PERCHÉ PAPA FRANCESCO È IL PONTEFICE LEGITTIMO DELLA CHIESA?

Dato che molti fedeli negano che il Papa vero sia Francesco e rischiano di essere oggettivamente scismatici separandosi dalla comunione con la Chiesa, ho deciso di postare alcuni pezzi trovati online per fare chiarezza sulla questione.

BUONA LETTURA E RIFLESSIONE!

Gli eretici Giovanni Wycliffe e Jan Hus respinsero numerosi Papi sulla base del fatto che erano troppo malvagi per essere veri successori di San Pietro. In risposta, il Concilio di Costanza ha formalmente condannato le seguenti definizioni dei due eretici:

-Articoli condannati di Giovanni Wicleff:

  1. Se il papa è predestinato e malvagio, e, quindi, membro del diavolo, non ha potere sui fedeli, se non forse quello che gli sia stato dato da Cesare.
  2. Non si deve temere la scomunica del papa o di qualsiasi prelato perché è una censura dell’anticristo.
  3. La chiesa romana è la sinagoga di Satana. Il papa non è vicario immediato e diretto di Cristo e degli apostoli.

(Il concilio dichiara eretico Giovanni Wicleff, ne condanna la memoria e ne ordina di esumare le sue ossa)

-Articoli condannati di Giovanni Huss (Jan Hus):

  1. Non si è tenuti a credere che questo – chiunque esso sia – particolare romano pontefice sia il capo di qualsiasi santa chiesa particolare, se Dio non lo ha predestinato.
  2. Nessuno fa le veci di Cristo o di Pietro, se non ne segue i costumi: nessun’altra sequela, infatti, è più pertinente né si riceve diversamente da Dio il potere di suo rappresentante, perché per quell’ufficio di vicario si richiede sia la conformità dei costumi, sia l’autorità di colui che lo istituisce.
  3. Il papa non è il successore certo e vero del principe degli apostoli, Pietro, se vive in modo contrario a quello di Pietro. E se è avido di denaro, allora è vicario di Giuda Iscariota. Con uguale chiarezza i cardinali non sono certi e veri successori del collegio degli altri apostoli di Cristo, se non vivono come gli apostoli, osservando i comandamenti e i consigli del signore nostro Gesù Cristo.
  4. Se il papa è cattivo, e specie se è predestinato, allora, come Giuda, l’apostolo, è diavolo, ladro e figlio della perdizione; e non è capo della santa chiesa cattolica militante, non essendo neppure suo membro.
  5. Il papa o il prelato indegno e predestinato, è solo equivocamente pastore; nella realtà è ladro e predone.
  6. Se il papa vive contrariamente a Cristo, anche se è stato scelto con regolare e legittima elezione secondo la costituzione umana vigente, la scelta invece è avvenuta per altra via che per Cristo, anche se si ammettesse che è stato eletto principalmente da Dio. Anche Giuda Iscariota, infatti, regolarmente e legittimamente eletto all’apostolato da Gesù Cristo, Dio, tuttavia salì per altra via nel recinto delle Pecore.
  7. Non perché gli elettori o la maggioranza di essi si sono trovati d’accordo secondo l’uso comune su una persona, per questo essa è legittimamente eletta, o per ciò stesso è vero e certo successore o vicario dell’apostolo Pietro, o di un altro apostolo in un ufficio ecclesiastico. Quindi, l’abbiano eletto bene o male gli elettori, noi dobbiamo guardare alle opere di chi è stato eletto. Infatti, per questo stesso che uno lavora di più, meritoriamente, al progresso della chiesa, ha anche da Dio, a questo fine, una maggiore potestà.
  8. Cristo reggerebbe meglio la sua chiesa mediante i suoi veri discepoli, sparsi sulla terra, senza questi capi mostruosi.

Fonte per il Concilio di Costanza: https://web.archive.org/web/20080604162004/http://www.totustuus.biz/users/concili/costanza.htm

-Di seguito alcuni pezzi, tradotti velocemente, da 2 articoli di un sito americano. Invito a leggere i due articoli interamente per chi conosce l’inglese:

1) Fatto dogmatico: l’unica dottrina che prova che Francesco è papa: https://onepeterfive.wpengine.com/dogmatic-fact-francis-pope/

2) Ad ogni obiezione una risposta. Perché Francesco è papa: https://onepeterfive.com/objection-answer-francis-pope/

-Ecco alcuni pezzi dei 2 articoli:

Il cardinale Louis Billot (che ha scritto l’enciclica Pascendi di Papa San Pio X), spiega tutte le condizioni che sono necessarie per un uomo a diventare un papa legittimo dal momento in cui la Chiesa accetta lui come papa:

“[Un] punto deve essere considerato assolutamente incontrovertibile e posto saldamente al di sopra di ogni dubbio: l’adesione della Chiesa universale sarà sempre, di per sé, segno infallibile della legittimità di un determinato Pontefice, e quindi anche dell’esistenza di tutte le condizioni richieste per la legittimità stessa. Non è necessario cercare lontano la prova di ciò, ma la troviamo subito nella promessa e nella provvidenza infallibile di Cristo: “Le porte dell’inferno non prevarranno contro di essa”, ed “Ecco io sarò con voi tutti i giorni” … Dio può permettere che a volte una vacanza nella Sede Apostolica si prolunghi a lungo. Può anche permettere che sorgano dubbi sulla legittimità di questa o quella elezione. Non può però permettere che tutta la Chiesa accetti come Pontefice colui che non lo è così veramente e legittimamente. Pertanto, dal momento in cui il Papa è accolto dalla Chiesa e unito ad essa come capo del corpo, non è più permesso dubitare di un eventuale vizio di elezione o di un’eventuale mancanza di qualsiasi condizione necessaria per la legittimità. Infatti la suddetta adesione della Chiesa sana alla radice ogni colpa nell’elezione e prova infallibilmente l’esistenza di tutte le condizioni richieste.”

Nota l’ultima parte. Dal “momento” in cui è accettato come Papa dalla Chiesa, non è più consentito dubitare della sua elezione, né della presenza di eventuali condizioni richieste per la legittimità. Poiché Francesco è stato accettato come papa da tutta la Chiesa il giorno della sua elezione, nessuno degli argomenti attualmente in circolazione contro la sua legittimità sono validi, né per un vizio nell’elezione né per l’assenza di qualsiasi condizione (come la condizione che l’ufficio pontificio era vacante all’epoca).

Giovanni di san Tommaso spiega che la certezza che tutte le condizioni fossero soddisfatte è una conclusione teologica derivata dalla verità de fide che l’uomo è papa.

Lui scrive:

“È subito di fede divina che quest’uomo in particolare, legittimamente eletto e accettato dalla Chiesa, è il sommo pontefice e successore di Pietro… poiché è de fide che quest’uomo… è il Papa, si trae la conclusione teologica che erano veri elettori, e una reale intenzione di eleggere, così come gli altri requisiti ( condizioni ) senza i quali la verità de fide non potrebbe reggere. …

Prima dell’elezione esiste la certezza morale che tutte queste condizioni richieste nella persona siano effettivamente soddisfatte. Dopo il fatto dell’elezione e della sua accettazione, il compimento di queste condizioni è conosciuto con la certezza di una conclusione teologica, poiché esse hanno, di per sé, un’implicazione logica con una verità certa, e certificata dalla fede [cioè, che è il vero Papa]. … [T]che sia battezzato e soddisfi gli altri requisiti … si deduce di conseguenza[.] …”

Abbiamo quindi la certezza della fede, per una rivelazione implicitamente contenuta nel Credo e nella promessa fatta a Pietro, e resa più esplicita nella definizione di Martino V, e applicata e dichiarata in atto ( in exercitio ) dall’accettazione della Chiesa, che quest’uomo in particolare, eletto canonicamente secondo l’accettazione della Chiesa, è Papa.

-Risposta all’obbiezione: Se un pretendente al papato usurpasse illecitamente l’ufficio papale, senza diventare il papa legittimo, non sarebbe mai universalmente accettato come papa dalla Chiesa. D’altra parte, se la sua pretesa al papato è universalmente accettata, fornisce la certezza infallibile che è diventato papa. Il cardinale Billot spiega il motivo come segue:

“Dio può permettere che a volte una vacanza nella Sede Apostolica si prolunghi a lungo. Può anche permettere che sorgano dubbi sulla legittimità di questa o quella elezione. Non può però permettere che tutta la Chiesa accetti come Pontefice colui che non lo è così veramente e legittimamente”

-Obiezione: il Vaticano I ha definito che il papa è infallibile e quindi non può perdere la fede o insegnare l’eresia. Francesco chiaramente non ha la Fede, e ha insegnato l’eresia. Ciò dimostra che gli manca la protezione dell’ufficio pontificio e quindi è un segno che non è il papa.

