Don Giacomo Tantardini: «Lasciati portare dal legno della Sua umiltà» La Confessione, il Peccato e la Grazia.

«Lasciati portare dal legno della Sua umiltà»

Una delle meditazioni degli esercizi spirituali predicati da don Giacomo Tantardini ai sacerdoti della diocesi suburbicaria di Porto – Santa Rufina nel novembre 2006      

di don Giacomo Tantardini    

Quelli che seguono sono solo alcuni suggerimenti, come aiuto a vivere il sacramento della penitenza, il sacramento della confessione.  Vorrei iniziare ripetendo l’invito di sant’Agostino a «lasciarsi portare dal legno della Sua umiltà». Dobbiamo attraversare il mare della vita, dobbiamo arrivare al Signore, che è la nostra felicità. L’unico modo per  attraversare questo mare è lasciarsi portare dal legno della Sua umiltà. Lasciarsi portare da questa nave che è la croce del Signore. A me è cara l’espressione di sant’Agostino: «Lasciati portare dal legno della Sua umiltà». Che cos’è la confessione se non accettare umilmente di lasciarsi portare dal Signore, dal legno della Sua umiltà? Se non accettare umilmente di confessare i nostri poveri peccati così come Gesù ha voluto, così come la santa Chiesa ha stabilito?

Per questo mi sono permesso di dare a chi lo voleva il piccolo libro Chi prega si salva, come aiuto a confessarsi bene, così come la santa Chiesa suggerisce, anzi comanda. Permettetemi di accennare a un’intuizione, una  scoperta per me recente: chi si confessa bene, diventa santo. È stata una scoperta recente (l’anno scorso, durante la santa messa nella festa di Tutti i Santi, mentre leggevo il Vangelo delle beatitudini) e di un’evidenza immediata: chi si confessa bene, diventa santo. Chi si confessa bene, con umiltà, con sincerità, con la completezza dell’accusa, diventa santo.     Diventa santo nei tempi del Signore, ma chi si confessa bene diventa santo. Chi si lascia portare umilmente dal legno della Sua umiltà, diventa     santo. Diventare santi vuol dire che la presenza di Gesù Cristo diventa sempre più cara, sempre più vicina. «Familiaritas stupenda nimis / sempre più stupenda», come dice l’Imitazione di Cristo, «la Sua familiarità». Come dice una strofa dell’inno Iesu dulcis memoria, questo lungo inno medievale che è attribuito a san Bernardo.

È la strofa che negli ultimi mesi della sua vita don Giussani più frequentemente ripeteva: «O Iesu mi dulcissime, / O  Gesù mio dolcissimo, / spes suspirantis  animae, / Tu speranza del mio cuore che geme [di  noi che sospiriamo, come diciamo nella Salve Regina], / te quaerunt piae lacrimae / Ti cercano le mie lacrime pie [lacrime che non pretendono, che attendono, che domandano] / et clamor mentis intimae / e il grido ultimo del cuore». Anche quando, magari, questo grido del cuore non sale neppure alle nostre labbra. Ecco, se ci confessiamo bene, diventiamo santi. Cioè, la presenza del Signore, la Sua presenza, la Sua bellezza («Cara beltà»), la Sua dolcezza diventa più cara e più vicina alla nostra vita.

Leggiamo ora il brano del rinnegamento di Pietro e dello sguardo di Gesù a Pietro, secondo il Vangelo di Luca: «Dopo averlo preso, lo condussero via e lo fecero entrare nella casa  del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: “Anche questi era con lui”, ma egli negò dicendo: “Donna, non lo conosco!”. Poco dopo un altro lo vide e disse: “Anche tu sei di loro!”. Ma Pietro rispose: “No, non lo sono!”. Passata circa un’ora, un altro insisteva: “In verità, anche questo era con lui; è anche lui un galileo”. Ma Pietro disse: “O uomo, non so quello che dici”. E in quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: “Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte”. E, uscito, pianse amaramente» (Lc 22, 54-62).

Vorrei suggerirvi tre brevi pensieri di sant’Ambrogio. Sant’Ambrogio è uno dei Padri della Chiesa che più evidenzia la misericordia. Forse la frase con cui     conclude l’Esamerone, il racconto della creazione, è nota a tutti voi: «Ha creato il cielo e non leggo che si sia riposato, ha creato la terra e non leggo che si sia riposato, ha creato il sole, la luna e le stelle e non  leggo che abbia riposato. Leggo che ha creato l’uomo e allora si  è riposato / habens cui peccata     dimitteret / perché finalmente aveva uno cui poteva perdonare i peccati». Questo è il riposo di Dio. Lo dice Gesù nel  Vangelo: «Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo [cioè nel cuore di Dio] per un peccatore che si converte che  non per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione» (Lc 15, 7). Ambrogio non aggiunge nulla a queste parole di Gesù circa la gioia del cuore di Dio; semplicemente è bello che dica che Dio si è riposato perché finalmente aveva uno cui poteva perdonare i peccati. Il brano che ora leggo è tratto dal commento di  sant’Ambrogio al Vangelo di Luca: «Bonae lacrimae quae lavant culpam. / Come sono buone  [care al cuore] le lacrime che lavano i peccati. / Denique quos Iesus respicit plorant. / Pertanto, quelli che Gesù guarda, si mettono a piangere [quando Gesù guarda un povero peccatore, questo si mette a piangere]. Pietro ha negato una prima volta e non ha pianto perché il Signore non lo aveva guardato. Pietro ha negato una seconda volta e non ha pianto perché il Signore ancora non lo aveva guardato. Pietro ha negato la terza volta: / respexit Iesus et ille amarissime flevit / Gesù lo ha guardato e lui ha pianto amaramente».

