la grazia della giustificazione; e che egli non può dissentire, se lo vuole, ma come cosa senz’anima non opera in nessun modo e si comporta del tutto passivamente: sia anatema.
 
5. Se qualcuno afferma che il libero arbitrio dell’uomo dopo il peccato di Adamo è perduto ed estinto; o che esso è cosa di sola apparenza anzi nome senza contenuto e finalmente inganno introdotto nella chiesa da Satana: sia anatema.
 
6. Se qualcuno afferma che non è in potere dell’uomo rendere cattive le sue vie, ma che è Dio che opera il male come il bene, non solo permettendoli, ma anche volendoli in sé e per sé, di modo che possano considerarsi opera sua propria il tradimento di Giuda non meno che la chiamata di Paolo: sia anatema.
 
7. Se qualcuno dice che tutte le opere fatte prima della giustificazione, in qualunque modo siano compiute, sono veramente peccati che meritano l’odio di Dio, e che quanto più uno si sforza di disporsi alla grazia tanto più gravemente pecca: sia anatema.
 
8. Se qualcuno afferma che il timore dell’inferno, per il quale, dolendoci dei peccati, ci rifugiamo nella misericordia di Dio o ci asteniamo dal male, è peccato e rende peggiori i peccatori: sia anatema.
 
9. Se qualcuno afferma che l’empio è giustificato dalla sola fede, così da intendere che non si richieda nient’altro con cui cooperare al conseguimento della grazia della giustificazione e che in nessun modo è necessario che egli si prepari e si disponga con un atto della sua volontà: sia anatema.
 
10. Se qualcuno dice che gli uomini sono giustificati senza la giustizia del Cristo mediante la quale egli ha meritato per noi, o che essi sono formalmente giusti proprio per essa: sia anatema.
 
11. Se qualcuno afferma che gli uomini sono giustificati o per la sola imputazione della giustizia del Cristo, o con la sola remissione dei peccati, senza la grazia e la carità che è diffusa nei loro cuori mediante lo Spirito santo (159) e inerisce ad essi; o anche che la grazia, con cui siamo giustificati, è solo favore di Dio: sia anatema.
 
12. Se qualcuno afferma che la fede giustificante non è altro che la fiducia nella divina misericordia, che rimette i peccati a motivo del Cristo, o che questa fiducia sola giustifica: sia anatema.
 
13. Chi afferma che per conseguire la remissione dei peccati è necessario che ogni uomo creda con certezza e senza alcuna esitazione della propria infermità e indisposizione, che i peccati gli sono rimessi: sia anatema.
 
14. Se qualcuno afferma che l’uomo è assolto dai peccati e giustificato per il fatto che egli crede con certezza di essere assolto e giustificato, o che nessuno è realmente giustificato, se non colui che crede di essere giustificato, e che l’assoluzione e la giustificazione venga operata per questa sola fede: sia anatema.
 
15. Se qualcuno afferma che l’uomo rinato e giustificato è tenuto per fede a credere di essere certamente nel numero dei predestinati: sia anatema.
 
16. Se qualcuno dice, con infallibile e assoluta certezza, che egli avrà certamente il grande dono della perseveranza finale (l60) (a meno che non sia venuto a conoscere ciò per una rivelazione speciale): sia anatema.
 
17. Se qualcuno afferma che la grazia della giustificazione viene concessa solo ai predestinati alla vita, e che tutti gli altri sono bensì chiamati, ma non ricevono la Grazia, in quanto predestinati al male per divino volere: sia anatema.
 
18. Se qualcuno dice che anche per l’uomo giustificato e costituito in grazia i comandamenti di Dio sono impossibili ad osservarsi, sia anatema.
 
19. Chi afferma che nel Vangelo non si comanda altro, fuorché la fede, che le altre cose sono indifferenti, né comandate, né proibite, ma libere; o che i dieci comandamenti non hanno nulla a che vedere coi cristiani: sia anatema.
 
20. Se qualcuno afferma che l’uomo giustificato e perfetto quanto si voglia non è tenuto ad osservare i comandamenti di Dio e della chiesa, ma solo a credere, come se il Vangelo non fosse altro che una semplice e assoluta promessa della vita eterna, non condizionata all’osservanza dei comandamenti: sia anatema.
 
21. Se qualcuno afferma che Gesù Cristo è stato dato agli uomini da Dio come redentore, in cui confidare e non anche come legislatore, cui obbedire: sia anatema.
 
22. Se qualcuno afferma che l’uomo giustificato può perseverare nella giustizia ricevuta senza uno speciale aiuto di Dio, o non lo può nemmeno con esso: sia anatema.
 
23. Se qualcuno afferma che l’uomo, una volta giustificato, non può più peccare, né perdere la grazia, e che quindi chi cade e pecca, in realtà non mai è stato giustificato; o, al contrario, che si può per tutta la vita evitare ogni peccato, anche veniale, senza uno speciale privilegio di Dio, come la chiesa ritiene della beata Vergine: sia anatema.
 
24. Se qualcuno afferma che la giustizia ricevuta non viene conservata ed anche aumentata dinanzi a Dio con le opere buone, ma che queste sono solo frutto e segno della giustificazione conseguita, e non anche causa del suo aumento: sia anatema.
 
25. Se qualcuno afferma che in ogni opera buona il giusto pecca almeno venialmente, o (cosa ancor più intollerabile) mortalmente, e quindi merita le pene eterne, e che non viene condannato solo perché Dio non gli imputa a dannazione quelle opere: sia anatema.
 
26. Se qualcuno afferma che i giusti non devono aspettare e sperare da Dio – per la sua misericordia e per tutti i meriti di Gesù Cristo – l’eterna ricompensa in premio delle buone opere che essi hanno compiuto in Dio (161), qualora, agendo bene ed osservando i divini comandamenti, abbiano perseverato fino alla fine: sia anatema.
 
27. Se qualcuno afferma che non vi è peccato mortale, se non quello della mancanza di fede, o che la grazia, una volta ricevuta, non può esser perduta con nessun altro peccato, per quanto grave ed enorme, salvo quello della mancanza di fede: sia anatema.
 
28. Se qualcuno afferma che, perduta la grazia col peccato, si perde sempre insieme anche la fede, o che la fede che rimane non è vera fede, in quanto non è viva (162), o che colui che ha la fede senza la carità, non è cristiano: sia anatema.
 
29. Se qualcuno afferma che chi dopo il battesimo è caduto nel peccato non può risorgere con la grazia di Dio; o che può recuperare la grazia perduta, ma per la sola fede, senza il sacramento della penitenza, come la santa chiesa romana e universale, istruita da Cristo signore e dai suoi apostoli, ha finora creduto, osservato e insegnato: sia anatema.
 
30. Se qualcuno afferma che, dopo aver ricevuto la grazia della giustificazione, a qualsiasi peccatore pentito viene rimessa la colpa e cancellato il debito della pena eterna in modo tale che non gli rimanga alcun debito di pena temporale da scontare sia in questo mondo sia nel futuro in purgatorio, prima che possa essergli aperto l’ingresso al regno dei cieli: sia anatema.
 
31. Se qualcuno afferma che colui che è giustificato pecca, quando opera bene in vista della eterna ricompensa: sia anatema.
 
32. Se qualcuno afferma che le opere buone dell’uomo giustificato sono doni di Dio, così da non essere anche meriti di colui che è giustificato, o che questi con le buone opere da lui compiute per la grazia di Dio e i meriti di Gesù Cristo (di cui è membro vivo), non merita realmente un aumento di grazia, la vita eterna e il conseguimento della stessa vita eterna (posto che muoia in grazia) ed anche l’aumento della gloria: sia anatema.
 
33. Se qualcuno afferma che con questa dottrina cattolica della giustificazione, espressa dal santo sinodo col presente decreto, si riduce in qualche modo la gloria di Dio o i meriti di Gesù Cristo nostro signore, e non piuttosto si manifesta la verità della nostra fede e infine la gloria di Dio e di Gesù Cristo: sia anatema.
 
 
18. Eb 11, 6.  19. Ef 4, 14.  20. Cfr. Ap 12, 9; 20, 2.  21. Eb 2, 14.  22. Rm 5, 12.  23. Cfr. Rm 5, 9-10.  24. 1 Cor 1, 30.  25. At 4, 12.  26. Gv 1, 29.  27. Gal 3, 27.  28. Rm 5, 12.  29. Gv 3, 5.  30. Cfr. AGOSTINO, Contra duas epistolas Pelagianorum I, 13 (26) (CSEL 60, 445).  31. Cfr. Rm 8, 1.  32. Cfr. Rm 6, 4.  33. Rm 8, 1 (solo nella vulgata).  34. Cfr. Col 3, 9-10; Ef 4, 24.  35. Rm 8, 17.  36. II Tm 2, 5.  37. Cfr. Rm 7, 14, I7, 20.  38. Cc. 1 e 2, III, 12, in Exstrav. comm. (Fr 2, 770); C. 12. D. XXXVII (Fr 1, 139). 
 
45. Cfr. Ml 3, 20 (4, 2, della Vulgata).  46. Cfr. Eb 12, 2.  47. Cfr. Is, 64, 6.  48. Ef 2, 3.  49. Cfr. Rm 6, 20.  50. II Cor 1, 3.  51. Cfr. Gal 4, 4.  52. Gal 4, 5.  53. Rm 9, 30.  54. Cfr. Gal 4, 5.  55. Rm 3, 25.  56. I Gv 2, 2.  57. II Cor 5, 15.  58. Col 1, 12-14  59. Cfr. Rm 8, 23.  60. Gv 3, 5.  61. Zc 1, 3.  62. Lm 5, 21.  63. Cfr. Rm 10, 17.  64. Rm 3, 24.  65. Eb 11, 6.  66. Mt 9, 2.  67. Ecli (Sir) 1, 27 (Vulgata), trad. it. 1, 21.  68. At 2, 38.  69. Mt 28, 19-20.  70. I Re 7, 3.  71. Tt 3, 7.  72. Cfr. I Cor 6, 11.  73. Cfr. II Cor 1, 21-22.  74. Ef 1, 13-14.  75. Cfr. Rm 5, 10.  76. Ef 2, 4.  77. Cfr. AGOSTINO, Ep. 98 ad Bonifatium, 9 (CSEL 34/2, 530 segg.).  78. Cfr. Ef 4, 23.  79. Cfr. I Gv 3, 1.  80. Cfr. I Cor 12, 11.  81. Cfr. Rm 5, 5. 
 

82. Cfr. Gc 2, 17, 20.  83. Gal 5, 6.  84. Mt 19,17.  85. Cfr. Lc 15. 22; AGOSTINO, De genesi ad litt., VI. 27 (CSEL 28/1, 199); cfr. Rituale Romano per l’amministrazione del battesimo.  86. Cfr. Rm 3, 28 e altri.  87. Cfr. Rm 3, 24.  88. Eb 11, 6.  89. II Pt 1, 4.  90. Rm 11, 6.  91. Cfr. Ef 2, 19.  92. Sal 83, 8.  93. Cfr. II Cor 4, 16.  94. Cfr. Col 3, 5.  95. Cfr. Rm 6, 13 e 19.  96. Ap 22, 11.  97. Ecli (Sir) 18, 22.  98. Gc 2, 24.  99. Nella preghiera della XIII domenica tra l’anno.  100. Cfr. tra gli altri il Conc. Arausicano II (529) dopo il c. 25 (Msi 8, 717).  101. Cfr. AGOSTINO, De natura et gratia, 43 (50) (CSEL 60, 270).  l02. Cfr. I Gv 5, 3.  103. Cfr. Mt 11, 30.  104. Cfr. Gv 14, 23.  105. Mt 6, I2.  106. Rm 6, 22.  107. Tt 2, 12.  108. Cfr. Rm 5, 2.  109. Cfr. AGOSTINO, De natura et gratia, 26 (29) (CSEL 60, 254) e anche altre volte in altre opere di Agostino.  110. Cfr. Rm 8, 17.  111. Eb 5, 8 e 9.  112. I Cor 9, 24, 26-27.  113. II Pt 1, 10.  114. Cfr. Bolla Exurge Domine, art. 31 segg. (Dn 77I segg.).  115. Sal 118, 112.  116. Cfr. Eb 11, 26.  117. Cfr. AGOSTINO, De corrept. et gr., 15 (46) (PL 44, 944).  118. Mt 10, 22; 24, 13.  119. Cfr. Rm 14, 4.  120. Cfr. Fil 1, 6.  121. Cfr. Fil 2, 13.  122. Cfr. I Cor 10, 12.  123. Cfr. Fil 2, 12.  124. Cfr. II Cor 6, 5-6. 

 

125. Cfr. I Pt 1, 3.  126. Rm 8, 12-13.  127. GEROLAMO. Ep 84, 6 e Ep 130, 9 (CSEL, 55, 128; 56, 189); TERTULLIANO, De Poenitentia, c. 7 segg. (PL 1, 1241 segg.).  128. Gv 20, 22-23; cfr. Mt 16, 19.  129. Sal 50, 19.  130. Cfr. Ef 4, 30.  131. Cfr. I Cor 3, 17.  132. Ap 2, 5.  133. II Cor 7, 10.  134. Mt 3, 2; 4, 17.  135. Lc 3, 8; Mt 3, 8.  136. Rm 16, 18.  137. Cfr. II Cor 12, 9; Fil 4, 13.  138. Cfr. I Cor 6. 9-10; I Tm 1, 9-10.  139. I Cor 15, 58.  140. Eb 6, 10.  141. Eb 10, 35.  142. Mt 10, 22.  143. Cfr. II Tm 4, 7-8.  144. Cfr. Gv 15, 1 segg.  145. Cfr. Gv 3, 21.  146 Cfr. Ap 14, 13.  147. Gv 4, 13-14.  148. Cfr. II Cor 3, 5.  149. Cfr. Rm 10, 3.  150. Cfr. Mt 10, 42; Mc 9, 40.  151. II Cor 4, 17.  152. Cfr. I Cor 1, 31, II Cor 10, 17 (gr. 9, 23-24).  153. Cfr. CELESTINO I. Ep. ad episcopos Galliae, c. 12 (PL 50, 536).  154. Gv 3, 2.  155. Cfr. I Cor 4, 3-4.  156. I Cor 4, 5.  157. Mt 16, 27; Rm 2, 6; Ap 22, 12.  158. Cfr. l’inizio del simbolo Atanasiano.  159. Cfr. Rm 5, 5.  160. Cfr. Mt 10, 22; 24, 13.  161. Cfr. Gv 3, 21.  162. Cfr. Gc 2, 26. 

 
(Dal CONCILIO DI TRENTO)
 
 

San Gregorio magno: “Colui che ama veramente Dio, ne osserva i comandamenti, e Dio entra nel suo cuore e vi rimane, perché l’amor di Dio riempie talmente il suo cuore, che al tempo della tentazione, non si muove” «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23)

Gesù: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23)

 

San Gregorio magno, Papa e Dottore della Chiesa:

Lo Spirito Santo stesso è amore. Perciò Giovanni dice: “Dio è amore” (1Gv 4,8). Chi con tutto il cuore cerca Dio, ha già colui che ama. E nessuno potrebbe amare Dio, se non possedesse colui che ama. Ma, ecco, se a uno di voi si domandasse se egli ami Dio, egli fiduciosamente e con sicurezza risponderebbe di sì. Però a principio della lettura avete sentito che la Verità dice: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola” (Gv 14,23). La prova dell’amore è l’azione. Perciò Giovanni nella sua epistola dice: “Chi dice di amar Dio, ma non ne osserva i precetti, è bugiardo” (1Gv 4,20). Allora veramente amiamo Dio, quando restringiamo il nostro piacere a norma dei suoi comandamenti. Infatti chi corre ancora dietro a piaceri illeciti, non può dire d’amar Dio, alla cui volontà poi contraddice.

«Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23). Pensate che festa, fratelli carissimi; avere in casa Dio! Certo, se venisse a casa vostra un ricco o un amico molto importante, voi vi affrettereste a pulir tutto, perché nulla ne turbi lo sguardo. Purifichi, dunque, le macchie delle opere, chi prepara a Dio la casa nella sua anima. Ma guardate meglio le parole: “Verremo e metteremo casa presso di lui”. In alcuni, cioè, Dio vi entra, ma non vi si ferma, perché questi, attraverso la compunzione, fanno posto a Dio, ma, al momento della tentazione, si dimenticano della loro compunzione, e tornano al peccato, come se non l’avessero mai detestato. Invece colui cha ama veramente Dio, ne osserva i comandamenti, e Dio entra nel suo cuore e vi rimane, perché l’amor di Dio riempie talmente il suo cuore, che al tempo della tentazione, non si muove. Questo, allora, ama davvero, poiché un piacere illecito non ne cambia la mente. Tanto più uno si allontana dall’amore celeste quanto più s’ingolfa nei piaceri terrestri. Perciò è detto ancora: “Chi non mi ama, non osserva i miei comandamenti”(Gv 14,24). Rientrate in voi stessi, fratelli; esaminate se veramente amate Dio, ma non credete a voi stessi, se non avete la prova delle azioni. Guardate se con la lingua, col pensiero, con le azioni amate davvero il Creatore. L’amor di Dio non è mai ozioso. Se c’è, fa cose grandi; se non ci sono le opere, non c’è amore.

“E le parole che avete udito, non son mie, ma del Padre che mi ha mandato” (Gv 14,24). Sapete, fratelli, che chi parla è il Verbo del Padre, perché il Figlio è Verbo del Padre.

“Lo Spirito Santo Paraclito, che il Padre manderà nel mio nome, v’insegnerà tutto e vi ricorderà tutto quello che vi ho detto” (Gv 14,26). Sapete quasi tutti che la parola greca Paraclito, significa avvocato o consolatore. E lo chiama avvocato, perché interviene presso il Padre in favore dei nostri delitti. Di questo stesso Spirito poi giustamente si dice: “V’insegnerà ogni cosa”, perché se lo Spirito non è vicino al cuore di chi ascolta, il discorso di chi insegna, non ha effetto.»