Risposta: Da nessuna parte il Vaticano I ha definito che un papa non può perdere la Fede o insegnare personalmente l’eresia. Ciò che ha definito è che non può sbagliare quando definisce una dottrina, ex cathedra . Il cardinale Camillo Mazzella, che tenne la cattedra di teologia alla Gregoriana nel decennio successivo al Concilio Vaticano I, scrisse quanto segue nel De Religione et Ecclesia (1905):

” una cosa è che il Romano Pontefice non può insegnare un’eresia parlando ex cathedra (ciò che ha definito il Concilio Vaticano); ed è un’altra cosa che non può cadere nell’eresia, cioè diventare eretico come un privato. Su quest’ultima questione il Concilio non ha detto nulla ( De hac question nihil dixit Concilium ); e i teologi ei canonisti non sono d’accordo tra loro al riguardo.”

Più di un secolo dopo il Vaticano I, il cardinale Stickler scrisse:

“Nessun teologo oggi, pur accettando incondizionatamente l’infallibilità del romano pontefice, afferma con ciò che il papa, parlando in astratto, non può diventare personalmente eretico.”

-Obiezione: anche se Francesco è diventato papa dopo la sua elezione, chiaramente non ha la fede ora, quindi non può essere il papa. San Roberto Bellarmino diceva che un eretico è ipso facto deposto.

Risposta: Nel De Ecclesia Militante (Capitolo X), Bellarmino mostra quale sia la sua vera posizione riguardo alla perdita dell’incarico per eresia. Spiega che un papa che cade nell’eresia non perde il pontificato a meno che 1) non si separi pubblicamente dalla Chiesa o 2) sia condannato per eresia dalla Chiesa:

“È certo che, checché ne pensi l’uno o l’altro, un eretico occulto, se fosse Vescovo, o anche Sommo Pontefice, non perde la giurisdizione, né la dignità, né il nome del capo nella Chiesa, finché o non si separa se stesso pubblicamente dalla Chiesa , o essendo condannato per eresia, viene separato contro la sua volontà.”

Francesco non si è separato pubblicamente dalla Chiesa, né è stato condannato per eresia. Pertanto, secondo Bellarmino, non ha perso il suo ufficio. E il fatto che egli rimanga papa è confermato dall’infallibilità del Magistero ordinario e universale, che continua a riconoscerlo come papa, fornendo così «una chiara testimonianza della legittimità della sua successione» (Van Noort).

-Obiezione: Conosco molti cattolici che rifiutano Francesco come papa, quindi nego che sia “universalmente accettato” come papa.

Risposta: Anche se qualcuno nega che Francesco sia “universalmente accettato” ora , non può negare che Francesco sia stato universalmente accettato nelle settimane e nei mesi successivi alla sua elezione. Basta questo a dimostrare che è diventato papa. Come spiega il cardinale Billot, la legittimità di un pontefice romano è infallibilmente certa «dal momento in cui il Papa è accolto dalla Chiesa» . Lo stesso insegna Giovanni di S. Tommaso: “Appena gli uomini vedono o sentono che è stato eletto un Papa, e che l’elezione non è contestata , sono obbligati a credere che quell’uomo è il Papa, e ad accettarlo”.

-Obiezione: Anche se l’abdicazione di Benedetto fosse valida, l’elezione di Francesco era nulla a causa della congiura della mafia di San Gallo, vietata dall’Universi Dominici Gregis, n. 81.

Risposta: Il canonista Ed Peters ha fornito una risposta canonica a questa e ad altre obiezioni canoniche. Teologicamente, tutte queste obiezioni si rivelano false dall’accettazione universale di Francesco, che non avrebbe avuto luogo se eventuali atti illeciti dei cardinali avessero invalidato l’elezione. Rilevante anche qui è il seguente insegnamento di Sant’Alfonso:

“Non importa che nei secoli passati qualche Pontefice sia stato eletto illegittimamente o si sia impossessato del Pontificato con l’inganno; è sufficiente che sia stato poi accettato da tutta la Chiesa come Papa, poiché alla luce di tale accettazione è già diventato il Papa legittimo e vero…”

Va anche notato che l’elezione è semplicemente il meccanismo con cui la Chiesa sceglie un papa, ma è sempre Cristo che fa papa l’uomo conferendogli l’autorità pontificia. Ora, Cristo non è limitato dalla legge umana o impedito di agire a causa di atti illeciti o fraudolenti dell’uomo. Mentre è certo che Cristo sarà agente unendo l’uomo eletto (materia) al pontificato (forma) quando le leggi elettorali sono seguite, Egli non è ostacolato dal farlo a causa di un difetto nelle elezioni. Questo spiega perché alcuni uomini illecitamente eletti divennero papi legittimi.

Ciò si applicherebbe logicamente anche al contrario. Ad esempio, se un papa fingesse di dimettersi dal papato e ingannasse la Chiesa facendogli credere di averlo fatto (che è essenzialmente ciò che gli attribuiscono coloro che negano la validità delle dimissioni di Benedetto), non c’è dubbio che Cristo avrebbe spogliato il tale del pontificato. Ciò è implicitamente confermato dagli esempi storici di veri papi che furono illecitamente deposti ma che tuttavia persero l’ufficio papale quando vi si assoggettarono.

Ora, poiché è certo che solo Cristo può autorevolmente togliere dal pontificato un vero papa, se lo ha fatto nei casi di papi illegalmente deposti ma acconsentiti, non farebbe altrettanto nel caso di un papa che ha finto di dimettersi, orchestrando la propria abdicazione illegale e acconsentendovi? Senza dubbio lo avrebbe fatto, e se il prossimo papa fosse stato universalmente accettato, lo dimostrerebbe.

-il rifiuto della legittimità di un papa che è stato universalmente accettato è un “peccato mortale contro la fede”. Giovanni di San Tommaso lo qualifica come un’eresia:

“Chi negherebbe che un determinato uomo è Papa dopo che è stato pacificamente e canonicamente accettato, sarebbe non solo uno scismatico, ma anche un eretico ; poiché, non solo squarcerebbe l’unità della Chiesa… ma vi aggiungerebbe anche una dottrina perversa, negando che l’uomo accettato dalla Chiesa sia da considerare come il Papa e la regola della fede. Pertinente qui è l’insegnamento di san Girolamo (Commento a Tito, capitolo 3) e di san Tommaso (IIa IIae Q. 39 A. 1 ad 3), secondo cui ogni scisma inventa per sé qualche eresia, per giustificare il suo ritiro dalla Chiesa. Così, sebbene lo scisma sia distinto dall’eresia, nel (…) caso in esame, chi negherebbe la proposizione appena formulata non sarebbe uno scismatico puro, ma anche un eretico, come sostiene anche Suarez.”

Vale la pena notare che il motivo per cui Cartechini lo ha qualificato come “peccato mortale contro la fede”, piuttosto che eresia, è dovuto ad uno sviluppo dottrinale avvenuto negli ultimi secoli. Oggi, in senso stretto, l’eresia si limita al rifiuto di una verità formalmente rivelata (oggetto primario dell’infallibilità), mentre nei secoli passati il ​​rifiuto di qualsiasi dottrina de fide era considerato eresia (cfr ST II q 11, a 2). Ma che sia qualificata come eresia in senso stretto o solo in senso lato, in entrambi i casi, è un peccato mortale contro la fede, che priverà un cattolico dello stato di grazia e meriterà una punizione eterna.

UN FATTO STORICO

PAPA VIGILIO: “la modalità della sua elevazione alla Sede di Roma fu viziata da irregolarità e soprusi.”

Nel frattempo, morto Agapito, grazie all’influenza del re dei goti, era stato nominato papa Silverio (536-537), e non molto tempo dopo il generale bizantino Belisario, in guerra contro i goti, si pose alla difesa di Roma. L’assedio che il re goto Vitige pose alla città suggerì a Teodora il momento propizio per mettere in atto i suoi piani, del cui contenuto Vigilio, rientrato in Italia, aveva già messo al corrente Belisario. Tramite una lettera contraffatta il papa venne accusato di essersi accordato con Vitige. Si affermava che Silverio avrebbe offerto al re di lasciare segretamente aperta una delle porte della città in modo da consentire l’ingresso dei goti e liberare Roma dai bizantini. Convocato l’11 marzo 537 da Belisario per discolparsi, il papa non riuscì a confutare le accuse, quindi fu arrestato, spogliato del suo abito episcopale, vestito con una tonaca da monaco e spedito in esilio a Patara, in Licia. Un suddiacono annunciò al popolo che Silverio non era più papa. Il 29 dello stesso mese, su imposizione di Belisario, Vigilio fu consacrato vescovo di Roma al suo posto.

Liberato successivamente Silverio dall’esilio per intercessione di Giustiniano, venne posto sotto la custodia di Vigilio, che lo relegò nell’isola di Palmarola (mar Tirreno). Ma la sua elezione non poteva ancora considerarsi perfezionata e l’11 novembre 537 Silverio fu indotto a firmare un atto di volontaria abdicazione. Solo allora l’intero clero romano fu costretto ad accettare l’elezione di Vigilio, benché ottenuta con la violenza e con la simonia. Nell’isola in cui era stato deportato, ben presto Silverio morì, forse assassinato, o forse per stenti. Il Liber pontificalis afferma che papa Silverio fu nutrito “del pane della tribolazione e dell’acqua dell’angoscia” fino alla morte[6][7], avvenuta il successivo 2 dicembre.