Il pianto non viene dal peccato. «Chi commette il peccato è schiavo del peccato» (Gv 8, 34). Il peccato ci conduce al vizio, non al pianto. «Se il Figlio vi fa liberi sarete liberi davvero» (Gv 8, 36). Quando Gesù  guarda, si piange. E si piange nella memoria di Lui. «Il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò» (Lc 22, 61). Si piange non per l’umiliazione, si piange perché si è così voluti bene. Si piange per gratitudine, perché siamo guardati così. Perché, poveri peccatori, siamo così voluti bene. «Respice, Domine Iesu, / Guardaci, Signore Gesù, / ut sciamus nostrum deflere peccatum. / perché impariamo a  piangere i nostri peccati. / Unde etiam lapsus sanctorum utilis. / Per questo anche il peccato dei santi è utile. Non mi ha recato nessun danno che Pietro Lo abbia tradito, mi ha giovato il fatto che [Gesù] lo abbia perdonato».

Un secondo brano. Ambrogio sta commentando un salmo, e  parla di Pietro: «Quem Dominus respicit salvat. / Chi il Signore guarda, lo salva. Pertanto, nella passione del Signore, quando Pietro tradì / [e qui Ambrogio dice una cosa che mi sembra così bella] sermone, non mente / [quando Pietro tradì] con la     parola, ma non con il cuore…». Così sant’Ambrogio distingue i peccati di fragilità dal progetto del peccato. Anche i peccati di     fragilità possono essere peccati mortali; non è questo che sant’Ambrogio contesta. I nostri peccati di fragilità possono essere peccati mortali, se ci sono le tre condizioni perché un’azione sia peccato mortale. Ma il peccato di fragilità è diverso dal progetto del peccato. Il peccato di fragilità è diverso dall’avere la progettualità del peccato. Ambrogio ha nei confronti di Pietro questo sguardo di tenerezza, come verso     un bambino che sbaglia. Pietro ha rinnegato, ma con le labbra (sermone) non con il cuore (non mente). E aggiunge un’osservazione stupenda: «(benché le parole di Pietro che Lo rinnega siano più piene di fede che non la dottrina di molti [le parole di Pietro, che per paura Lo tradisce, non distruggono un attaccamento al Signore, un attaccamento più fedele che non i  discorsi di molti]) /respexit eum Christus / Cristo lo ha guardato / et Petrus flevit; / e Pietro ha pianto; e così [col pianto] ha lavato il proprio errore. / Ita quem visus est voce denegare /  Così colui che con la parola è sembrato agli altri [forse     anche a Giovanni quando ha visto Pietro dire quello che ha detto] rinnegare  il Signore, / lacrimis fatebatur / con le lacrime Lo testimoniava». Con le lacrime Pietro ha testimoniato il Signore.

Vorrei aggiungere un’osservazione. C’è un indizio che distingue la fragilità del peccato dalla progettualità del peccato, ed è evitare le occasioni prossime di peccato. Lo diremo nell’Atto di dolore quando ci confesseremo. L’indizio che il peccato non è il nostro progetto, è la volontà di fuggire le occasioni prossime di peccato. Perché il peccato si compie nel cuore. Il peccato si compie quando si aderisce nel cuore al desiderio cattivo. È nel cuore che si compie il peccato. Il gesto, qualunque gesto peccaminoso, è una conseguenza del cuore che aderisce al desiderio cattivo; del cuore che cede al desiderio cattivo, invece di mettersi in ginocchio a domandare. Anche il mettersi in ginocchio, anche solo questo gesto fisico di mettersi in ginocchio, come è prezioso al Signore! Mettersi in ginocchio e domandare. E la grazia della domanda certa, quando il Signore la dona, la certezza della domanda che chiede senza dubitare è infallibile. Lo dice Gesù  (cf. Mc 11, 23-25). Lo scrive l’apostolo prediletto: «Chiunque rimane in Lui non può peccare» (1Gv 3, 6). Quando si rimane nel Signore non si pecca. Quando il Signore dona di rimanere in Lui, questa preghiera è infallibile. Evitare le occasioni prossime di peccato è il segno che i nostri sono poveri peccati di fragilità, ma che non sono il progetto della nostra vita. Non sono una progettualità cattiva.