(da San Gregorio Magno, Papa, Omelie sui Vangeli, 30,1)

 

“La via del Signore si dirige al cuore quando si ascolta umilmente la predicazione della verità; la via del Signore si dirige al cuore, quando la vita si uniforma ai comandi di Dio. Per questo sta scritto: <<Se uno mi ama, osserverà la mia parola, e il Padre mio lo amerà, e verremo a lui e dimoreremo in lui>> (Gv 14,23).

Chiunque monta in superbia, chiunque arde del fuoco di avarizia, chiunque si macchia con le lordure della lussuria, chiude la porta del cuore dinanzi alla verità, pone i serrami dei vizi all’entrata dell’anima, per impedire l’ingresso del Signore.”

(San Gregorio Magno, Papa e Dottore della chiesa, Omelie sui vangeli, VII , pag. 90)

 

STUPENDA OMELIA -VI DOMENICA DI PASQUA-

di Padre Mariano Pellegrini (dei Francescani dell’ Immacolata)

 

“Dio ci ama a tal punto da voler rimanere sempre con noi. Egli non si disinteressa delle sue creature. Con la sua grazia, Egli entra nell’anima come il sole entra attraverso il vetro e illumina l’interno di una stanza. Il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo prendono dimora nel nostro cuore e noi, pertanto, diveniamo tempio della Santissima Trinità. Non c’è più distanza tra noi e Dio. Dio è in cielo e in terra, e anche nel nostro cuore, se accettiamo che Egli abiti dentro di noi, se noi lo amiamo. Gesù ce lo dice chiaramente nel Vangelo di oggi: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui» (Gv 14,23).
Questo ci insegna che non siamo mai soli, se veramente vogliamo amare Dio. La vita del cristiano è una vita di comunione con Colui che ci ha creati e ci ha redenti. Anzi, diciamo di più: quanto più ci sembra di essere soli, tanto più siamo vicini al nostro Dio. Egli non fa sentire la sua presenza del chiasso e nel frastuono, ma solamente nel silenzio e nella solitudine. Questa certezza ci deve spingere a cercare, nel corso della giornata, dei momenti da dedicare a questa presenza silenziosa e misteriosa. Quando preghiamo, chiudiamo la porta della nostra stanza, chiudiamo i nostri occhi, e pensiamo che Dio è dentro di noi. Parliamogli con grande familiarità e Lui ci ispirerà sempre qualche buon proposito. Sarà soprattutto nel momento della prova che sperimenteremo la sua presenza benefica: quanto più si sarà lontani dagli aiuti umani, tanto più saremo vicini all’aiuto divino.
Il fatto, purtroppo, è che, quando preghiamo, siamo molto distratti. La nostra preghiera si riduce a una ripetizione superficiale di parole, alle quali nemmeno pensiamo. Per pregare bene, dobbiamo pensare innanzitutto che Dio è presente in noi e dobbiamo porre attenzione al senso delle parole che pronunciamo. Allora, e solo allora, la nostra preghiera non rimarrà mai senza effetto: od otterrà quello che domandiamo, oppure ci procurerà qualcosa di ancora più grande.
Dio in me e io in Lui! Certo, con un Ospite così vivo e così grande, badiamo bene di non sfigurare. Pensiamo spesso che Dio ci vede, che Dio è nel nostro cuore. Pertanto non dobbiamo offendere questa presenza in noi con il peccato. C’è, infatti, una condizione affinché Dio dimori in noi: dobbiamo amarlo. E lo ameremo veramente solo se osserveremo la sua parola, oppure, se non lo abbiamo fatto per il passato, se ci impegneremo ad osservarla. Anche queste sono parole di Gesù: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole» (Gv 14,24). Se si ama veramente Dio, non costerà fatica fare la sua Volontà, osservare i suoi Comandamenti d’amore. Solo se faremo così, godremo della pace che Gesù è venuto a portare su questa terra. Altrimenti, nei nostri cuori, nelle nostre famiglie e nella società umana, vi sarà sempre guerra e divisione.
Il Vangelo di oggi ci parla inoltre del Paraclito, ovvero dello Spirito Santo. Paraclito significa Consolatore. Egli consola i nostri cuori nelle prove della vita e ci fa assaporare, nel segreto della preghiera, quella che sarà la gioia senza fine del Paradiso. Lo Spirito Santo è il santificatore della nostra anima. Il Padre lo ha inviato su questa terra nel giorno di Pentecoste. Nel brano del Vangelo di oggi, Gesù dice che il Paraclito ci insegnerà ogni cosa e ci ricorderà tutto ciò che Gesù ha insegnato (cf Gv 14,26).
Bisogna dunque pregarlo. Ci avviciniamo ormai alla sua festa. Proponiamoci fin d’ora di invocare la sua discesa nei nostri cuori, affinché Egli ci arricchisca con i suoi Sette Doni e ci faccia comprendere sempre di più le parole di Gesù.”

Beato John Henry Newman “Se Cristo è sulla terra, sebbene invi­sibilmente (ciò che non si può negare), è chiaro che egli vi è nella stessa condizione scelta nei giorni della sua car­ne. Voglio dire che è un Salvatore nascosto e che, se non stiamo attenti, rischiamo di avvicinarci a lui senza il ri­spetto e il timore dovuti.”

La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta (Gv 1,5).

Di tutti i pensieri che sorgono nella mente quando contempliamo la vita del Signore Gesù Cristo sulla terra, nessuno forse è più impressionante e avvincente di quello riguardante l’oscurità da cui fu circondato. Non mi riferi­sco alla sua oscura condizione, derivante dal suo essere umile; mi riferisco al nascondimento che lo avvolse e al se­greto sulla sua identità che egli mantenne. Questa caratte­ristica del suo primo avvento è sottolineata molto spesso nella Scrittura, come nel testo: La luce splende nelle tene­bre, ma le tenebre non l’hanno accolta; ed è in contrasto con quanto è stato predetto del suo secondo avvento: allo­ra ogni occhio lo vedrà. Questo implica che tutti lo rico­nosceranno, mentre, quando venne la prima volta, sebbe­ne molti lo abbiano visto, tuttavia ben pochi lo hanno ri­conosciuto. Era stato preannunziato: Noi lo vedremo e non ha bellezza alcuna che attragga i nostri sguardi; e alla fine del suo ministero pubblico disse a uno dei dodici amici scelti: Da tanto tempo sono con voi, e tu non mi hai cono­sciuto, Filippo?

Gli amici del Signore erano vissuti a lungo con lui, eppure non lo conoscevano. Non notarono alcuna diffe­renza tra lui e se stessi. Egli vestiva, mangiava, beveva co­me gli altri; andava e veniva, parlava, camminava, dormi­va come gli altri; fu un uomo come gli altri sotto tutti gli aspetti, eccetto il peccato. Anche oggi molti non sareb­bero capaci di notare questa grande differenza, perché nessuno di noi capisce quelli che sono molto migliori di noi.

2. Dico che il Cristo, il Figlio di Dio senza peccato, potrebbe oggi vivere nel mondo come un vicino di casa, e noi potremmo non riconoscerlo. E questo un pensiero sul quale sarà bene soffermarci.

Tuttavia, sebbene non tocchi a noi giudicare ma dob­biamo lasciare a Dio il giudizio, è certo che un uomo vera­mente pio, un vero santo, per quanto somigli agli altri uo­mini, ha tuttavia in sé una specie di potere segreto che at­tira e influenza quelli che hanno le stesse inclinazioni spi­rituali.

E riflettere se i santi hanno una qualche influenza su di noi, potrebbe essere una verifica per renderci conto se abbiamo le stesse loro inclinazioni. Benché ci sia dato ra­ramente di conoscere subito i santi, tuttavia in un secondo tempo lo possiamo; quando, ripensando al passato – for­se quando ormai sono morti – ci chiediamo quale potere hanno avuto su di noi nel tempo in cui li abbiamo cono­sciuti, se ci hanno attratto, influenzato; se ci hanno resi più umili, se hanno fatto ardere i nostri cuori dentro di noi. Spesso ci accorgiamo che siamo stati per molto tempo vicini a loro, abbiamo avuto la possibilità di conoscerli, e non li abbiamo conosciuti; e questo è per noi un grave mo­tivo di condanna.

La storia del Signore ci fornisce un esempio particolar­mente evidente di tale fatto, proprio perché egli era il Santo per eccellenza. Quanto più un uomo è santo, tanto meno viene compreso dalla gente di questo mondo. Quelli che hanno anche solo una scintilla di fede viva, in una cer­ta misura lo comprenderanno; e più egli è santo, più si sentiranno, almeno per la maggior parte, attratti da lui; ma coloro che servono il mondo saranno ciechi nei suoi confronti; più egli sarà santo, più avranno per lui disprez­zo e avversione. Proprio così accadde a Gesù: egli era « il Santo »; ma la luce splende nelle tenebre, e le tenebre non l’hanno accolta . I suoi parenti più prossimi non credettero in lui. Se fu così, e per la ragione a cui ho accennato, viene spontaneo chiederci se noi l’avremmo compreso me­glio di quanto non abbiano fatto loro. Se egli fosse stato il nostro vicino di casa, o anche un membro della nostra famiglia, l’avremmo saputo distinguere da qualunque altra persona corretta e semplice nell’atteggiamento, o al con­trario, pur avendo rispetto per lui (purtroppo, quale paro­la, quale linguaggio verso Dio altissimo!), non l’avremmo trovato strano, eccentrico, stravagante? Ancor meno avremmo visto qualche scintilla di quella gloria che egli aveva presso il Padre prima che il mondo fosse, e che si trovava nascosta, ma non spenta, nel tabernacolo terrestre

È questo un pensiero tremendo: perché, se egli restas­se a lungo con noi, e noi non vedessimo nulla di meravi­glioso in lui, sarebbe questa una prova evidente che non siamo suoi, perché le sue pecore conoscono la sua voce e lo seguono. […]

3. Ed eccoci portati a un altro argomento, molto se­rio, del quale vorrei parlarvi. A volte noi siamo pronti a desiderare di essere nati al tempo di Gesù, e con questo scusiamo la nostra cattiva condotta quando la coscienza ci rimprovera. Diciamo: se avessimo avuto la fortuna di vi­vere con Gesù, avremmo avuto motivazioni più forti, sa­remmo stati meglio premuniti contro il peccato.

Rispondo: le nostre abitudini di peccato non solo non sarebbero state vinte dalla presenza di Cristo, ma anzi ci avrebbero impedito di riconoscerlo. Non avremmo saputo che era presente, e anche se ci avesse detto chi era, non gli avremmo creduto. I suoi stessi miracoli, per quanto ciò possa apparire incredibile, non ci avrebbero lasciato una impressione duratura. Senza attardarci su questo tema, considerate la possibilità che Cristo sia vicino a noi, pur senza far miracoli: non ce ne accorgeremmo. E ritengo che questo sarebbe il caso per la maggior parte della gente. Ma basta su questo argomento.

Vorrei arrivare a un altro punto: vorrei invitarvi a ri­flettere sulla luce tremenda che quanto abbiamo detto get­ta sulla prospettiva della vita nell’ai di là. Noi pensiamo che il cielo sarà per noi un luogo di felicità, purché ci arri­viamo; ma secondo ogni probabilità, a giudicare da quello che accade sulla terra, un uomo malvagio, trasportato in cielo, non saprebbe di essere in cielo. Non spingo le cose più lontano; non mi domando se, al contrario, il fatto stes­so di trovarsi in cielo con il suo fardello di peccato non sa­rebbe per lui un vero supplizio e non accenderebbe dentro di lui le fiamme dell’inferno. Sarebbe questo, in verità, un modo spaventoso di accorgersi del luogo dove si trova.

Ma supponiamo un caso meno grave: supponiamo che un uomo possa stare in cielo senza esserne distrutto: ma saprebbe veramente dove si trova? Non vi vedrebbe nulla di meraviglioso.

Mai gli uomini furono tanto vicini a Dio quanto colo­ro che lo arrestarono, lo colpirono, gli sputarono addosso, lo sospinsero con violenza, lo spogliarono, stesero le sue braccia sulla croce, lo inchiodarono alla croce e ve lo innal­zarono, rimasero a guardarlo, lo schernirono, gli diedero aceto, si assicurarono che fosse morto, e infine lo colpiro­no con la lancia. Come è spaventoso pensare che l’uomo mai si è accostato a Dio in maniera più forte che con la bestemmia! Chi si avvicinò di più al Signore? san Tommaso che ebbe il permesso di stendere la mano per toccare rispettosamente le sue piaghe, san Giovanni che riposò sul suo petto o i soldati che, brutalmente, ne profana­rono ogni membro, ne torturarono ogni nervo?

In verità la sua benedetta madre si avvicinò a lui in maniera più intima; e anche noi, se siamo veri credenti, ci avviciniamo a lui ancor più profondamente, lo possediamo in modo reale, anche se spirituale, dentro di noi: que­sta però è una forma diversa, interiore, di vicinanza. Ma esteriormente gli si fecero più vicini proprio coloro che non sapevano nulla di lui. La stessa cosa accade ai peccato­ri: essi si accosterebbero al trono di Dio, lo guarderebbero senza capire, lo toccherebbero, si immischierebbero alle cose più sante, lascerebbero libero corso, non per cattivo volere, ma per una sorta di istinto insensato, alla loro indi­screta curiosità, fino a quando un fulmine vendicatore non li annientasse; e tutto ciò perché essi non hanno un senso che li possa guidare all’occorrenza. I nostri sensi corporali ci segnalano l’avvicinarsi del bene o del male sul­la terra. I suoni, i profumi, i contatti, ci informano su quello che ci circonda. Siamo coscienti quando ci esponia­mo alle intemperie, o quando ci affatichiamo troppo nel lavoro. Riceviamo degli avvertimenti, e sentiamo che non li dobbiamo trascurare. Ma i peccatori non hanno i sensi spirituali e non possono prevedere nulla; ignorano quello che accadrà loro nel momento successivo. Così continua­no ad avanzare in mezzo ai burroni senza paura, finché improvvisamente precipitano e periscono. Miserabili crea­ture! Ecco quello che il peccato fa delle anime immortali: le rende simili agli animali che vengono uccisi nel matta­toio, e intanto toccano e odorano gli stessi strumenti di morte!

4. Voi forse direte: ma in che cosa ci riguarda tutto questo? Il Cristo non è qui; quindi noi non potremmo in­sultare la sua maestà in un modo tanto grave, o pur anche minore. Rispondo: Ne siamo proprio sicuri? Certo non possiamo commettere una tale pubblica empietà, ma pos­siamo farlo in maniera ugualmente grave. Spesso i peccati più gravi sono i meno clamorosi, gli insulti più amari sono i meno scoperti, i mali più profondi sono i più sottili. Non ricordiamo quelle parole di Cristo: A chiunque parlerà ma­le del Figlio dell’uomo sarà perdonato; ma la bestemmia con­tro lo Spirito Santo non gli sarà perdonata?

Non intendo concludere se questa sentenza si applichi o meno ai cristiani di oggi; ma dobbiamo sapere che anche al presente siamo nel regno dello Spirito di cui parla il Si­gnore; e questa è una questione molto seria. Ho citato pe­rò il testo del vangelo per dimostrare che ci possono essere dei peccati non tanto più flagranti e manifesti, ma più gra­vi di quello di insultare e perseguitare la persona di Cristo, per quanto ciò possa essere strano.

Continuiamo perciò la nostra riflessione, senza però perdere di vista questo pensiero. In primo luogo Cristo è sempre sulla terra; egli dichiarò espressamente che sareb­be tornato. La venuta dello Spirito Santo è realmente an­che la sua venuta; al punto che, se neghiamo che egli è qui ora, quando è qui nel suo Spirito, possiamo altrettanto di­re che non era qui nei giorni della sua carne, quando era visibile al mondo. È un grande mistero che Dio Figlio e Dio Spirito Santo, due persone, possano essere uno, che il Cristo possa essere nello Spirito e lo Spirito in lui; ma è così.

In secondo luogo: se Cristo è sulla terra, sebbene invi­sibilmente (ciò che non si può negare), è chiaro che egli vi è nella stessa condizione scelta nei giorni della sua car­ne. Voglio dire che è un Salvatore nascosto e che, se non stiamo attenti, rischiamo di avvicinarci a lui senza il ri­spetto e il timore dovuti. […]

E c’è un’altra ragione per temere, quando consideriamo i pegni della sua presenza; essi sono di tale natura da condurre all’irriverenza tutti coloro che non sono umili e attenti. Per esempio: la Chiesa è chiamata suo corpo; quello che era il suo corpo materiale quando egli era in ter­ra, lo è oggi la Chiesa. Essa è lo strumento del suo potere divino; ad essa ci dobbiamo rivolgere per ottenere i suoi favori; e se la insultiamo, provochiamo la sua ira. Ma che cos’è la Chiesa, se non un corpo debole, che quasi provoca disprezzo e irriverenza negli uomini che non hanno fede?

E un vaso di terra più fragile di quanto lo fosse il suo corpo di carne, perché questo era puro da ogni peccato, mentre la Chiesa è macchiata nei suoi membri. Sappia­mo che i suoi ministri, anche i migliori, sono imperfetti, inclini all’errore e schiavi delle passioni come gli altri uo­mini; e tuttavia Gesù, rivolgendosi non solo agli apostoli, ma ai settantadue discepoli (ai quali i ministri cristiani so­no uguali per la funzione), disse: Chi ascolta voi ascolta me, chi disprezza voi disprezza me. E chi disprezza me disprezza colui che mi ha mandato.

Egli ha fatto dei poveri, dei deboli e degli afflitti i se­gni e gli strumenti della sua presenza; e anche qui sorge la tentazione di trascurarla e di profanarla. Come era lui, così sono i suoi discepoli scelti in quésto mondo; e come la sua condizione oscura e vulnerabile provocava gli uomi­ni a insultarlo e a maltrattarlo, alla stessa maniera tali qua­lità spingono oggi gli uomini a insultarlo nei segni della sua presenza. Quali siano poi questi segni, risulta chiara­mente da molti passi della Scrittura. Per esempio, egli dice dei fanciulli: Chiunque accoglie uno di questi piccoli in no­me mio, accoglie me. E a Saulo che perseguitava i suoi discepoli disse: Perché mi perseguiti?. E ci avverte che nell’ultimo giorno dirà ai giusti: Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare; ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito; malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi7-. E aggiunge: Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli, l’avete fatto a me.