Molto, in queste accuse contro Vigilio, sembra esagerato, ma sicuramente la modalità della sua elevazione alla Sede di Roma fu viziata da irregolarità e soprusi.

Fonte: https://it.m.wikipedia.org/wiki/Papa_Vigilio

UN PEZZO DEL CATECHISMO PER CONCLUDERE:

Il primo comandamento ci richiede di nutrire e custodire la nostra fede con prudenza e vigilanza e di respingere tutto ciò che le è contrario.

Ci sono diversi modi di peccare contro la fede:

Il dubbio volontario circa la fede trascura o rifiuta di ritenere per vero ciò che Dio ha rivelato e che la Chiesa ci propone a credere. Il dubbio involontario indica l’esitazione a credere, la difficoltà nel superare le obiezioni legate alla fede, oppure anche l’ansia causata dalla sua oscurità. Se viene deliberatamente coltivato, il dubbio può condurre all’accecamento dello spirito.

L’incredulità è la noncuranza della verità rivelata o il rifiuto volontario di dare ad essa il proprio assenso. « Viene detta eresia l’ostinata negazione, dopo aver ricevuto il Battesimo, di una qualche verità che si deve credere per fede divina e cattolica, o il dubbio ostinato su di essa; apostasia, il ripudio totale della fede cristiana; scisma, il rifiuto della sottomissione al Sommo Pontefice o della comunione con i membri della Chiesa a lui soggetti ».

(Catechismo della Chiesa Cattolica, 2088-2089)

Papa Benedetto XVI: «Far penitenza è grazia..vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita»

 

“Far penitenza è grazia”

 

«Noi cristiani, anche negli ultimi tempi, abbiamo spesso evitato la parola penitenza, che ci appariva troppo dura. Adesso sotto gli attacchi del mondo che ci parlano dei nostri peccati, vediamo che poter far penitenza è grazia e vediamo come sia necessario fare penitenza, riconoscere cioè ciò che è sbagliato nella nostra vita».

(Papa Benedetto XVI – Omelia 15 aprile 2010)

“Papa Benedetto XVI non fugge davanti ai lupi, non rinuncia alla croce, non getta la spugna, ma entra in un modo nuovo di vivere il ministero petrino: nella preghiera e nella sofferenza”

 

Inutile dirlo: è stato spiazzante! l’annuncio dato oggi, 11 febbraio 2013, davanti ai “signori cardinali” della rinuncia del nostro Santo Padre Benedetto XVI al ministero petrino, a norma del canone 332 §2 del CIC, è stato un evento storico e dalle conseguenze straordinarie…

Più che Celestino V, a me viene in mente Giovanni XXIII ai primi vespri di san Paolo il 25 gennaio 1959 che come un fulmine a ciel sereno annunciò candidamente l’indizione di un Concilio Ecumenico.

A me pare di cogliere tanti elementi significativi che ci permettono di comprendere l’evento che è accaduto e che mi spingono a guardare a questo atto del Romano Pontefice come uno dei più alti del suo pontificato, pari, forse, soltanto alla forza profetica del Summorum Pontificum.

La scintilla mi si è accesa leggendo la strumentalizzazione delle parole del cardinale Dziwisz… il Papa avrebbe fatto un “gran rifiuto”? il Papa starebbe fuggendo di fronte ai lupi, di cui parlò nella sua splendida omelia all’inizio del suo ministero? il Papa starebbe rinunciando alla Croce? getta la spugna? è scoraggiato e deluso?

Ho riletto allora il testo della rinuncia di papa Benedetto XVI e mi è parso chiaro che cosa ha in mente il Papa: un esercizio potremmo dire più alto del suo ministero a vantaggio della Chiesa. ha detto: Bene conscius sum hoc munus secundum suam essentiam spiritualem non solum agendo et loquendo exsequi debere, sed non minus patiendo et orando e cioè: “so bene che questo ministero, per la sua natura spirituale, dev’essere esercitato non solo agendo e parlando, ma non di meno anche soffrendo e pregando”.

E la preghiera me l’ha confermato: c’è un modo di vivere il ministero petrino che è quello dell’esercizio del munus con atti e parole. Per questo però occorre forza nel corpo e nello spirito. Ma c’è un altro modo di viverlo: quello della preghiera e della sofferenza. E di fronte alle grandi sfide della Chiesa, dell’evangelizzazione… oso pensare anche davanti alle grandi fratture che si percepiscono Benedetto scopre, nel proprio intimo, che non è più il tempo della forza di annuncio, della grandezza dei gesti – di cui i suoi quasi otto anni sono stati pienissimi! -; il Papa, ora scopre che si tratta di alzare il tiro… occorre salire al piano superiore dove il servizio alla Chiesa è l’offerta della propria vita a Dio nella sofferenza e nella preghiera…

Così Benedetto non fugge davanti ai lupi, non rinuncia alla croce, non getta la spugna, ma entra in un modo nuovo di vivere il ministero petrino… un modo che egli sceglie in modo pieno e consapevole, un modo che ricalcando i passi di chi nella Chiesa fa della propria vita un’offerta continua a Dio, come i monaci e le monache, indica anche una strada…

Davanti alle grandi questioni della fede, in questo momento della storia dove sembrano esserci più luci che ombre, in questa ora in cui la Chiesa è chiamata ad una fedeltà eroica al deposito della fede e, insieme, ad un rinnovato annuncio dell’evangelo, non possiamo che accogliere l’estremo invito di un Papa che sarà ricordato come un vero Padre della Chiesa: “offri la tua vita nella preghiera e nella sofferenza”!

Ritengo che in questo atto del Papa sia rinchiusa una vera chiamata dello Spirito ad una lotta spirituale che richiederà alla Chiesa non solo il vigore fisico e interiore delle parole e delle azioni,  ma anche il coinvolgimento personale in un opera di conversione, di lode e di intercessione che è il proprio della vita monastica… il nuovo Papa potrà contare sulla presenza nascosta di un Papa “emerito” che resta a pregare e a offrire la propria esistenza per il bene della Chiesa… l’azione della Chiesa ha bisogno – oggi come non è mai accaduto nella storia della sua esistenza storica – di uomini e donne che la sostengono con la propria preghiera, la propria sofferenza, la propria vita offerta nel nascondimento e nell’umiltà.

Benedetto XVI apre la via… noi proveremo a seguirlo?

FONTE: http://www.bonifacius.it/2013/02/11/il-papa-rinuncia-e-alza-il-tiro/

Papa Benedetto XVI: “Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?”

 

Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?

 

Papa Benedetto XVI:

“Il Catechismo di san Pio X, che alcuni di noi hanno studiato da ragazzi, con la sua essenzialità, alla domanda: «Per vivere secondo Dio, che cosa dobbiamo fare?», dà questa risposta: «Per vivere secondo Dio dobbiamo credere le verità rivelate da Lui e osservare i suoi comandamenti con l’aiuto della sua grazia, che si ottiene mediante i sacramenti e l’orazione». La fede ha un aspetto fondamentale che interessa non solo la mente e il cuore, ma tutta la nostra vita.”

(PAPA BENEDETTO XVI, dall’ Udienza del 9 gennaio 2013)

Papa Benedetto XVI: “Il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale” “Far parte di un gruppo” non è necessario per la salvezza. L’impegno in attività ecclesiali non è “il” segno della fede”

 

Dalle parole di Papa Benedetto XVI nell’Angelus del 16/5/2010

“Il vero nemico da temere e da combattere è il peccato, il male spirituale, che a volte, purtroppo, contagia anche i membri della Chiesa. Viviamo nel mondo – dice il Signore – ma non siamo del mondo (cfr Gv 17, 10.14), anche se dobbiamo guardarci dalle sue seduzioni. Dobbiamo invece temere il peccato e per questo essere fortemente radicati in Dio, solidali nel bene, nell’amore, nel servizio.”

 

“Far parte di un gruppo” non è necessario per la salvezza. L’impegno in attività ecclesiali non è “il” segno della fede (Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli dell’allora cardinal Joseph Ratzinger)

 

È diffusa oggi qua e là, anche in ambienti ecclesiastici elevati, l’idea che una persona sia tanto più cristiana quanto più è impegnata in attività ecclesiali. Si spinge ad una specie di terapia ecclesiastica dell’attività, del darsi da fare; a ciascuno si cerca di assegnare un comitato o, in ogni caso, almeno un qualche impegno all’interno della Chiesa. In un qualche modo, così si pensa, ci deve sempre essere un’attività ecclesiale, si deve parlare della Chiesa o si deve fare qualcosa per essa o in essa. Ma uno specchio che riflette solamente se stesso non è più uno specchio; una finestra che invece di consentire uno sguardo libero verso il lontano orizzonte, si frappone come uno schermo fra l’osservatore ed il mondo, ha perso il suo senso.