Cito un terzo brano, sempre di sant’Ambrogio, tratto dal Commento al Salmo 1188 al versetto: «“Adiutor et susceptor meus es tu, et in verbum tuum spero” / “Tu sei il mio aiuto e il mio sostegno e spero nella tua parola”». In questo brano di sant’Ambrogio sono raccolte tutte le cose che ci siamo detti in questi giorni. «Adiutor per legem, / Tu sei aiuto con la legge [i dieci comandamenti], / susceptor per Evangelium / Tu sei sostegno [mi prendi in braccio] con la grazia». Questa è la sintesi del cammino morale cristiano. Con la legge ci aiuti. La legge fa conoscere i comandamenti di Dio. La legge ha come scopo semplicemente quello di indicarci e farci conoscere con chiarezza ciò che bisogna fare e ciò che bisogna evitare. E la legge non si mette in pratica se vi si fanno sopra discorsi teologici. La legge si mette in pratica in virtù di un’altra realtà distinta dalla legge che è la grazia.

È bellissima la lettura del breviario della festa della Natività della Madonna, in cui sant’Andrea di Creta, vescovo, afferma che, come sono distinte e non     confuse la natura umana e la natura divina del Verbo incarnato, così anche la legge e la grazia sono due realtà distinte, non confuse.Ciascuna realtà conserva le sue caratteristiche. La legge ha la caratteristica di indicare con chiarezza la strada, la grazia ha la caratteristica di prendere in braccio e di portare e quindi di far camminare sulla strada. «Adiutor per legem, susceptor per gratiam. Quos lege adiuvit, in carne suscepit /Quelli che ha aiutato con la legge [indicando la strada] li ha portati nella Sua carne / quia scriptum est: / perché è stato scritto: / “Hic peccata nostra portat” /     “Questi porta su di sé i nostri peccati” / et ideo in verbum eius spero. / e perciò io spero nella Sua parola. / Pulchre autem ait: / È bello che il salmo dica: /     “In verbum tuum speravi”, / “Ho sperato nella Tua parola”, / hoc est: Non in prophetas speravi, / cioè: Non ho sperato nei profeti [buona è la profezia ma non ho sperato nei profeti], / non in legem, / non ho sperato nella legge [buona è la legge di Dio ma non ho sperato nella legge], / sed in verbum tuum speravi / ma ho sperato nella Tua parola / hoc est in adventum tuum… / cioè che Tu venga…»: questa è la cosa più bella! Ho sperato nella Tua parola cioè che Tu venga. Cioè nel Tuo venire a me. Se guardiamo un bambino, un bambino non spera astrattamente nella mamma. Il bambino spera che la mamma gli stia vicino. Che la mamma venga vicino a lui; «… ut venias / … che Tu venga /et suscipias peccatores, / e prenda in braccio i peccatori, / delicta condones, / perdoni i nostri delitti, / ovem lassam tuis in cruce humeris bonus pastor inponas / e metta come buon pastore sulle Tue spalle, cioè     sulla Tua croce, questa pecorella affaticata». Come è bello:«In verbum tuum speravi / ho sperato nella Tua parola / hoc est in adventum tuum, / cioè nel Tuo  arrivare, / ut venias / che Tu venga vicino /et suscipias / e Tu prenda in braccio» questa pecorella smarrita che sono io. Conclude Ambrogio: «Se uno spera in Gesù Cristo, si deve allontanare dalla compagnia dei cattivi».

Un piccolo accenno decisivo: se uno spera in Lui, evita le occasioni prossime di peccato (cf. 1Gv 3, 3). 

Concludo con due preghiere della liturgia ambrosiana. Due preghiere di sant’Ambrogio. Prima preghiera, dall’inno Al canto del gallo, Aeterne rerum conditor, che nell’antica liturgia ambrosiana si recitava sempre, ogni giorno, al Mattutino. Insieme all’inno dei Vespri Deus creator omnium, l’inno Aeterne rerum     conditor credo che sia la più bella poesia della letteratura cristiana antica: «Iesu, labantes respice / O Gesù, guarda noi che cadiamo [i lapsi erano quelli che durante le persecuzioni avevano tradito la fede] / et nos videndo corrige; / e sollevaci guardandoci [corrige vuol dire cum-regere, sollevare]; / si respicis labes  cadunt / se Tu ci guardi i peccati vengono meno / fletuque culpa solvitur / e nel pianto la colpa viene sciolta». Seconda preghiera, una piccola preghiera, la preghiera  del Buon ladrone. Come sarà per santa Teresina di Gesù Bambino, così per sant’Ambrogio il Buon ladrone è uno dei santi preferiti. L’inno di Pasqua, Hic est dies verus Dei, di sant’Ambrogio, è tutto sul Buon ladrone. Nella liturgia di oggi del breviario, san Cirillo di Gerusalemme usa la stessa espressione che usa sant’Ambrogio in questo inno: il Signore dona la salvezza «con la fede di un istante». La preghiera dice: «Manum tuam porrige lapsis / Porgi la tua mano a noi che siamo caduti, / qui latroni confitenti Paradisi ianuas aperuisti / Tu che al ladrone che Ti ha riconosciuto hai aperto le porte del Paradiso».