La stessa dichiarazione la fa nelle parole rivolte ai mal­vagi. Ciò che rende questo passo terribile ma appropriato è giustamente questo, come è stato osservato, cioè che né i cattivi né i buoni sapevano quello che facevano; anche i giusti sono presentati come persone che avevano avvici­nato Cristo senza rendersene conto. Essi dicono: Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da man­giare, assetato e ti abbiamo dato da bere?. In ogni tempo, dunque, Cristo è in questo mondo, ma non più aperta­mente di quanto lo fosse nei giorni della sua vita terrena.

Un simile rilievo si applica ai suoi comandamenti, che sono senza dubbio molto semplici, ma anche intimamente legati alla sua persona. San Paolo, nella Prima Lettera ai Corinzi, dichiara come sia facile ma anche tremendo pro­fanare la Cena del Signore; lo dichiara quando rimprovera le intemperanze dei Corinzi, e le attribuisce al fatto che essi non hanno riconosciuto il corpo del Signore.

Quando Gesù nacque in questo mondo, il mondo non lo conobbe. Fu deposto in una ruvida mangiatoia tra gli animali, ma tutti gli angeli di Dio lo adorarono. Anche ora egli è presente sull’altare, in modo semplice e nasco­sto, e senza molta dignità; la fede adora, ma il mondo vi passa accanto senza badarvi.

Preghiamolo affinché illumini gli occhi della nostra mente, sì che possiamo appartenere alle schiere celesti, e non a questo mondo. Se gli spiriti carnali saranno impoten­ti a riconoscerlo anche in cielo, un cuore sensibile allo spiri­to può avvicinarlo, vederlo, possederlo anche sulla terra.

Beato John Henry Newman, in: Gesù. Pagine scelte, Paoline, Milano 1992, pp. 202-213.

(Parochial and Plain Sermons, IV, 16, pp. 239-252)

San Lorenzo Giustiniani, il peccato originale e la redenzione di Cristo: “Adamo, per colpa tua tutta la tua stirpe è stata miseramente ferita; per il tuo peccato è stata degradata e avvilita questa nostra umanità!…Ma venne l’Unigenito di Dio.”

San Lorenzo Giustiniani, il peccato originale e la redenzione di Cristo.

 

“In principio Dio aveva creato il paradiso felice e vi aveva posto l’uomo, plasmato con le Sue stesse mani (Gen 2, 8). Ma questi disprezzò l’ordine del Signore, acconsentì alla tentazione della donna e si rese colpevole di disobbedienza ai comandi divini, subendo così, di conseguenza, mali e sventure senza fine.

Con suo grande disonore fu scacciato da quel luogo di delizie, dov’era stato collocato in piena dignità, e di colpo fu privato di quella vita che possedeva in totale libertà e quasi del tutto di quella luce intellettuale che aveva ricevuto, in modo superbo, per conoscere Dio, se stesso e il mondo, senza più quel primato d’obbedienza di cui godeva, come un signore, su tutte le creature. Così, miserabile, gravato da tante calamità, mentre prima, obbediente, poteva essere annoverato fra gli spiriti angelici, disobbedendo si ritrovò in una condizione bestiale.

Tentò di divenire simile a Dio e fu invece condannato all’umiliazione di essere meno di un animale da soma. Sì, giustizia volle che tanto fosse castigata l’umana presunzione e tremendamente punita tanta vana superbia, che pretese di varcare i confini della sua natura e perdette anche quello che di proprio questa natura aveva non intese assoggettarsi alle leggi di Dio e fu così incatenata alle passioni della carne.

Quanto fu folle la sua presunzione, quanto cieca la sua superbia! Potrà mai essere la creatura pari al suo Creatore? O potrà I’ uomo, a suo capriccio, essere come Dio? Che la ragione umana non abbia previsto tanta assurdità, che la sua intelligenza proprio non l’abbia capito? Ma perché non ha pensato alla triste eredità che lasciava ai suoi figli? Perché non ha temuto di perdere tutti quei doni e quei benefici? Ah, Adamo, per colpa tua tutta la tua stirpe è stata miseramente ferita; per il tuo peccato è stata degradata e avvilita questa nostra umanità! Ora siamo tutti schiavi come di un implacabile tiranno.

Così ebbero origine tutte le infermità, tutte le lacrime, i pianti, i dolori, le fatiche, le schiavitù, le lotte, le discordie, l’avarizia e la lussuria, vale a dire tutto quanto è in contrasto con Dio. Di un attimo fu il cedimento; ma il danno fu senza fine. Ah, chi potrebbe mai narrare tutti gli affanni, tutti i mali che per causa tua, nostro primo padre, vennero inflitti a noi mortali? Ti dobbiamo certo molto, perché in te fummo creati; ma è di gran lunga maggiore quanto con te abbiamo perduto!

E quale beneficio avremmo tratto dal nascere alla vita, se poi non fossimo stati liberati dalla dannazione eterna?

Rendiamo quindi grazie a Dio e a Gesù, nostro Signore, che per la Sua carne, che assunse dalla nostra stirpe, ci elevò ancora alla gloria di un tempo; anzi, ad una gloria immensamente maggiore. In Lui infatti la natura umana è stata innalzata ad eccelsa dignità, oltre la stessa natura angelica. Non sarebbe mai giunta al trono di tanta grandezza, se non per la mediazione del Verbo incarnato. Con le sue forze non si sarebbe mai redenta, né avrebbe raggiunto la gloria del Cielo.

Ma venne l’Unigenito di Dio, prese da noi carne mortale e nel Suo immenso amore ci donò la Sua vita. Venne il signore, che nella Sua umiltà ci liberò dal giogo del nostro perfido aguzzino e fondò questo paradiso dello spirito, la Santa Chiesa, per collocarvi ancora l’uomo, che si era perduto (Sap 18,15). E per fondare tale Chiesa, purificarla, santificarla e perfezionarla, Egli stesso scese dal Suo trono regale e si donò completamente, versando per amor di lei anche il Suo sangue. E innalzò un muro a sua difesa: : i cori degli Angeli.

Vi piantò alberi e fronde: i santi sacramenti, del cui cibo si nutrono i suoi predestinati fedeli. E vi pose l’albero della scienza del bene e del male: la sacra rivelazione. E da questo luogo di delizie fece sgorgare un fiume, la grazia dello Spirito Santo, perché lo irrigasse e lo fecondasse (Gen 2,6); e nel mezzo di quel fiume pose l’Albero delle vita: il sacro dono del timore di Dio, eterno nei secoli (Sal 19,10), carico di dodici sorta di frutti.

Lo si legge verso la fine dell’Apocalisse: <<Mi mostrò poi un fiume d’acqua viva limpida come cristallo, che scaturiva dal trono di Dio e dell’Agnello. In mezzo alla piazza della città e da una parte e dall’altra del fiume si trova un albero di vita che dà dodici raccolti e produce frutti ogni mese; le foglie dell’albero servono a guarire le nazioni>> (Ap 22,1-2).

Albero prezioso, albero di salvezza, di cui si dice che sorge nel mezzo di quel fiume e di cui il Salmista canta: <<L’onda impetuosa del fiume rallegra la città di Dio>> (Sal 46,5). Nessuno può ragionevolmente dubitare che il dono del timore sia veramente grazia dello Spirito Santo! Ne è testimone Isaia: <<Si compiacerà del timore del Signore>> (Is 11,3). Ed è perciò da tale timore, che procede dallo Spirito vivificante, che giustamente prende nome di Albero della vita il timore medesimo; per cui la sua radice è santa, poiché è radicato nella fede dell’unico vero Dio. Come sta scritto che i suoi frutti sono dodici, perché, sebbene in esso abbiano cardine tutte le virtù, non potrebbero affatto sussistere al di fuori della sua azione, dodici sono le virtù proprie che vi sorgono e si sviluppano, e cioè: la continenza, la giustizia, la prudenza, la carità, la pazienza, l’obbedienza, la speranza, la perseveranza, la povertà, la sobrietà, l’umiltà e la preghiera o contemplazione.”

(San Lorenzo Giustiniani, L’ALBERO DELLA VITA, Prefazione, pag. 1-2-3)

Papa Francesco: Senza la grazia non possiamo nulla! “Se io mi lascio raggiungere dalla grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita”

PAPA FRANCESCO, REGINA COELI
Piazza San Pietro, Lunedì dell’Angelo, 1° aprile 2013

“E’ vero, il Battesimo che ci fa figli di Dio, l’Eucaristia che ci unisce a Cristo, devono diventare vita, tradursi cioè in atteggiamenti, comportamenti, gesti, scelte. La grazia contenuta nei Sacramenti pasquali è un potenziale di rinnovamento enorme per l’esistenza personale, per la vita delle famiglie, per le relazioni sociali. Ma tutto passa attraverso il cuore umano: se io mi lascio raggiungere dalla grazia di Cristo risorto, se le permetto di cambiarmi in quel mio aspetto che non è buono, che può far male a me e agli altri, io permetto alla vittoria di Cristo di affermarsi nella mia vita, di allargare la sua azione benefica.

Questo è il potere della grazia! Senza la grazia non possiamo nulla. Senza la grazia non possiamo nulla! E con la grazia del Battesimo e della Comunione eucaristica posso diventare strumento della misericordia di Dio, di quella bella misericordia di Dio.

Esprimere nella vita il sacramento che abbiamo ricevuto: ecco, cari fratelli e sorelle, il nostro impegno quotidiano, ma direi anche la nostra gioia quotidiana! La gioia di sentirsi strumenti della grazia di Cristo, come tralci della vite che è Lui stesso, animati dalla linfa del suo Spirito!”

(Papa Francesco)

Pseudo-Macario (San Macario il Grande) : Con un cuore umile e povero “Il Peccato, la Grazia e il Libero Arbitrio”

 

PSEUDO-MACARIO (SAN MACARIO IL GRANDE) : CON UN CUORE UMILE E POVERO “IL PECCATO, LA GRAZIA E IL LIBERO ARBITRIO”

1. Il vaso prezioso dell’anima si trova a grande profondità, come è detto da qualche parte: Egli scruta l’abisso e il cuore. Quando l’uomo infatti si fu allontanato dal comandamento e si trovò sotto una sentenza di collera, il peccato lo ridusse in suo potere, e il peccato è come un abisso di amarezza, sottile e profondo; penetrato nell’uomo, prese possesso dei pascoli dell’anima fin nei più profondi recessi. Potremmo paragonare l’anima e il peccato unito ad essa a un albero enorme dai molti rami, le cui radici sono immerse nelle profondità della terra; allo stesso modo il peccato, penetrando nell’anima, ne ha occupato i più profondi recessi, è diventato abitudine e predisposizione, è cresciuto con ciascuno dall’infanzia sviluppandosi con lui e insegnandogli il male.

2. Quando l’energia della grazia divina ricopre l’anima nella misura della fede di ciascuno e questa accoglie l’aiuto dall’alto, la grazia ricopre l’anima ancora parzialmente. Nessuno pensi che tutta l’anima sia illuminata. Dentro di essa resta ancora molto spazio per il peccato e sono necessarie all’uomo molta pena e fatica per accordarsi alla grazia che ha ricevuto. Per questo motivo la grazia divina iniziò a visitare l’anima parzialmente, pur potendo purificare l’uomo e portare a compimento la sua opera in un istante; fa così per mettere alla prova la libera volontà dell’uomo e vedere se mantiene integro l’amore di Dio e in nulla si unisce al malvagio, ma consegna tutto se stesso alla grazia. E così l’anima, che nel tempo ha dato buona prova di sé e non ha contristato in nulla la grazia, né le ha arrecato offesa, a poco a poco riceve aiuto. E la grazia stessa prende posto nell’anima e si radica nelle regioni e nei pensieri più profondi quando l’anima offre molteplici e buone prove e corrisponde alla grazia, finché viene tutta avvolta dalla grazia celeste che finalmente regna in essa.

3. Ma se uno non possiede una grande umiltà, viene consegnato a Satana e spogliato della grazia divina venuta a lui, e subisce la prova di numerose tribolazioni, e allora appare manifesta la sua presunzione perché egli resta ignudo e miserabile. Chi è ricco della grazia di Dio deve custodirsi in grande umiltà e contrizione di cuore e ritenersi un povero, uno che nulla possiede. Ciò che ha, infatti, non gli appartiene, un altro glielo ha dato e, quando vuole, glielo toglie. Chi si umilia in questo modo davanti a Dio e agli uomini può custodire la grazia che gli è stata data, come dice il Signore: Chi si umilia sarà innalzato. Anche se è un eletto di Dio, si consideri riprovato e, pur essendo fedele, si reputi indegno. Tali anime infatti sono gradite a Dio e sono vivificate nel Cristo, al quale è gloria e potenza nei secoli dei secoli. Amen.

Sforzati dunque di piacere al Signore attendendolo sempre dentro di te (…). E vedi come viene a te e stabilisce la sua dimora presso di te. Quanto più unifichi il tuo cuore per la ricerca di lui, tanto più egli è costretto dalla sua compassione e dalla sua bontà a venire a te e a riposare in te. Egli sta a guardare il tuo cuore, i tuoi pensieri, i tuoi sentimenti (…).

 
(Tratto da PSEUDO-MACARIO, Spirito e fuoco, ed. Qiqaion a cui si rimanda vivamente per l’approfondimento)

 

 

Pseudo Macario, Consigli spirituali:

“Il Cristianesimo è cibo e bevanda; quanto più uno se ne nutre, tanto più dalla sua dolcezza la mente è attratta trovandosene sempre insaziabilmente bisognosa. In verità lo Spirito è cibo e bevanda che mai dà sazietà.

Quando il pittore è intento a fare il ritratto del re ne deve avere davanti Il volto, cosicchè quando il re posa davanti a lui con abilità e grazia lo ritrae: ma se il re è girato dalla parte opposta, il pittore non può compiere l’opera sua, perchè il suo occhio non ne vede il volto. Così Cristo, pittore perfetto, dipinge i lineamenti del suo volto di uomo celeste su quei fedeli che sono verso di Lui costantemente orientati. Se qualcuno non lo fissa di continuo, disprezzando ogni cosa a Lui contraria, non avrà in se stesso l’immagine del Signore disegnata dalla sua luce.

Il nostro volto sia sempre in Lui fisso, con fede e amore, trascurando tutto per essere solo in Lui intenti, affinchè nel nostro intimo si imprima la sua immagine, e così portando in noi Cristo possiamo giungere alla vita senza fine.”

(Pseudo Macario, Consigli spirituali)

 

« La sua casa siamo noi » (Eb 3, 6)

Il Signore si stabilisce in un’anima fervente. Fa di essa il suo trono di gloria, vi si siede e vi dimora… Come la casa abitata dal suo padrone è tutta grazia, ordine e bellezza, così l’anima con la quale e nella quale il Signore dimora è tutta ordine e bellezza. Possiede il Signore e tutti i suoi tesori spirituali. Egli ne è l’abitante, ne è il capo.

Invece, orrenda è la casa il cui padrone è assente, il cui Signore è lontano ! Va in rovina, crolla, si riempie di sozzure e di disordine. Diventa, secondo la parola del profeta, un covo di serpenti e di demoni (Is 34, 14). La casa abbandonata si riempie di gatti, di cani, di immondizie. Com’è infelice quell’anima che non può rialzarsi dalla sua caduta funesta, che si lascia trascinare e giunge ad odiare il suo sposo e strappare i suoi pensieri da Gesù Cristo !

Ma quando il Signore la vede raccogliersi e cercare giorno e notte il suo Signore, gridare verso di lui com’egli stesso la invita : « Pregate sempre, senza stancarvi », allora « Dio le farà giustizia » (Lc 18, 1.7) – l’ha promesso – e la purificherà da ogni cattiveria. La farà sua sposa « senza macchia, né ruga » (Ef 5, 27). Credi nella sua promessa ; è verità. Guarda se la tua anima ha già trovato la luce che rischiarerà i suoi passi e il Signore che è suo cibo e bevanda. Queste cose ti mancano ancora ? Cercale giorno e notte, le troverai.

(Pseudo-Macario,Omelia 33 ; PG 34, 741-743)

Rivelazione di Maria Vergine, Madre di Dio: -L’ISTANTE DELLA MORTE- “Da quel momento dipende tutto: Salvezza Eterna o Dannazione eterna” “Inferno o Paradiso”

Dalla “Mistica città di Dio,Vita della Vergine Madre di Dio” rivelata alla Venerabile Suor Maria di Ágreda

Insegnamento della Regina del cielo:

880. Figlia mia carissima, non è senza un motivo particolare che il tuo cuore si è mosso, con speciale compassione e pietà, verso quelli che si ritrovano in punto di morte, e che è sorto in te il desiderio di aiutarli in quell’ora. In verità, come hai potuto conoscere, le anime in quell’istante soffrono incredibili e pericolose angustie per le insidie del diavolo e della stessa natura che le circonda. Da quel momento dipende tutto: l’esilio terreno si conclude, perché cada sopra di esso l’ultima sentenza di morte o di vita eterna, di pena o di gloria senza fine. E poiché l’Altissimo si compiace che tu metta in pratica la carità di cui sei stata colmata verso tutti i morenti, io ti confermo nello stesso proposito e ti esorto a concorrere con tutte le forze ed a prestarci obbedienza con tutti i tuoi sforzi. Considera, dunque, o amica, che Lucifero e i suoi ministri riconoscono dagli eventi e dalle cause naturali quando gli uomini si trovano in una pericolosa e mortale infermità; e quindi in quell’istante stesso si preparano con astuzia e con tutta la loro malignità ad investire il povero ed ignorante malato e a farlo precipitare, se possono, con varie tentazioni. Inoltre, quando si avvicina il termine delle persecuzioni contro le anime, i principi delle tenebre cercano di rifarsi da questo danno assalendo i mortali con maggior malvagità nel poco tempo che manca alla fine della vita.