Può capitare che qualcuno eserciti ininterrottamente attività associazionistiche ecclesiali e tuttavia non sia affatto un cristiano. Può capitare invece che qualcun altro viva solo semplicemente della Parola e del Sacramento e pratichi l’amore che proviene dalla fede, senza essere mai comparso in comitati ecclesiastici, senza essersi mai occupato delle novità di politica ecclesiastica, senza aver fatto parte di sinodi e senza aver votato in essi, e tuttavia egli è un vero cristiano.

 Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana. E per questo tutto ciò che è fatto dall’uomo, all’interno della Chiesa, deve riconoscersi nel suo puro carattere di servizio e ritrarsi davanti a ciò che più conta e che è l’essenziale.

La libertà, che noi ci aspettiamo con ragione dalla Chiesa e nella Chiesa, non si realizza per il fatto che noi introduciamo in essa il principio della maggioranza. Essa non dipende dal fatto che la maggioranza più ampia possibile prevalga sulla minoranza più esigua possibile. Essa dipende invece dal fatto che nessuno può imporre il suo proprio volere agli altri, bensì tutti si riconoscono legati alla parola e alla volontà dell’Unico, che è il nostro Signore e la nostra libertà.

Nella Chiesa l’atmosfera diventa angusta e soffocante se i portatori del ministero dimenticano che il Sacramento non è una spartizione di potere, ma è invece espropriazione di me stesso in favore di Colui, nella persona del quale io devo parlare ed agire. Dove alla sempre maggiore responsabilità corrisponde la sempre maggiore auto espropriazione, lì nessuno è schiavo dell’altro; lì domina il Signore e perciò vale il principio che: «Il Signore è lo Spirito. Dove però c’è lo Spirito del Signore ivi c’è la libertà» (2Cor 3,17).

Quanti più apparati noi costruiamo, siano anche i più moderni, tanto meno c’è spazio per lo Spirito, tanto meno c’è spazio per il Signore, e tanto meno c’è libertà. Io penso che noi dovremmo, sotto questo punto di vista, iniziare nella Chiesa a tutti i livelli un esame di coscienza senza riserve. A tutti i livelli questo esame di coscienza dovrebbe avere conseguenze assai concrete, e recare con sé un’ablatio che lasci di nuovo trasparire il volto autentico della Chiesa. Esso potrebbe ridare a noi tutti il senso della libertà e del trovarsi a casa propria in maniera completamente nuova……

La Chiesa: essa non è soltanto il piccolo gruppo degli attivisti che si trovano insieme in un certo luogo per dare avvio ad una vita comunitaria. La Chiesa non è nemmeno semplicemente la grande schiera di coloro che alla domenica si radunano insieme per celebrare l’Eucarestia. E infine, la Chiesa è anche di più che il Papa, vescovi e preti, di coloro che sono investiti del ministero sacramentale. Tutti costoro che abbiamo nominato fanno parte della Chiesa, ma il raggio della compagnia in cui entriamo mediante la fede, va più in là, va persino al di là della morte.

Di essa fanno parte tutti i Santi, a partire da Abele e da Abramo e da tutti i testimoni della speranza di cui racconta l’Antico Testamento, passando attraverso Maria, la Madre del Signore, e i suoi apostoli, attraverso Thomas Becket e Tommaso Moro, per giungere fino a Massimiliano Kolbe, a Edith Stein, a Piergiorgio Frassati. Di essa fanno parte tutti gli sconosciuti e i non nominati, la cui fede nessuno conobbe tranne Dio; di essa fanno parte gli uomini di tutti i luoghi e tutti i tempi, il cui cuore si protende sperando e amando verso Cristo, «l’autore e perfezionatore della fede», come lo chiama la lettera agli Ebrei (12,2).

Non sono le maggioranze occasionali che si formano qui o là nella Chiesa a decidere il suo e il nostro cammino. Essi, i Santi, sono la vera, determinante maggioranza secondo la quale noi ci orientiamo. Ad essa noi ci atteniamo! Essi traducono il divino nell’umano, l’eterno nel tempo. Essi sono i nostri maestri di umanità, che non ci abbandonano nemmeno nel dolore e nella solitudine, anzi anche nell’ora della morte camminano al nostro fianco.

(Da J. Ratzinger, Una compagnia sempre riformanda, Conferenza a conclusione dell’XI edizione del Meeting per l’amicizia dei popoli, Rimini, 25- agosto-1 settembre 1990, pubblicata in J. Ratzinger, La bellezza. La chiesa, LEV-ITACA, Roma-Castel Bolognese, 2005, pp. 44-57.)

 

Papa Benedetto XVI: “Chi vive nella grazia è santo” “Noi siamo santi, se lasciamo operare la Sua grazia in noi”

 

“Chi vive nella grazia è santo”

 

Papa Benedetto XVI: «Cari amici, l’apostolo san Paolo, in molte delle sue lettere, non teme di chiamare “santi” i suoi contemporanei, i membri delle comunità locali. Qui si rende evidente che ogni battezzato – ancor prima di poter compiere opere buone – è santificato da Dio. Nel Battesimo, il Signore accende, per così dire, una luce nella nostra vita, una luce che il catechismo chiama la grazia santificante. Chi conserva tale luce, chi vive nella grazia è santo».

 

Veglia di preghiera con i giovani fiera di Freiburg im Breisgau, sabato 24 settembre 2011

 
“Noi siamo santi, se lasciamo operare la Sua grazia in noi”

 

Papa Benedetto XVI: «Non esiste alcun santo, fuorché la beata Vergine Maria, che non abbia conosciuto anche il peccato e che non sia mai caduto. Cari amici, Cristo non si interessa tanto a quante volte nella vita vacilliamo e cadiamo, bensì a quante volte noi, con il suo aiuto, ci rialziamo. Non esige azioni straordinarie, ma vuole che la sua luce splenda in voi. Non vi chiama perché siete buoni e perfetti, ma perché Egli è buono e vuole rendervi suoi amici. Sì, voi siete la luce del mondo, perché Gesù è la vostra luce. Voi siete cristiani – non perché realizzate cose particolari e straordinarie – bensì perché Egli, Cristo, è la vostra, nostra vita. Voi siete santi, noi siamo santi, se lasciamo operare la Sua grazia in noi».

 

Veglia di preghiera con i giovani fiera di Freiburg im Breisgau, sabato 24 settembre 2011

 

Papa Benedetto XVI, udienza: -L’Anno della fede. Come parlare di Dio?- “In Gesù di Nazaret noi incontriamo il volto di Dio, che è sceso dal suo Cielo per immergersi nel mondo degli uomini, nel nostro mondo, ed insegnare l’«arte di vivere», la strada della felicità; per liberarci dal peccato e renderci figli di Dio (cfrEf 1,5; Rm 8,14). Gesù è venuto per salvarci e mostrarci la vita buona del Vangelo.”

 

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI Mercoledì, 28 novembre 2012

 

 

L’Anno della fede. Come parlare di Dio?

Cari fratelli e sorelle,

La domanda centrale che oggi ci poniamo è la seguente: come parlare di Dio nel nostro tempo? Come comunicare il Vangelo, per aprire strade alla sua verità salvifica nei cuori spesso chiusi dei nostri contemporanei e nelle loro menti talvolta distratte dai tanti bagliori della società? Gesù stesso, ci dicono gli Evangelisti, nell’annunciare il Regno di Dio si è interrogato su questo: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo?» (Mc 4,30). Come parlare di Dio oggi? La prima risposta è che noi possiamo parlare di Dio, perché Egli ha parlato con noi. La prima condizione del parlare di Dio è quindi l’ascolto di quanto ha detto Dio stesso. Dio ha parlato con noi! Dio non è quindi una ipotesi lontana sull’origine del mondo; non è una intelligenza matematica molto lontana da noi. Dio si interessa a noi, ci ama, è entrato personalmente nella realtà della nostra storia, si è autocomunicato fino ad incarnarsi. Quindi, Dio è una realtà della nostra vita, è così grande che ha anche tempo per noi, si occupa di noi. In Gesù di Nazaret noi incontriamo il volto di Dio, che è sceso dal suo Cielo per immergersi nel mondo degli uomini, nel nostro mondo, ed insegnare l’«arte di vivere», la strada della felicità; per liberarci dal peccato e renderci figli di Dio (cfrEf 1,5; Rm 8,14). Gesù è venuto per salvarci e mostrarci la vita buona del Vangelo.

