San Gregorio di Nissa: “Calunnia dunque il nome di Cristo chi se ne appropria senza però testimoniare nella sua vita le virtù” “Cristo non può non essere giustizia, purezza, verità e allontanamento da ogni male; così non può non essere cristiano autentico chi prova la presenza in sé di quei nomi”

 

Dai Trattati sull’ideale del perfetto cristiano di san Gregorio di Nissa.

De Instituto christiano. PG 46, 291. De professione christiana. PG 46, 242-246.

 

Dal vangelo secondo Matteo.

Gesù ammaestrava le folle dicendo: “Voi siete la luce del mondo”.

 

Come mai il Signore dice: Così risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli? Perché egli ordina a chi obbedisce ai comandamenti di Dio di pensare a lui in ogni sua azione e di cercare di piacere soltanto a lui, senza andare a caccia della gloria umana. Occorre rifuggire dalle lodi degli uomini e dall’ostentazione, però farsi riconoscere come autentici cristiani tramite la vita e le opere, affinché tutti ne diventino spettatori.

Il Signore non ha detto: “Perché tutti ammirino chi le mette in mostra”, ma: Perché rendano gloria al vostro Padre che è nei cieli. Cristo ci ordina di far risalire ogni gloria a colui che tiene in serbo il premio delle azioni virtuose, e di compiere ogni azione secondo il suo volere.

Aspira quindi alle lodi di lassù, ripetendo le parole di Davide: Sei tu la mia lode. Io mi glorio nel Signore [Sal 21,26; Sal 33,3].

 

La Divinità, libera da qualsiasi vizio, trova espressione nei nomi delle virtù: ella è quindi giustizia, sapienza, potenza, verità, bontà, vita, salvezza, incorruttibilità, immutabilità e inalterabilità. E Cristo si identifica con tutti i concetti elevati indicati da tali nomi e riceve da essi i suoi appellativi.

Se dunque nel nome di Cristo si possono pensare compresi tutti i concetti più alti, possiamo forse arrivare a comprendere il significato del termine «cristianesimo». Come abbiamo ricevuto il nome di cristiani perché siamo divenuti partecipi di Cristo, così, di conseguenza, dobbiamo entrare in comunione con tutti i nomi più alti.

Chi tira a sé il gancio estremo di una catena attira anche tutti gli anelli attaccati strettamente gli uni agli altri; allo stesso modo, dato che nel nome di Cristo sono strettamente uniti anche i termini che esprimono la natura beata, ineffabile e molteplice della divinità, chi ne afferra uno, non può non trascinarne assieme anche gli altri.

Calunnia dunque il nome di Cristo chi se ne appropria senza però testimoniare nella sua vita le virtù che si contemplano in esso; è come se costui facesse indossare a una scimmia una maschera priva di vita, che di umano ha solo la forma.

 

Cristo non può non essere giustizia, purezza, verità e allontanamento da ogni male; così non può non essere cristiano autentico chi prova la presenza in sé di quei nomi. Per esprimere con una definizione il concetto di cristianesimo, diremo che esso consiste nell’imitazione della natura divina. La primitiva conformazione dell’uomo imitava infatti la somiglianza a Dio; e la professione cristiana consiste nel far ritornare l’uomo alla primitiva condizione fortunata.

Supponiamo che un pittore riceva l’ordine di raffigurare l’immagine del re per quanti risiedono in zone lontane. Se, dopo aver delineato su una tavola una figura brutta e deforme, chiamasse immagine del re questo sconveniente dipinto, non attirerebbe su di sé l’ira delle autorità? A causa del suo brutto dipinto, infatti, le persone ignare penserebbero che, se è brutto il quadro, brutto è anche l’originale.

Se il cristianesimo è definito imitazione di Dio, chi non ha ancor accolto il senso del mistero, crede erroneamente che la nostra vita imiti quella di Dio e che a immagine e somiglianza della nostra vita sia la Divinità.

 

Se chi ancora non crede vedrà in noi esempi di tutte le virtù, reputerà che quel Dio che adoriamo sia buono. Se invece uno sarà vizioso e poi dichiarerà d’essere cristiano, mentre tutti sanno che questo implica l’imitazione di Dio, farà che a causa della sua vita il nostro Dio sia disprezzato dai non credenti. Per questo la Scrittura pronunzia contro questi tali una spaventosa minaccia, dicendo: Guai a quelli per i quali il mio nome è stato disprezzato fra le nazioni [Cf Is 52,5].

Mi pare che proprio questo il Signore voleva far capire ai suoi uditori, dicendo: Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste [Mt 5,48]. Chiamando Padre il Padre dei credenti, il Signore vuole che anche quanti sono da lui generati si avvicinino ai beni perfetti che si contemplano in lui.