881. In questa situazione si aggregano come lupi sanguinari e si sforzano di riconoscere lo stato dell’infermo sia riguardo a ciò che ha di naturale sia riguardo a ciò che ha di acquisito, considerando le sue inclinazioni, gli usi, i costumi ed anche gli affetti in cui mostra particolare suscettibilità; e ciò al fine di poterlo assaltare e di invergli per quella via maggior guerra. A quelli che sregolatamente amano la vita i demoni suggeriscono che questa loro affezione non è poi così pericolosa, ed impediscono che qualcuno li disinganni. In quelli che sono stati negligenti nell’uso dei santi sacramenti suscitano una nuova tiepidezza e propongono loro maggiori difficoltà, affinché muoiano senza avvicinarsi ad essi o li ricevano senza frutto e con cattiva predisposizione. Ad alcuni creano stati di confusione, affinché non prendano coscienza dei loro peccati; ad altri frappongono indugi ed ostacoli, perché non dichiarino i loro debiti e non mettano pace nei loro cuori. In quelli che amano la vanità risvegliano il desiderio, anche in quell’ultima ora, di molte cose vane e superbe da eseguirsi dopo la morte. Con veemenza inclinano altri avari o lussuriosi verso tutto ciò che ciecamente amarono. E così i crudeli nemici si avvalgono di tutte le cattive abitudini dei mortali per spingerli dietro agli oggetti e per rendere ad essi difficoltoso o impossibile il rimedio.

E tutti gli atti peccaminosi che gli uomini operarono in vita, e con i quali acquistarono viziosi costumi, furono altrettanti pegni ed armi offensive che diedero al comune nemico, per far loro guerra nell’ora tremenda della morte. E così ogni appetito soddisfatto viene ad aprire la via, perché il demonio penetri nel castello dell’anima. Egli, nell’interno di questa, emette il suo pestifero fiato e solleva dense tenebre – che sono i suoi stessi effetti – affinché gli uomini non riconoscano le divine ispirazioni, né abbiano vero dolore dei loro peccati, né facciano penitenza alcuna per la loro cattiva condotta in vita.

882. Generalmente questi nemici fanno in quell’ultima ora grandi stragi, infondendo negli infermi la falsa speranza di vivere più a lungo e di eseguire con il tempo ciò che Dio ispira loro per mezzo dei suoi angeli: con questo inganno essi si ritrovano beffati e perduti. Soprattutto in quel momento è grande il pericolo per quelli che hanno disprezzato in vita il rimedio dei santi sacramenti. La giustizia divina è solita castigare questo rifiuto, molto offensivo per il Signore e per i santi, abbandonando le anime in preda al loro cattivo consiglio. Queste, poiché non vollero approfittare a suo tempo del rimedio opportuno, meritano, giustamente, di essere escluse nell’ultima ora dalla salvezza eterna, che temerariamente aspettavano. Pochissimi sono i giusti in pericolo di morte che non vengono assaltati con incredibile rabbia dall’antico serpente.

Se egli pretende di far cadere coloro che sono santi e virtuosi, che cosa sperano coloro che sono dediti ai vizi, che cosa attendono i negligenti ed i pieni di peccati che hanno impiegato tutta la loro vita a demeritare la grazia e il favore divino e a schivare le opere di cui potevano avvalersi contro il nemico? Il mio santo sposo Giuseppe fu tra quelli che ebbero il privilegio di non vedere né sentire il demonio in quell’ora estrema, perché, quando gli spiriti maligni tentarono di avvicinarsi, furono arrestati da una forza potente che li allontanò e i santi angeli li precipitarono nell’abisso. Ed essi sentendosi così oppressi e schiacciati – a nostro modo di intendere – rimasero turbati, confusi e come storditi. Ciò diede occasione a Lucifero di convocare nell’inferno un’assemblea o un conciliabolo al fine di consultarsi con tutti i principi delle tenebre su quanto era accaduto, e di investigare nel mondo sulla vera o presunta venuta del Messia.

883. Comprendi ora, carissima, quanto sia pericoloso il momento della morte e quante anime periscano in quell’ora in cui cominciano a svelarsi i meriti e i peccati. Non ti dichiaro quanti sono quelli che si perdono e si dannano, perché – se lo sapessi – ne moriresti per la pena e per il vero amore che porti al Signore. La regola generale dice che la buona vita aspetta la buona morte, tutto il resto è incerto, raro e contingente. Il rimedio sicuro deve consistere nell’intraprendere da lontano il cammino. Perciò ti avverto di pensare ogni giorno, allo spuntare della luce, se quello sarà l’ultimo della tua vita, e riguardandolo come se dovesse veramente esserlo – poiché non sai se in effetti lo sarà – cerca di mettere ordine nella tua anima in modo che con volto allegro e sereno tu possa ricevere la morte, qualora venga. Non rimandare nemmeno per un istante il dolore dei tuoi peccati e il proposito di confessarli, se ne avrai commessi. Cerca di emendare fin la più piccola imperfezione, in modo da non lasciare nella tua coscienza nessuna colpa, di cui senti rimorso, senza dolertene e senza lavarti con il sangue di Cristo mio santissimo figlio. Disponi tutta te stessa in uno stato tale da poter comparire dinanzi al giusto giudice che ti deve esaminare e che deve giudicare le tue facoltà a partire dal più piccolo pensiero e dalla minima azione.

884. Ma per aiutare, come desideri, coloro che si trovano in quell’estremo pericolo, in primo luogo raccomanda, se potrai, a tutti questi il consiglio che ti ho suggerito: vivano con l’anima sempre pronta per ottenere una felice morte. Inoltre per questo fine eleverai un’orazione ogni giorno senza mai tralasciarla. Con fervorosi affetti e gemiti prega l’Onnipotente, affinché dissipi gli inganni dei demoni e rompa i lacci e le insidie che essi tramano contro quelli che agonizzano o si ritrovano in quell’istante, ed impetra che tutti loro siano confusi dalla sua divina destra. Tu sai che io recitavo questa orazione per i mortali e quindi voglio che mi imiti. Similmente, ti ordino che, per aiutarli meglio, comandi ed intimi agli stessi demoni di allontanarsi da loro e di non opprimerli. Ben puoi usare questo potere, anche se non sei presente in quei frangenti poiché, essendovi il Signore, nel suo nome puoi comandare loro e costringerli a fuggire per sua maggior gloria ed onore.

885. Riguardo alle tue sorelle, illuminale senza turbarle su quello che devono fare. Ammoniscile ed assistile, affinché ricevano subito i santi sacramenti e vi si accostino frequentemente. Procura e sforzati di animarle e consolarle, discorrendo con loro sulle cose di Dio, sui suoi misteri e sulla sacra Scrittura, affinché si risveglino i loro sentimenti e i loro buoni propositi e si dispongano a ricevere dall’alto la luce e i divini consigli. Incoraggiale nella speranza, fortificale contro le tentazioni, ed insegna loro come devono resistervi e vincerle. Quando l’Altissimo non ti darà una particolare illuminazione per comprendere le loro prove, cerca tu stessa di conoscerle prima che te le manifestino, affinché applichi a ciascuna la medicina più conveniente; le infermità spirituali, infatti, sono difficili da diagnosticare e curare. Adoperati per eseguire quanto ti insegno ed io otterrò dal Signore privilegi per te e per quelli che desidererai aiutare. Non essere parca nella carità, perché in questa virtù non devi operare in proporzione a ciò che tu sei, ma nella misura di ciò che l’Altissimo vuole operare per mezzo di te.

I NOVISSIMI : MORTE, GIUDIZIO, INFERNO, PARADISO. Secondo le rivelazioni del Cielo e dei Santi

«In tutte le tue opere, dice il Savio, proponiti sotto gli occhi i tuoi novissimi, e non peccherai mai » (Eccli. VII, 40).

“In tutte le tue opere ricordati dei tuoi Novissimi e non cadrai mai nel peccato” Siracide (7, 36).

 

I. –  MORTE.

Gli ultimi momenti dei peccatori, degl’imperfetti e dei perfetti. 

Parole di Dio a S. Caterina da Siena: «I demonii sono ministri incaricati di tormen­tare i dannati nell’inferno e di esercitare e provare la virtù delle anime in questa vita. La loro intenzione non è certamente di provare la virtù, perchè non hanno la ca­rità; essi vogliono distruggerla in voi, ma non lo potranno mai fare, se voi non volete consentirvi.

« Ora considera la pazzia dell’uomo che si rende debole per il mezzo appunto ch’io gli avevo dato per esser forte, e che si abban­dona da se stesso nelle mani del demonio. Perciò voglio che tu sappia ciò che accade nel momento della morte a quelli che, du­rante la loro vita, hanno volontariamente ac­cettato il giogo del demonio, il quale non poteva costringerveli.

« I peccatori che muoiono nel loro pec­cato, non hanno altri giudici che se stessi; il giudizio della loro coscienza basta, ed essi si precipitano con disperazione nell’eterna dannazione. Prima di passarne la soglia, essi l’accettano per odio della virtù, scelgono l’in­ferno coi demonii, loro signori.

« All’opposto i giusti, che  vissero nella carità, muoiono nell’amore. Quando viene il loro ultimo istante, se hanno praticata perfettamente la virtù, illuminati dal lume della fede e sostenuti dalla speranza del sangue dell’Agnello; veggono il bene che io ho loro apparecchiato, e colle braccia dell’amore lo abbracciano stringendo con strette d’amore me sommo ed eterno bene nell’ultima estre­mità della morte. E così gustano vita eterna prima che abbiano lasciato il corpo mortale, cioè prima che sia separata l’anima dal corpo.

« Per quelli che passarono la loro vita in una carità comune senza aver raggiunta quella gran perfezione, quando arrivano alla morte, essi si gettano nelle braccia della mia misericordia col medesimo lume della fede e colla medesima speranza ch’ebbero in un grado inferiore. Essendo stati imperfetti, essi abbracciano la mia misericordia, perchè la trovano più grande delle loro colpe. I pec­catori fanno il contrario: essi veggono con disperazione il posto che li attende e con odio l’accettano.

« Gli uni e gli altri non attendono di es­sere giudicati, ma partonsi di questa vita, e riceve ognuno il luogo suo. Lo gustano e lo posseggono prima che si partano dal corpo, nell’estremità della morte. I dannati seguono l’odio e la disperazione; i perfetti seguono l’amore, il lume della fede, la speranza del sangue dell’Agnello; gl’imperfetti si affidano alla mia misericordia e vanno in purgatorio » (Dialogo, c. XLII).

Pace delle anime sante nel momento della morte. 

« Quant’è felice l’anima dei giusti quando essi arrivano al momento della morte… A costoro non nuoce la visione dei demonii, perchè veggono me per la fede e mi posseg­gono per l’amore e perchè in loro non è ve­leno di peccato. La oscurità e terribilezza loro ad essi non dà noia nè alcun timore, perchè il loro timore non è servile, ma santo. Onde non temono i loro inganni; perchè col lume soprannaturale e col lume della Sacra Scrittura ne conoscono gl’inganni; sicchè non ricevono tenebre nè turbazione di mente. Essi muoiono gloriosamente bagnati nel sangue del mio Figliuolo, colla fame della salute delle anime e, tutti affocati nella carità del pros­simo, passano per la porta del Verbo divino, entrano in me e dalla mia bontà sono collo­cati ciascuno nello stato suo, e vien misurato loro secondo la misura che hanno recata a me dell’affetto della carità » (Dialogo, ca­plt. CXXXI).

Il demonio e il peccatore morente. 

« Quanto spaventosa e terribile è la morte dei peccatori! Nei loro ultimi momenti, il demonio li accusa e li spaventa apparendo loro. Tu sai che la sua figura è tanto orri­bile, che la creatura eleggerebbe ogni pena, che in questa vita si potesse sostenere, an­zichè vedere il demonio nella visione sua.

« E tanto si rinfresca al peccatore lo sti­molo della coscienza, che miserabilmente lo rode nella coscienza sua.- Le disordinate de­lizie e la propria sensualità, la quale si fece signora e la ragione fece serva, l’accusano miserabilmente, perchè egli allora conosce la verità di quello che prima non conosceva. Onde viene a gran confusione dell’errore suo; perchè nella vita sua visse come infedele e non fedele a me; perchè l’amor proprio gli velò la pupilla del lume della santissima fede. Onde il demonio lo molesta d’infedeltà, per  farlo venire a disperazione…. In questo gran combattimento egli si trova nudo e senza alcuna virtù; e da qualunque lato si volti, non ode altro che rimproveri con grande confusione » (Dialogo, csaxu) (1).

(1) Le anime dei dannati, all’uscire dal loro corpo, sono invase dalle tenebre, dall’orrore, dal fetore, dall’amarezza, da una pena intollerabile, da una tristezza indicibile, dalla disperazione e da un’angoscia infinita. Sono in se stesse così devastate e destituite di tutto che, quand’anche non cadessero nell’inferno e in potere dei demonii, i mali di cui sono ripiene sarebbero per loro una tortura sufficiente (S. Matilde, P. V, c. xxi).

Come si fa per gli amici di Gesù il viaggio dalla terra al cielo. 

Nella sua ultima malattia, Geltrude, pre­parandosi alla morte, disse al Signore: qual sarà il carro che mi porterà quando mi troverò in quella regia via che deve con­durmi a voi, mio unico Diletto? — « La forza potente del desiderio divino, che partirà dal mio amore intimo, verrà a prenderti e a condurti fino a me », le rispose il Signore. – Su che potrò io sedermi? – « Sulla piena fiducia, la quale, facendoti sperare ogni bene dalla mia liberale bontà, sarà il sedile su cui siederai in questo passaggio ».

Con quali redini dirigerò io la mia corsa ? – « L’amore ardente che ti fa sospirare dall’intimo delle viscere ai miei amplessi ti servirà di redini. » La Santa soggiunse: siccome ignoro quello che è più necessario per viaggiare così, io non m’informerò di quello che ancora mi occorre per compire questo viaggio desiderabile. Il Signore rispose: «Per quanto grandi siano i tuoi desideri, avrai la gioia di trovare infinitamente di più, e la mia delizia è vedere lo spirito umano impo­tente a immaginarsi tutto quello ch’io ordi­nariamente preparo a miei eletti» (Lib. V, c. YXIVV).

« Quando l’anima tua uscirà dal tuo corpo, io ti metterò come all’ombra della mia protezione paterna, così come una madre tiene stretto al suo petto e nascosto sotto le sue vesti l’amato frutto delle viscere sue, allorchè attraversa un mare burrascoso. E poi, quan­d’avrai pagato il tuo debito alla morte, io ti prenderò meco per farti gustare le delizie incantevoli dei celesti spazi verdeggianti, come una madre che vuole che anche il suo bambino abbia parte alla gioia che si prova allo sbarcar sicuramente in porto, dopo averlo preservato dalle noie e dai pericoli del mare. (lib. V, c. xxv).

II. – GIUDIZIO PARTICOLARE. GIUDIZIO UNIVERSALE.

Giudizio delle anime peccatrici. 

Istruzioni divine date a S. Caterina da Siena: « Il peccatore non ha scusa, peroc­chè è ripreso e gli è mostrata la verità con­tinuamente. Onde s’egli non si correggerà, quando è ancor tempo, sarà condannato nella seconda riprensione, la quale si farà nell’ul­tima estremità della morte, dove grida la mia giustizia: Surgite mortui, venite ad iu­dicium, cioè, tu che sei morto alla grazia, e morto giungi alla morte corporale, levati su, e vieni dinanzi al Sommo Giudice con la ingiustizia e falso giudizio tuo, e col lume spento della fede, il qual lume traesti acceso dal santo battesimo, e tu lo spegnesti al vento della superbia e vanità del cuore, del quale facevi vela ai venti, ch’erano contrari alla salute tua; il vento della propria ripu­tazione nutrivi colla vela dell’amor proprio. Onde correvi per lo fiume delle delizie e stati del mondo colla propria volontà, se­guitando la fragile carne e le molestie e le tentazioni del demonio. Il quale demonio con la vela della tua propria volontà t’ha me­nato per la via di sotto, la quale è un fiume corrente. Onde t’ha condotto con lui all’e­terna dannazione » (Dialogo, xxxvi).

Giudizio di colui che non volle sperare nella misericordia. 

« Quando compariste la morte e l’uomo vede che non può più sfuggirmi, il verme della coscienza, che era stato soffocato dal­l’amor proprio, comincia a risvegliarsi e a roder l’anima, giudicandola e mostrandole l’abisso dove per colpa sua sta per cadere. Se essa anima avesse lume che conoscesse e si dolesse della colpa sua, non per la pena dell’inferno, che ne la seguita, ma per me, che m’ha offeso, che sono somma ed eterna Bontà, ancora troverebbe miseri­cordia. Ma se passa il ponte della morte senza lume, e solo col verme della coscienza, e senza la speranza nel sangue del mio Figliuolo, o con propria passione dolendosi del danno suo, più che dell’offesa mia, egli giunge al­l’eterna dannazione.

E allora è ripreso crudelmente dalla mia giustizia, ed è ripreso dell’ingiustizia e del falso giudizio; e non tanto dell’ingiustizia e giudizio generale, perchè ha seguito i sen­tieri colpevoli del mondo, ma molto maggior­mente sarà ripreso dell’ingiustizia e giudizio particolare, perchè nell’ultimo suo momento avrà giudicato la sua miseria più grande della mia misericordia. Questo è quel peccato che non è perdonato nè di qua nè di là. Egli ha respinto, disprezzato la mia misericordia, e questo peccato è maggiore di tutti quelli che ha commessi. Onde la disperazione di Giuda mi spiacque più e fu più grave al mio Figliuolo, che non fu il tradimento ch’egli fece. Sicchè l’uomo è soprattutto condannato per aver falsamente giudicato il suo peccato maggiore che la mia misericordia; e perciò è punito coi demonii e crucciato eternamente con loro.