Parlare di Dio vuol dire anzitutto avere ben chiaro ciò che dobbiamo portare agli uomini e alle donne del nostro tempo: non un Dio astratto, una ipotesi, ma un Dio concreto, un Dio che esiste, che è entrato nella storia ed è presente nella storia; il Dio di Gesù Cristo come risposta alla domanda fondamentale del perché e del come vivere. Per questo, parlare di Dio richiede una familiarità con Gesù e il suo Vangelo, suppone una nostra personale e reale conoscenza di Dio e una forte passione per il suo progetto di salvezza, senza cedere alla tentazione del successo, ma seguendo il metodo di Dio stesso. Il metodo di Dio è quello dell’umiltà – Dio si fa uno di noi – è il metodo realizzato nell’Incarnazione nella semplice casa di Nazaret e nella grotta di Betlemme, quello della parabola del granellino di senape. Occorre non temere l’umiltà dei piccoli passi e confidare nel lievito che penetra nella pasta e lentamente la fa crescere (cfr Mt 13,33). Nel parlare di Dio, nell’opera di evangelizzazione, sotto la guida dello Spirito Santo, è necessario un recupero di semplicità, un ritornare all’essenziale dell’annuncio: la Buona Notizia di un Dio che è reale e concreto, un Dio che si interessa di noi, un Dio-Amore che si fa vicino a noi in Gesù Cristo fino alla Croce e che nella Risurrezione ci dona la speranza e ci apre ad una vita che non ha fine, la vita eterna, la vita vera. Quell’eccezionale comunicatore che fu l’apostolo Paolo ci offre una lezione che va proprio al centro della fede del problema “come parlare di Dio” con grande semplicità. Nella Prima Lettera ai Corinzi scrive: «Quando venni tra voi, non mi presentai ad annunciarvi il mistero di Dio con l’eccellenza della parola o della sapienza. Io ritenni infatti di non sapere altro in mezzo a voi se non Gesù Cristo, e Cristo crocifisso» (2,1-2). Quindi la prima realtà è che Paolo non parla di una filosofia che lui ha sviluppato, non parla di idee che ha trovato altrove o inventato, ma parla di una realtà della sua vita, parla del Dio che è entrato nella sua vita, parla di un Dio reale che vive, ha parlato con lui e parlerà con noi, parla del Cristo crocifisso e risorto. La seconda realtà è che Paolo non cerca se stesso, non vuole crearsi una squadra di ammiratori, non vuole entrare nella storia come capo di una scuola di grandi conoscenze, non cerca se stesso, ma San Paolo annuncia Cristo e vuole guadagnare le persone per il Dio vero e reale. Paolo parla solo con il desiderio di voler predicare quello che è entrato nella sua vita e che è la vera vita, che lo ha conquistato sulla via di Damasco. Quindi, parlare di Dio vuol dire dare spazio a Colui che ce lo fa conoscere, che ci rivela il suo volto di amore; vuol dire espropriare il proprio io offrendolo a Cristo, nella consapevolezza che non siamo noi a poter guadagnare gli altri a Dio, ma dobbiamo attenderli da Dio stesso, invocarli da Lui. Il parlare di Dio nasce quindi dall’ascolto, dalla nostra conoscenza di Dio che si realizza nella familiarità con Lui, nella vita della preghiera e secondo i Comandamenti.

Comunicare la fede, per san Paolo, non significa portare se stesso, ma dire apertamente e pubblicamente quello che ha visto e sentito nell’incontro con Cristo, quanto ha sperimentato nella sua esistenza ormai trasformata da quell’incontro: è portare quel Gesù che sente presente in sé ed è diventato il vero orientamento della sua vita, per far capire a tutti che Egli è necessario per il mondo ed è decisivo per la libertà di ogni uomo. L’Apostolo non si accontenta di proclamare delle parole, ma coinvolge tutta la propria esistenza nella grande opera della fede. Per parlare di Dio, bisogna fargli spazio, nella fiducia che è Lui che agisce nella nostra debolezza: fargli spazio senza paura, con semplicità e gioia, nella convinzione profonda che quanto più mettiamo al centro Lui e non noi, tanto più la nostra comunicazione sarà fruttuosa. E questo vale anche per le comunità cristiane: esse sono chiamate a mostrare l’azione trasformante della grazia di Dio, superando individualismi, chiusure, egoismi, indifferenza e vivendo nei rapporti quotidiani l’amore di Dio. Domandiamoci se sono veramente così le nostre comunità. Dobbiamo metterci in moto per divenire sempre e realmente così, annunciatori di Cristo e non di noi stessi.

A questo punto dobbiamo domandarci come comunicava Gesù stesso. Gesù nella sua unicità parla del suo Padre – Abbà – e del Regno di Dio, con lo sguardo pieno di compassione per i disagi e le difficoltà dell’esistenza umana. Parla con grande realismo e, direi, l’essenziale dell’annuncio di Gesù è che rende trasparente il mondo e la nostra vita vale per Dio. Gesù mostra che nel mondo e nella creazione traspare il volto di Dio e ci mostra come nelle storie quotidiane della nostra vita Dio è presente. Sia nelle parabole della natura, il grano di senapa, il campo con diversi semi, o nella vita nostra, pensiamo alla parabola del figlio prodigo, di Lazzaro e ad altre parabole di Gesù. Dai Vangeli noi vediamo come Gesù si interessa di ogni situazione umana che incontra, si immerge nella realtà degli uomini e delle donne del suo tempo, con una fiducia piena nell’aiuto del Padre. E che realmente in questa storia, nascostamente, Dio è presente e se siamo attenti possiamo incontrarlo. E i discepoli, che vivono con Gesù, le folle che lo incontrano, vedono la sua reazione ai problemi più disparati, vedono come parla, come si comporta; vedono in Lui l’azione dello Spirito Santo, l’azione di Dio. In Lui annuncio e vita si intrecciano: Gesù agisce e insegna, partendo sempre da un intimo rapporto con Dio Padre. Questo stile diventa un’indicazione essenziale per noi cristiani: il nostro modo di vivere nella fede e nella carità diventa un parlare di Dio nell’oggi, perché mostra con un’esistenza vissuta in Cristo la credibilità, il realismo di quello che diciamo con le parole, che non sono solo parole, ma mostrano la realtà, la vera realtà. E in questo dobbiamo essere attenti a cogliere i segni dei tempi nella nostra epoca, ad individuare cioè le potenzialità, i desideri, gli ostacoli che si incontrano nella cultura attuale, in particolare il desiderio di autenticità, l’anelito alla trascendenza, la sensibilità per la salvaguardia del creato, e comunicare senza timore la risposta che offre la fede in Dio. L’Anno della fede è occasione per scoprire, con la fantasia animata dallo Spirito Santo, nuovi percorsi a livello personale e comunitario, affinché in ogni luogo la forza del Vangelo sia sapienza di vita e orientamento dell’esistenza.

Anche nel nostro tempo, un luogo privilegiato per parlare di Dio è la famiglia, la prima scuola per comunicare la fede alle nuove generazioni. Il Concilio Vaticano II parla dei genitori come dei primi messaggeri di Dio (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 11; Decr. Apostolicam actuositatem, 11), chiamati a riscoprire questa loro missione, assumendosi la responsabilità nell’educare, nell’aprire le coscienze dei piccoli all’amore di Dio come un servizio fondamentale alla loro vita, nell’essere i primi catechisti e maestri della fede per i loro figli. E in questo compito è importante anzitutto la vigilanza, che significa saper cogliere le occasioni favorevoli per introdurre in famiglia il discorso di fede e per far maturare una riflessione critica rispetto ai numerosi condizionamenti a cui sono sottoposti i figli. Questa attenzione dei genitori è anche sensibilità nel recepire le possibili domande religiose presenti nell’animo dei figli, a volte evidenti, a volte nascoste. Poi, la gioia: la comunicazione della fede deve sempre avere una tonalità di gioia. E’ la gioia pasquale, che non tace o nasconde le realtà del dolore, della sofferenza, della fatica, della difficoltà, dell’incomprensione e della stessa morte, ma sa offrire i criteri per interpretare tutto nella prospettiva della speranza cristiana. La vita buona del Vangelo è proprio questo sguardo nuovo, questa capacità di vedere con gli occhi stessi di Dio ogni situazione. È importante aiutare tutti i membri della famiglia a comprendere che la fede non è un peso, ma una fonte di gioia profonda, è percepire l’azione di Dio, riconoscere la presenza del bene, che non fa rumore; ed offre orientamenti preziosi per vivere bene la propria esistenza. Infine, la capacità di ascolto e di dialogo: la famiglia deve essere un ambiente in cui si impara a stare insieme, a ricomporre i contrasti nel dialogo reciproco, che è fatto di ascolto e di parola, a comprendersi e ad amarsi, per essere un segno, l’uno per l’altro, dell’amore misericordioso di Dio.

Parlare di Dio, quindi, vuol dire far comprendere con la parola e con la vita che Dio non è il concorrente della nostra esistenza, ma piuttosto ne è il vero garante, il garante  della grandezza della persona umana. Così ritorniamo all’inizio: parlare di Dio è comunicare, con forza e semplicità, con la parola e con la vita, ciò che è essenziale: il Dio di Gesù Cristo, quel Dio che ci ha mostrato un amore così grande da incarnarsi, morire e risorgere per noi; quel Dio che chiede di seguirlo e lasciarsi trasformare dal suo immenso amore per rinnovare la nostra vita e le nostre relazioni; quel Dio che ci ha donato la Chiesa, per camminare insieme e, attraverso la Parola e i Sacramenti, rinnovare l’intera Città degli uomini, affinché possa diventare Città di Dio.

Ultima udienza di Papa Benedetto XVI: “L’Anno della fede. Il desiderio di Dio”

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 7 novembre 2012

L’Anno della fede. Il desiderio di Dio.