Tu mi chiederai: Come può la piccolezza umana raggiungere la beatitudine che si vede in Dio? La nostra impotenza non risulta chiara proprio dal comandamento? Come può un essere terreno somigliare a chi sta in cielo, se la diversità di natura mostra impossibile l’imitazione? È comunque chiaro che il vangelo non parla di somiglianza di natura, ma di opere buone, per cui noi secondo la nostra possibilità ci facciamo simili a Dio.

 

San Gregorio di Nissa: Dio può essere trovato nel cuore dell’uomo, Nella santità, nella purezza, nella semplicità. «Beati coloro che hanno un cuore puro, perché essi vedranno Dio» (Mt 5,8). “Ma vedere Dio costituisce la vita eterna. Se Dio è vita, chi non vede Dio non vede la vita”

 

Dalle «Omelie» di San Gregorio di Nissa, vescovo

[Om. 6, sulle beatitudini; PG 44, 1263-1271 – Seconda lettura degli Uffici del Giovedì, Venerdì e Sabato della XII Settimana del Tempo Ordinario]

 

Dio è come una roccia inaccessibile

Quanto accade a coloro che dalla vetta di un’alta montagna guardano in basso un mare profondo e insondabile, avviene anche alla mia mente quando dall’altezza della parola del Signore, guardo la profondità di certi concetti.

In molte località marittime si può vedere, dalla parte rivolta al mare, un monte quasi spaccato a metà e corroso da cima a fondo. Esso ha nella parte più alta un picco che incombe sulla profondità del mare. Orbene l’impressione di chi volge già lo sguardo sull’abisso impenetrabile da quell’altezza da vertigini è quella stessa mia quando spingo in basso gli occhi dall’altezza del misterioso detto del Signore: «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt 5,8).

Dio qui è proposto alla contemplazione di coloro che hanno purificato il loro cuore. Ma «Dio nessuno l’hai mai visto» (Gv 1,18), come afferma il grande Giovanni. Paolo con la sua sublime intelligenza conferma e aggiunge: «Nessuno fra gli uomini lo ha mai visto, né lo può vedere» (1Tm 6,16). Questa è quella roccia liscia, sdrucciolevole e ripida, che non offre in se stessa alcun appoggio o sostegno per i concetti della nostra intelligenza.

Anche Mosè nelle sue affermazioni l’ha detta impraticabile in modo che la nostra mente non vi può mai accedere per quanto si sforzi di aggrapparsi a qualcosa e guadagnare la cima. C’è un detto che taglia a picco la nostra roccia: Non vi è nessuno che possa vedere Dio e vivere (cf Es 33,29).

Comprendi ora la vertigine della nostra intelligenza incombente sulle profondità degli argomenti trattati in questo discorso?

Ma vedere Dio costituisce la vita eterna. Se Dio è vita, chi non vede Dio non vede la vita.

A quali strettezze è mai ridotta la speranza degli uomini!

Il Signore però solleva e sostiene i cuori che vacillano, come ha agito con Pietro, che stava per annegare. Egli lo rimise nuovamente in piedi sull’acqua come su un pavimento solido e resistente. Se trovandoci pencolanti sull’abisso di queste speculazioni si accosterà anche a noi la mano del Verbo, si poserà sull’intelligenza e ci farà vedere il vero significato delle cose, saremo allora liberi dal timore e seguiremo la sua via. Ma purché il nostro cuore sia puro. Dice, infatti: «Beati coloro che hanno un cuore puro, perché essi vedranno Dio» (Mt 5,8).

 

La speranza di vedere Dio

La promessa di Dio è certamente tanto grande da superare l’estremo limite della felicità. Quale altro bene infatti si può desiderare, quando tutto si ha in colui che si vede? Infatti vedere, nell’uso della Scrittura, ha lo stesso significato che possedere, come quel detto: «Possa tu vedere la prosperità di Gerusalemme» (Sal 127,5), dove il verbo significa la stessa cosa, che «possa tu avere». E così pure: Sia tolto di mezzo l’empio perché non vedrà la gloria del Signore (cfr. Is 26,10), dove il Profeta per «non vedere» intende «non essere partecipe».

Quindi colui che vede Dio, per il fatto stesso che lo vede, ha ottenuto tutti i beni, una vita senza fine, l’incorruttibilità eterna, la beatitudine immortale, un regno senza fine, una gioia perenne, la vera luce, una voce spirituale e dolce, una gloria inaccessibile, una perpetua esultanza, insomma ogni bene.

In verità quello che vien proposto alla speranza nella promessa della felicità, ha queste immense proporzioni. Ma siccome è già stato prima dimostrato che il modo di vedere Dio si attua alla condizione di avere il cuore puro, in questo nuovamente la mia intelligenza è preda delle vertigini. La purità del cuore infatti non è forse fra quelle virtù che non si possono conseguire, perché superano e oltrepassano la nostra natura? Se Dio si può vedere solo attraverso questa lente di purità e se d’altro canto Mosè e Paolo non lo hanno veduto perché affermano che Dio non può essere visto né da loro né da alcun altro, ciò che il Verbo propone alla beatitudine sembra cosa né mai effettuata né effettuabile.