L’uomo è convinto d’ingiustizia, per­chè si duole più del danno suo, che dell’of­fesa mia. Allora commette ingiustizia, per­ché non rende a me quello che è mio, ed a lui quello che è suo. A me deve rendere amore e amaritudine con la contrizione del cuore, e afferirla dinanzi a me per l’offesa che m’ha fatta. Ed egli fa il contrario, per­chè piange solo per amore verso di se stesso, la pena che ha meritata. Tu vedi adunque ch’egli è colpevole d’ingiustizia e d’errore e che è punito dell’uno e dell’altro. Avendo egli dispregiata la misericordia mia, io con giustizia lo mando all’eterno supplizio, con la serva sua crudele della sensualità e col crudele tiranno del demonio di cui egli si è reso schiavo per mezzo de’ suoi sensi, che dovevano servirlo. Saranno insieme puniti e tormentati, come insieme m’hanno offeso: tormentati, dico, da’ miei ministri demonii che la mia giustizia ha messi a rendere tor­mento a chi ha fatto male » (Dialogo, ca­pit. XXXVII).

Giudizio di una persona mondana.

S. Brigida ebbe un giorno la visione di un’anima ch’era presentata al Giudice Su­premo dal suo angelo custode sotto la figura d’un soldato armato e dal demonio che aveva la forma d’un negro dell’Etiopia. L’anima era tutta nuda e dolentissima, non sapendo che sarebbe stato di lei. L’angelo custode parlò in questi termini: Non è giusto che si rimproverino a quest’anima i peccati che ha confessato. Chi parlava in tal modo, dice S. Brigida, sapeva tutto in Dio, ma parlava affinchè io l’intendessi. Il Giudice rispose « Quando quest’anima faceva penitenza – ­mediante la confessione – non aveva vera contrizione ». E parlando egli all’anima, le disse: « La tua coscienza dica e dichiari i pec­cati di cui non facesti degna penitenza ». Al­lora l’anima alzò talmente la voce da poter quasi essere udita dall’universo intero, di­cendo : Guai a me, perchè io non vissi secondo i comandamenti di Dio, che pure conoscevo. Io non temetti i giudizi di Dio. E la voce del Giudice le rispose: « Ed è perciò che ora tu devi temere i demonii ». – L’anima con­tinuò: Io non ebbi quasi nessun amore di Dio, ed è perciò che feci poco bene. Nulla v’ha in me, dalla pianta dei piedi fino al vertice del capo, ch’io non abbia rivestito di vanità. Inventai abiti vani e superbi; cercai di farmi lodar come bella. La mia bocca spesso era aperta alle paroline melate e alle leziosaggini. Godevo assai che molti imitas­sero le mie azioni e i miei costumi. La voce del Giudice allora rispose: « Giustizia vuole che chi sarà preso a commettere il peccato del quale tu sei punita, subisca le medesime pene. E quando qualcuno che avrà seguito le tue vane invenzioni, si troverà al punto in cui tu ti trovi, le tue pene aumenteranno ».

Allora, dice S. Brigida, mi parve che alla testa di quella persona fosse attaccata una fune, che la circondava e serrava così forte, che il davanti e il di dietro della testa si congiungevano insieme. I suoi occhi erano usciti dall’orbita e penzolavano per le loro radici lungo le gote; i capelli parevano essere stati bruciati dal fuoco. Il suo cervello colava per il naso e per le orecchie. Le usciva fuori la lingua e le si rompevano i denti; le ossa delle braccia le erano serrate con corde, le sue mani scorticate le venivano legate al collo. Il petto e il ventre erano così fortemente stretti che, spezzate le costole, il cuore e tutte le interiora schiattarono.

Allora il negro, ch’era il demonio, disse: O Giudice, i peccati di quest’anima sono con­dannati secondo giustizia; adunque congiun­gete insieme me e l’anima per modo che noi non ci separiamo mai più.

Il soldato armato, ch’era il buon angelo, rispose: Ascoltate, o Giudice. Nell’ultimo mo­mento della sua vita, questa persona ebbe questo pensiero: Se Dio volesse darmi qual­che tempo per vivere, io correggerei i miei peccati, lo servirei in tutto il corso della mia vita e non vorrei mai più offenderlo. Allora la voce del Giudice si fece sentire. « A chi ebbe tali pensieri alla fine della sua vita l’inferno non è dovuto. Per la mia passione il cielo sarà aperto a quest’anima, dopo che ella avrà data soddisfazione e si sarà puri­ficata per tanto tempo quanto avrà meritato, salvo che gli uomini non la soccorrano colle loro buone opere.

Quest’anima era quella d’una persona che aveva votata la sua verginità nelle mani d’un sacerdote e che, infedele alla sua pro­messa, s’era poi sposata (lib. IV, c. LI).

Dannazione d’un empio cavaliere. 

Nelle opere di S. Brigida si trova questa rivelazione di nostro Signore a proposito di un cavaliere ch’era stato infedele a Dio, aveva infranta la sua santa professione e violate le sue promesse: « Essendo uscito dal tempio dell’umiltà, disse nostro Signore, avendo gittato lo scudo della mia fede e ab­bandonata la spada del mio timore, egli in­superbì e si gonfiò d’orgoglio, si diede ad ogni sorta di voluttà, a tutti i capricci della sua volontà, ingolfandosi sempre più negli abissi del peccato e seppellendosi nei sozzi piaceri ».

Giunto all’estremo della sua vita, quando l’anima sua esalava dal suo corpo, i diavoli se ne impossessarono con gran violenza e tosto dall’inferno tre voci echeggiarono contro di lei. La prima diceva: Ecchè non è forse colui che, abbandonando l’umiltà, ci ha se­guiti in ogni sorta d’orgoglio? E se avesse potuto esser più orgoglioso di noi, lo sarebbe stato assai volentieri. L’anima rispose: Sì, son io. La giustizia gli rispose: « La ricom­pensa del tuo orgoglio sarà che tu precipiti da un demonio in un altro, finché tu sia piombato nel più profondo abisso dell’in­ferno… Non vi sarà alcun supplizio di cui tu non debba subire la violenza ».

La seconda voce gridò e disse: Questi non è forse colui che abbandonò la milizia di Dio che aveva professata e che si arruolò nella nostra milizia? L’anima rispose: Sì, sono io quel desco. E la Giustizia disse: « Tutti quelli che avranno seguita la tua perversità aumenteranno la tua pena e accresceranno il tuo dolore e, quando giungeranno al punto in cui tu sei, ti trafiggeranno come d’una piaga mortale. Come colui che ha una piaga cru­dele, se gli s’aggiungesse piaga sopra piaga, finchè il corpo ne fosse tutto coperto, soffri­rebbe dolori intollerabili, così una sventura attirerà sopra di te un mondo di sventure. La tua pena non cesserà mai e il tuo do­lore non scemerà punto ».

La terza voce diceva: Costui non è forse quello che vendette il suo Creatore per la creatura, l’amor del suo Dio per l’amor di se stesso? L’anima rispose: Sì, sono io quel cotale. – « Per questo appunto, riprese la voce della Giustizia, due porte gli saranno, aperte; per l’una entri ogni pena ed ogni dolore inflitto per tutti i peccati, piccoli e grandi, poichè egli vendette il suo Creatore per la sua voluttà. Per la seconda entri in lui ogni sorta di dolori e di vergogna, e mai non entreranno in lui nè consolazioni nè amore divino, perchè egli ha amato se stesso invece d’amar il suo Creatore. Perciò la sua pena durerà senza fine; egli vivrà senza mai morire e tutti i Santi rivolteranno da lui la loro faccia.

« Ecco, o mia sposa, quanto saranno mi­serabili coloro che mi disprezzano e quali dolori si procurano per una piccola e passeg­gera voluttà » (lib. II, c. ix).

È giusto che il corpo risusciti per partecipare alla pena o alla ricompensa. 

Nel Dialogo di S. Caterina da Siena si leggono questi insegnamenti dati dall’Eterno Padre: « Ogni operazione buona o cattiva è fatta col mezzo del corpo. E però giusta­mente, figliuola mia, è renduto ai miei eletti gloria e bene infinito col corpo loro glorifi­cato, perchè il corpo e l’anima siano ricom­pensati entrambi delle fatiche che per me sopportarono insieme. Così agli iniqui sarà renduta pena eternale col mezzo del corpo loro, perchè esso fu strumento del male; il loro supplizio si rinnoverà e aumenterà quando ripiglieranno il loro corpo in presenza del mio Figliuolo.

« La loro miserabile sensualità coll’im­mondizia sua riceverà riprensione in vedere la natura umana unita in Gesù Cristo alla purezza della divinità, scorgendo la carne d’Adamo sopra tutti i cori degli angeli, mentre essi per i loro difetti si veggono profondati nel baratro dell’inferno. E veg­gono la larghezza e la misericordia rilucere nei beati, ricevendo il frutto del sangue dell’Agnello, e veggono le pene ch’essi hanno portate, che tutte stanno per adornamento nei corpi loro, sì come la fregiatura sopra del panno, non per virtù del corpo, ma solo per la plenitudine dell’anima, la quale rap­presenta al corpo il frutto della fatica, per­chè fu compagno con lei ad operare la virtù. Questa ricompensa è visibile, e appariste sul corpo come la faccia dell’uomo si riflette in uno specchio » (Dialogo, c. XLII).

Giudizio universale. Maestà del Giudice. 

« A queste terribili parole: Alzatevi, o morti, e venite al giudizio! l’anima si riu­nirà al corpo per glorificarlo nei giusti e torturarlo eternamente nei cattivi. I dannati saranno coperti di onta e di confusione in presenza della mia Verità e di tutti i miei beati » (Dialogo, c. XLVIII).

« Sappi che nell’ultimo dì del giudizio, quando verrà il mio Figliuolo colla divina mia Maestà, a riprendere il mondo colla po­tenza divina, egli non verrà in qualità di poverello, come quando nacque dal seno della Vergine, in una stalla, fra due ani­mali, e morì fra due ladroni.

« Allora io nascosi la potenza mia in lui, lasciandolo sostenere pene e tormenti come uomo; non che la natura mia divina fosse però separata dalla natura umana, ma lo lasciai patire come uomo, per soddisfare alle colpe vostre. Non verrà così ora in questo ultimo punto, ma verrà con potenza a ri­prendere colla propria persona; e non sarà alcuna creatura, che non riceva tremore, e renderà a ognuno il debito suo.

« Ai dannati miserabili darà tanto tor­mento l’aspetto suo e tanto terrore, che la lingua non sarebbe sufficiente a narrarlo. A’ giusti darà timore di riverenza con grande giocondità; non ch’egli si muti la faccia sua, perocchè egli è immutabile, perchè è una cosa con me, secondo la natura divina; e secondo la natura umana ancora la faccia sua è immutabile, poichè prese la gloria della risurrezione. Ma il reprobo lo vedrà solo con quell’occhio terribile e oscuro che egli ha in se medesimo. L’occhio malato che guarda la luce del sole non ci vede che tenebre, mentre che l’occhio sano ne ammira lo splen­dore. Questo non è per difetto della luce, che si muti più al cieco che all’illuminato, ma è per difetto dell’occhio che è infermo. Così i dannati lo veggono in tenebre, in con­fusione e in odio, non per difetto della mia Maestà, colla quale egli verrà a giudicare il mondo, ma per difetto loro » (Dialogo, ca­plt. XXXIX).

Terribile sentenza. 

« Allo spettacolo della gloria e della fe­licità degli eletti di cui si sono privati, i dannati sentiranno crescere la loro pena e la loro confusione. Nel loro corpo appari­ranno i segni dei peccati commessi e i sup­plizi che avranno meritato. Onde in quella parola, ch’essi udranno terribile: Andate, ma­ledetti, nel fuoco eterno, l’anima e il corpo andranno a dimorare coi demonii senz’alcun rimedio di speranza, in quella sentina (lei mondo ove ognuno porterà la puzza delle sue iniquità.

« L’avaro vi arderà insieme colla sua pas­sione de’ tesori della terra, il crudele colla sua crudeltà, l’immondo coll’immondizia e miserabile concupiscenza, l’ingiusto colle sue ingiustizie, l’invidioso coll’invidia, colui che odia il suo prossimo col suo odio. Quelli che si saranno amati di quell’amore disordinato che cagiona tutti i mali, perché insieme col­l’orgoglio, esso è il principio di tutti i vizi, saranno divorati da un fuoco intollerabile. Sicchè tutti in diversi modi saranno puniti in­sieme nell’anima e nel corpo » (Dialogo, ca­plt. XLII).

III. – INFERNO. 

La pena misurata secondo il peccato. 

Dio Padre disse a S. Caterina da Siena: « La mia giustizia esige ch’io proporzioni la pena all’offesa. Perciò il cattivo cristiano è punito più assai che il pagano. Il fuoco ter­ribile della mia vendetta, che arde senza consumare, lo tortura maggiormente e il verme roditore della coscienza lo divora più profondamente. Quali si siano i loro tormenti, i dannati non possono perdere l’essere, chie­dono la morte senza poter ottenerla, il peccato loro non toglie che la vita della grazia. Sì, il peccato è più punito dopo la Redenzione che prima, perchè gli uomini hanno ricevuto di più. I peccatori disgraziati non ci pensano; essi mi sono fatti nemici, dopo essere stati riconciliati nel prezioso sangue del mio Fi­gliuolo » (Dialogo, c. xv).

« Allora il verme della coscienza roderà il midollo dell’albero, cioè l’anima, e la cor­teccia di fuori, cioè il corpo. Rimproverato loro sarà il sangue che per loro fu pagato, e l’opere della misericordia, spirituali e tem­porali, le quali io feci a loro, col mezzo del mio Figliuolo, e quello ch’essi dovevano fare nel prossimo loro, siccome si contiene nel santo Evangelo. Ripresi saranno della crudelta, che essi hanno avuta verso il prossimo, della superbia e dell’amor proprio, dell’im­mondizia e avarizia loro. La vista della mi­sericordia che da me hanno ricevuta, renderà più terribile la loro condanna. Nel punto della morte essa tocca solamente l’anima, ma al giudizio finale colpirà ad un tempo e l’anima e il corpo; perchè il corpo è stato compagno e strumento dell’anima a fare il bene e il male, secondo che è piaciuto alla propria volontà » (Dialogo, c. XLII).

I quattro principali supplizi dell’inferno. 

« Figlia mia, disse Iddio a S. Caterina da Siena, la lingua non è sufficiente a narrare la pena di queste anime tapinelle. Vi sono tre vizi principali: Amor proprio di sè, d’onde esce il secondo, cioè la propria riputazione, e dalla propria riputazione procede il terzo, cioè la superbia, con falsa ingiustizia e cru­deltà, e con altri immondi e iniqui peccati, che dopo questi seguitano. Così ti dico che nell’inferno vi sono quattro tormenti prin­cipali, ai quali seguitano tutti gli altri tor­menti. Il primo è che i dannati si veggono privati della mia visione, che per loro è pena così grande che, se loro fosse possibile, eleg­gerebbero piuttosto il fuoco e i crociati tor­menti e vedere me, anzichè stare fuori delle pene e non vedermi.

« Questa pena ne produce una seconda, che è il verme della coscienza che la rode incessantemente. Il dannato vede che, per colpa sua, si è privato della mia vista e della compagnia degli angeli e che si è reso degno della compagnia e della vista del demonio.

« Questa vista del demonio è la terza pena, e questa pena raddoppia la sua sventura. I Santi trovano la loro felicità eterna nella mia visione; vi gustano, nella gioia, la ri­compensa delle prove che sopportarono con tant’amore per me e con tanto disprezzo per se stessi. Quei disgraziati invece trovano in­cessantemente il loro supplizio nella visione del demonio, perchè vedendolo essi si cono­scono maggiormente e comprendono quello che meritarono colle loro colpe. Allora il verme della coscienza li rode più crudelmente e li divora come un fuoco insaziabile. Ciò che rende questa pena terribile si è ch’essi veg­gono il demonio nella sua realtà, e la sua figura è così spaventosa che l’immaginazione dell’uomo non potrebbe mai concepirlo.

« E se bene ti ricorda, io te lo mostrai un solo istante in mezzo alle fiamme e tale istante fu sì penoso che avresti preferito, poichè ritornasti in te, di andare per una strada di fuoco fino al giorno del giudizio piuttosto che rivederlo; eppure quello che vedesti non può farti comprendere quant’egli è orribile, perchè la giustizia divina lo mo­stra assai più orribile ancora all’anima che è separata, e l’orrore di quella visione è pro­porzionato alla grandezza della sua colpa. « Il quarto supplizio dell’inferno è il fuoco. Questo fuoco arde e non consuma, perocchè l’anima non si può consumare. L’essere suo non è cosa materiale, che possa essere con­sumata dal fuoco, poichè è incorporea; ma, giustizia vuole che questo fuoco la arda e la torturi senza distruggerla, e questo sup­plizio è in rapporto con la diversità e la gravità delle sue colpe.

« Questi quattro principali tormenti sono accompagnati da molti altri, come dal freddo, dal caldo e dallo stridore di denti. Ecco come saranno puniti quelli che, dopo essere stati convinti d’ingiustizia e di errore durante la loro vita, non si saranno convertiti e, nel­l’ora della morte, non avranno voluto sperare in me e piangere l’offesa che mi avevano fatta, più che la pena che avevano meritata » (Dialogo, xxxviiI).

L’odio eterno. 

« Egli è tanto l’odio ch’essi hanno, che non posson volere nè desiderare verun bene, ma sempre mi bestemmiano. E sai perchè essi non possono desiderare il bene? Perchè, fi­nita la vita dell’uomo, è legato il libero ar­bitrio; per la qual cosa non possono meri­tare, perduto che hanno il tempo. Se essi finiscono in odio colla colpa del peccato mortale, sempre per divina giustizia sta legata l’anima col legame dell’odio, e sempre sta ostinata, in quel male ch’ella ha, rodendosi in se medesima e aumentando la sua pena colle pene di quelli per cui ella fu causa di dannazione.