Cari fratelli e sorelle,

il cammino di riflessione che stiamo facendo insieme in quest’Anno della fede ci conduce a meditare oggi su un aspetto affascinante dell’esperienza umana e cristiana: l’uomo porta in sé un misterioso desiderio di Dio. In modo molto significativo, il Catechismo della Chiesa Cattolica si apre proprio con la seguente considerazione: «Il desiderio di Dio è inscritto nel cuore dell’uomo, perché l’uomo è stato creato da Dio e per Dio; e Dio non cessa di attirare a sé l’uomo e soltanto in Dio l’uomo troverà la verità e la felicità che cerca senza posa» (n. 27).

Una tale affermazione, che anche oggi in molti contesti culturali appare del tutto condivisibile, quasi ovvia, potrebbe invece sembrare una provocazione nell’ambito della cultura occidentale secolarizzata. Molti nostri contemporanei potrebbero infatti obiettare di non avvertire per nulla un tale desiderio di Dio. Per larghi settori della società Egli non è più l’atteso, il desiderato, quanto piuttosto una realtà che lascia indifferenti, davanti alla quale non si deve nemmeno fare lo sforzo di pronunciarsi. In realtà, quello che abbiamo definito come «desiderio di Dio» non è del tutto scomparso e si affaccia ancora oggi, in molti modi, al cuore dell’uomo. Il desiderio umano tende sempre a determinati beni concreti, spesso tutt’altro che spirituali, e tuttavia si trova di fronte all’interrogativo su che cosa sia davvero «il» bene, e quindi a confrontarsi con qualcosa che è altro da sé, che l’uomo non può costruire, ma è chiamato a riconoscere. Che cosa può davvero saziare il desiderio dell’uomo?

Nella mia prima Enciclica, Deus caritas est, ho cercato di analizzare come tale dinamismo si realizzi nell’esperienza dell’amore umano, esperienza che nella nostra epoca è più facilmente percepita come momento di estasi, di uscita da sé, come luogo in cui l’uomo avverte di essere attraversato da un desiderio che lo supera. Attraverso l’amore, l’uomo e la donna sperimentano in modo nuovo, l’uno grazie all’altro, la grandezza e la bellezza della vita e del reale. Se ciò che sperimento non è una semplice illusione, se davvero voglio il bene dell’altro come via anche al mio bene, allora devo essere disposto a de-centrarmi, a mettermi al suo servizio, fino alla rinuncia a me stesso. La risposta alla questione sul senso dell’esperienza dell’amore passa quindi attraverso la purificazione e la guarigione del volere, richiesta dal bene stesso che si vuole all’altro. Ci si deve esercitare, allenare, anche correggere, perché quel bene possa veramente essere voluto.

L’estasi iniziale si traduce così in pellegrinaggio, «esodo permanente dall’io chiuso in se stesso verso la sua liberazione nel dono di sé, e proprio così verso il ritrovamento di sé, anzi verso la scoperta di Dio» (Enc. Deus caritas est, 6). Attraverso tale cammino potrà progressivamente approfondirsi per l’uomo la conoscenza di quell’amore che aveva inizialmente sperimentato. E andrà sempre più profilandosi anche il mistero che esso rappresenta: nemmeno la persona amata, infatti, è in grado di saziare il desiderio che alberga nel cuore umano, anzi, tanto più autentico è l’amore per l’altro, tanto maggiormente esso lascia dischiudere l’interrogativo sulla sua origine e sul suo destino, sulla possibilità che esso ha di durare per sempre. Dunque, l’esperienza umana dell’amore ha in sé un dinamismo che rimanda oltre se stessi, è esperienza di un bene che porta ad uscire da sé e a trovarsi di fronte al mistero che avvolge l’intera esistenza.

Considerazioni analoghe si potrebbero fare anche a proposito di altre esperienze umane, quali l’amicizia, l’esperienza del bello, l’amore per la conoscenza: ogni bene sperimentato dall’uomo protende verso il mistero che avvolge l’uomo stesso; ogni desiderio che si affaccia al cuore umano si fa eco di un desiderio fondamentale che non è mai pienamente saziato. Indubbiamente da tale desiderio profondo, che nasconde anche qualcosa di enigmatico, non si può arrivare direttamente alla fede. L’uomo, in definitiva, conosce bene ciò che non lo sazia, ma non può immaginare o definire ciò che gli farebbe sperimentare quella felicità di cui porta nel cuore la nostalgia. Non si può conoscere Dio a partire soltanto dal desiderio dell’uomo. Da questo punto di vista rimane il mistero: l’uomo è cercatore dell’Assoluto, un cercatore a passi piccoli e incerti. E tuttavia, già l’esperienza del desiderio, del «cuore inquieto» come lo chiamava sant’Agostino, è assai significativa. Essa ci attesta che l’uomo è, nel profondo, un essere religioso (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 28), un «mendicante di Dio». Possiamo dire con le parole di Pascal: «L’uomo supera infinitamente l’uomo» (Pensieri, ed. Chevalier 438; ed. Brunschvicg 434). Gli occhi riconoscono gli oggetti quando questi sono illuminati dalla luce. Da qui il desiderio di conoscere la luce stessa, che fa brillare le cose del mondo e con esse accende il senso della bellezza.

Dobbiamo pertanto ritenere che sia possibile anche nella nostra epoca, apparentemente tanto refrattaria alla dimensione trascendente, aprire un cammino verso l’autentico senso religioso della vita, che mostra come il dono della fede non sia assurdo, non sia irrazionale. Sarebbe di grande utilità, a tal fine, promuovere una sorta di pedagogia del desiderio, sia per il cammino di chi ancora non crede, sia per chi ha già ricevuto il dono della fede. Una pedagogia che comprende almeno due aspetti. In primo luogo, imparare o re-imparare il gusto delle gioie autentiche della vita. Non tutte le soddisfazioni producono in noi lo stesso effetto: alcune lasciano una traccia positiva, sono capaci di pacificare l’animo, ci rendono più attivi e generosi. Altre invece, dopo la luce iniziale, sembrano deludere le attese che avevano suscitato e talora lasciano dietro di sé amarezza, insoddisfazione o un senso di vuoto. Educare sin dalla tenera età ad assaporare le gioie vere, in tutti gli ambiti dell’esistenza – la famiglia, l’amicizia, la solidarietà con chi soffre, la rinuncia al proprio io per servire l’altro, l’amore per la conoscenza, per l’arte, per le bellezze della natura –, tutto ciò significa esercitare il gusto interiore e produrre anticorpi efficaci contro la banalizzazione e l’appiattimento oggi diffusi. Anche gli adulti hanno bisogno di riscoprire queste gioie, di desiderare realtà autentiche, purificandosi dalla mediocrità nella quale possono trovarsi invischiati. Diventerà allora più facile lasciar cadere o respingere tutto ciò che, pur apparentemente attrattivo, si rivela invece insipido, fonte di assuefazione e non di libertà. E ciò farà emergere quel desiderio di Dio di cui stiamo parlando.

Un secondo aspetto, che va di pari passo con il precedente, è il non accontentarsi mai di quanto si è raggiunto. Proprio le gioie più vere sono capaci di liberare in noi quella sana inquietudine che porta ad essere più esigenti – volere un bene più alto, più profondo – e insieme a percepire con sempre maggiore chiarezza che nulla di finito può colmare il nostro cuore. Impareremo così a tendere, disarmati, verso quel bene che non possiamo costruire o procurarci con le nostre forze; a non lasciarci scoraggiare dalla fatica o dagli ostacoli che vengono dal nostro peccato.

A questo proposito, non dobbiamo però dimenticare che il dinamismo del desiderio è sempre aperto alla redenzione. Anche quando esso si inoltra su cammini sviati, quando insegue paradisi artificiali e sembra perdere la capacità di anelare al vero bene. Anche nell’abisso del peccato non si spegne nell’uomo quella scintilla che gli permette di riconoscere il vero bene, di assaporarlo, e di avviare così un percorso di risalita, al quale Dio, con il dono della sua grazia, non fa mancare mai il suo aiuto. Tutti, del resto, abbiamo bisogno di percorrere un cammino di purificazione e di guarigione del desiderio. Siamo pellegrini verso la patria celeste, verso quel bene pieno, eterno, che nulla ci potrà più strappare. Non si tratta, dunque, di soffocare il desiderio che è nel cuore dell’uomo, ma di liberarlo, affinché possa raggiungere la sua vera altezza. Quando nel desiderio si apre la finestra verso Dio, questo è già segno della presenza della fede nell’animo, fede che è una grazia di Dio. Sempre sant’Agostino affermava: «Con l’attesa, Dio allarga il nostro desiderio, col desiderio allarga l’animo e dilatandolo lo rende più capace» (Commento alla Prima lettera di Giovanni, 4,6: PL 35, 2009).

In questo pellegrinaggio, sentiamoci fratelli di tutti gli uomini, compagni di viaggio anche di coloro che non credono, di chi è in ricerca, di chi si lascia interrogare con sincerità dal dinamismo del proprio desiderio di verità e di bene. Preghiamo, in questo Anno della fede, perché Dio mostri il suo volto a tutti coloro che lo cercano con cuore sincero. Grazie.