Come è bello quel latroni confitenti! Non ha fatto niente quell’assassino. Lo ha solo riconosciuto. Ha solo riconosciuto. Confessio. E domandato. Supplex confessio: «Gesù, ricordati di me quando sarai nel tuo regno». Solo quel «Gesù», quel: «Ricordati  di me». Solo quel riconoscimento supplice. E Gesù gli ha detto: «Oggi sarai con me in Paradiso» (cf. Lc 23, 39-43). Oggi, in questo istante. Come nel sacramento della confessione: «Io ti assolvo». Così, in questa fede di un istante, così si comunica anche a noi la salvezza di Gesù Cristo.

Sulla concupiscenza.
Il desiderio cattivo e il desiderio buono

Appunti dalle lezioni di don Giacomo Tantardini alla Libera Università San Pio V di Roma, anno 2000-2001

di don Giacomo Tantardini

Senso religioso, peccato originale, fede in sant’Agostino, don Giacomo Tantardini

Nel De Spiritu et littera Agostino chiama l’attrattiva della grazia concupiscenza buona1.

Il termine concupiscenza cristianamente indica che la dinamica umana è ferita dal peccato. Anche la dimensione più alta della dinamica umana, il senso religioso, che è la sintesi dello spirito umano, è ferito. «La concupiscenza [questa è una definizione del Concilio di Trento] nei battezzati non è peccato, ma dal peccato nasce e al peccato inclina»2. Non la dinamica umana così come è uscita dalle mani del Creatore, ma le dinamiche umane, dopo il peccato originale, sono ferite dal peccato e tendono a corrompersi nei vizi. Così che dalla considerazione degli stessi vizi (vitia) si possono intravvedere le tendenze buone originarie (appetitus)3. Questo termine, concupiscenza, è uno dei termini che gli stessi apostoli usano. Lo si trova nelle lettere di Paolo (per esempio Rm 7, 7), nelle lettere di Pietro (2Pt 1, 4), nella lettera di Giacomo (Gc 1, 14-15) e nelle lettere di Giovanni (1Gv 2, 16).

L’alternativa a questo impulso può essere solo una concupiscenza buona, più evidente e corrispondente al cuore che non la concupiscenza dovuta alla ferita del peccato originale. Se non fosse più evidente e corrispondente al cuore non ci sarebbe reale motivo per diventare e rimanere cristiani.

Oggi leggeremo due brani del De Spiritu et littera.

De Spiritu et littera 4, 6

«Doctrina quippe illa qua mandatum accipimus continenter recteque vivendi / Quella dottrina dalla quale riceviamo il comandamento di vivere sobriamente e piamente [sobriamente e piamente per usare due termini di Paolo nella lettera a Tito (Tt 2, 12)] / littera est occidens nisi adsit vivificans Spiritus / è lettera che uccide se non è presente lo Spirito che dona la vita». Questa è come la sintesi di tutto quello che Agostino scrive nel De Spiritu et littera. Quella dottrina – potremmo tradurre la dottrina della fede e della morale evidentemente buona – è lettera che uccide se non è presente, se non viene donato lo Spirito che dà la vita.

«[…] Nam hoc ideo elegit Apostolus generale quiddam, quo cuncta complexus est, tamquam haec esset vox legis ab omni peccato prohibentis, quod ait: “Non concupisces” [Agostino sta commentando la Lettera ai Romani, in particolare il capitolo 7]; / […] Ecco perché l’apostolo ha scelto [come espressione della dottrina] il comandamento più generale, nel quale ha riassunto tutti i comandamenti, come se fosse questa la voce della legge che proibisce ogni peccato; cioè il comandamento che dice: “non desiderare”; / neque enim illum peccatum nisi concupiscendo committitur / e infatti nessun peccato si commette se non attraverso il desiderio». Nessun peccato viene commesso se non attraverso il desiderio. L’inizio del peccato è sempre e solo il desiderio. Come dice Gesù quando, parlando del sesto comandamento «Non commettere adulterio», afferma: «Ma io vi dico: Chiunque guarda una donna per desiderarla / iam moechatus est eam in corde suo / ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore» (Mt 5, 27).