« Il ricco malvagio chiedeva di grazia che Lazzaro andasse a’ suoi fratelli i quali erano rimasti nel mondo ad annunziare le pene sue. Questo già non faceva per carità, nè per com­passione dei fratelli, perocchè egli era privato della carità, e non poteva desiderare bene nè in onore di me, nè in salute loro. Perchè già t’ho detto che ì dannati non possono voler alcun bene al prossimo e mi bestem­miano, perchè la loro vita finì nell’odio di me e della virtù.

« Ma perchè dunque il faceva? Facevalo, perchè egli era stato il maggiore e avevali nutriti nelle miserie; in cui egli era vissuto. Sicchè egli era cagione della dannazione loro e temeva di vedersi crescere la sua pena, dovendo i loro tormenti aggiungersi a’ suoi; perchè quelli che muoiono nell’odio eterna­mente si divorano fra loro nell’odio » (Dia­logo, c. xr.).

Rabbia dei dannati gli uni contro gli altri.

Dio Padre, parlando dell’inferno a santa Maria Maddalena de’ Pazzi, le disse: « Fra i dannati regna un odio eterno, perchè ciascuno di essi conosce colui che lo portò ad offendermi e che fu per conseguenza la causa della sua dannazione. Perciò quanto più cresce il loro numero, tanto maggiormente si accrescono le loro pene, perchè i nuovi ve­nuti non fanno che aumentare la rabbia che li anima gli uni contro gli altri » (Parte IV, cap. xi).

Supplizi di coloro che non amarono mai il loro Dio. 

S. Matilde, stando in orazione, vide sotto di sè l’inferno aperto e dentro una miseria e un orrore infinito: come serpenti e rospi, leoni e cani e ogni sorta di bestie feroci che si laceravano crudelmente fra loro. Allora ella disse: O Signore, chi sono quei disgra­ziati? – E il Signore a lei: « Sono coloro che mai non si sono ricordati dolcemente di me, nemmeno per un’ora » (P. V, c. xx).

L’Inferno. Visioni di S. Veronica Giuliani. 

S. Veronica Giuliani ebbe più volte visioni dell’inferno; noi crediamo utile riprodurle, come una conferma degl’insegnamenti di Dio a S. Caterina da Siena. Leggendole bisogna senza dubbio tener conto del simbolismo che sotto immagini materiali rappresenta supplizi spirituali, di cui noi non potremmo altrimenti farci una minima idea. Pare anche proba­bile che vi siano dei dannati che soffrano rneno di quelli di cui ella vide le orribili tor­ture; può anche darsi che il castigo, pur es­sendo eterno, non abbia sempre il medesimo grado d’acutezza. Ma il certo si è che nostro Signore nel Vangelo parla del fuoco e d’un fuoco eterno e che la sciagura della danna­zione oltrepassa tutto quello che noi possiamo immaginare.

Il 14 febbraio 1694, ella vide l’inferno aperto; vi cadevano molte anime ch’erano così turpi e così nere ch’era uno spavento a vederle. Si precipitavano una dietro al­l’altra e scomparivano tra le fiamme. Dal mezzo del fuoco che le inghiottiva si solle­vavano dei pugnali, dei rasoi e degli stru­menti di supplizio di varie sorta che poi ricadevano con tutto il loro peso per schiac­ciare quei miseri. La Santa chiese al Si­gnore se fra le anime ch’ella aveva veduto cadere si trovasse qualche religioso o reli­giosa. E il Signore le fece conoscere che fra le anime religiose ce n’erano che vi erano precipitate – e che l’avevano davvero meritato, perchè non avevano mantenuto quello che avevano promesso e perchè si erano rese colpevoli di tante violazioni delle loro regole.

Il 1° aprile 1696, S. Veronica fu condotta alla bocca dell’inferno. Ella udì le grida e

le bestemmie dei dannati, ma a tutta prima non notò altro che tenebre e puzza orribile; il fuoco era nero e fitto. Poi ella vide molti demonii ch’erano come vestiti di fuoco e che si eccitavano a percuotere; e le si fece sa­pere che picchiavano dei dannati.

Il 5 dicembre del medesimo anno, ebbe una visione simile. Nel medesimo tempo il Sal­vatore si mostrò a lei flagellato, coronato di spine e con una pesante croce sulle spalle, e le disse: « Guarda bene questo luogo che non avrà mai fine. Qui si esercita la mia giu­stizia e il mio terribile sdegno ».

Il 30 giugno 1697, fu detto alla Santa che ella stava per passare attraverso nuove pene. Fu come una partecipazione ai supplizi del­l’inferno ch’ella sopportò per un’ora a più riprese. In quel giorno ella si sentì posta in una fornace ardente e provò pene atroci, come lance che la trafiggevano, ferri che la bruciavano, piombo bollente che le era ver­sato su tutto il corpo.

Il primo luglio, al mattino, ella si ritrovò in quel luogo di terrore; vedevasi come ab­bandonata da Dio, incapace di raccomandarsi nè al Signore, nè ai Santi; non già ch’ella non avesse il pensiero di Dio, tutt’all’op­posto; ma ella lo vedeva senza misericordia e tutto giustizia.

Il 4 luglio, l’inferno le parve così vasto che tutta la macchina del mondo, dice ella, non sarebbe nulla al confronto. Vide una ruota – come una macina – di grandezza smisurata, che ad ogn’istante cadeva sui dan­nati, poi si sollevava per ricadere ancora.

Il 16 luglio sentì tutte le sue ossa strito­late da ruote che giravano tutt’intorno a lei. Nel medesimo tempo ella ebbe il sentimento della perdita di Dio, pena sì atroce, dice ella, che non si può spiegare. Tutti gli altri tor­menti sembrano poca cosa in confronto di questo.

Il 19 luglio, durante quello ch’ella chia­mava l’ora d’eternità, sentivasi ora punta da spilli ed aghi, ora arsa da lastre roventi, ed ora lacerata nelle carni da strumenti da taglio.

Il 6 febbraio 1703, il suo confessore aven­dole comandato di pregare per la città ove ella dimorava, il Signore le fece vedere come un immenso incendio che divorava la città; molte persone andavano a gettarsi nelle fiamme, altre sul punto di gettarvisi ritor­navano addietro. Fu rivelato alla Santa che quelle fiamme rappresentavano il peccato di impurità a cui s’abbandonava un numero troppo grande de’ suoi concittadini; ma altri, violentemente tentati, sapevano resistere. E il Signore le disse; « Di’ a colui che tiene il mio posto, al tuo confessore, che t’ha or­dinato di chiedermi in che cosa sono io più offeso, ch’io sono offeso in tutti i modi, ma particolarmente coi peccati della carne. Vi sono pure fra questo popolo delle inimicizie che m’offendono grandemente e molte anime per questo motivo vanno all’inferno per tutta l’eternità ».

Il 27 gennaio 1716, Maria, comparendo a S. Veronica, chiamò i due angeli che la servi­vano da custodi e loro ordinò di condurla in spirito all’inferno; ella la benedì e le disse: « Figlia mia, non temere, io sarò con te e t’aiuterò ». Ad un tratto, racconta la Santa, mi trovai in un luogo oscuro, profondo e fetente, udii mugghii di tori, ragli d’asino, ruggiti di leone, sibili di serpenti, ogni sorta di voci confuse e spaventose e grandi rombi di tuono che riempivano di terrore. Vidi lampi e fumo molto denso. Scorsi una gran montagna tutta coperta di serpenti, di vipere e di basilischi fra loro attorcigliati in numero incalcolabile. Udendo uscire di sotto a loro delle maledizioni e voci orrende, chiesi a’ miei angeli che voci fossero quelle, ed essi mi risposero che lì si trovavano molte anime nei tormenti. Infatti quella gran montagna ad un tratto s’aprì ed io la vidi tutta ripiena d’anime e di demonii. Quelle anime erano tutte avvinghiate insieme, per modo che formavano una sola massa; i de­monii le tenevano così legate a se stessi con catene di fuoco; ogni anima aveva parecchi demonii attorno a sè. Di là fui trasportata ad un’altra montagna ove si trovavano dei tori e dei cavalli furiosi che mordevano come cani arrabbiati. Loro usciva fuoco dagli occhi, dalla bocca e dal naso, i loro denti parevano lance acutissime e spade taglienti, che riducevano in frantumi in un istante tutto ciò che afferravano. Compresi che morde­vano e divoravano anime. Vidi altre mon­tagne ove si praticavano dei tormenti più crudeli, ma mi è impossibile descriverli. Al centro di tal soggiorno infernale si erge un trono altissimo; in mezzo a quel trono vi è un seggio formato dei demonii che sono i capi e i principi. Là siede Lucifero, spa­ventoso, orribile. O Dio che figura orrenda; sorpassa in orrore tutti gli altri demonii. Sembra avere una testa formata di cento teste e piena di lance, a capo di ciascuna delle quali vi è come un occhio che proietta frecce infiammate che infiammano tutto l’inferno. Benchè il numero dei demonii e dei dannati sia incalcolabile, tutti veggono quella testa orribile e ricevono tormenti sopra tormenti da quello stesso Lucifero. Esso li vede tutti e tutti lo vedono. Qui i miei angeli mi fecero comprendere che, come in cielo la vista di Dio rende beati tutti gli eletti, così nell’in­ferno l’orribile figura di Lucifero, orrendo mostro infernale, è un tormento per tutti i dannati. La loro maggior pena è l’aver per­duto Iddio. Questa pena Lucifero la sente per il primo, e tutti vi partecipano. Egli be­stemmia, e tutti bestemmiano; maledice e tutti maledicono; soffre ed è torturato, e tutti sof­frono e sono torturati.

In quel momento i miei angeli mi fecero osservare il cuscino ch’era sul seggio di Lu­cifero e su cui stava seduto; era l’anima di Giuda. Sotto i piedi di Lucifero vi era un cuscino molto grande, tutto lacero e coperto di segni; mi si fece capire ch’erano anime di religiosi. Allora il trono fu aperto e, in mezzo ai demonii che stavano sotto il seggio, vidi un gran numero d’anime. Chi sono que­ste? domandai a’ miei angeli; ed essi mi ri­sposero ch’erano dei prelati, dei dignitari della Chiesa, dei superiori d’anime consacrate a Dio.

Io credo che se non fossi stata accompa­gnata da’ miei angeli ed anche, come penso, invisibilmente fortificata dalla mia buona Ma­dre, io sarei morta di spavento. Tutto ciò ch’io ne dico non è nulla e tutto ciò che udii dire dai predicatori non è nulla in paragone di quello ch’io vidi (Diario, alle date indicate).

Visione del Ven. Bernardo Francesco de Hoyos. 

Il 9 gennaio 1730, il Ven. Bernardo Fran­cesco, che faceva gli esercizi spirituali ed era giunto alla meditazione dell’inferno, ne ebbe una visione terribile. D’improvviso si vide in un vasto campo; per ordine di Dio il suo angelo custode lo condusse fino all’orlo del­l’abisso infernale che s’aprì a’ suoi piedi: Vieni, gli diss’egli, e ti mostrerò questo grande spettacolo. Io vidi, scrive il santo giovane, un’immensa caverna piena di fuoco; da quel fuoco usciva un fumo così denso che offuscava la luce. Io dirigevo il mio sguardo su quella immensa distesa di fuoco, ma non ne vedevo la fine. Vidi certi dannati che, spinti dalla rabbia, uscivano fuori dalle fiamme, ma tosto vi ricadevano, precipitati dai demonii e tra­scinati verso l’abisso come una pietra verso il suo centro.

Il mio angelo si volse a me e mi disse: Fai ben attenzione. Allora vidi quali erano i castighi particolari per gl’impudici, per gli avari, per quelli che portano odio. Pieno d’or­rore per quel che vedevo, stordito dalle be­stemmie che udivo vomitare contro Dio e la sua santa Madre, spaventato dalla vista dei mostri che m’apparivano, distolsi gli sguardi e non distinsi più nulla. Avendo così percorso alla cieca un grande spazio, il mio angelo mi disse: Vieni e vedi, e scrivi ciò che vedrai.

Allora il sentiero ch’io seguivo s’aprì e mi trovai in un’altra cavità sopra la prima e più orribile. Là si tenevano i sacerdoti in­degni che – avevano avuto l’audacia di ricevere sacrilegamente nelle loro mani e nel loro cuore il Figlio della Vergine. Quei miserabili soffrivano tali torture che tutte quelle di cui ho parlato non sono nulla al loro confronto. Erano tormentati specialmente nelle parti del loro corpo che avevano toccata l’ostia consacrata; pel dolore si facevano scoppiare le mani ch’erano divenute come carboni ardenti; le loro lingue erano come fatte a pezzi e penzo­lavano fuori della loro bocca per significare i loro sacrilegi; tutto l’interno del loro corpo e specialmente il loro cuore era divorato dal fuoco e in preda ad orribili dolori. Là io vidi drizzarsi, come un serpente che vuol saltare, un cattivo sacerdote ch’io conobbi e che era morto subitaneamente dopo aver dato gravi scandali. Mi fissò con rabbia e subito ricadde nel più profondo della fornace (cap. x).

V. – IL PARADISO.  

L’entrata d’un eletto in Paradiso.

Il Figlio di Dio, dando a S. Brigida le sue istruzioni, le parlò in questi termini d’un generoso cavaliere che aveva praticato le virtù cristiane: «Quando quest’amico del mio Cuore fu arrivato all’estremo della sua vita e l’anima sua si separò dal corpo, cinque legioni d’angeli furono inviate incontro a lui. Si udirono allora in cielo voci melodiose che risonavano soavemente e dicevano: O Si­gnore e Padre, questi non è forse colui che aderì fortemente ai vostri voleri e che perfet­tamente li compì? Poi una voce da parte della Divinità gli disse: Io ti creai e ti diedi il corpo e l’anima. Tu sei mio figlio e facesti la volontà del Padre tuo. Ora vieni dunque al tuo Creatore onnipotente e al tuo Padre amantissimo. L’eredità eterna ti è dovuta, poiché tu sei figlio e fosti obbediente. Vieni dunque, o mio dolcissimo figlio, io ti rice­verò con gioia ed onore.

« Una seconda voce, ch’era quella del­l’Uomo Dio, gli disse: Vieni al tuo fratello, perché io mi sono offerto per te, ho versato il mio sangue per amor tuo. Vieni a me, per­ché hai seguito la mia volontà; vieni a me, perché hai versato sangue per sangue, hai dato vita per vita e morte per morte. Dunque tu che m’hai seguito, vieni alla mia vita, alla mia gioia che non finirà mai.

« Una terza voce parlò da parte dello Spi­rito Santo: Vieni, o mio cavaliere, che m’haì tanto desiderato e in cui io mi sono compia­ciuto di stabilire la mia dimora. Per le fa­tiche del tuo corpo, entra nel riposo; in cambio delle tribolazioni del tuo spirito, entra nelle consolazioni ineffabili; in ricompensa della tua carità e delle tue generose lotte, entra in me stesso; io rimarrò in te e tu rimarrai in me.

« Poi le cinque legioni d’angeli fecero echeggiare la loro voce. La prima diceva: andiamo incontro a questo generoso soldato e portiamo davanti a lui le sue armi; cioè presentiamo al nostro Dio la fede ch’egli con­servò senza vacillare e che difese contro i suoi nemici.

« La voce della seconda legione disse: por­tiamo davanti a lui il suo scudo e mostriamo al nostro Dio la sua pazienza; benchè ella sia a Dio nota, più gloriosa ne sarà per la nostra testimonianza.

« La terza legione disse: Andiamo in­ contro a lui e presentiamo a Dio la sua spada, cioè l’obbedienza ch’egli praticò, tanto nelle cose penose quanto in quelle facili.

« La quarta: andiamo e rendiamo testimo­nianza alla sua umiltà, perchè l’umiltà prece­deva e seguiva tutte le sue buone opere.

« La quinta voce disse: diamo testimo­nianza del suo desiderio divino, per cui egli sospirava a Dio. Ad ogni ora a lui pensava nel cuor suo; egli l’aveva sempre in bocca, sempre nelle sue opere; lo desiderava sopra tutte le cose; per amor di lui, egli sempre si mostrò come morto al mondo.

« Ecco come il mio amico viene a me e con qual premio è ricompensato. E, quantun-

que non tutti abbiano versato il loro sangue per amore del mio nome, pure riceveranno le medesime ricompense, se essi hanno la volontà di dar la loro vita per amor mio, quando se ne offriranno il tempio e l’occasione. Vedi quanti beni reca la mia volontà. (1. II, cap. xi).

Accoglienza fatta dal Signore all’anima glorificata. 

Il nostro buon Signore, racconta Giuliana di Norwich, mi disse: «Io ti ringrazio di ciò che facesti per me, e specialmente d’avermi consacrata la tua giovinezza». Poi Dio mi mostrò tre gradi di beatitudine in cielo per quell’anima che lo servì di buon animo: il primo, quando il Signore la ringrazia alla sua uscita dal purgatorio, ringraziamento così ele­vato e così glorioso ch’ella si sente ricolma e sufficientemente ricompensata. Il secondo è che tutta la corte celeste ne è testimonio, perchè Dio fa conoscere a tutti gli eletti i servizi che gli furono resi. Il terzo è che la gioia data all’anima nel momento in cui è così ringraziata deve durare per tutta l’eter­nità (VI Rivelazione, c. xiv).

« Quanto più avrai sofferto, disse l’eterna Sapienza al beato Enrico Susone, tanto più sarai ricevuto con riguardi e dignità. Qual gioia produce quest’onore come l’anima e il cuore sono inondati di felicità vedendosi lo­dati e glorificati da me dinanzi al Padre mio e a tutto il celeste esercito. Io li loderò d’aver sofferto tanto in questa vita, d’aver combat­tuto tanto, d’aver riportate tante vittorie (L’Exemplaire, Trattato II, c. XII).