Udienza di Papa Benedetto XVI: “Nessuno può dire di avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa come Madre” [san Cipriano]

 

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro Mercoledì, 31 ottobre 2012

 

L’Anno della fede. La fede della Chiesa

Cari fratelli e sorelle,

continuiamo nel nostro cammino di meditazione sulla fede cattolica. La settimana scorsa ho mostrato come la fede sia un dono, perché è Dio che prende l’iniziativa e ci viene incontro; e così la fede è una risposta con la quale noi Lo accogliamo come fondamento stabile della nostra vita. E’ un dono che trasforma l’esistenza, perché ci fa entrare nella stessa visione di Gesù, il quale opera in noi e ci apre all’amore verso Dio e verso gli altri.

Oggi vorrei fare un altro passo nella nostra riflessione, partendo ancora una volta da alcune domande: la fede ha un carattere solo personale, individuale? Interessa solo la mia persona? Vivo la mia fede da solo? Certo, l’atto di fede è un atto eminentemente personale, che avviene nell’intimo più profondo e che segna un cambiamento di direzione, una conversione personale: è la mia esistenza che riceve una svolta, un orientamento nuovo. Nella Liturgia del Battesimo, al momento delle promesse, il celebrante chiede di manifestare la fede cattolica e formula tre domande: Credete in Dio Padre onnipotente? Credete in Gesù Cristo suo unico Figlio? Credete nello Spirito Santo? Anticamente queste domande erano rivolte personalmente a colui che doveva ricevere il Battesimo, prima che si immergesse per tre volte nell’acqua. E anche oggi la risposta è al singolare: «Credo». Ma questo mio credere non è il risultato di una mia riflessione solitaria, non è il prodotto di un mio pensiero, ma è frutto di una relazione, di un dialogo, in cui c’è un ascoltare, un ricevere e un rispondere; è il comunicare con Gesù che mi fa uscire dal mio «io» racchiuso in me stesso per aprirmi all’amore di Dio Padre. E’ come una rinascita in cui mi scopro unito non solo a Gesù, ma anche a tutti quelli che hanno camminato e camminano sulla stessa via; e questa nuova nascita, che inizia con il Battesimo, continua per tutto il percorso dell’esistenza. Non posso costruire la mia fede personale in un dialogo privato con Gesù, perché la fede mi viene donata da Dio attraverso una comunità credente che è la Chiesa e mi inserisce così nella moltitudine dei credenti in una comunione che non è solo sociologica, ma radicata nell’eterno amore di Dio, che in Se stesso è comunione del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, è Amore trinitario. La nostra fede è veramente personale, solo se è anche comunitaria: può essere la mia fede, solo se vive e si muove nel «noi» della Chiesa, solo se è la nostra fede, la comune fede dell’unica Chiesa.

Alla domenica, nella Santa Messa, recitando il «Credo», noi ci esprimiamo in prima persona, ma confessiamo comunitariamente l’unica fede della Chiesa. Quel «credo» pronunciato singolarmente si unisce a quello di un immenso coro nel tempo e nello spazio, in cui ciascuno contribuisce, per così dire, ad una concorde polifonia nella fede. Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume in modo chiaro così: «”Credere” è un atto ecclesiale. La fede della Chiesa precede, genera, sostiene e nutre la nostra fede. La Chiesa è la Madre di tutti i credenti. “Nessuno può dire di avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa come Madre” [san Cipriano]» (n. 181). Quindi la fede nasce nella Chiesa, conduce ad essa e vive in essa. Questo è importante ricordarlo.

Agli inizi dell’avventura cristiana, quando lo Spirito Santo scende con potenza sui discepoli, nel giorno di Pentecoste – come narrano gli Atti degli Apostoli (cfr 2,1-13) – la Chiesa nascente riceve la forza per attuare la missione affidatale dal Signore risorto: diffondere in ogni angolo della terra il Vangelo, la buona notizia del Regno di Dio, e guidare così ogni uomo all’incontro con Lui, alla fede che salva. Gli Apostoli superano ogni paura nel proclamare ciò che avevano udito, visto, sperimentato di persona con Gesù. Per la potenza dello Spirito Santo, iniziano a parlare lingue nuove, annunciando apertamente il mistero di cui erano stati testimoni. Negli Atti degli Apostoli ci viene riferito poi il grande discorso che Pietro pronuncia proprio nel giorno di Pentecoste. Egli parte da un passo del profeta Gioele (3,1-5), riferendolo a Gesù, e proclamando il nucleo centrale della fede cristiana: Colui che aveva beneficato tutti, che era stato accreditato presso Dio con prodigi e segni grandi, è stato inchiodato sulla croce ed ucciso, ma Dio lo ha risuscitato dai morti, costituendolo Signore e Cristo. Con Lui siamo entrati nella salvezza definitiva annunciata dai profeti e chi invocherà il suo nome sarà salvato (cfr At 2,17-24). Ascoltando queste parole di Pietro, molti si sentono personalmente interpellati, si pentono dei propri peccati e si fanno battezzare ricevendo il dono dello Spirito Santo (cfr At 2, 37-41). Così inizia il cammino della Chiesa, comunità che porta questo annuncio nel tempo e nello spazio, comunità che è il Popolo di Dio fondato sulla nuova alleanza grazie al sangue di Cristo e i cui membri non appartengono ad un particolare gruppo sociale o etnico, ma sono uomini e donne provenienti da ogni nazione e cultura. E’ un popolo «cattolico», che parla lingue nuove, universalmente aperto ad accogliere tutti, oltre ogni confine, abbattendo tutte le barriere. Dice san Paolo: «Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto e in tutti” (Col 3,11).

La Chiesa, dunque, fin dagli inizi è il luogo della fede, il luogo della trasmissione della fede, il luogo in cui, per il Battesimo, si è immersi nel Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo, che ci libera dalla prigionia del peccato, ci dona la libertà di figli e ci introduce nella comunione col Dio Trinitario. Al tempo stesso, siamo immersi nella comunione con gli altri fratelli e sorelle di fede, con l’intero Corpo di Cristo, tirati fuori dal nostro isolamento. Il Concilio Ecumenico Vaticano II lo ricorda: «Dio volle salvare e santificare gli uomini non individualmente e senza alcun legame fra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che Lo riconoscesse nella verità e fedelmente Lo servisse» (Cost. dogm. Lumen gentium, 9). Richiamando ancora la liturgia del Battesimo, notiamo che, a conclusione delle promesse in cui esprimiamo la rinuncia al male e ripetiamo «credo» alle verità della fede, il celebrante dichiara: «Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa e noi ci gloriamo di professarla in Cristo Gesù nostro Signore». La fede è virtù teologale, donata da Dio, ma trasmessa dalla Chiesa lungo la storia. Lo stesso san Paolo, scrivendo ai Corinzi, afferma di aver comunicato loro il Vangelo che a sua volta anche lui aveva ricevuto (cfr 1 Cor 15,3).

Vi è un’ininterrotta catena di vita della Chiesa, di annuncio della Parola di Dio, di celebrazione dei Sacramenti, che giunge fino a noi e che chiamiamo Tradizione. Essa ci dà la garanzia che ciò in cui crediamo è il messaggio originario di Cristo, predicato dagli Apostoli. Il nucleo dell’annuncio primordiale è l’evento della Morte e Risurrezione del Signore, da cui scaturisce tutto il patrimonio della fede. Dice il Concilio: «La predicazione apostolica, che è espressa in modo speciale nei libri ispirati, doveva essere consegnata con successione continua fino alla fine dei tempi» Cost. dogm. Dei Verbum, 8). In tal modo, se la Sacra Scrittura contiene la Parola di Dio, la Tradizione della Chiesa la conserva e la trasmette fedelmente, perché gli uomini di ogni epoca possano accedere alle sue immense risorse e arricchirsi dei suoi tesori di grazia. Così la Chiesa «nella sua dottrina, nella sua vita e nel suo culto trasmette a tutte le generazioni tutto ciò che essa è, tutto ciò che essa crede» (ibidem).

Vorrei, infine, sottolineare che è nella comunità ecclesiale che la fede personale cresce e matura. E’ interessante osservare come nel Nuovo Testamento la parola «santi» designa i cristiani nel loro insieme, e certamente non tutti avevano le qualità per essere dichiarati santi dalla Chiesa. Che cosa si voleva indicare, allora, con questo termine? Il fatto che coloro che avevano e vivevano la fede in Cristo risorto erano chiamati a diventare un punto di riferimento per tutti gli altri, mettendoli così in contatto con la Persona e con il Messaggio di Gesù, che rivela il volto del Dio vivente. E questo vale anche per noi: un cristiano che si lascia guidare e plasmare man mano dalla fede della Chiesa, nonostante le sue debolezze, i suoi limiti e le sue difficoltà, diventa come una finestra aperta alla luce del Dio vivente, che riceve questa luce e la trasmette al mondo. Il Beato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio affermava che «la missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola!» (n. 2).