Questo non per una rigidezza più grande rispetto alla legge di Mosè4, ma perché così sia evidente che occorre un altro desiderio per vincere il peccato. Se il peccato inizia dal desiderio, occorre qualcosa che sia al livello del desiderio, occorre qualcosa che desti, con un’attrattiva più grande, un desiderio buono. Se il peccato avviene nel cuore col desiderare, per non commettere peccati occorre un’attrattiva buona che attinga al cuore, al desiderio. Così proprio quella che sembra l’affermazione moralmente più esigente di Gesù, è l’affermazione più antimoralistica che esiste. Per cui è così evidente, per esperienza, che il peccato si compie quando, tentati dal diavolo, non si domanda. Non si compie dopo, si compie lì. Quando uno non domanda, ha già deciso in cuore suo il peccato, ha già compiuto il peccato. La domanda destata dalla grazia, infatti, non può peccare (cfr. 1Gv 3, 6. 9. 22).

«Neque enim ullum peccatum nisi concupiscendo commititur. / Nessun peccato infatti avviene se non attraverso il desiderio. / Proinde quae hoc praecipit bona et laudabilis lex est. / Dunque quella legge che comanda di non desiderare è buona e lodevole. / Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala concupiscentiam bonam / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando invece del desiderio cattivo un desiderio buono, / hoc est caritatem diffundens in cordibus nostris / cioè diffondendo la carità nei nostri cuori [la carità è questa concupiscenza buona. Carità cioè un’attrattiva che unisce. Delectatio è l’attrattiva e dilectio è l’unità cui l’attrattiva porta. Questa è la carità. L’attrattiva Gesù. La carità è l’attrattiva di quella presenza fino all’adesione a quella presenza, l’attrattiva fino all’abbraccio5], profecto illa lex, quamvis bona, auget prohibendo desiderium malum / senza dubbio quella legge, sebbene buona, aumenta, con la proibizione, il desiderio cattivo». La legge, evidentemente buona, aumenta di fatto il desiderio cattivo. Dicendo “non desiderare la donna d’altri”, questo comando buono aumenta nell’uomo il desiderio della donna d’altri.

E Agostino suggerisce l’esempio dell’impeto delle acque. Quando le acque corrono verso un’unica direzione, se si mette qualcosa che impedisce alle acque di correre, una volta che hanno travolto questo impedimento, esse corrono con più violenza e con più massa.

«[…] Nescio quo enim modo hoc ipsum, quod concupiscitur, fit iocundius, dum vetatur. / […] Io non so perché capita che si desideri con più piacere una cosa proprio quando viene vietata. / Et hoc est quod fallit peccatum per mandatum / Ed è per questo che il peccato seduce attraverso il comandamento [proprio per il fatto che la legge buona dice di non desiderare la donna d’altri, il peccato usa di questa legge buona per aumentare il desiderio, per sedurre] / et per illud occidit, / e attraverso esso uccide, / cum accedit etiam praevaricatio quae nulla est ubi lex non est / perché vi si aggiunge anche la trasgressione, che non ci sarebbe se non ci fosse la legge». Quindi la legge aggiunge al peccato anche il fatto di essere una trasgressione. Non solo si compie una cosa cattiva, ma si disubbidisce alla legge. Si trasgredisce la legge, mentre la trasgressione non ci sarebbe se non ci fosse la legge.
Ma la frase centrale di questo brano è: «Sed ubi sanctus non adiuvat Spiritus inspirans pro concupiscentia mala / Ma dove non aiuta lo Spirito Santo ispirando, invece del desiderio cattivo, / concupiscentiam bonam... / un desiderio buono…».

Inspirans vuol dire che tocca la sorgente del cuore lì dove il desiderio nasce. È tutto qui. Occorre un’attrattiva che attinga dove il desiderio nasce. E questo si può solo domandare6. Altrimenti si può apparire giusti davanti agli uomini, ma non davanti a Dio che scruta i cuori. Perché anche se uno non va contro nessun comandamento, Dio che scruta i cuori sa che preferirebbe, nel suo cuore, come desiderio, andare contro il comandamento. Soltanto che circostanze – che sono comunque strumento del disegno del Signore – gli impediscono o non favoriscono il soddisfare quello che come desiderio preferirebbe (cfr. De Spiritu et littera 8, 13-14). Se il peccato si compie al livello del desiderio, l’alternativa al peccato non può che essere un’attrattiva che tocca il cuore lì dove il desiderio nasce. L’alternativa può essere solo un’attrattiva buona invece dell’impulso cattivo. Questa attrattiva buona si chiama anche carità. La carità (dilectio) compie l’attrattiva (delectatio) nell’abbraccio, nell’unità (cfr. 1Cor 6, 17).