Nostro Signore ci dichiara ancora nel Van­gelo ch’egli farà l’elogio degli eletti: « Ve­nite, benedetti del Padre mio; io ebbi fame e mi deste da mangiare, ecc. – Coraggio, servo buono e fedele, tu fosti fedele nelle piccole cose. – Chi mi avrà confessato da­vanti agli uomini io lo confesserò davanti al Padre mio. – Allora, dice l’Apostolo san Paolo, ognuno riceverà dal Signore la lode che gli sarà dovuta » (I Cor., Iv, 5).

Quello che perdono coloro che non hanno amore. 

Una volta, racconta S. Teresa, per lo spazio d’un’ora e più, nostro Signore, tenendosi sempre vicino a me, m’aveva scoperto cose meravigliose. Poi mi disse: « Vedi, figlia mia, quello che perdono coloro che sono contro di me. Non mancar di dirlo loro » (Vita, e. XXXVIII).

S. Caterina da Siena, che rimase morta per quattro ore e ritornò poi a vita, aveva veduto e le pene dei peccatori nell’altro mondo e la gloria degli eletti. E il Signore le disse: « Tu vedi di qual gloria sono privati e con quali pene sono puniti coloro che m’offen­dono. Ritorna dunque a loro per mostrare ad essi il loro errore, il loro pericolo e il torto che fanno a se stessi » (Vita, del B. Rai­mondo, Parte II, c. vi).

Parole simili furono dette a Francesca di Bona dopo ch’ella fu favorita d’un conosci­mento elevatissimo della SS. Trinità: « Figlia mia, io volli farti vedere di qual bene si pri­vano i peccatori che muoiono nel loro pec­cato » (lib. III, c. xiv).

La gloria di Dio veduta in lui, in noi e in tutto, ecco il cielo. 

S. Caterina da Bologna (1413-1483) ebbe una visione, in cui nostro Signore le apparve, circondato d’angeli e di Santi, che cantavano queste parole d’Isaia (Lx, 2) : « E la sua gloria sarà veduta in voi ». Il Salvatore con­dusse S. Caterina presso il suo trono e le disse: « Figlia mia, ascolta questo canto e intendi bene il senso di queste parole: E la sua gloria sarà veduta in voi » (Piccoli Bol­landisti, 9 marzo).

Dio tutto in tutti. 

In una visione, racconta S. Geltrude, in cui l’anirna rnia ben sentiva, in slanci d’una gioia perfetta, ch’ella ora arricchita dei gaudii del suo Diletto, io intesi il senso di queste parole così piene di dolcezza: « Dio sarà tutto in tutti » (I Cor., xv, 28). L’anima mia beveva, con un’avidità insaziabile, queste parole che il cielo presentava in una pozione deliziosa all’ardore della sua sete: « Com’io sono la figura della sostanza di Dio, mio Padre, nella Divinità stessa, così tu sarai la figura della mia sostanza nell’umanità e, come l’aria riceve la chiarezza dei raggi del sole, così tu riceverai nell’anima tua deificata le emanazioni della mia divinità; allora penetrata fino al midollo dai raggi della mia luce, tu diventerai capace d’una più familiare unione con me » (lib. II, c. vi).

Mentre S. Paolo della Croce, meditando sui novissimi, considerava le gioie del para­diso, udì il Signore che gli diceva: « Mio figlio, in cielo, il beato non sarà unito a me com’è un amico all’amico suo, ma come il ferro penetrato dal fuoco » (Vita, c. iv).

Dio in cielo ama di esser lodato ne’ suoi eletti. 

Dopo la morte di S. Matilde, Geltrude vide tre raggi che partivano dal Cuore di Dio e passavano per l’anima della sua santa amica per dirigersi su tutti i Santi che, essendo mirabilmente illuminati e rallegrati, si misero a lodare per lei il Signore, dicendo: noi vi lodiamo per l’incantevole bellezza della vo­stra sposa, per l’amabile compiacenza che ri­ponete in lei, per l’unione perfetta che la fece una sola cosa con voi. E vedendo Geltrude che il Signore si pigliava un gran piacere in quelle lodi, gli disse: Perchè, mio Signore, godete tanto d’esser lodato in quest’anima? Egli rispose: « Perchè nella sua vita ella desiderava sopra tutto di vedermi lodato; ella ha conservato questo desiderio ed io voglio saziarla colla mia lode incessante » (P. VII, cap. xvi).

Le nostre buone opere in cielo cantano la lode di Dio.

Suor Matilde aveva un fratello chiamato Balduino, che era domenicano. Il Signore, parlandole di questo fratello, ch’era assai vir­tuoso e zelante, le disse: « Ho saputo e ve­duto tutte le fatiche a cui si sobbarca, le let­ture che fa e i libri che scrive: tutto quello ch’egli fa canterà un cantico d’amore a mia lode davanti alla mia eterna famiglia e dirà: Dio grande, eterno, forte, ammirabile, alle­luia! Ed io esalterò il suo capo e tutte le sue forze, come feci per te, non solo nell’ordine della natura, ma ancora in quello della gra­zia » (lib. II, c. xxi).

Come Cristo fu glorificato nel suo corpo. 

Mentre Matilde pregava il Signore Gesù di rendere grazie a Dio della sua risurrezione futura, il Signore le disse: « Io lo faccio pre­sentemente per te e per ognuno de’ miei così volentieri come per me stesso, perchè consi­dero la gloria de’ miei membri come la mia stessa e l’onore che loro è reso come tribu­tato a me stesso. L’anima per cui io compio così queste lodi e questi ringraziamenti, men­tre ella è ancora sopra la terra, ne rice­verà una gran gloria e una gran gioia ne’ cieli ». E, poichè Matilde cercava in se stessa ciò che era stata la glorificazione dell’u­manità di Cristo nel momento della sua ri­surrezione, il Signore le disse: « La glori­ficazione del mio corpo consistette in questo, che mio Padre mi diede ogni potere in cielo e in terra, per modo ch’io fossi onnipotente nell’umanità, come nella divinità, per ricom­pensare, elevare e colmare i miei amici delle testimonianze del mio amore, secondo tutta la generosità de’ miei desideri. La glorifica­zione de’ miei occhi e dei miei orecchi mi diede modo di poter penetrare fino in fondo a tutti i bisogni e a tutte le tribolazioni de’ miei fedeli, udire ed esaudire i loro voti e le loro preghiere. Tutto il mio corpo ha al­tresì ricevuta questa gloria ch’io possa essere da per tutto nell’umanità compio sono nella divinità con tutti e con ciascuno de’ miei amici, dovunque io voglio; ciò che nessun altro, per potente che sia, non ha mai potuto e mai non potrà». (Parte I, c. xrx; ediz. lat., pag. 67).

La misura dell’amor meritorio è la misura dell’amor beatificato.

Ascoltiamo Iddio che a S. Caterina da Siena dice: « L’anima giusta che finisce la vita in affetto di carità è eternamente legata in amore. Ella non può più crescere in virtù, perchè è venuto meno il tempo, ma può sempre amare coll’ardore ch’ella ebbe per venire a me, e quest’ardore è la misura della sua felicità. Sempre desidera me e sempre ama, onde il suo desiderio non è vuoto, ma avendo fame è saziato, e saziatosi ha fame, senza mai provare la noia della sazietà nè la pena della fame.

« Gli eletti dell’amore godono nell’eterna mia visione, partecipando quel bene ch’io ho in me medesimo, ognuno secondo la misura sua, e questa misura è l’amore ch’essi avevano venendo a me. Perchè sono stati nella carità mia e in quella del prossimo, e uniti insieme colla carità comune e colla particolare, ch’esce pure da una medesima carità. Godono ed esultano, partecipando l’uno il bene dell’altro, con l’affetto della carità, oltre al bene universale, ch’essi hanno tutti insieme. E go­dono ed esultano cogli angeli, coi quali i Santi sono collocati, secondo le varie virtù, le quali principalmente ebbero nel mondo, essendo legati tutti nel legame della carità (Dialogo, c. XLI).

Partecipazione alla felicità di quelli che noi abbiamo amato di più sopra la terra. 

« Ed hanno una singolare partecipazione con coloro, coi quali strettamente d’amor sin­golare s’amavano nel mondo. Quest’amore era un mezzo d’aumentare in essi la virtù: erano gli uni per gli altri occasione di glorificare il mio nome in essi e nel prossimo loro e, siccome l’amore che li univa non è distrutto in cielo, essi ne godono con maggior abbon­danza, e tal amore accresce la loro felicità. « E non vorrei però che tu credessi che gli eletti soli godessero della loro felicità particolare; perchè essa è partecipata da tutti quanti i beati abitanti del cielo, dagli an­geli e da’ miei diletti figliuoli. Onde quando l’anima giunge a vita eterna, tutti parteci­pano il bene di quell’anima, e l’anima del bene loro. Non già che il vaso suo, nè il loro, possa crescere, nè che abbia bisogno di empirsi, perocchè egli è pieno, e perciò non può crescere, ma hanno un’esultazione, una giocondità, un giubilo, un’allegrezza, che si rinfresca in loro per il conoscimento, che han trovato in quell’anima. Veggono che per mia misericordia ella è levata dalla terra, colla plenitudine della grazia; e così esultano in me, nel bene che quell’anima ha ricevuto dalla mia bontà. E quell’anima gode in me, e nelle anime, e negli spiriti beati, vedendo in loro e gustando la bellezza e la dolcezza della mia carità » (Dialogo, c. XLI).

Gli eletti infiammati di carità hanno sete della salute delle anime. 

« I loro desideri sempre gridano dinanzi a me per la salvezza di tutto quanto il mondo; e perchè la loro vita finì nella carità del pros­simo, questa carità non li ha abbandonati, anzi con essa passeranno per la porta dell’U­nigenito mio Figliuolo, per lo modo che di sotto ti dirò. Sicchè vedi che con quel legame dell’amore in che finì la loro vita, con quello permangono ed esso dura eternamente » (Ibi­dem).

Unione perfetta alla volontà di Dio. 

« Essi sono tanto conformati alla mia vo­lontà, che non possono volere se non quello ch’io voglio; perchè l’arbitrio loro è legato nel legame della carità, per siffatto modo che venendo meno il tempo alla creatura che ha in sè ragione, morendo in stato di grazia non può più peccare. E in tanto è unita la sua volontà con la mia, che vedendo il padre, o la madre, il figliuolo nell’inferno, o il figliuolo il padre e la madre, non se ne curano; anzi sono contenti di vederli puniti, come nemici miei, onde in nessuna cosa si discordano da me, e i desideri loro sono tutti pieni » (Dia­logo, cap. XLI).

Desideri degli eletti sempre saziati.

« Il desiderio dei beati è di vedere l’onore mio in voi viandanti e quali siete peregrini, che sempre correte verso il termine della morte. Nel desiderio del mio onore desiderano la salute vostra, e perciò sempre mi pregano per voi. Il qual desiderio è adempito da me dalla parte mia, colà dove voi ignoranti non recalcitrate alla mia misericordia. Hanno de­siderio ancora di riavere la dote del corpo loro; e questo desiderio non li affligge, non avendolo attualmente, ma godono gustando per certezza, ch’essi hanno ad avere il loro desiderio pieno, onde non li affligge, perocché non avendolo, non manca loro beatitudine, e perciò loro non dà pena » (Ibid.).

« Sai tu qual è il più singolar bene che hanno i beati? E’ avere la volontà loro piena di quel che desiderano. Desiderano me; e de­siderando me, essi mi hanno e mi gustano, senz’alcuna ribellione, perocchè hanno lasciata la gravezza del corpo, il quale era una legge che impugnava contro lo spirito… Ma poichè l’anima ha lasciato il peso del corpo, la volontà sua è piena; perocchè desiderando di vedere me, ella mi vede; nella qual visione sta la vostra beatitudine. E vedendo conosce, e co­noscendo ama, e amando gusta me, sommo ed eterno Bene, e gustando sazia e adempie la volontà sua, cioè il desiderio ch’egli ha di vedere e conoscere me. Onde desiderando ha, e avendo desidera. E com’io ti dissi, allonta­nata è la pena dal desiderio, e il fastidio dalla sazietà » (Dialogo, c. xLv).

Gloria e beatitudine del corpo. 

« Non ti pensare che la beatitudine del corpo, dopo la risurrezione, dia più beatitu­dine all’anima. Che se questo fosse, seguite­rebbe che infino che non avessero il corpo, avrebbero beatitudine imperfetta, la qual cosa non può essere, perchè in loro non manca alcuna perfezione. Sicchè non è il corpo che dia beatitudine all’anima, ma l’anima darà beatitudine al corpo; perocchè darà dell’ab­bondanza sua, rivestita, nell’ultimo dì del giu­dizio, del vestimento della carne che aveva lasciata.

« Come l’anima è fatta immortale, fermata e stabilita in me, così il corpo in quell’unione diventa immortale, e, perduta la gravezza, è fatto sottile e leggero. Onde sappi che il corpo glorificato passerebbe per lo mezzo del muro; nè il fuoco nè l’acqua non l’offende­rebbe non per virtù sua, ma per virtù del­l’anima, la quale virtù; è mia data a lei per grazia e per l’amore ineffabile, col quale io la creai alla immagine e similitudine mia. L’occhio dell’intelletto tuo non è sufficiente a vedere, nè l’orecchio a udire, nè la lingua a narrare, nè il cuore a pensare il bene loro.

« O quanto diletto hanno in vedere me, che sono ogni bene! O quanto diletto avranno, essendo col corpo glorificato il quale bene ora non avendo fino al giudizio generale, non hanno pena, perchè non manca loro beatitu­dine; perocchè l’anima è piena in sè; la quale beatitudine parteciperà col corpo, come ti ho detto » (Dialogo, c. XLI).

La comunione celeste, ossia l’unione deli­ziosa dei corpi gloriosi al corpo glorificato di nostro Signore Gesù Cristo.

« Che dire di quella gioia ineffabile dei corpi glorificati nell’umanità glorificata del­l’Unigenito mio Figliuolo, che vi dà la cer­tezza della vostra risurrezione! Ivi esulteranno nelle sue piaghe, le quali sono rimaste fre­sche, e conservate le cicatrici nel corpo suo, le quali gridano continuamente misericordia: per voi a me sommo ed eterno Padre, e tutti saranno conformi con lui in gaudio e giocon­dità. Sì, per i vostri occhi, per le vostre mani, per il vostro corpo tutto quanto voi sarete uniti agli occhi, alle mani, al corpo del dolce Verbo mio Figliuolo. Essendo in me, voi sarete in lui, perchè egli è una me­desima cosa con me » (Dialogo, c. XLI).

Sempre avidi e sempre sazi.

« Quando l’anima è separata dal corpo, ha pieno il desiderio suo, e però ama senza pena. Allora è saziata, ma senza fastidio, perchè es­sendo saziata ha sempre fame, senza aver la pena della fame; ribocca d’una felicità perfetta e nulla può desiderare senza averlo. Desidera di veder me e mi vede a faccia a faccia; desidera di veder la gloria del mio nome ne’ miei Santi e la vede nella natura angelica e nella natura umana » (Dialogo, ca­pit. LXXIX).

Gli eletti veggono risplendere la gloria di Dio sopra la terra ed anche nell’inferno.

« La vista dell’anima beata è tanto perfetta che vede la gloria e l’onore del mio nome non solo nei cittadini che sono a vita eterna, ma anche nelle creature mortali. Voglia o non voglia, il mondo mi rende gloria. Vero è che non me la rende come dovrebbe, amando me sopra ogni cosa; ma dalla parte mia io traggo dagli uomini gloria e lode al nome mio, poi­chè in loro brillano la mia misericordia e la grandezza della mia carità.

« Io loro lascio il tempo e non comando alla terra d’inghiottirli per i loro difetti; anzi io li aspetto, e alla terra comando, che loro doni i frutti suoi, al sole, che li scaldi e dia loro la luce e il caldo suo, al cielo che si muova, e spando la mia misericordiosa bontà su tutte le cose che sono fatte per loro. Non solo io non le sottraggo da essi per i difetti loro, ma ancora le do a1 peccatore come al giusto, ed anche spesse volte più al pecca­tore che al giusto, perchè il giusto può sof­frire ed io lo privo dei beni della terra per dargli più abbondantemente i beni del cielo. Così la mia misericordia e la mia carità bril­lano sopra di essi.

« Alcuna volta le persecuzioni che i servi del mondo fanno sopportare a’ miei servi, provano la loro pazienza e la loro carità; esse non servono che a farmi offrire da loro umili e continue preghiere: così ridondano a gloria e ad onore del nome mio; sicchè voglia o non voglia, l’iniquo salva la mia gloria, anche con ciò ch’egli fa per offendermi » (Dialogo, C. LXXX).

« I peccatori stanno in questa vita ad au­mentare la virtù ne’ servi miei, così come i demònii stanno nell’inferno, in qualità di miei giustizieri e aumentatori, cioè facendo giu­stizia dei dannati. Essi servono altresì alle mie creature, che, nel loro terreno pellegri­naggio, desiderano d’arrivare a me, loro fine. Servono loro esercitando la loro virtù con molte molestie e tentazioni in diversi modi, esponendoli alle ingiurie ed alle ingiustizie degli altri, a fine di far loro perdere la ca­rità; ma volendo spogliare i miei servi, essi li arricchiscono esercitando la loro pazienza, la loro fortezza e la loro perseveranza. Per que­sto modo rendono gloria e lode al nome mio » (Dialogo, C. LXXXI).

La vista dei peccati cagiona compassione, ma non tristezza, nel cuore degli eletti.

« L’anima, in cielo, vede l’offesa che mi è fatta; ella non può più, come un tempo, sentirne dolore, ma ne prova solo compas­sione; ama senza pena e prega sempre con carità perchè io faccia misericordia al mondo. In lei la pena è passata, ma non la carità. Il Verbo, mio Figliuolo, vide finire, nella morte dolorosa della croce, la pena del desiderio della vostra salute che lo tormentava, ma il desiderio della vostra salute non è cessato colla pena.