La tendenza, oggi diffusa, a relegare la fede nella sfera del privato contraddice quindi la sua stessa natura. Abbiamo bisogno della Chiesa per avere conferma della nostra fede e per fare esperienza dei doni di Dio: la sua Parola, i Sacramenti, il sostegno della grazia e la testimonianza dell’amore. Così il nostro «io» nel «noi» della Chiesa potrà percepirsi, ad un tempo, destinatario e protagonista di un evento che lo supera: l’esperienza della comunione con Dio, che fonda la comunione tra gli uomini. In un mondo in cui l’individualismo sembra regolare i rapporti fra le persone, rendendole sempre più fragili, la fede ci chiama ad essere Popolo di Dio, ad essere Chiesa, portatori dell’amore e della comunione di Dio per tutto il genere umano (cfr Cost. past. Gaudium et spes, 1). Grazie per l’attenzione.

Ultima Udienza di Papa Benedetto XVI: “Noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio.” “il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti”

 

 

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro Mercoledì, 24 ottobre 2012

 

L’Anno della fede. Che cosa è la fede?

Cari fratelli e sorelle,

mercoledì scorso, con l’inizio dell’Anno della fede, ho cominciato con una nuova serie di catechesi sulla fede. E oggi vorrei riflettere con voi su una questione fondamentale: che cosa è la fede? Ha ancora senso la fede in un mondo in cui scienza e tecnica hanno aperto orizzonti fino a poco tempo fa impensabili? Che cosa significa credere oggi? In effetti, nel nostro tempo è necessaria una rinnovata educazione alla fede, che comprenda certo una conoscenza delle sue verità e degli eventi della salvezza, ma che soprattutto nasca da un vero incontro con Dio in Gesù Cristo, dall’amarlo, dal dare fiducia a Lui, così che tutta la vita ne sia coinvolta.

Oggi, insieme a tanti segni di bene, cresce intorno a noi anche un certo deserto spirituale. A  volte, si ha come la sensazione, da certi avvenimenti di cui abbiamo notizia tutti i giorni, che il mondo non vada verso la costruzione di una comunità più fraterna e più pacifica; le stesse idee di progresso e di benessere mostrano anche le loro ombre. Nonostante la grandezza delle scoperte della scienza e dei successi della tecnica, oggi l’uomo non sembra diventato veramente più libero, più umano; permangono tante forme di sfruttamento, di manipolazione, di violenza, di sopraffazione, di ingiustizia… Un certo tipo di cultura, poi, ha educato a muoversi solo nell’orizzonte delle cose, del fattibile, a credere solo in ciò che si vede e si tocca con le proprie mani. D’altra parte, però, cresce anche il numero di quanti si sentono disorientati e, nella ricerca di andare oltre una visione solo orizzontale della realtà, sono disponibili a credere a tutto e al suo contrario. In questo contesto riemergono alcune domande fondamentali, che sono molto più concrete di quanto appaiano a prima vista: che senso ha vivere? C’è un futuro per l’uomo, per noi e per le nuove generazioni? In che direzione orientare le scelte della nostra libertà per un esito buono e felice della vita? Che cosa ci aspetta oltre la soglia della morte?

Da queste insopprimibili domande emerge come il mondo della pianificazione, del calcolo esatto e della sperimentazione, in una parola il sapere della scienza, pur importante per la vita dell’uomo, da solo non basta. Noi abbiamo bisogno non solo del pane materiale, abbiamo bisogno di amore, di significato e di speranza, di un fondamento sicuro, di un terreno solido che ci aiuti a vivere con un senso autentico anche nella crisi, nelle oscurità, nelle difficoltà e nei problemi quotidiani. La fede ci dona proprio questo: è un fiducioso affidarsi a un «Tu», che è Dio, il quale mi dà una certezza diversa, ma non meno solida di quella che mi viene dal calcolo esatto o dalla scienza. La fede non è un semplice assenso intellettuale dell’uomo a delle verità particolari su Dio; è un atto con cui mi affido liberamente a un Dio che è Padre e mi ama; è adesione a un «Tu» che mi dona speranza e fiducia. Certo questa adesione a Dio non è priva di contenuti: con essa siamo consapevoli che Dio stesso si è mostrato a noi in Cristo, ha fatto vedere il suo volto e si è fatto realmente vicino a ciascuno di noi. Anzi, Dio ha rivelato che il suo amore verso l’uomo, verso ciascuno di noi, è senza misura: sulla Croce, Gesù di Nazaret, il Figlio di Dio fatto uomo, ci mostra nel modo più luminoso a che punto arriva questo amore, fino al dono di se stesso, fino al sacrificio totale. Con il mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, Dio scende fino in fondo nella nostra umanità per riportarla a Lui, per elevarla alla sua altezza. La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso – nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani.

Attorno a noi, però, vediamo ogni giorno che molti rimangono indifferenti o rifiutano di accogliere questo annuncio. Alla fine del Vangelo di Marco, oggi abbiamo parole dure del Risorto che dice : «Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato» (Mc 16,16), perde se stesso. Vorrei invitarvi a riflettere su questo. La fiducia nell’azione dello Spirito Santo, ci deve spingere sempre ad andare e predicare il Vangelo, alla coraggiosa testimonianza della fede; ma, oltre alla possibilità di una risposta positiva al dono della fede, vi è anche il rischio del rifiuto del Vangelo, della non accoglienza dell’incontro vitale con Cristo. Già sant’Agostino poneva questo problema in un suo commento alla parabola del seminatore: «Noi parliamo – diceva -, gettiamo il seme, spargiamo il seme. Ci sono quelli che disprezzano, quelli che rimproverano, quelli che irridono. Se noi temiamo costoro, non abbiamo più nulla da seminare e il giorno della mietitura resteremo senza raccolto. Perciò venga il seme della terra buona» (Discorsi sulla disciplina cristiana,13,14: PL 40, 677-678). Il rifiuto, dunque, non può scoraggiarci. Come cristiani siamo testimonianza di questo terreno fertile: la nostra fede, pur nei nostri limiti, mostra che esiste la terra buona, dove il seme della Parola di Dio produce frutti abbondanti di giustizia, di pace e di amore, di nuova umanità, di salvezza. E tutta la storia della Chiesa, con tutti i problemi, dimostra anche che esiste la terra buona, esiste il seme buono, e porta frutto.

Ma chiediamoci: da dove attinge l’uomo quell’apertura del cuore e della mente per credere nel Dio che si è reso visibile in Gesù Cristo morto e risorto, per accogliere la sua salvezza, così che Lui e il suo Vangelo siano la guida e la luce dell’esistenza? Risposta: noi possiamo credere in Dio perché Egli si avvicina a noi e ci tocca, perché lo Spirito Santo, dono del Risorto, ci rende capaci di accogliere il Dio vivente. La fede allora è anzitutto un dono soprannaturale, un dono di Dio. Il Concilio Vaticano II afferma: «Perché si possa prestare questa fede, è necessaria la grazia di Dio che previene e soccorre, e sono necessari gli aiuti interiori dello Spirito Santo, il quale muova il cuore e lo rivolga a Dio, apra gli occhi della mente, e dia “a tutti dolcezza nel consentire e nel credere alla verità”» (Cost. dogm. Dei Verbum, 5). Alla base del nostro cammino di fede c’è il Battesimo, il sacramento che ci dona lo Spirito Santo, facendoci diventare figli di Dio in Cristo, e segna l’ingresso nella comunità della fede, nella Chiesa: non si crede da sé, senza il prevenire della grazia dello Spirito; e non si crede da soli, ma insieme ai fratelli. Dal Battesimo in poi ogni credente è chiamato a ri-vivere e fare propria questa confessione di fede, insieme ai fratelli.

La fede è dono di Dio, ma è anche atto profondamente libero e umano. Il Catechismo della Chiesa Cattolica lo dice con chiarezza: «È impossibile credere senza la grazia e gli aiuti interiori dello Spirito Santo. Non è però meno vero che credere è un atto autenticamente umano. Non è contrario né alla libertà né all’intelligenza dell’uomo» (n. 154). Anzi, le implica e le esalta, in una scommessa di vita che è come un esodo, cioè un uscire da se stessi, dalle proprie sicurezze, dai propri schemi mentali, per affidarsi all’azione di Dio che ci indica la sua strada per conseguire la vera libertà, la nostra identità umana, la gioia vera del cuore, la pace con tutti. Credere è affidarsi in tutta libertà e con gioia al disegno provvidenziale di Dio sulla storia, come fece il patriarca Abramo, come fece Maria di Nazaret. La fede allora è un assenso con cui la nostra mente e il nostro cuore dicono il loro «sì» a Dio, confessando che Gesù è il Signore. E questo «sì» trasforma la vita, le apre la strada verso una pienezza di significato, la rende così nuova, ricca di gioia e di speranza affidabile.

Cari amici, il nostro tempo richiede cristiani che siano stati afferrati da Cristo, che crescano nella fede grazie alla familiarità con la Sacra Scrittura e i Sacramenti. Persone che siano quasi un libro aperto che narra l’esperienza della vita nuova nello Spirito, la presenza di quel Dio che ci sorregge nel cammino e ci apre alla vita che non avrà mai fine. Grazie.