Sant’Alfonso Maria de Liguori: Castità, Continenza, Mortificazione “Se vogliamo salvarci e dar gusto a Dio, bisogna mutar palato: bisogna che ci piacciano quelle cose che ricusa la carne, e ci dispiacciano quelle che la carne domanda. Così appunto disse un giorno il Signore a S. Francesco d’Assisi: Se desideri me, piglia le cose amare per dolci e le dolci per amare.”

Per lussuria intendiamo, normalmente, genericamente l’insieme dei peccati che ruotano intorno al sesto e al nono precetto del decalogo: fornicazione, adulterio, unioni contro natura (omosessualità, bestialità etc.), pornografia, prostituzione,masturbazione, atti di lussuria non consumata, come ad es. baci dati per il gusto del piacere venereo (che praticamente in ogni film vengono mostrati a tutti) etc.etc.

Allorché parliamo dell’uomo casto ci riferiamo all’uomo veramente e pienamente casto: nel cuore e nel corpo, cioè ci riferiamo all’uomo santo, che vive nella divina grazia; ci riferiamo altresì alla castità come virtù infusa e perciò indissolubilmente legata alla carità.

Sant’Alfonso Maria de Liguori, dottore della chiesa: Castità, Continenza, Mortificazione.

 

Se vogliamo salvarci e dar gusto a Dio, bisogna mutar palato: bisogna che ci piacciano quelle cose che ricusa la carne, e ci dispiacciano quelle che la carne domanda. Così appunto disse un giorno il Signore a S. Francesco d’Assisi: Se desideri me, piglia le cose amare per dolci e le dolci per amare.

Chi attende, come bruto, a soddisfarsi de’ piaceri sensuali non è capace neppur d’intendere l’eccellenza de’ beni spirituali.

Ecco tutto quel che ha da fare chi vuol esser seguace di Gesu-Cristo. Il negare se stesso è il mortificare l’amor proprio. Vogliamo salvarci? bisogna vincer tutto, per assicurare il tutto. Povera quell’anima, che dall’amor proprio si lascia guidare!

Dice s. Francesco di Sales che siccome il sale preserva la carne dalla putredine, così la mortificazione preserva l’uomo dal peccato. In quell’anima dove regna la mortificazione regneranno ancora le altre virtù.

Dicea s. Francesco Borgia che l’orazione è quella che introduce nel cuore il divino amore; ma la mortificazione è quella poi che all’amore apparecchia il luogo col toglierne la terra, che altrimenti gl’impedirebbe l’entrata. Se uno va alla fonte a prender acqua e vi porta un vaso pieno di terra, altro non ne riporterà che loto; bisogna dunque che prima ne tolga la terra e poi vi prenda l’acqua. L’orazione senza mortificazione, diceva il p. Baldassare Alvarez, o è illusione o poco ella dura. E s. Ignazio di Loiola dicea che più s’unisce con Dio un’anima mortificata in un quarto d’ora d’orazione che in più ore un’altra immortificata. E perciò avendo il santo inteso una volta lodare una persona esser di molta orazione, disse: «È segno dunque che sarà di molta mortificazione».

Il demonio quando è discacciato da un’anima, non trova riposo e mette tutta l’opera per ritornare ad entrarvi, chiama anche compagni in aiuto, e se gli riesce di rientrarvi, sarà assai più grande per quell’anima la seconda ruina, che non fu la prima.

Andate dunque considerando di qual’armi avete ad avvalervi, per difendervi da questi nemici e conservarvi in grazia di Dio. Per non esser vinto dal demonio, non v’è altra difesa che l’orazione. Dice S. Paolo che noi non abbiamo a combattere contra uomini come noi di carne e sangue, ma contra i principi dell’inferno: «Non est nobis colluctatio adversus carnem et sanguinem, sed adversus principes et potestates» (Eph. 6. 12). E vuole con ciò avvertirci che noi non abbiamo forze da resistere a tali potenze, onde abbiamo bisogno che Dio ci aiuti. Coll’aiuto divino potremo tutto: «Omnia possum in eo qui me confortat» (Phil. 4. 13): così egli dicea, e così dobbiamo dire ciascuno di noi. Ma quell’aiuto non si dona, se non a chi lo domanda coll’orazione. «Petite, et accipietis».11 Non ci fidiamo dunque de’ nostri propositi; se mettiamo a12 questi confidenza, sarem perduti: tutta la confidenza, quando siam tentati dal demonio, mettiamola all’aiuto13 di Dio con raccomandarci allora a Gesu-Cristo ed a Maria SS. E specialmente dobbiamo ciò fare, quando siam tentati contro la castità, poiché questa tentazione fra tutte è la più terribile, ed è quella con cui il demonio riporta più vittorie. Noi non abbiamo forza di conservar la castità. Iddio ce l’ha da dare. Dicea Salomone: «Et ut scivi quoniam aliter non possum esse continens, nisi Deus det… adii Dominum, et deprecatus sum illum» (Sap. 8. 21). Bisogna dunque in tale tentazione subito ricorrere a Gesu-Cristo ed alla sua santa Madre, invocando allora spesso i loro SS. nomi di Gesù, e di Maria. Chi fa così, vincerà; chi non fa così, sarà perduto.