« Parimenti i Santi, che hanno la vita eterna, conservano il desiderio della salute delle anime, ma senza averne la pena; la pena si spense nella loro morte, ma non l’ar­dore della carità. Essi sono come inebriati del sangue dell’Agnello immacolato e rivestiti della carità del prossimo. Passarono per la porta stretta, tutti inondati del sangue di Gesù Crocifisso, e, in me, oceano della pace, si trovano liberati dall’imperfezione, cioè dalla pena del desiderio, perchè sono arrivati a quella perfezione in cui sono saziati d’ogni bene » (Dialogo, c. Lxxxii).

La beata Osanna da Mantova, all’età di dodici anni fu rapita in cielo, ové le fu dato di contemplare lo splendore dei Santi. Quello spettacolo accese il suo cuore d’un tale amore che avrebbe desiderato di non più ritornare sopra la terra. L’Onnipotente le disse: « Figlia mia carissima, io volli farti intravedere la gloria dei vergini e dei martiri, affinchè il ricordo di questa incomparabile felicità ti pre­servi da ogni immondezza e ti renda fedele e diligente nel mio servizio ».

L’anima immersa nella gioia celeste.

Dio Padre diede a S. Maria Maddalena de’ Pazzi quest’istruzione sulla felicità del cielo « Vedi, figlia mia, la differenza che corre fra un uomo che beve un bicchier d’acqua e un altro che si bagni nel mare. Si dice del primo che l’acqua entra in lui, perchè essa dalla bocca passa nello stomaco per rinfrescarlo; ma del secondo si dice ch’entra nel mare, perchè la quantità d’acqua che lo compone è così grande che eserciti interi possono en­trarvi e perdervisi, senza che ne resti la menoma traccia. Così è dell’anima. Le con­solazioni ch’ella riceve in questo mondo non fanno altro che entrare in lei, come l’acqua in un ristrettissimo vaso, per modo ch’ella non può riceverle se non in una misura assai limitata. Il che faceva dire ad una di tali anime, ricolma di dolcezze, deplorando la pic­ciolezza del suo vaso che non poteva conte­nerne quanta avrebbe voluto: basta, Signore, basta. Dovechè nel cielo si entra nella gioia del Signore, ci si immerge in un oceano senza fondo di dolcezze e di consolazioni ineffabili, cioè in Dio stesso, che sarà tutto in tutti. Dentro di voi, fuori di voi, sopra di voi, at­torno a voi, davanti a voi e dietro a voi, tutto sarà gioia, allegrezza, dolcezze e consolazioni, perchè da ogni lato troverete Iddio. Erit Deus omnia in omnibus » (P. I, c. XYII).

Dio si compiace ne’ suoi eletti e gli eletti si compiacciono in Dio. 

« Nel cielo, disse ancora l’Eterno Padre alla medesima Santa, le anime beate non ces­sano di godere nella compiacenza della sua divina essenza. Esse trovano in tale compia­cenza un piacere inenarrabile ed una grande gloria, il che fa si che anch’io mi compiaccia grandemente in esse; e siffatta compiacenza reciproca di me in loro e di loro in me produce, negli angeli, ineffabili trasporti d’al­legrezza e forma la felicità di tutto il para­diso » (P. IV, c. xiii).

Dolcezze corrispondenti ai dolori dell’esilio.

Il Signore disse a Geltrude a proposito di un’eletta: « Perchè il suo più gran dolore fu nel suo braccio, ella mi tiene abbracciato con una sì grande gloria di beatitudine che desidererebbe d’aver sofferto cento volte di più » (lib. V, e. III).

Una volta, dopo la Comunione, racconta Maria Amata, nostro Signore mi mostrò che un giorno si vedrebbero nelle anime tutti i pensieri della loro vita, tutti i loro sentimenti, affetti ed intenzioni (Vita, c. xvui).

Ciascun genere d’opere virtuose avrà una speciale ricompensa.

Il Signore diede un giorno a S. Geltrude questa istruzione: « In quella guisa che il corpo si compone di risolti membri fra loro uniti, così l’anima è costituita da diversi af­fetti, come il timore, il dolore, la gioia, l’a­more, la speranza, l’odio, il pudore. Secondo che l’uomo si sarà esercitato per la mia gloria in ciascuno di questi affetti egli ritro­verà in me altrettante gioie ineffabili e ine­stimabili. Nel dì della risurrezione quando questo corpo mortale rivestirà l’incorruttibi­lità, ciascun membro riceverà una ricompensa speciale per ciascuna delle opere che avrà compiute, e per ciascuno degli esercizi prati­cati in mio nome e per mio amore. Ma l’a­nima riceverà una ben più nobile ricompensa per ciascun movimento di santo affetto, che per mio amore l’avrà animata o penetrata di compunzione » (lib. III, c. Lxix).

Un giorno, festa di Tutti i Santi, S. Gel­trude ebbe la visione del cielo. Poi il Signore le mostrò sparsi e mescolati fra i Santi del cielo tutti i fedeli militanti ancora sopra la terra, ciascuno secondo i meriti suoi. Per esempio quelli che, vivendo onestamente nel matrimonio, si esercitano in buone opere nel timore di Dio apparivano aggiunti ai santi patriarchi. Quelli che meritano di conoscere i segreti di Dio sembravano riuniti ai profeti. Quelli che si dedicano alla predicazione e all’insegnamento della santa dottrina erano riuniti agli apostoli e così degli altri. Vide altresì che i martiri avevano nelle loro file i religiosi che vivono sotto l’obbedienza. I santi martiri, nella parte del loro corpo dove soffrirono per il Signore, ricevevano uno splendore speciale e una dilettazione d’una potenza inestimabile. Similmente i religiosi per tutte le delicatezze che rifiutarono a se stessi nei sensi della vista, del gusto, dell’u­dito, nel passeggio o nella conversazione, o per altri simili sacrifizi, hanno in cielo la medesima ricompensa dei martiri » (lib. IV, cap. Lv).

« I giusti brilleranno come il sole nel regno del Padre mio ».

Parole del Signore a S. Matilde: « Il corpo, nella sua risurrezione, sarà sette volte più brillante del sole, e l’anima sette volte più brillante del corpo, cui ella ripiglierà come un vestimento, spandendo la luce in tutte le sue membra come il sole in un cristallo. Ed io penetrerò tutte le parti più intime dell’a­nima con una luce ineffabile e così, nel ce­leste soggiorno, brilleranno corpo ed anima, per sempre » (Parte V, c. xiv).

Gli eletti nei cori degli angeli.

Il Signore disse a Margherita da Cortona: « Tu mi pregasti per Gilia, ebbene io per amor tuo e per le sue opere virtuose la col­locherò in paradiso nell’ordine dei Cherubini » (cap. VIII, § 6). E qualche tempo dopo: « Oggi rallegrati con Frate Giunta (France­scano, confessore della santa penitente e autore della sua vita) di vedere la sua cara figlia Gilia, ammessa, secondo la mia promessa, nel coro dei Cherubini » (cap. ix, § 31). Gilia era un’amica intima della santa peni­tente. Il Signore un giorno disse a questa: « Tu sai che Giovannello e Gilia, tua com­pagna, per imitare la tua vita penitente, vol­lero mortificare il loro corpo all’eccesso e abbreviarono così la loro vita » (c. x, § 14). Poichè Margherita pregava per Gilia morta allora, un angelo le disse: « Ella starà per un mese in purgatorio, non vi soffrirà che pene leggere, per essersi lasciata trascorrere all’ira per eccesso di zelo ». Il Signore inviò quattro angeli per liberarla dal purgatorio (cap. ix, § 30 e 31).

Ciascun eletto gode della felicità di tutti.

« Nel cielo, figlia mia, disse l’Eterno Padre a S. Maria Maddalena de’ Pazzi, ogni beato non si rallegra meno della gloria degli altri che della sua propria, perchè l’amore, come sai, mette tutto in comune, e il cielo è il sog­giorno del sincero e perfetto amore. Dirò di più: la perfezione di quest’amore è così grande che un’anima, vedendo un’altra rive­stita di una gloria più fulgida della sua, per­chè ebbe sulla terra una carità più grande, si rallegra più di quella gloria estranea che della sua propria. Così s’aumenta la gloria di ciascun’anima beata, a misura che la sua carità si dilata, poichè ella partecipa della gloria di tutte le altre, così come di quella degli angeli e di tutti gli spiriti da me glo­rificati nel cielo. Vedi, figlia mia, quale abisso di gloria! » (Parte  I, c. xxiii).

Il Signore disse a Matilde: « Loda la mia bontà nei Santi, ch’io rimunerai con una tal beatitudine ch’essi abbondano di tutti i beni, non solo in se stessi, ma la gioia dell’uno si accresce ancora colla gioia dell’altro, a tal segno che uno gode della felicità dell’altro più che una madre dell’elevazione dell’unico suo figliuolo, o che un padre del trionfo e della gloria del suo figlio. Così ognuno di loro gode dei meriti particolari di tutti in una dolce carità » (Parte I, c. xxxiv).

L’eucaristia: “Qui è tutto il mio desiderio, che il mio cuore sia unito al tuo.” “Tu in me ed io in te”

Voce del Diletto:

Io sono colui che ama la purezza; io sono colui che dona ogni santità. Io cerco un cuore puro: là è il luogo del mio riposo. Allestisci e “apparecchia per me un’ampia sala ove cenare (Mc 14,15; Lc 22,12), e farò la Pasqua presso di te con i miei discepoli”. Se vuoi che venga a te e rimanga presso di te, espelli “il vecchio fermento” (1Cor 5,7) e purifica la dimora del tuo cuore. Caccia fuori tutto il mondo e tutto il disordine delle passioni; sta “come il passero solitario sul tetto” (Sal 101,8) e ripensa, con amarezza di cuore, ai tuoi peccati. Invero, colui che ama prepara al suo caro, da cui è amato, il luogo migliore e più bello: di qui si conosce l’amorosa disposizione di chi riceve il suo diletto. Sappi tuttavia che, per questa preparazione – anche se essa durasse un intero anno e tu non avessi altro in mente – non potresti mai fare abbastanza con le tue sole forze. E’ soltanto per mia benevolenza e per mia grazia, che ti viene concesso di accostarti alla mensa: come se un poveretto fosse chiamato al banchetto di un ricco e non avesse altro modo per ripagare quel beneficio che farsi piccolo e rendere grazie. Fa’ dunque tutto quello che sta in te; fallo con tutta attenzione, non per abitudine, non per costrizione. Il corpo del tuo Diletto Signore Dio, che si degna di venire a te, accoglilo con timore, con venerazione, con amore. Sono io ad averti chiamato; sono io ad aver comandato che così fosse fatto; sarò io a supplire a quel che ti manca. Vieni ed accoglimi. Se ti concedo la grazia della devozione, che tu ne sia grato al tuo Dio; te la concedo, non già per il fatto che tu ne sia degno, ma perché ho avuto misericordia di te. Se non hai questa devozione, e ti senti piuttosto arido, insisti nella preghiera, piangi e bussa, senza smettere finché non avrai meritato di ricevere almeno una briciola o una goccia della grazia di salvezza. Sei tu che hai bisogno di me, non io di te. Sono io che vengo a santificare te e a farti migliore, non sei tu che vieni a dare santità a me. Tu vieni per ricevere da me la santità, nell’unione con me; per ricevere nuova grazia, nel rinnovato, ardente desiderio di purificazione. “Non disprezzare questa grazia” (1Tm 4,14); prepara invece il tuo cuore con ogni cura e fa’ entrare in te il tuo diletto.

Ancora, occorre, non solo che tu ti disponga a pietà, avanti la Comunione, ma anche che tu ti conservi in essa, con ogni cura, dopo aver ricevuto il Sacramento. La vigilanza di poi non deve essere inferiore alla devota preparazione di prima; ché tale attenta vigilanza è a sua volta la migliore preparazione per ottenere una grazia più grande. Taluno diventa assai mal disposto, proprio per essersi subito abbandonato a consolazioni esteriori. Guardati dal molto parlare; tieniti appartato, a godere del tuo Dio. E’ lui che tu possiedi; neppure il mondo intero te lo potrà togliere. Io sono colui al quale devi darti interamente, così che tu non viva più in te, ma in me, fuori da ogni affanno.

Voce del discepolo:

“Chi mi darà, o Signore, di trovare te solo”, di aprirti tutto il mio cuore e di godere di te, secondo il desiderio dell’anima mia? “Allora nessuno potrebbe offendermi” (Ct 8,1), nessuna creatura potrebbe scuotermi, e neppure sfiorarmi con uno sguardo; ma sarai tu solo a parlarmi, ed io a te, come colui che ama suole parlare con la persona amata, e come l’amico suole stare a mensa con l’amico. Questo io chiedo, questo io desidero: unirmi tutto a te, distogliere il mio cuore da tutto ciò che è creato e apprendere a gustare sempre più le cose celesti ed eterne, grazie alla santa Comunione e alla frequente celebrazione della Messa. Ah, Signore Dio, quando sarò interamente unito e assunto in te, dimenticando del tutto me stesso? Tu in me ed io in te. Fa’ che possiamo rimanere uniti così. Veramente tu sei “il mio diletto scelto tra mille” (Ct 5,10), con il quale piacque all’anima mia di restare per tutti i giorni della vita. Veramente tu sei colui che mi dà la pace; colui nel quale consiste la pace suprema, il riposo vero, e fuori del quale tutto è fatica e dolore e miseria senza fine. “Veramente tu sei il Dio nascosto” (Is 45,15); la tua conversazione non è con i malvagi; la tua parola si rivolge agli umili e ai semplici. “Oh, quanto è soave, o Signore, il tuo Spirito” (Sap 12,1): tu vuoi mostrare la tua benevolenza ai tuoi figli e ti degni di ristorarli “con il pane sommamente soave che scende dal cielo” (Sap 16,20s).

Davvero “non c’è altro popolo così grande, a cui i propri dei si siano fatti così vicini, come sei vicino tu, o Dio nostro” (Dt 4,7), a tutti i tuoi fedeli. A questi, infatti, tu doni te stesso in salutare nutrimento, quale quotidiano conforto e quale mezzo per volgere il cuore verso il cielo. C’è un’altra gente così gloriosa, come il popolo cristiano? C’è, sotto il nostro cielo, una creatura da te così amata come l’anima devota, nella quale entra Dio stesso, per nutrirla del suo corpo di Gloria? Oh!, grazia ineffabile, degnazione meravigliosa, oh!, amore incommensurabile, privilegio concesso agli uomini. Ma che cosa darò io al Signore in cambio di tale grazia, di un amore così straordinario? Nulla io posso offrire, che sia più gradito del dono totale del mio cuore al mio Dio e dell’intima unione con lui. Allora esulterò nel profondo, quando l’anima mia sarà perfettamente unita a Dio. Allora Dio stesso mi dirà: se tu vuoi essere con me, io voglio essere con te. Ed io a lui risponderò: degnati, o Signore, di restare con me; mi piace, e lo voglio, essere con te. Qui è tutto il mio desiderio, che il mio cuore sia unito al tuo.

Dall’Imitazione di Cristo, Cap. XII e XIII

Sant’Ilario di Poitiers: L’eucaristia “Perciò come non si dovrebbe pensare che dimori in noi con la sua natura colui che, fatto uomo, assunse la natura della nostra carne ormai inseparabile da lui, e unì la natura della propria carne con la natura divina nel sacramento che ci comunica la sua carne?”

 

L’eucaristia: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6, 56).

 

E’ indubitabile che il Verbo si è fatto carne (Gv 1, 14) e che noi con il cibo eucaristico riceviamo il Verbo fatto carne. Perciò come non si dovrebbe pensare che dimori in noi con la sua natura colui che, fatto uomo, assunse la natura della nostra carne ormai inseparabile da lui, e unì la natura della propria carne con la natura divina nel sacramento che ci comunica la sua carne? In questo modo tutti siamo una cosa sola, perché il Padre è in Cristo, e Cristo è in noi.

 Dunque egli stesso è in noi per la sua carne e noi siamo in lui, dal momento che ciò che noi siamo si trova in Dio.

 In che misura poi noi siamo in lui per il sacramento della comunione del corpo e del sangue, lo afferma egli stesso dicendo: E questo mondo non mi vedrà più; voi invece mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete; poiché io sono nel Padre e voi in me e io in voi (cfr. Gv 14, 17-20).

 Se voleva che si intendesse solo l’unione morale o di volontà, per quale ragione avrebbe parlato di una graduatoria e di un ordine nell’attuazione di questa unità? Egli è nel Padre per natura divina. Noi siamo in lui per la sua nascita nel corpo. Egli poi è ancora in noi per l’azione misteriosa dei sacramenti.

Questa è la fede che ci chiede di professare. Secondo questa fede si realizza l’unità perfetta per mezzo del Mediatore. Noi siamo uniti a Cristo, che è inseparabile dal Padre. Ma pur rimanendo nel Padre resta unito a noi. In tal modo arriviamo all’unità con il Padre. Infatti Cristo è nel Padre connaturalmente perché da lui generato. Ma, sotto un certo punto di vista, anche noi, attraverso Cristo, siamo connaturalmente nel Padre, perché Cristo condivide la nostra natura umana. Come si debba intendere poi questa unità connaturale nostra lo spiega lui stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue dimora in me e io in lui» (Gv 6, 56).

 Nessuno sarà in lui, se non colui nel quale egli stesso verrà, poiché il Signore assume in sé solo la carne di colui che riceverà la sua.

 Il sacramento di questa perfetta unità l’aveva già insegnato più sopra dicendo: «Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia di me vivrà per me» (Gv 6, 7). Egli vive in virtù del Padre. E noi viviamo in virtù della sua umanità così come egli vive in virtù del Padre.

 Dobbiamo rifarci alle analogie per comprendere questo mistero. La nostra vita divina si spiega dal fatto che in noi uomini si rende presente Cristo mediante la sua umanità. E, mediante questa, viviamo di quella vita che egli ha dal Padre.

 

 Dal trattato «Sulla Trinità» di Sant’Ilario di Poitiers, vescovo