E quale vantaggio possiamo avere noi dal fatto di conoscere a quale condizione si possa vedere Dio, se poi mancano le forze per raggiungere quanto si è scoperto? Sarebbe infatti come se si dicesse che è cosa meravigliosa soggiornare in cielo perché là si vedono cose che qui sulla terra non si possono vedere. Se con le parole si potesse dimostrare un qualche modo di attuare un viaggio in cielo, allora sarebbe utile agli ascoltatori apprendere che è felicità grande abitare in cielo. Ma sino a quando non potrà essere attuata questa ascesa al cielo, quale vantaggio può dare la conoscenza della felicità celeste? Non costituisce piuttosto un tormento e una delusione, perché ci rende consapevoli di quali beni siamo stati privati, per il fatto che ci è impedito di salire al cielo? E perché allora il Signore ci esorta ad una cosa che supera la nostra natura e ci dà un precetto che va oltre le forze umane?

Ma le cose non stanno così, perché egli non comanda di diventare uccelli a coloro ai quali non ha fornito le ali, né di vivere sott’acqua a coloro per i quali ha stabilito una vita terrestre. Se dunque la legge in tutti gli altri esseri è adatta alle forze di coloro che la ricevono e non costringe a nessuna impresa che superi la natura, comprenderemo senz’altro anche questo dal fatto che è compatibile con le nostre risorse e che non si deve disperare di raggiungere la felicità promessa. Capiremo ancora che né Giovanni, né Paolo, né Mosè, né altri sono stati privati di questa sublime felicità, che proviene dalla visione di Dio. Non colui che disse: «Mi resta solo la corona di giustizia, che il Signore, giusto giudice, mi consegnerà» (2 Tm 4, 8). Neppure colui che posò il capo sul cuore di Gesù, o colui che udì dalla voce divina: «Ti ho conosciuto per nome» (Es 33, 17).

Se perciò coloro che hanno affermato che la visione di Dio è sopra le nostre forze, sono anch’essi beati, e se la beatitudine viene dalla visione di Dio, e se chi ha il cuore puro può vedere Dio, certo la purezza, per mezzo della quale si può raggiungere la beatitudine, non è una virtù impossibile.

 

Dio può essere trovato nel cuore dell’uomo

Nella vita dell’uomo la salute del corpo rappresenta un bene, ma la felicità non consiste nel conoscere la ragione della salute, bensì nel vivere in salute. Se uno dopo aver celebrato le lodi della salute, prende cibi che gli causano malattie, che cosa gli possono giovare le lodi della salute ? Allo stesso modo dobbiamo intendere il presente discorso, quando il Signore dice che la felicità non consiste nel conoscere qualche verità su Dio, ma nell’avere Dio in se stessi: «Beati, infatti, i puri di cuore, perché vedranno Dio» (Mt  5, 8). Mi pare proprio che Dio voglia mostrarsi a faccia a faccia a colui che ha l’occhio dell’anima ben purificato, ma però secondo quanto dice Cristo: «Il regno di Dio è dentro di voi» (Lc 17, 21). Chi ha purificato il suo cuore può contemplare l’immagine della divina natura nella bellezza della sua stessa anima.

Se dunque laverai le brutture che hanno coperto il tuo cuore, risplenderà in te la divina bellezza. Come il ferro, liberato dalla ruggine splende al sole, così anche l’uomo interiore, quando avrà rimosso da se la ruggine del male, ricupererà la somiglianza con la forma originale e primitiva e sarà buono.

Quindi chi vede se stesso, contempla ciò che desidera in se stesso. In tal modo diviene beato chi ha il cuore puro, perché mentre guarda la sua purità, scorge, attraverso questa immagine, la sua prima e principale forma. Coloro che vedono il sole in uno specchio, benché non fissino i loro occhi in cielo, vedono il sole non meno bene di quelli che guardano direttamente l’astro luminoso. Così anche voi benché le vostre forze non siano sufficienti per scorgere e contemplare la luce inaccessibile, se ritornerete alla grazia originaria troverete in voi ciò che cercate. La divinità infatti è purezza, è assenza di vizi e di passioni, è lontananza da ogni male. Se dunque queste realtà sono in te, Dio è senz’altro in te. Quando pertanto la tua anima sarà pura da ogni sorta di vizi, libera da passioni e difetti e lontana da ogni inquinamento, allora sei felice per l’acutezza e la limpidezza della vista, perché ciò che sfuggirà allo sguardo di coloro che non si sono purificati, tu invece, purificato, lo scorgerai. Tolta dagli occhi spirituali l’oscurità materiale, avrai la beata visione nella pura serenità del cuore. E questo sublime spettacolo in che cosa consiste?

Nella santità, nella purezza, nella semplicità, e in tutti i luminosi splendori della natura divina per mezzo dei quali si vede Dio.