Anche san Paolo scrive che stava tentato contro la castità: Datus est mihi stimulus carnis meae, angelus Satanae, qui me colaphizet2. Onde pregò più volte il Signore d’esserne liberato: Propter quod ter Dominum rogavi, ut discederet a me. Il Signore però non volle liberarnelo, ma gli disse: Ti basta la grazia mia: Et dixit mihi: Sufficit tibi gratia mea. E perché non volle liberarnelo? Acciocché il santo più meritasse col resistere alla tentazione: Nam virtus in infirmitate perficitur3.

Dice s. Francesco di Sales che quando il ladro bussa da fuori, è segno che non si trova dentro; e così quando il demonio tenta è segno che l’anima sta in grazia.

S. Catarina da Siena una volta per tre giorni fu molto afflitta dal demonio con tentazioni impure; dopo i tre giorni le apparve il Signore per consolarla; allora la santa gli dimandò: Ah mio Salvatore, e dove siete stato in questi tre giorni? E ‘l Signore le rispose: Sono stato nel cuor tuo a darti forza per resistere alle tentazioni. Ed appresso le fe’ vedere il di lei cuore più purificato.

Bisogna saper distinguere, quando il cattivo pensiero è peccato mortale, quando è peccato veniale, e quando non è affatto peccato. Nel peccato di pensiero vi concorrono tre cose, la suggestione, la dilettazione ed il consenso. La suggestione è quel primo pensiero di far male che si affaccia alla mente. Questo non è peccato, anzi quando la volontà subito lo rigetta, si acquista merito. Dopo la suggestione viene la dilettazione. Quando la persona non è accorta a scacciare subito la tentazione, e si mette a discorrere con quella, ecco la tentazione che subito comincia a dilettare, e così la va tirando al consenso. Finché la volontà non consente non v’è peccato mortale; ma solamente veniale; ma se l’anima allora non ricorre a Dio, e non fa forza per resistere alla dilettazione, facilmente quella si tirerà il consenso. Dato poi che si è il consenso l’anima già perde la grazia di Dio, e resta condannata all’inferno subito che acconsente al desiderio di commettere il peccato, o che si diletta pensando a quell’atto disonesto come se allora lo commettesse; e questa si chiama dilettazione morosa, ch’è differente dal peccato di desiderio. Cristiani miei, state attenti a discacciar subito che si affacciano questi mali pensieri, con ricorrere subito per aiuto a Gesù ed a Maria. Chi fa l’abito ad acconsentire a pensieri disonesti, si mette in gran pericolo di morire in peccato, primieramente perché questi peccati di pensiero sono più facili a commettersi; uno in un quarto d’ora può far mille mali pensieri, e ad ogni pensiero acconsentito gli tocca un inferno a parte. In punto di morte il moribondo non può commettere peccati d’opera perché allora non si può muovere, ma ben può commettere peccati di pensiero, e ‘l demonio a questi pensieri tenta gagliardamente i poveri moribondi.

Rimedi:

Per ottener la virtù della castità è necessaria l’orazione; bisogna pregare e continuamente pregare. Già di sopra si è detto che la castità non può ottenersi né conservarsi, se Iddio non concede il suo aiuto per conservarla: ma questo aiuto il Signore non lo concede se non a chi glielo domanda. Altro rimedio è di frequentare i sacramenti della confessione e della comunione. E nella confessione giova molto scovrire le tentazioni disoneste al confessore. Dice s. Filippo Neri: La tentazione scoverta è mezza vinta. E quando per disgrazia alcuno cadesse in qualche peccato di questa materia, subito vada a confessarsi. Così s. Filippo Neri liberò un giovine da questo vizio, ordinandogli che cadendo, subito fosse andato a confessarsene. La comunione poi molto vale a dar forza di resistere a tali tentazioni. Il Ss. Sagramento si chiama Vinum germinans virgines1. Vinum, s’intende il vino convertito poi colla consagrazione in sangue di Gesù Cristo. Il vino terreno è contrario alla castità, ma il vino celeste la conserva.

Catechismo del Concilio di Trento – Pio V

Considerazioni per conservare la castità

335 Siano pure spiegate le prescrizioni che hanno forza di precetto. I fedeli devono essere ammaestrati ed esortati a rispettare con ogni cura la pudicizia e la continenza, a conservarsi mondi da ogni contaminazione della carne e dello spirito, attuando la santificazione nel timore di Dio (2 Cor 7,1). Si dica loro che, sebbene la virtù della castità debba maggiormente brillare in quella categoria di persone che coltiva il magnifico e pressoché divino proposito della verginità, pure essa conviene anche a coloro che menano vita celibataria o, congiunti in matrimonio, si mantengono mondi dalla libidine vietata. Le molte sentenze dei Padri, con cui siamo ammaestrati a dominare le passioni sensuali e a frenare l’istinto passionale, saranno dal parroco accuratamente esposte al popolo, con una trattazione diligente e costante. Parte di esse riguarda il pensiero, parte l’azione. Il rimedio che fa leva sull’intelligenza tende a farci comprendere quanto grandi siano la turpitudine e il pericolo di questo peccato. In base a simile apprezzamento, più viva arderà in noi l’avversione per esso. Si tratta di un peccato che è un vero flagello e per sua causa sugli uomini incombe l’ultima rovina: l’espulsione dal regno di Dio e lo sterminio. Questo può sembrare comune a ogni genere di peccato, ma qui abbiamo di caratteristico che i fornicatori, secondo la frase dell’Apostolo, peccano contro il proprio corpo: “Fuggite l’impudicizia; qualunque peccato l’uomo commetta, si svolge fuori del corpo, ma il fornicatore pecca sul proprio corpo” (1 Cor 6,18), vale a dire lo tratta ignominiosamente, violandone la santità. A quelli di Tessalonica lo stesso san Paolo diceva: “Dio vuole la vostra santificazione; che vi asteniate da atti impuri; che ciascuno di voi sappia mantenere il vaso del suo corpo in santità e dignità, non nella irrequietezza del desiderio, come i pagani che ignorano Dio” (1 Ts 4,5). E cosa ben più ripugnante, se è un cristiano colui che si unisce turpemente a una meretrice, perché rende membra di meretrice le membra di Gesù Cristo, come appunto dice san Paolo: “Non sapete che i vostri corpi sono membra di Gesù Cristo? Sottraendo le membra a Gesù Cristo, le farò membra della meretrice? Non sia mai. Ignorate forse che aderendo alla meretrice, ne risulta un solo corpo?” (2 Cor 6,15). Inoltre il cristiano, sempre secondo san Paolo, è tempio dello Spirito Santo (1 Cor 6,19); violarlo significa espellerne lo Spirito Santo stesso. Tuttavia particolare malvagità è racchiusa nel delitto di adulterio. Infatti, come vuole l’Apostolo, i coniugi sono così vincolati da una scambievole sudditanza che nessuno dei due possiede illimitata potestà sul proprio corpo, ma sono così schiavi l’uno dell’altro che il marito deve uniformarsi alla volontà della moglie e la moglie a quella del marito (1 Cor 7,4). Ne consegue che chi dei due separa il proprio corpo, soggetto all’altrui diritto, da colui al quale è vincolato, si rende reo di specialissima iniquità. Poiché l’orrore dell’infamia è per gli uomini un valido stimolo a fare quanto è prescritto e a fuggire quanto è vietato, il parroco insisterà nel mostrare come l’adulterio imprima sugli individui un profondo segno di infamia. E scritto nella Sacra Scrittura: “L’adultero, a causa della sua fragilità di cuore, perderà l’anima sua; condensa su di sé la vergogna e l’abominio; la sua turpitudine non sarà mai cancellata” (Prv 6,32). La gravità di questa colpa può essere facilmente ricavata dalla severità della punizione stabilita. Nella legge fissata da Dio nel Vecchio Testamento gli adulteri venivano lapidati (Lv 20,10; Dt 22,22). Anzi talora per la concupiscenza sfrenata di uno solo, non il reo semplicemente, ma l’intera città fu condannata alla distruzione; tale fu la sorte dei Sichemiti (Gn 34,25). Del resto numerosi appaiono nella Sacra Scrittura gli esempi dell’ira divina, che il parroco potrà evocare, per allontanare gli uomini dalla riprovevole libidine: la sorte di Sodoma e delle città confinanti (Gn 19,24); il supplizio degli Israeliti che avevano fornicato nel deserto con le figlie di Moab (Nm 25); la distruzione dei Beniamiti (Gdc 20). Se v’è qualcuno che sfugge alla morte, non si sottrae però a dolori intollerabili, a tormenti punitivi, che piombano inesorabili. Accecato com’è nella mente (ed è già questa pena gravissima), non tiene più conto di Dio, della fama, della dignità, dei figli e della stessa vita. Resta così depravato e inutilizzato, da non poterglisi affidare nulla di importante, o assegnarlo come idoneo ad alcun ufficio. Possiamo scorgere esempi di questo in David come in Salomone. Il primo, resosi reo di adulterio, subitamente cambiò natura e da mitissimo divenne feroce, sì da mandare alla morte l’ottimo Uria (2 Sam 11); l’altro, perduto nei piaceri delle donne, si allontanò talmente dalla vera religione di Dio da seguire divinità straniere (1 Re 11). Secondo la parola di Osea, questo peccato travia il cuore dell’uomo (Os 4,11) e ne acceca la mente.